La locomotiva, round two

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Se esiste una cosa che accomuna l’umanità tutta, è la defecazione. Un servizio igienico può essere di porcellana o d’oro zecchino, ma la cacca è la seconda grande livellatrice sociale, subito dopo la morte e poco prima della pioggia.

Siedo da ore allo stesso posto. Ho finito di leggere tutti i libri che ho con me. Congetturo che il servizio di una compagnia di trasporti non si possa davvero definire completo se non include anche la noia. Dopo poco, il mio sistema digerente mi ricorda un improrogabile impegno biologico. Opto dunque per una rapida escursione nei servizi igienici ivi presenti alla distanza di metri cinque. Entro, a passo svelto. Mi appresto a eseguire il basilare compito di espulsione scorie. Mi siedo. Una ventina di secondi dopo, sento bussare. A voce alta, rispondo «Occupato!». Altri venti secondi dopo, viene addirittura aperta parzialmente la porta. Sussulto. Mi sbrigo a richiudere. Visto la scarsa stabilità laterale del treno sospetto una brusca sterzata. Porto a termine la missione nel giro di un minuto e mi detergo in un istante. Esco.

Aperta la porta, scoperto l’inganno. Di fronte a me, la controllora che mezz’ora prima aveva verificato che io possedessi un biglietto, mi fissa strizzando gli occhi iniettati di sangue. Cerco di capire meglio.
«Scusi?» chiedo. «Che succede?»
«Sei qui dentro da cinque minuti» sibila.
«Pare di sì. Quindi?»
«È da cinque minuti che sono qui fuori!» stavolta urla. Mi faccio serio.
«Non mi pare, ma anche se fosse qual è esattamente il problema?»
«Cosa facevi lì dentro?»
«Cosa fanno secondo lei le persone, quando ad intervalli regolari in una giornata vanno al bagno?»
«Ho aperto la porta e l’ha richiusa!» urla di nuovo. Incomincio ad innervosirmi davvero.
«Certo!» ringhio. «Cosa avrei dovuto fare?»
«Aprire!» urla di nuovo.
«Devo dedurre che lei suole consentire l’accesso a chiunque ritenga opportuno contemplarle le emorroidi senza nemmeno averglielo chiesto?»
«Fa’ poco lo spiritoso. Tu non sai chi sono io.»
«Sì, certo. Ha ragione lei.»
Tento il ritorno, ma occupa tutto il corridoio per non farmi passare. Continua a ripetermi la stessa patetica frase con un tono di voce sempre più alto. Il mio aplomb svanisce.
«Ooooh, e levate! Uno vòle cacà e deve sopportà ‘a psicopatia d’aaa prima cacacazzi che incontra! Sparisci! Famme tornà al mio posto! Porcoiddio!»
Con uno spintone la sposto a lato e me ne torno importunando gli dei sul sedile vicino al finestrino. Mi accomodo, finalmente, non senza una punta di rodimento di culo per l’insensato avvenimento. Ora comunque è finita, e  attendo di scendere a Roma Termini.

Qualche istante dopo, una manciata di file più in là, la vedo di nuovo. Parla con una signora ingioiellata e impellicciata. Le sorride anche.
«Signora, il bagno è libero se ne ha bisogno.»

Scordate tutto quello che ho detto sulla cacca come livellatrice sociale. Non vale se sei un pezzo di merda che esce dagli sfinteri della borghesia.

#ioleggoperché non mi piace

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In questi giorni si sente parlare di #ioleggoperché, iniziativa nata per mano dell’Associazione Italiana degli Editori. Ammirevole, no? Qualcuno si preoccupa dello stato della cultura in Italia. Un po’ come se la Monsanto organizzasse una convention di tre giorni sul mangiar sano con tanto di stand atti alla diffusione di intingoli vari: un vero e proprio festival dell’assenza del conflitto d’interesse. Questa giornata sembrerebbe glissare senza ritegno sul perché le persone in Italia non leggono; si limita a dare la non-lettura come dato assodato. Qualcuno si domanderà se uno, per costruire iniziative, debba necessariamente preoccuparsi di massimi sistemi. La risposta è sì, per forza, specie quando nel farlo si diffonde la retorica subliminale che l’atto di non acquistare carta implica necessariamente non acculturarsi in nessuna maniera, che in qualche maniera la quantità dei libri venduti sia un dato di importanza equivalente alla qualità degli stessi e che l’assenza di passione letteraria collettiva origina da una specie di bifolcaggine innata propria degli autoctoni della penisola. Italiani e italiane non leggono, ok, ma per quali motivi?

Perché non possono, direi. I costi dell’editoria sono decisamente eccessivi per le tasche vuote e semivuote. Sto forse dicendo che editing, traduzione e grafica editoriale non dovrebbero essere attività retribuite? Certo che no, ma il problema è che non lo sono neanche con i prezzi disumani che ci sono ora, visto che il grosso della moneta va alla distribuzione: qualcosa non va. Per quanto il privilegio economico, considerevole o relativo, imponga le fette di prosciutto su occhi orecchie ed empatia, ebbene sì, esiste chi si trova in questa situazione, e non si tratta nemmeno di un paio di persone. Fino a qualche tempo fa genitori e parenti facevano da ammortizzatore sociale consentendo un regime di economia ristretto ma non troppo che lascia spazio al tomo occasionale; adesso che il lavoro l’hanno perso anche loro viene meno anche questa possibilità. Un cosiddetto lettore forte col portafogli in buona salute spenderebbe senz’altro, ma quando si ritrova a vivere con altre tre persone barcamenandosi con l’unico reddito esistente presso quel domicilio, una pensione da 800 euro, tolti 600 di bollette e pendenze economiche di varia natura ne rimangono sì e no 200 che dovranno sopperire alla necessità di cibarie, medicinali, spese accessorie. Il nostro “lettore forte” inevitabilmente smette di acquistare libri, poiché costretto a scegliere tra Carlo Emilio Gadda e un piatto di pasta, riconosce quest’ultimo come più funzionale alla sua sopravvivenza fisiologica, necessità non soddisfatta in modo alcuno da etti di cellulosa inchiostrata. Le conseguenze sono evidenti: il nostro “lettore forte” passa dall’acquisto di una quindicina di volumi l’anno a zero, al massimo uno, due, forse tre. Replicando la stessa situazione su scala industriale ne conveniamo che parlare dei bilanci dell’editoria senza tenere conto del contesto economico in cui quella si muove è cosa profondamente insensata. Non possono anche perché coloro che tutto sommato hanno la vaga fortuna di non essere ancora ritornati a casa di mamma e papà a sfogliare compulsivamente siti di annunci alternando ore di ripetizioni e attacchi di panico, di solito hanno un qualche impiego, immancabilmente precario, che porta via loro una quantità folle di tempo ed energie. Dopo ore e ore di servizio ai tavoli, di attività da promoter e di sollevamento scatoloni in magazzino, l’istinto vitale tende a trasportare corpi verso il divano, non verso la Feltrinelli.

Perché non vogliono, aggiungerei. Fin dalla più tenera età l’avvicinamento alla lettura lo si subisce senza neanche remotamente viverlo in maniera autentica e men che meno goderselo. La scuola italiana è particolarmente efficace nell’educare (nel senso di “infilare nei crani approcci al vivere malsani ma socialmente accettati”) e disciplinare (verbo che, tradotto dal burocratese all’italiano, significa “trattare come dei carcerati”) ma non si può dire lo stesso della sua attività di accensione di scintille culturali. Non ho mai conosciuto finora nessun essere vivente avvicinatosi all’ossessione narrativa o saggistica tramite l’acquisizione cognitiva di pagine nozionistiche sui classici della letteratura italiana di qualche secolo fa. L’effetto sortito, di norma, è invece la nascita di intenzioni omicide nei confronti delle proprie letture obbligate, che non hanno sfogo solo perché nei programmi scolastici sembrano avere cittadinanza quasi soltanto autori già decomposti. I quali, a rigor di logica, non possono decedere per più di una volta. Ma solo biologicamente: l’attività di uccisione spirituale è pratica quotidiana, di demanio e competenza del ministero dell’istruzione.

“Pronti a tutto per conquistarvi”, dicono. Anche a cambiare i presupposti del paese e del mondo in cui vivete? Anche a smettere di piangere miseria se Amazon ha un bilancio più roseo del solito, specie se in alternativa gli proponete altre grandi catene, quindi nulla di sostanzialmente diverso, e non le librerie indipendenti? Anche a farla finita col feticismo elitario e gratuito per l’odore della carta, come se la piattaforma su cui si legge fosse qualcosa di davvero rilevante? Anche a dichiarare guerra al classismo editoriale? In attesa di una risposta, vado a leggere.

La miseria del sovversivismo

 

Fonte dell'immagine:  http://bit.ly/1Bspv1F
Fonte dell’immagine: http://bit.ly/1Bspv1F

Si creano spesso polemiche su quali scelte siano rivoluzionarie, o quantomeno le più sovversive da farsi, e viceversa. Credo che questo dibattito non abbia niente di politicamente produttivo e abbia tutto di alienante per ogni parte coinvolta. La “sovversività” di qualcosa dipende dal contesto in cui quel qualcosa viene agito – e perciò si può attribuire ad un azione o un discorso un carattere sovversivo soltanto in una contigenza ben precisa, poiché questi sono un prodotto storico e culturale di determinante circostanze; queste stesse circostanze ne determinano il significato e, ne consegue, l’eventuale divergenza dallo stato di cose presenti e dall’egemonia culturale attuale.

Adottare uno sguardo intersezionale mette in luce l’inconsistenza di questa idea, dal momento che ne smaschera la pretesa di universalità. Come si può dire ad esempio cosa è sovversivo per una donna fare se già soltanto tenendo in considerazione la diversità tra donne bianche e quelle che non lo sono l’esperienza cambia profondamente e con lei anche l’ipotetico da farsi rivoluzionario? Per le bianche è stato sovversivo uscire dalle mura di casa e farsi strada nel sociale, nel pubblico; per le non bianche si può dire altrettanto, quando la schiavitù coloniale andava a colpirle proprio recidendo ogni tipo di legame familiare?

L’idea di una scelta sovversiva mi richiama alla mente, nella sua ingenua socialdemocraticità, un’altra idea, che è anche una pratica: quella del consumismo etico. Entrambe postulano prima di ogni cosa che sia possibile scegliere e che dal momento che è possibile scegliere, la scelta da fare è quella che viene posizionata come eticamente (e quindi politicamente) auspicabile.  Ci sono buoni motivi per dubitare che questa possibilità di scelta esista e ce ne sono altrettanti per sconfessare l’imprescindibilità di certe scelte, e cito quella che mi sembra più significativa: il rischio ahimè piuttosto concreto di una critica che continui a vertere inutilmente sul gesto individuale senza tenere minimamente conto né delle sue ragioni né del contesto in cui si svolge, perseguendo un ideale fascista di coerenza più vicino al martirio che alla lotta contro ogni forma di oppressione.

Il sovversivismo non è un -ismo per come lo concepiamo di solito, cioè  discriminazione, oppressione, ostilità aperta o sottile e molto altro che riguarda una specifica categoria di soggetti umani o non umani in maniera sistematica. È più un modo di pensare teso alla trasgressività compulsiva. Julia Serano in Whipping Girl lo definisce in maniera molto più precisa e contestuale all’ambiente femminista e queer: il sovversivismo è la pratica di esaltazione di certi generi, certe espressioni sessuali e certe identità semplicemente perché sono non convenzionali o non conformi. Serano dice:

In superficie, il sovversivismo dà l’apparenza di ospitare una serie apparentemente infinita di generi e sessualità, ma questo non è proprio il caso. Il sovversivismo ha confini molto specifici; ha un “altro”. Glorificando identità e le espressioni che sembrano sovvertire o sfocare i binari di genere, il sovversivismo crea automaticamente una categoria reciproca di persone le cui identità di genere e sessuali e le espressioni sono di default intrinsecamente conservatrici,  addirittura “egemoniche”, perché sono viste come rinforzo o naturalizzazione del sistema del binarismo di genere.

Julia Serano, nel suo libro, lo usa per descrivere come gli atteggiamenti sovversivisti si manifestino negli spazi queer e trans contemporanei, in cui i maschi / le identità transmaschili sono visti come più sovversivi rispetto a quelle femminili / transfemminili , e dove le identità e le espressioni (ad esempio le pratiche legate al drag, l’essere genderqueer) che sfocano il genere sono viste come più sovversive di quelle identità considerate binarie (ad esempio, donne e uomini transessuali).

Un altro esempio di questo atteggiamento è costituito dall’esclusione delle persone bisessuali, giustificata per l’appunto con argomentazioni risibili quali il rafforzamento del binarismo di genere, il quale deriva dall’errata considerazione che l’interpretazione letterale dell’etim0logia di una parola ne indica il significato odierno. Se bisessuale è un esercizio di binarismo per via del fatto che bi significa due, allora le lesbiche provengono dall’isola di Lesbo, percependo salari in cloruro di sodio. Bisessuale, proprio come omosessuale e transessuale, è una parola nata nel contesto medico e reclamata dalla comunità arcobaleno, perciò il suo binarismo vero o presunto non è affibbiabile alla c0munità, agli individui che ne fanno parte e all’identità romantico-sessuale che rappresenta, specie se una parte considerevole delle organizzazioni e comunità di persone bisessuali adottano una definizione di bisessualità che binarista non è. Se pensiamo altrimenti, dovremmo accusare coloro che si definiscono omosessuali di autopatologizzarsi. C’è un binarismo di genere, certo, ma  le accuse di rinforzo arrivano a una comunità piuttosto marginalizzata. È curioso che tutti si preoccupino di chi per davvero o per finta rafforza il binarismo senza preoccuparsi di chi, in primo luogo, l’ha edificato nei corpi e nelle esperienze. Questi censori sono funzionali alla guerra intracomunitaria, al mantenimento del mortifero dominio eterosessista, e sono considerevolmente responsabili dell’indisturbato proseguire delle ingiustizie inquadrate dalle agghiaccianti statistiche che riguardano le persone bisessuali. Ma ritorniamo a noi.

Quello del “rinforzo” è un mito, prodotto proprio dal binarismo di radicalità/non-radicalità, il sovversivismo appunto, attuato da soggettività che nel tentativo di abbattere gerarchie ne costruiscono altre, generando un’altra diversità, un nuovo “altro da sé”, che si suppone conservatore e per questo è considerato cattivo; inoltre, un grosso pericolo del sovversivismo risiede nel fatto che esso genera un processo di esclusione di ciò che sembra meno trasgressivo, atipico, non convenzionale e poi si rende complice della sussunzione neoliberista della gettonata controparte “sovversiva” commerciandola, perciò  depoliticizzandola e depotenziandola nelle sue già scarse potenzialità. Infine, esso si accompagna quasi inevitabilmente alla ricerca della purezza militante individuale, un mostro  che trasforma la solidarietà in competizione e l’azione diretta in mania di protagonismo, cuocendo ogni potenzialità di cambiamento sociale nel brodo di un più che disumano ultraindividualismo celolunghista. E questo è quanto mi basta per rifiutarlo con tutto me stesso.

Cosa significa essere produttiv*?

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In quanto individuo che ha a che fare con la fatica perpetua datami dall’ansia, una delle punizioni verbali più creative e dannose che mi sono solertemente rivolto finora, è quella di non essere abbastanza produttivo – sentendomi di conseguenza travolto dai sensi di colpa. Questa convinzione possiede una discreta popolarità presso moltissime altre persone, in particolare coloro che hanno a che fare con il disagio psichico, o persone con disabilità. Lasciatemi dire che si tratta di un concetto ad alto tasso di balordaggine.

La nozione della produttività è radicata nelle idee capitaliste ed abiliste sul valore di un individuo. È assolutamente importante che si sia produttiv*, e non solo al lavoro, ma ogni maledetto istante. E cosa significa essere produttiv*? Quando siamo sever* con noi stess* per non essere produttiv* abbastanza, che significa? Possiamo provare a definire cosa significa la produttività per noi su un livello individuale, ma qualunque sia tale definizione mi riesce difficile separarla dalle già citate idee oppressive.  Penso che questa sia una delle maniere più subdole, comuni e incontrastate di internalizzare l’ideologia borghese e perpetuarla verso noi e gli altri.

Definire cosa significa produttività potrebbe essere un attimino più semplice se guardiamo a cosa non è. Stare online tutto il giorno, videogiocare, guardare un film, dormire, rilassarsi, compiere qualsiasi azione considerata passiva; sono tutte cose frequentemente bollate come non produttive, quando vediamo della gente autocriticarsi per come usano il proprio tempo non-lavorativo, non strutturato. Cose che non hanno un obiettivo predefinito. Sembra che non avere una lista delle cose da fare, cosa che peraltro io ho e aggiorno pedissequamente per via di una mia certa tendenza ossessiva alla pianificazione, sia una specie di crimine contro l’umanità nel peggiore dei casi e una imperdonabile perdita di tempo nel migliore.

Produttività, per alcun*, potrebbe significare impegnarsi in uno o molteplici interessi e passatempi, fare delle commissioni. Potrebbe significare lavorare senza sosta per quattro lavori diversi, ognuno con meno garanzie e più sfruttamento dell’altro; potrebbe significare fare ricerca, o avere moltissimi progetti in corso, organizzare e partecipare a manifestazioni, condurre un workshop dopo l’altro, scrivere articoli, mettere a posto l’armadio. Essere produttiv*, però, non include mai quella serie di gesti, azioni e comportamenti legati alla cura di sé.  Vedo molte, moltissime persone (creative in particolare) essere particolarmente dure nei loro confronti per non produrre abbastanza, specie se la ragione per cui ciò accade ha a che fare con le lotte che loro stesse ingaggiano per mantenere una buona salute fisica e mentale. Come fossimo catene di montaggio in miniatura, che subconsciamente si paragonano a fabbriche per la produzione di massa, che però non riusciremo mai a replicare per via delle ovvie, intrinseche limitazioni dell’essere un singolo individuo.

Il capitale è così profondamente immerso negli ingranaggi delle nostre vite che non capiamo nemmeno cosa diciamo davvero quando diciamo di volerci costringere a essere più produttiv*, o quando ci vergogniamo per non esserlo stat* abbastanza. Ci dimentichiamo di prendere tutto il tempo che ci serve per rilassarci e farci del bene perché siamo occupat* a raggiungere la quota immaginaria di produttività giornaliera. Perché i rituali quotidiani di cura di sé sono in opposizione ai nostri ideali di quella che è la produttività? Perché non è produttivo badare alle nostre necessità di animali umani?

Basta spingerci oltre ogni nostro limite, basta con la nozione della produttività e basta con l’idea che il nostro valore stia in ciò che riusciamo ad aver terminato a fine giornata. Il rispetto per noi stess* non è a cottimo. Cominciamo a lavorare sull’amarci quando ci diamo respiro.

Tanti fuochi, un giorno, dovranno pure ardere all’unisono

shutterstock_224210650Vorrei che il 2015 portasse via la precarietà, sarebbe bello se bastasse davvero un desiderio, un rintocco di lancette per spalare via tutta questa merda ma non è così, nessun cambiamento è mai arrivato in modo semplice ed indolore.

Alla fine dell’estate scorsa ho perso il lavoro. Non ne andavo fiera. Lavoravo a nero e con uno stipendio che sfiora l’assurdo, ma l’ho accettato perché non potevo dire di no. Essere indipendenti, ma rettificherei scrivendo “provandoci ad esserlo”, non è facile se attorno a te non trovi che sfruttatori/trici che fanno leva sul tuo bisogno per proporti lavori ad orari e stipendi assurdi. Quando ho provato a parlare della mia condizione c’è stato chi mi ha capito, chi si è mostrat@ solidale e chi, invece, mi ha detto che era colpa mia, che, infondo, me lo meritavo perché, accettando, avevo alimentato il mercato del lavoro a nero. Credo che si tratti delle stesse persone che, se vieni stuprata, ti dicono che te la sei cercata, come quando il poliziotto che ti ha spaccato il muso e rotto la testa ti dice che “se stavi a casa tua questo non succedeva”. E’ sempre colpa della vittima, lo abbiamo capito.

Da quando ho perso il lavoro ho provato a mantenere la calma e fare mente locale su tutte le possibilità che avevo a disposizione. E’ iniziata così la ricerca estenuante di un lavoro. Ho risposto a non so quanti annunci, messo non so quanti volantini per strada, ma ben poche sono state le chiamate ricevute.

Mi hanno chiamata per dare ripetizioni a due bambini per 50 euro al mese ciascuno, ma, almeno in questo caso, la famiglia era davvero con le pezze al culo quindi il prezzo era tale per impossibilità. Poi è stato il turno di una donna che pretendeva la stessa cosa nonostante non fosse per nulla indigente. Ho rifiutato entrambe le “proposte”, ma, non mi vergogno a dirlo, solo per la prima ho provato dispiacere.

I mesi passano e i pochi soldi che avevo risparmiato iniziano a decimarsi. Ero così al verde che ho dovuto chiedere al mio compagno, con cui ho una storia a distanza, di accettare il fatto che, per alcuni mesi, fosse solo lui a venire a Napoli a trovarmi perché non potevo più neanche permettermi il regionale per raggiungerlo.

Leggi tutto “Tanti fuochi, un giorno, dovranno pure ardere all’unisono”

La storia di Enrico tra classismo e abusi di potere

nenesQualche giorno fa leggevo la storia di Enrico, un FtM che si è visto rifiutare dal giudice, a causa del suo basso reddito, l’autorizzazione per eseguire gli interventi di mastoplastica e di rimozione dell’apparato riproduttivo. Mi spiego. Il CTU, ovvero lo psichiatra incaricato dal tribunale per dichiarare se la perizia, fatta da altr@ suoi@ collegh@, fosse in regola o meno, ha pensato bene di chiedere un anticipo che il giudice gli avrebbe concesso mettendolo a carico del richiedente (Enrico ha diritto al gratuito patrocinio). A tali richieste l’avvocato di Enrico ha dovuto ricordare, manco ce ne si fosse dimenticat@, che chi si avvale del gratuito patrocinio lo fa perché non può sostenere certe spese, e che quindi la richiesta era assurda. Di fronte al rifiuto, lo psichiatra decide di non erogare alcuna prestazione, nonostante sia pienamente cosciente che ciò implica il blocco del percorso di Enrico, che dovrà a questo punto attendere chissà quanto altro tempo per ottenere l’approvazione del giudice. Trovo questo atteggiamento un vero e proprio ricatto, un abuso di potere che mai dovrebbe esser concesso a nessun@.

Questa storia mette in evidenza due elementi importanti: l’accesso alla sanità, diverso per classi, ed il potere che alcun@ specialist@/professionist@ hanno sulle nostre vite. Che la sanità pubblica stia subendo uno smantellamento a favore di quella privata è sotto gli occhi di tutt@. Che alcuni servizi siano esclusivi di alcune fasce di reddito anche. Conosco persone che, per una visita dentistica, soffrono le pene dell’inferno perché non hanno i soldi neanche per il ticket e quindi attendono di poterli racimolare, o che attendono mesi, prima di poter essere visitat@, perchè la lista di attesa è lunghissima. E’ palese come chi ha soldi può permettersi cure tempestive e migliori, rispetto a chi stenta anche a pagarsi il ticket – e non perché le prestazioni di chi lavora nel pubblico siano di minor valore rispetto a quelle dei privati, ma perché l’organizzazione, nelle strutture pubbliche, lascia molto a desiderare.

Chi ha soldi, chi appartiene a classi sociali cosiddette “alte”, non saprà mai cosa significa dover girare come una trottola in diverse regioni per ottenere un’interruzione di gravidanza, dato che potrà rivolgersi senza problemi ad un privato – che forse nel pubblico fa l’obiettore di coscienza; non conoscerà mai quella paura di non avere soldi a sufficienza per comprarsi la pillola del giorno dopo, perché si ostinano a non renderla gratuita oltre che a renderti un inferno tutto il processo per ottenerla; non conoscerà mai l’umiliazione di dover fingere di aderire a certi schermi preconfezionati perché, altrimenti, l@ psicolog@ da cui vai per la perizia che ti permette di accedere al percorso di attribuzione di sesso non ti rilascerà mai quella cavolo di approvazione; non conoscerà mai l’attesa di chi aspetta che il consultorio pubblico, a cui si è rivolti, smaltisca le visite e forse, se tutto va bene, tra due settimane ti permetterà di farsi una visita ginecologica; non saprà mai cosa vuol dire uscire da un medico privato con una cifra a tre zeri, anche a nero, e la rabbia di sapere che tutto questo lucrare sulla salute e il dolore degli/lle altr@ fa davvero schifo.

Ma oltre ad un accesso a due corsie nella sanità, c’è anche la questione del potere che viene concesso a quest@ specialist@/professionist@ che possono decidere se puoi o meno cambiare genere, se puoi o meno ottenere la pillola del giorno dopo, se puoi o meno abortire e scegliere il modo in cui farlo, senza mai chiedere il parere della persona su cui stanno legiferando. Se questa non è sovradeterminazione ditemi voi cosa lo è. Mai nessun@ dovrebbe avere il potere di decidere sul corpo e sulla vita di un’altra persona, mai nessun@ dovrebbe esser mess@ in grado di agire un abuso di potere, quindi un ricatto bello e buono, consci@ del fatto che, senza la sua prestazione, quella persona sarà in difficoltà. Quello che è accaduto ad Enrico, ma che accade quotidianamente sulla pelle di tante soggettività, dimostra come la medicalizzazione abbia permesso, a certe professioni, di avere il controllo assoluto sulle nostre vite, sui nostri desideri troppo spesso discriminati.

Ma questa storia parla anche di un iter legislativo autoritario, che, lungi dal concedere libertà, costringe le persone a subire il ricatto di specialisti operanti in diversi campi. Come la 194 ha al suo interno il meccanismo stesso del proprio sabotaggio, ovvero l’obiezione di coscienza, così la legge 164, che regola l’attribuzione del genere, costringe le persone trans a subire un continuo ricatto, da quello dell’approvazione di un psicolog@  – che attesti la tua sanità mentale e al contempo uno squilibrio – fino alla sterilizzazione forzata, condizioni indispensabili per poter vedere riconosciuta la propria identità di genere. Violenza, non c’è altro modo di definirla.

La storia di Enrico mi ha permesso, però, anche di conoscere questo sito  su cui sono raccontate molte altre storie interessanti, tra cui quella di Diego, che parla di spese mediche e legali insostenibili e di un bisogno di cambiare la cultura prima ancora che la legge. Come dargli torto? Non si può più accettare questa psichiatrizzazione, basata su una dicotomia del tutto culturale a cui si è costrett@ ad aderire per vedersi riconosciuta la propria identità di genere. Per questo credo sia importante supportare questa petizione che chiede di poter ottenere l’attribuzione di genere senza sottoporsi alla mutilazione genitale, ma anche di iniziare un percorso che porti alla depsichiatrizzazione della transessualità e di tutto ciò che viene definito “deviante”, esclusivamente in base all’esistenza di un’idea di ‘norma’ che ormai non è condivisa né rappresenta un numero sempre maggiore di soggett@.

Non ho mai creduto che le leggi potessero generare un reale cambiamento, dato che esso è e sempre sarà proprio della cultura, ma per ora, nel sistema in cui viviamo – sistema che per altro non amo né supporto – possono permettere a molte persone di sopravvivere. Per vivere ci toccherà lottare per una rivoluzione molto più ampia e radicale.

Un bicchiere e una risata per Riccardo

Pieter Bruegel il Vecchio, "Paese della cuccagna" (Luilekkerland), olio su tavola, 1567.
Pieter Bruegel il Vecchio, “Paese della cuccagna” (Luilekkerland), olio su tavola, 1567.

La notizia, immagino, la sappiate: Riccardo Venturi, tra pochi giorni, avrà l’udienza preliminare per il reato di “Attentato all’onore e al prestigio del Capo dello Stato”.

Le sue parole che raccontano fatti e pensieri sono qui. L’attentato che ha scatenato l’apparato di potere e i suoi kafkiani meccanismi lo potete leggere qui.

Ho avuto il piacere di incontrare Riccardo due volte – che considerando la sua socialità e la mia pigrizia è un record del quale andare fiero. Entrambe le volte in occasioni libere, antifasciste, comuni; momenti felici e intensi per i quali non ci sono parole.

Non posso che invitarvi a leggere tutto il possibile dal suo blog, tutte le sue parole, più che potete: salvatele, diffondetele, conservatele. Non lasciate che si attenti alla vostra libertà: scatenate la sua, e mi raccomando, oggi bevete e ridete pensando a lui, come faremo noi.

A presto, Riccardo, da tutt@ di Intersezioni. Come vuoi tu: verið þið öll blessuð og sæl.

La legge è (in)giustizia di classe. Ma noi lo sapevamo già

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Sei  una donna vittima di violenza domestica o di un qualsiasi altro comportamento abusante, una persona immigrata, precaria, che lavora a nero, una persona trans che deve rettificare i documenti in accordo col proprio genere,  un manipolo di attiviste/i  o militanti denunciate/i per un nonnulla  o un qualsiasi altro soggetto che non ha alcun potere economico? Per te nessuna difesa. È così, punto.
Dal comunicato di Giuristi Democratici apprendiamo che: “…nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un’ulteriore dratica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l’anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente.”

Insomma, ai tempi dell’austerità non si ha diritto proprio a niente di niente: la sanità funziona uno schifo, la scuola esiste e va benissimo (rincretinire e addestrare è il suo compito e ci riesce a meraviglia), il welfare non si sa più che cosa sia,  lavoro e reddito saranno a breve oggetto di una campagna di protezione da parte del WWF; politica sociale è uno di quei termini desueti – tipo desueto, eccetera eccetera.  Hanno sempre obiettato al mio desiderio di una società anarchica con tesi del tipo ma se vivi senza stato, poi x, y, z chi te li dà? dove per x, y, z si intendevano servizi di natura varia. Oggi come oggi penso di poter rispondere: beh, non me li dà nemmeno lo stato, mi pare che  sia il caso di toglierlo di mezzo questo parassita. Via, nel cestino col capitalismo. Raccolta indifferenziata per stavolta.

Compagno? Anche no.

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Amo la parola compagno. Mi suona dolce e bellissima: in una parola, meravigliosa. Proprio per questo motivo, vorrei che fosse utilizzata con un po’ più di parsimonia: ne detesto l’utilizzo casuale. Non c’è alcuna ragione per cui uno che si dichiara anarchico dovrebbe essere automaticamente un compagno, per me.

Magari è uno che si dice antiqualcosa. Salvo poi fare la faccia annoiata quando parli di quel qualcosa, non leggere i materiali che gli mandi, e tanti altri bei comportamenti. La politica è qualcosa che si “fa”, non è che si “è”, quindi se “sei” antiqualcosa ma ti comporti da proqualcosa, sei proqualcosa. E se fai l’indifferente, sei proqualcosa lo stesso: l’indifferenza non va mai a beneficio di chi è svantaggiato.

Magari è uno che se gli parli di privilegio diventa paonazzo e ti accusa di dargli dell’oppressore. Senza accorgersi che lo è di fatto, che i suoi presunti sentimenti feriti non hanno la priorità sull’esperienza di chi è oppresso, e che negare la sua posizione lo rende ancora più oppressivo. Insomma, uno che i suoi privilegi col cazzo che li ammette e men che meno tenta di combatterli, che tutta la merda sistemica che gli esce dalla bocca proprio non la vede.

Magari è uno che fa battute offensive in continuazione. Poco humour? sarà. Ma l’umorismo non è qualcosa che accade in un vacuum al di là di questa dimensione, dove tutti i rapporti di potere di questa società non esistono. Io battute e frecciatine su: maschi, bianchi, eterosessuali, cisgender, borghesi non ne sento praticamente mai. Puro caso? anche no, visto che quelle poche volte che succede si sbraita di “sessismo” e “razzismo” al contrario, di eterofobia e cisfobia, eccetera. Forse questo senso dell’umorismo non è né sviluppato né egualitario, checché se ne dica.

Magari è uno che legge queste parole, e si affretta a dire che queste persone non sono davvero compagni, ignaro dell’esistenza della fallacia logica del nessun vero scozzese.

Magari è uno per cui esiste soltanto la lotta di classe e quella contro lo stato, e il resto si fotta. Al massimo verrà dopo la rivoluzione, dice. Ma finché i panni sporchi non si laveranno in piazza e il personale non sarà davvero politico, non si riuscirà nemmeno a fare militanza assieme senza dover tirarci le sedie, figurarsi il rovesciamento dell’attuale ordine sociale. Senza abbattimento del patriarcato in tutte le sue declinazioni, dello specismo, dell’eterocisnormatività e di tante altre cose, non ci sarà alcuna rivoluzione possibile.

Ah, e i miei compagni, le mie compagne, me li scelgo e me le scelgo io. Così, tanto per essere lapalissiano.

Femminismo: la prospettiva di un anarchico

Di seguito potete leggere un articolo di Pendleton Vandiver, “Feminism: a male anarchist’s perspective“, presente su The Anarchist Library e tradotto in lingua italiana da Su Macumeresu. Buona lettura!

 

“Io stessa non ho mai capito cosa sia il femminismo: so solo che mi chiamano femminista quando esprimo sentimenti che mi differenziano da uno zerbino”

Rebecca West, The Clarion 1913

Lawrence Textile Strike

La maggior parte delle persone nel mondo anarchico attuale – femmine o maschi – non condividerebbero, almeno in principio, molte delle seguenti affermazioni: ci sono due categorie immutabili e naturali sotto le quali gli umani sono classificati: maschio e femmina. Un umano maschio è un uomo, e un umana femmina è una donna. Le donne sono intrinsecamente inferiori agli uomini. Gli uomini sono più intelligenti e forti delle donne; le donne sono più emozionali e delicate. Le donne esistono per il beneficio dell’uomo. Se un uomo chiede del sesso a sua moglie, è suo dovere obbedire, volente o nolente. Un uomo può costringere una donna a fare sesso con lui, se ha una buona ragione per richiederlo. Gli umani devono essere concepiti, in senso universale, come maschi (“uomini”), e solo parlando di particolari individui come femmine. Le donne sono una forma di proprietà. Chiedere diritti per le donne è come chiedere diritti per gli animali ed è altrettanto assurdo.

Per quanto ridicole possano sembrare queste affermazioni, ognuna di loro è stata ovvia e naturale per buona parte dell’occidente in diversi momenti storici, e molte al giorno d’oggi sono più una regola che un’eccezione. Se molte di queste sembrano un po’ strane, stridenti o semplicemente sbagliate, non è perché contraddicano qualche vaga nozione di giustizia o senso comune con la quale siamo nati. Al contrario, il cambiamento di atteggiamento, che ci permette di affermare un punto di vista più illuminato e apparentemente naturale, è il risultato concreto di una continua lotta che ha visto sacrificarsi onorabilità e relazioni personali e vite umane negli ultimi 200 anni e che, come tutte le lotte di liberazione, è stata screditata, calunniata, e marginalizzata fin dal suo concepimento. Sebbene questa lotta sia stata, e ancora sia, strategicamente varia e concettualmente molteplice, e per questo difficile da definire, non è altrettanto difficile chiamarla col suo nome: mi riferisco, naturalmente, al femminismo.

Il femminismo ha cambiato la nostra cultura, se non altro rendendo di senso comune l’idea che le donne sono propriamente degli esseri umani. Se la maggior parte della gente condivide questa idea, non è perché la società sia diventata più buona, o stia evolvendo naturalmente verso una situazione più egalitaria. Chi ha il potere non decide semplicemente di concedere l’uguaglianza a quelli che non ce l’hanno; semmai, cede il potere solo quando vi è costretto. Le donne, come ogni altro gruppo oppresso, hanno dovuto prendere tutto ciò che hanno ottenuto, attraverso un duro percorso di lotta. Negare questa lotta è perpetuare un mito simile a quello dello schiavo felice. Ed è precisamente ciò che facciamo quando parliamo di femminismo come di un qualcosa che perpetua il divario di genere, o che ostacola il nostro progressivo abbandono delle politica identitaria. Il femminismo non ha creato il conflitto tra i generi; la società patriarcale lo ha creato. Ed è importante non dimenticare che l’idea che le donne siano esseri umani non è senso comune, ma in tutto e per tutto un concetto femminista. Appoggiare formalmente la liberazione delle donne, mentre si nega la loro lotta storica per ottenerla per sé stesse è paternalista e insultante.

Non solo la società occidentale ha apertamente relegato le donne a un ruolo subumano, ma, fino a poco tempo fa, molti movimenti di liberazione hanno fatto lo stesso. Spesso, è stato fatto in parte senza saperlo, come riflesso automatico dei costumi della cultura dominante. Altrettanto spesso, però, è stato in modo consapevole e intenzionale (come la famosa affermazione di Stokely Carmichael [leader studentesco statunitense e in seguito Black Panther, ndt], per cui l’unica posizione per le donne nel Comitato Coordinamento Studenti Nonviolenti fosse “in ginocchio”). Comunque sia, molti tra quelli che dicevano di lavorare per l’emancipazione di tutti gli umani stavano in realtà lavorando per l’emancipazione dell’uomo, e fino a poco tempo fa la definizione era proprio questa. Alle donne che si lamentavano di questo veniva (e viene tuttora) detto in modo accondiscendente di aspettare finché la battaglia più importante venga vinta, prima di chiedere la loro propria liberazione. Questo è stato per l’abolizionismo [della schiavitù], i diritti civili, il movimento contro la guerra, la Nuova Sinistra [americana], il movimento contro il nucleare, l’ambientalismo radicale e, ovviamente, l’anarchismo. Le donne sono state criticate per aver perseguito obiettivi femministi come se fossero nella direzione sbagliata, controrivoluzionari, o non importanti. Gli anarchici non si sono semplicemente svegliati una mattina con una visione più illuminata delle donne, e il patriarcato non si è rivelato improvvisamente come “un’altra forma di dominazione”. Sono state la teoria e la pratica femminista a portare alla luce l’oppressione delle donne, che l’hanno spesso manifestata in ambiti rivoluzionari differenti.

Questo non vuol dire che tutte le femministe fossero e siano anarchiche, o che tutti gli anarchici non fossero e non siano femministi. Ma il femminismo è spesso criticato nell’ambiente anarchico, da diversi punti di vista. Proverò a discutere le più comuni critiche che ho sentito fare, pubblicamente e privatamente, nei circoli anarchici. E’ stato detto che il femminismo è essenzialista. E’ stato anche detto che il femminismo, mantenendo le sue visioni essenzialiste, è una filosofia che afferma la superiorità, in un modo o nell’altro, delle donne sugli uomini. Infine, si accusa il femminismo di perpetuare le categorie di genere, mentre l’obiettivo rivoluzionario sarebbe andare oltre il genere. In altre parole, il femminismo è accusato di essere un’ideologia identitaria, di perpetuare ruoli sociali dolorosi ed escludenti che in ultima analisi opprimono tutti.

Ciò che queste accuse hanno in comune è che stabiliscono un’entità singola e più o meno univoca chiamata “femminismo”, mentre chiunque studia il femminismo impara subito che c’è sempre stata molta varietà nella teoria femminista, e che questo è vero soprattutto adesso. Nessun singolo insieme di idee sul sesso e sul genere rappresenta il femminismo; anzi, il femminismo è una categoria aperta, che comprende praticamente tutte le forme di pensiero e azione che riguardano esplicitamente la liberazione delle donne.

Sebbene il femminismo sia stato spesso accusato di essenzialismo, quest’ultimo è fortemente criticato all’interno del movimento femminista. L’essenzialismo è l’idea che ci sia una sostanza o essenza immutabile che costituisce la vera identità delle persone e delle cose. In questa visione, una donna sarebbe in qualche modo obiettivamente, profondamente identificabile come donna; essere una donna non sarebbe semplicemente il risultato di differenti attributi e comportamenti. Questa è spesso letta come un’affermazione politicamente arretrata, perché implicherebbe che le persone siano limitate da certe capacità e comportamenti dettati dalla natura.

Quando esaminiamo il campo delle idee emerse dalla seconda ondata del femminismo (più o meno post-1963), invece, viene fuori un’immagine diversa. La citazione forse più famosa del ‘Secondo sesso’, l’opera seminale di Simone de Beauvoir del 1940, è: “donne non si nasce, lo si diventa”. Il libro prosegue argomentando che il genere è una categoria sociale, che gli individui possono rifiutare. L’influenza del ‘Secondo sesso’ è stata enorme, e Beauvoir non fu l’unica femminista a mettere in dubbio la naturalità della categoria di genere. Molte scrittrici femministe iniziarono a tracciare una distinzione tra il sesso e il genere, asserendo che il primo descrive il corpo fisico, mentre il secondo è una categoria culturale. Per esempio, avere un pene appartiene al sesso, il modo in cui uno si veste, e il ruolo sociale che sceglie, appartiene al genere.

E’ una distinzione che alcune femministe ancora fanno, ma altre hanno messo direttamente in dubbio l’uso di categorie apparentemente pre-culturali come il sesso. Colette Guillamin ha suggerito che il sesso (come la razza) è un sistema arbitrario di “marchi” che non ha alcun fondamento in natura, ma serve semplicemente gli interessi di chi ha il potere. Sebbene varie differenze fisiche esistano tra le persone, è politicamente che si decide quali siano importanti per ‘definire’ una persona. Per quanto gli individui siano divisi in categorie ‘naturali’ sulla base di questi marchi, non c’è nulla di naturale nelle categorie: sono puramente concettuali.

Basandosi sul lavoro di de Beauvoir e Guillamin, tra le altre, Monique Wittig ha affermato che l’obiettivo del femminismo è eliminare il sesso e il genere come categorie. Come il proletariato nella filosofia marxista, le donne devono costituirsi in classe per rovesciare il sistema che permette l’esistenza delle classi. Non si nasce donna, se non nello stesso senso in cui si nasce proletari: essere donna denota una posizione sociale, e certe pratiche sociali, più che un essenza o un’identità ‘vera’. Il fine politico ultimo di una donna, per Wittig, è non esserlo. Più di recente, Judith Butler ha elaborato un’intera teoria di genere basata sulla radicale espulsione dell’essenza.

Naturalmente, ci sono state femministe che, disturbate da quella che vedevano come tendenza assimilazionista nel femminismo, hanno asserito una nozione di femminilità più positiva che è stata, a volte, indubbiamente essenzialista. Susan Brownmiller, nel suo importante libro ‘Contro le nostre volontà’, ha scritto che gli uomini possano essere geneticamente predisposti allo stupro, una nozione che è stata ripresa da Andrea Dworkin. Femministe marxiste come Shulamite Firestone cercarono la base materiale dell’oppressione di genere nel ruolo riproduttivo femminile, e molte teoriche femministe – Nancy Chodorow, Sherry Ortner, Juliet Mitchell tra le altre – hanno esaminato il ruolo della maternità nel creare ruoli di genere oppressivi. Femministe radicali come Mary Daly hanno abbracciato certe nozioni tradizionali di femminilità e hanno cercato di dar loro un senso positivo. Sebbene le radicali abbiano, a volte, preso posizioni essenzialiste, questo tipo di femminismo ha compensato alcuni degli squilibri di questo ambito del pensiero femminista che rifiutava la femminilità tout court come identità da schiava. La dicotomia che ha arrovellato le pensatrici femministe è sempre stata questa: asserire una forte identità femminile, e rischiare di legittimare i ruoli tradizionali e alimentare chi impiega l’idea di una differenza naturale per opprimere le donne, o rifiutare il ruolo e l’identità data alle donne, e rischiare di eliminare la base propria della critica femminista? L’obiettivo del femminismo contemporaneo è trovare un equilibrio tra punti di vista che rischiano, da una parte, l’essenzialismo, e dall’altra l’eliminazione delle donne come soggetto della lotta politica.

L’obiettivo del femminismo, quindi, è la liberazione della donna, ma cosa questo significhi esattamente è aperto a ogni discussione. Per alcune, questo significa che le donne e gli uomini debbano coesistere equamente; per altre, che non ci saranno più persone viste come donne e uomini. Il femminismo fornisce un ricco panorama di vedute sul problema di genere. Una cosa su cui possono accordarsi, comunque, è che i problemi di genere esistono. Sia come risultato di differenze naturali o di costruzioni culturali, le persone sono oppresse per motivi di genere. Per andare oltre al genere, questa situazione deve essere risolta; il genere non può semplicemente essere battezzato come sorpassato. Il femminismo può forse essere meglio definito come il tentativo di andare oltre la situazione in cui le persone sono oppresse in base al genere. Quindi, non è possibile andare oltre il genere senza il femminismo; l’accusa che il femminismo perpetui le categoria di genere è palesemente assurda.

Poiché l’anarchismo si oppone a tutte le forme di dominazione, l’anarchismo senza femminismo non è anarchismo. Poiché l’anarchismo si dichiara opposto a tutte le ‘archie’, tutti i governi, il vero anarchismo è per definizione opposto al patriarcato, quindi è, per definizione, femminista. Ma non è abbastanza dichiararsi contro tutte le dominazioni; si deve cercare di conoscere la dominazione per opporsi ad essa. Le autrici femministe dovrebbero essere lette da tutti gli anarchici che si considerano contro il patriarcato. Le critiche femministe sono sicuramente rilevanti quanto i libri contro l’oppressione governativa. L’eccellente ‘Agenti di repressione’ di Ward Churchill è considerato una lettura essenziale da molti anarchici, anche se Churchill anarchico non è. Molti lavori femministi, d’altra parte, sono snobbati anche da chi appoggia formalmente il femminismo. Se la repressione della polizia è una vera minaccia per gli anarchici, il modo in cui interpretiamo i nostri ruoli di genere deve essere considerato ogni giorno della nostra vita. Quindi, la letteratura femminista è più importante per la lotta quotidiana contro l’oppressione di molta della letteratura che gli anarchici leggono regolarmente.

Se l’anarchismo ha bisogno del femminismo, il femminismo ha sicuramente bisogno dell’anarchismo. Il fallimento di alcune teoriche femministe nel combattere il dominio oltre il ristretto frame delle donne vittimizzate dagli uomini ha impedito loro di sviluppare un’adeguata critica dell’oppressione. Come ha scritto un importante scrittore anarchico, un’agenda politica basata sul chiedere agli uomini di rinunciare ai loro privilegi (come se fosse davvero possibile) è assurdo. Femministe come Irigaray, MacKinnon e Dworkin sostengono riforme legislative, senza criticare la natura oppressiva dello Stato. Il separatismo femminista (specie quello di Marilyn Frye) è una strategia pratica, e forse necessaria, ma solo nella cornice di una società ampia che si assume stratificata sulla base del genere. Il femminismo è davvero radicale quando cerca di eliminare le condizioni che rendono inevitabile l’oppressione di genere.

Anarchismo e femminismo chiaramente hanno bisogno l’una dell’altro. E’ tanto bello dire che una volta che la fonte primaria di oppressione (qualunque essa sia) sarà eliminata, tutte le altre oppressioni saranno spazzate vie, ma che prove abbiamo che sia davvero così? E in che modo questo dovrebbe impedirci di opprimerci l’uno con l’altro, mentre aspettiamo questa grande rivoluzione? Allo stesso modo, è importante riconoscere che l’oppressione della donna non è l’unica oppressione. Discutere di quale sia quella più importante è sciocco e senza uscita. Il valore e la pericolosità dell’anarchismo sta proprio nel fatto che cerca di eliminare tutte le forme di dominazione. L’obiettivo ha valore perché non si distrae con battaglie riformiste dimenticando la sua traiettoria verso la liberazione totale. Ma, in un altro senso, è ‘pericoloso’ perché corre sempre il rischio di ignorare le situazioni concrete, sottovalutando o escludendo movimenti che lottano per obiettivi specifici.