Non credo più in una solidarietà femminista transnazionale in sé

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Articolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di lafra.

Per molte persone il nome di Ochy Curiel suona esotico, per altre è un simbolo del cosiddetto ‘altro femminismo’. Non per niente è donna, nera, lesbica, femminista, intellettuale, attivista, artista, antirazzista, antisessista, radicale e critica. Ochy incarna tutto ciò che è antiegemonico. Con un piede nel mondo accademico e uno sulla strada, sono oltre 30 anni che lotta, come lei ama ricordare. Ritiene che far riflettere le persone sia essenziale, per questo ci invita a dare una svolta alle nostre pratiche politiche e rivedere i nostri privilegi a partire dal femminismo decoloniale.

Qual è l’origine del femminismo decoloniale? È una critica del femminismo egemonico? Come direbbe Sueli Carneiro, vuol dire femminilizzare la lotta antirazzista e rendere negra la lotta femminista?
Prima di tutto bisogna capire come è nata la geopolitica e il colonialismo come fatto concreto – che ha voluto dire porre l’Europa al centro della modernità e a partire da ciò l’esistenza di altri paesi, i barbari, quelli che devono essere civilizzati, studiati, modificati e sviluppati. Le donne nere o mulatte sono una costruzione razziale a partire dal ‘bianco’ considerato come paradigma. Il femminismo decoloniale critica non solo il femminismo egemonico, ma anche i movimenti e le teorie sociali che credono che agendo esclusivamente sulla classe si possa trasformare il mondo, e quei maschi di sinistra che ancora credono che la questione della donna debba essere affrontata in un secondo tempo, ma includono le questioni di genere per apparire politicamente corretti. 

Non si tratta di includere o meno le donne: questa è una strategia molto neoliberista, la diversità include ma non modifica o problematizza. Per questo non si tratta solo di femminilizzare la lotta antirazzista e rendere negra la lotta femminista, non significa accorgersi dell’esistenza di donne nere e povere, ma qualcosa di più complesso, ovvero capire perché ci sono donne nere e povere. E questa è la nostra più grande differenza rispetto alla tesi dell’intersezionalità, che afferma che la somma delle identità possa spiegare la subordinazione delle donne. Non è importante includere le altre oppressioni, ma vedere e capire l’oppressione, come si dispiega e analizzare come ciascuna di noi e tutte noi e negli altri movimenti sociali stiamo o meno riproducendo questa logica. E questo significa comprendere i nostri stessi privilegi. 

Questo è ciò che chiami “problematizzare la questione femminista”? Sarebbe a dire, realizzare una genealogia del proprio pensiero?
Certamente. Problematizzare significa distaccarsi, ridefinire tutto. Comincia da una rilettura di tutto quello che ci hanno raccontato in un determinato modo. E si comincia da sé stesse, con l’essere consapevoli delle proprie intersezionalità, sapere di trovarsi all’incrocio di molte oppressioni, ma senza guardarsi troppo l’ombelico… abbiamo bisogno di guardare il contesto generale perché questo è un problema sistemico che ovviamente attraversa le esperienze personali. E questo è il vantaggio del femminismo in cui credo, comprendere come ciò che chiamiamo ‘il personale è politico’ entri in relazione con tutto il resto. Ha a che fare con quello che hanno fatto molte femministe in tutto il mondo quando hanno smesso di credere nella storia di sesso maschile che era stata raccontata loro. Significa affermare che le schiave nere violentate dal proprio padrone o costrette a lavorare, organizzarono una serie di azioni di resistenza, quello che Celsa Ares definì ‘cimarronaje domestico’ (azioni di resistenza, nascoste o palesi, intraprese dalle schiave che lavoravano nella casa padronale). Se non recuperiamo questi aspetti, se non ci distacchiamo dalla storia lineare per osservare altre storie, continuerà ad esistere solamente la storia occidentale bianca, e se oggi definiamo il femminismo come le molte lotte delle donne in tutto il mondo, allora non è iniziato tutto nel 1789 con la rivoluzione francese e Olympia de Gouges. I privilegi implicano una reinterpretazione, una presa di posizione rispetto al modo in cui la storia è raccontata. Quali sono i racconti? Da dove partiamo per interpretarli?
È sistemico e contestualizzato. Come risolviamo la tensione che esiste tra locale e globale? Come articoliamo una strategia che tenga conto di entrambi?
È sistemico, però il capitalismo e la globalizzazione non ci danneggiano tutte allo stesso modo, ed è lì che sta il problema. Io non credo più nella solidarietà femminista e nemmeno credo in una solidarietà femminista transnazionale in sé. I cambiamenti non avvengono perché siamo tutte splendide donne meravigliose, ma perché si lavora sulle relazioni di potere che ci sono. Perché egemonicamente “le altre”, quelle del terzo mondo, le indie, le nere, le migranti, sono materia prima delle ricerche o delle pubblicazioni delle persone privilegiate? Questo sembra impossibile da mettere in discussione, lo diamo per scontato e, inoltre, ci sentiamo politicamente corrette, quando è invece uno sfruttamento dell’esperienza culturale e sociale delle donne. Ovvio che dobbiamo stringere alleanze come femministe, anche se non con tutte le femministe, perché alcune sono complici del patriarcato e del razzismo.
Una radicale messa in discussione, l’emergere di nuovi femminismi… non stiamo frammentando il movimento femminista? 
Dipende. Penso che i punti di rottura siano importanti, sono quelli che danno nuovi stimoli. Siamo uman*, ma siamo situat*. Questo modo di pensare, che dobbiamo per forza stare unite per rafforzare il movimento… non è così. Ci siamo rese conto che questa presunta solidarietà articolata è basata sullo sfruttamento e la subordinazione di altre, e alcune di noi non sono più disposte a sopportarlo. Per la propria salute mentale e perché non abbiamo tanto tempo nella vita, è necessario agire con coloro con cui abbiamo il piacere di agire. Io credo maggiormente agli affetti e alla fiducia costruita passo passo.
Parlando di affetti, fiducia e fratture… Questo mese di ottobre si svolgerà l’incontro lesbico femminista di Abya Yala in Colombia e ho sentito che le e i trans non vi troveranno spazio.
E’ una questione dibattuta. Non esiste una posizione condivisa. Infatti ha rappresentato un punto di disaccordo molto importante. Credo nel separatismo come questione di salute, non in negativo, ma piuttosto definendolo come autonomia. Non significa tu di là e io di qua, penso che debbano esistere spazi esclusivi per ner*, indigen* e – perché no? – anche per bianch*.
Non è il loro posto? Vuoi dire questo?  
Quando diciamo che donna non si nasce, si diventa – come diceva Simone de Beauvoir – significa affermare che le identità si costruiscono. E il risultato è che ora, con tutta la problematizzazione che abbiamo messo in campo, stanno venendo fuori una serie di nuove identità, come ad esempio quella transfemminista. Come faccio oggi a dire ad una compagna transfemminista che non può partecipare ad un incontro lesbofemminista? Si presume che le femministe lesbiche dicano: lesbica non è quella che dorme con le donne, lesbica è la messa in discussione del regime politico di eterosessualità. La domanda è: Quali sono i corpi che costruiscono il soggetto lesbico?  Penso che il movimento LGBT sia quasi l’opposto di quello femminista lesbico. Originariamente, Gayle Rubin disse che tutti i soggetti che si riconoscevano nella sessualità dissidente dovevano strutturarsi in qualche modo, però questa non rappresenta ununione, è una specie di comunità fittizia… possono esserci gay, trans, lesbiche, ecc. con una sessualità e identità di genere dissidenti, che non necessariamente mettono in discussione il regime eterosessuale. Per noi metterlo in discussione significa abolire il matrimonio e non rivendicare il matrimonio omosessuale, significa decostruire la famiglia come fondamento della società perché sappiamo come influisce sulla femminilità… Esistono alleanze tra le femministe e la comunità LGBT, ma sono cose diverse. Le uniche invitate alle riunioni in Colombia sono le femministe lesbiche, che cosa significa? Ci sono molte interpretazioni, perciò la questione verte sul modo in cui intendiamo l’essere una lesbica femminista e penso che ci vorranno anni per comprenderlo. Se ci si situa come identità politica lesbofemminista allora potranno essere presenti anche le trans. A me la figa non interessa, ho a cuore le persone che vogliono sfidare, rifinire e rimuovere il regime eterosessuale.
E a proposito di nuove identità… che ne pensi di quella queer?  
Il Queer è qualcosa di interessante dal punto di vista della messa in discussione delle identità essenziali, però credo anche che esistano concetti che vanno di moda … In America Latina, le poche persone queer che conosco partono da una posizione del tutto individualista; ‘Sono io, la mia identità, non voglio etichette’, dicono, oggi desidero essere donna e domani mi metto una cravatta e sarò un uomo, e andrò avanti così, plasmando la mia identità. Questo è un ragionamento decisamente bianco. Quant@ queer ner@ conosciamo? A livello teorico è qualcosa di interessante, perché mette in discussione l’identità, come ho detto, rompe il binomio … ma in pratica si scopre che non tutt@ al mondo possono farlo. Una persona nera non può giocare con la propria identità con tanta semplicità, poiché è attraversata dal proprio colore, dalla interpretazione sociale che viene fatta del suo colore, un colore politico. Solo le persone privilegiate possono essere queer. In breve, è molto teorico, molto individualista e molto ingenuo in un certo senso, ma lo si deve porre in relazione con la classe e la razza.

Uno dei fattori che più colpiscono le donne sono gli effetti della globalizzazione e del capitalismo. Pensi che il femminismo debba approfondire di più questo aspetto?  Le questioni relative alla globalizzazione non sono una categoria a parte: alcune ci stanno lavorando, ma non è un aspetto forte del femminismo, nè del nord nè del sud. Il femminismo è molto centrato sull’identità della donna. Il problema del partire dall’identità è di pensare che l’oppressione di genere, in questo caso, sia un problema da affrontare su base individuale e in termini di maschio o femmina, e credere che non sia legato al sistemico, alla classe o alla razza. Se non cerchiamo di comprendere in maniera più profonda come mai siamo fottute, allora esistiamo in un microcosmo e solo lì si verificano le oppressioni. E non è un caso che questa proposta di femminismo decoloniale provenga dal terzo mondo, penso che per poter mettere in discussione i privilegi sia necessario comprendere e avvicinarsi ad altre realtà: ma non è necessario andare in America Latina, né occupare gli spazi delle femministe europee,  quello che è interessante è domandarsi: Qual è il posizionamento femminista qui?