Verso la fine delle politiche della rispettabilità

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Una donna sessualmente attiva che parla in maniera aperta e non morbosa di questo aspetto della sua vita viene prontamente etichettata come non-donna dalle altre (“quella non è una donna, è una femmina” è una frase che credo di aver sentito un miliardo di volte), una che rovina la categoria, perché non aderisce al ruolo di genere che le hanno confezionato su misura. Spesso persone LGBT si affrettano a denigrare il pride e la visibilità – le stesse cose che gli consentono, rispetto a qualche secolo fa, un’esistenza meno nascosta. Una persona trans è spinta ad adeguarsi a modelli di mascolinità e femminilità più irraggiungibili di quelli riservati a una persona cis, perché deve “provare” il suo genere (ma per molt* cis, il pensiero di fondo è che questo non sia valido a prescindere, con o senza prove, ammesso che esistano – beato cissessismo). Qual è stata la prima donna nera a non cedere il suo posto, protestando contro la segregazione razziale sugli autobus? Rosa Parks. Sbagliato. Si chiama Claudette Colvin. Se ne restò fermamente seduta ben nove mesi prima, ma era quindicenne, troppo scura di pelle, la sua famiglia viveva nella parte più povera di Montgomery e rimase incinta poco dopo, senza sposarsi. Una figura poco sponsorizzabile per il Civil Rights’ Movement (o qualsiasi altro movimento sociale).

Quello che hanno in comune tutti questi esempi sono le politiche della rispettabilità. Le politiche della rispettabilità  sono quelle politiche che lavorano per modificare l’immagine di un gruppo sociale oppresso facendogli assumere i connotati che sono considerati accettabili dal gruppo sociale oppressore (dalla cultura dominante).  L’approccio emerge quasi naturalmente: quando ti etichettano come altro, la tua prima idea è di rispondere che sei uguale. E allora chi hai di fronte ti risponde: ok, dimostramelo. È un tentativo di asserire la propria dignità d’esistenza, ma non per questo meno fallace. Perché?

Una comunità che finisse per rispondere in quella maniera, non necessariamente farebbe la cosa giusta, poiché nel farlo potrebbe appoggiare valori orribili – anche, e soprattutto, quelli alla base della propria oppressione (che non è per forza una soltanto).  Cosa che non andrebbe confusa con una qualunque attività di rinforzo della normatività esistente da parte di un gruppo dominante – perdio, un oppressore si chiama così perché opprime – e non si può fare un calderone gigante in cui infilare le responsabilità e renderle tutte uguali. Non lo sono: per chi è oppress*  si tratta di una forma (anche inefficace, anche controproducente) di difesa, mentre il dominio attacca e basta.

Se le politiche della rispettabilità nascono come regole/linee guida sociali, culturali, lavorative, sessuali, artistiche, ecc. da seguire per divenire umani, allora è automatica l’implicazione che chi fa questa richiesta non appartenga all’umanità, e che debba in qualche maniera meritarsela, come se non fosse già sua e gli fosse invece negata da altri. È proprio questa l’idea che va combattuta: che si debba audizionare per farsi riconoscere la capacità ad essere sé stessi, ad agire in una maniera ritenuta non-standard. Nessuno dovrebbe essere accettato o approvato, men che meno come modello da seguire per tutt* coloro con cui quel soggetto condivide delle caratteristiche. Ad un essere umano bianco, maschio, abile, eterosessuale e cisgender si riconosce il diritto all’unicità, ad essere individuo. Il resto del mondo è obbligato ad essere in qualche modo rappresentativo della sua categoria. Un comportamento atipico può diventare un’emarginazione ulteriore, stavolta dai propri simili, se ritenuto vergognoso per la comunità tutta.

Tali politiche – diffuse, ma non per questo meno elitarie – alienano il target di soggetti che vorrebbero liberare dal resto della società, rendendolo cattivo e irresponsabile in una maniera che con altri gruppi non ha luogo; in più, si prefigurano irrealisticamente di raggiungere uno status che non verrà mai autenticamente raggiunto, fintanto che sarà concesso, in quanto i  termini di una concessione li decide chi concede. In questa maniera, nessun obiettivo potrà mai essere portato a termine, perché il gruppo dominante continuerebbe perennemente ad alzare l’asticella rendendo impossibile arrivare a superarla.  Come oppress* e militanti per una società di eguali è necessario mettere da parte strategie come questa, perché non saranno mai rivoluzionarie: il loro scopo è privare i soggetti della loro capacità destabilizzante, di poter minacciare l’esistente, e sono esse stesse oppressive, perché li privano di autonomia e autodeterminazione nel nome della pubblica immagine.