Pramada Menon: Perché la famiglia occupa così tanto i nostri pensieri?

Pramada-Menon

 

Famiglia o famiglie? 

Abbiamo deciso di tradurre questa intervista a Pramada Menon (attivista queer e femminista che si occupa di giustizia sociale, genere, sessualità e diritti umani) perché va a toccare uno dei topoi tabù che attraversano in maniera universale l’esperienza umana, ovvero quello della famiglia. Il concetto di famiglia, propagandato come univoco e immutabile, conosce invece al momento attuale svariate declinazioni che ne dilatano il senso, ne ridisegnano i confini e spesso li abbattono nelle pratiche – anche quando queste ultime si trovano a scontrarsi con le resistenze sempre più ostinate di un’ideologia che fa della “Famiglia” un motore immobile attorno al quale orbitano tutte le limitazioni e oppressioni con le quali si cerca di soffocare qualsiasi alternativa al sistema integrato di irreggimentazione (ben esemplificato nel trittico dio-patria e, appunto, famiglia) dal quale tentiamo di liberarci.
Consapevoli che partire dal personale è sempre difficile e problematico, e che nonostante ciò la nostra politica non può farne a meno, proponiamo questo dialogo capace di evidenziare l’attuale movimento dall’idea unica di Famiglia ai tentativi – dalle alterne fortune ma sempre anticipatori di nuovi orizzonti umani – di sperimentare nuovi modi di essere ‘famiglie’, di ‘fare famiglia’ al di là dei vincoli apparentemente imposti dal sangue.

PRAMADA MENON: PERCHE’ LA FAMIGLIA OCCUPA COSI’ TANTO I NOSTRI PENSIERI?
Traduzione di feminoska

Pramada Menon è un’attivista femminista e queer che analizza tutte le questioni che ritiene più complesse. Quando non è impegnata a riflettere e procrastinare, lavora come consulente sulle questioni di genere e sessualità e sui diritti delle donne, e saltuariamente si esibisce in Fat, Feminist and Free, una performance a ruota libera su immagine corporea, sessualità ed esistenza.

Radhika Chandiramani: ‘La Famiglia’. Che ne pensi, Pramada?
Pramada Menon: Perché la famiglia occupa così tanto i nostri pensieri? Perché cerchiamo ossessivamente la comprensione e il supporto dei membri della famiglia, e vogliamo che conoscano ogni nostro pensiero? Forse è perché ci insegnano che queste famiglie biologiche sono noi e noi siamo loro? Cosa succederebbe se non sapessimo nemmeno chi sono i nostri genitori, le nostre zie e i nostri zii, i nostri fratelli e sorelle – proveremmo lo stesso un profondo attaccamento per loro, e cercheremmo ancora la loro approvazione? Me lo domando perché quasi sempre ci viene chiesto di mettere la famiglia prima di ogni altra cosa e la nozione di famiglia è chiaramente definita come quella biologica – una madre naturale, un padre la cui paternità non è mai in discussione, e fratelli e sorelle concepiti da questi genitori. Recentemente questa nozione di famiglia biologica ha lentamente cominciato a cambiare per via della pratiche dell’adozione, della tecnologia riproduttiva e della maternità surrogata. Ma resta centrale l’idea di un nucleo familiare guidato da ‘istinti’ materni o paterni. Una famiglia protettiva, attenta, amorevole e solidale, ma anche punitiva se e quando contestata o tradita.

RC: Consideri la famiglia un’alleata o un’istituzione in opposizione alla libertà sessuale personale?
PM: Le norme e i regolamenti della maggior parte delle nostre famiglie originano dal mondo in cui viviamo, dai costumi dei gruppi o della comunità di provenienza, l’apprendimento dei quali può aver spinto molti di noi a sfidare i codici che ci sono stati tramandati. E le trasgressioni all’interno della famiglia accadono per via delle differenze tra le persone che ne sono parte e delle diverse concezioni del mondo intorno a noi, e delle differenti modalità di interazione con ciò che ci circonda. E’ la famiglia che fornisce ai propri membri una serie di regole da rispettare, riguardo ai corpi e all’espressione della propria sessualità. Queste regole sono codificate, perlomeno nelle teste dei patriarchi della famiglia, e rompere completamente con queste norme non è un compito facile. Le regole di per sé sono molto semplici e si conformano a ciò che la società/cultura dispensa a chiunque: il matrimonio socialmente approvato da consumarsi all’interno della casta/ceto religioso o sociale di appartenenza, preferibilmente combinato; la gravidanza deve seguire il matrimonio; nessuna sperimentazione sessuale durante l’infanzia o la giovinezza; nessun fidanzato/a e ovviamente nessuna relazione romantica o sessuale con una persona dello stesso sesso. Questa è solo una serie di regole. Tutte le altre vengono poco prima o dopo – gli abiti che si possono indossare, dove si può andare, che cosa si può fare in pubblico, gli orari nei quali si può uscire di casa, ecc. Queste regole sono restrittive e sfidarle o trasgredirle risulta quasi sempre nella perdita della propria identità, e in casi estremi, della vita. Se una persona è in qualche modo disabile poi, le regole sono molto più rigorose e controllanti. E, naturalmente, questo discorso ignora quasi sempre il tema del consenso della persona all’interno della famiglia. La sessualità è complicata… tanto più che le nostre decisioni al riguardo sono decisioni individuali. Queste decisioni sono guidate dalla nostra comprensione di ciò che è accettabile per noi e ciò che non lo è, e sono influenzate dagli spazi che occupiamo nella comunità, dalla nostra educazione e dai valori coi quali siamo cresciut* da giovani. Gran parte di tutto ciò cambia anche con il tempo a causa delle interazioni con le persone intorno a noi, i film che vediamo, i libri che leggiamo, le immagini a cui siamo esposti e le storie delle quali facciamo parte. Quello che trovo interessante è come tante delle nostre idee riguardanti la sessualità siano influenzate dalle informazioni che abbiamo ricevuto nella nostra infanzia, e perlopiù l’influenza principale in quel momento è quella della famiglia. La famiglia interpreta ciò che è consentito o meno nelle modalità che meglio si adattano alla stabilità dell’istituzione della famiglia. Non cerca consapevolmente di limitare la libertà dei membri della famiglia, ma solamente di mantenere in vita e ‘pura’ l’istituzione sociale. Con ‘pura’ intendo dire che le famiglie non vogliono in alcun modo esporsi ad un mondo che le critica o le fa sentire carenti in qualcosa. Da ciò deriva tutto il monitoraggio delle attività, comportamenti, pensieri e azioni.

RC: Esistono anche regole riguardo al tacere di alcune cose…
PM: La famiglia considera la sessualità una minaccia, soprattutto quando espressa da giovani al di fuori dei confini delle modalità socialmente accettabili. Eppure la questione degli abusi non è quasi mai sollevata all’interno della famiglia, dal momento che l’autore è quasi sempre qualcuno che la famiglia conosce. I casi di abuso di ragazzi e ragazze rimangono tabù e non se ne può parlare, e la persona responsabile dell’atto non consensuale, molto spesso, continua ad avere accesso al membro della famiglia che ha subito violenza. Non credo che il silenzio sugli abusi abbia a che fare con l’incredulità rispetto al racconto della vittima, ma molto più a che fare con la vergogna e una certa riluttanza a rendere pubblica la storia per paura che la colpa ricada sulle vittime.
Molte famiglie hanno anche un ‘posto segreto’ in casa in cui nascondere tutte le storie percepite come ‘devianti’ rispetto alla norma. Quelle storie pacificamente note ma al tempo stesso celate del figlio gay, la figlia lesbica, lo zio bisessuale, il cugino ‘femminile’ nel proprio comportamento, il cugino che si è sposato al di fuori della comunità, la nonna che lasciò il suo primo marito, la zia ‘zitellona’, il parente che ‘gioca’ con i bambini – la lista è infinita. Queste storie sono magari note a livello privato, ma viene fatto ogni sforzo per nasconderle ad ogni costo nella storia di famiglia.

RC: Pensi che la tua idea di famiglia sia cambiata nel corso del tempo?
PM: Con l’età, si comprende meglio la censura della propria famiglia sulle questioni relative alla sessualità. Parte di ciò ha a che fare con il fatto che le nostre interazioni con la società, le persone e le istituzioni che ci circondano ci spingono a riconsiderare i modi nei quali definiamo noi stess* in quanto esseri sessuali. D’altra parte, molt* di noi hanno rielaborato la propria idea di famiglia, alterandone i caratteri e comprendendo al suo interno persone che in genere non sono percepite come membri della famiglia.

RC: Al giorno d’oggi, né il matrimonio né la procreazione sono essenziali e, inoltre, non devono necessariamente essere inscindibili. Può esistere una famiglia che non sia fondata sul sesso? Una famiglia amicale?
PM: Oggi viviamo in un mondo nel quale strutture familiari ‘altre’ vengono create ogni giorno. Sono finiti i giorni dei bambini nati biologicamente, dei matrimoni esclusivamente pilotati dall’approvazione dei genitori, delle famiglie costruite sulla premessa del matrimonio. Ciò che è cambiato è il modo in cui la gente vuole interagire con le persone intorno a sé, gli intimi, coloro con le/i quali condividono una visione comune del mondo e che sono dispost* a spingere e sfidare presunte norme sociali e culturali. Questo ha portato a nuove relazioni e nuove forme di interazione. Persone dalle preferenze sessuali e identità di genere differenti convivono in relazioni intime e sessuali senza che alcun riconoscimento legale venga ricercato (e in alcuni casi, cercato e ottenuto). Relazioni d’amicizia nell’ambito delle quali creare il proprio gruppo di sostegno sulla base dell’ amore, della cura e della condivisione delle responsabilità. Queste famiglie destabilizzano il concetto convenzionale di ‘famiglia’. Allontanandosi dalla nozione tradizionale, queste forme di interazione ci costringono a riconsiderare ciò che intendiamo come famiglia, chi escludiamo e chi includiamo al suo interno. Sfidano inoltre tutte le norme conosciute di ‘purezza’ e le rendono irrilevanti perché queste famiglie sono create sulla base di amore e comprensione, piuttosto che sulle norme sociali di classe, casta, religione ecc.

RC: Qual è la tua idea di ‘famiglia’?
PM: La mia idea di famiglia si è sempre estesa ben oltre la famiglia biologicamente determinata. Inoltre non ho mai cercato l’approvazione dalla famiglia perché per quanto mi riguarda, i valori che mi hanno instillato mentre crescevo erano proprio ciò che mi ha aiutato a mettere in discussione tutte le nozioni esistenti di giusto e sbagliato secondo le norme socialmente e culturalmente stabilite. I miei genitori sono cresciuti insieme a me, perché sono stati da me costantemente messi in discussione su tutte le questioni relative alla sessualità, e a loro volta, poiché mi amavano, si sono permessi di imparare. Ho combattuto ma anche imparato quando fare marcia indietro. Famiglia per me ha sempre significato i miei genitori, i miei fratelli e sorelle e le amicizie che sono presenti con il loro amore, sostegno e cura per me come io faccio per loro.
Nel mondo di oggi, tutti noi abbiamo bisogno di riconsiderare quello che  intendiamo con il termine famiglia. Si tratta di una nuova era, un’era tecnologica. Si possono avere delle/i figli*, senza mai avere un rapporto. Si ha più bisogno di un laboratorio e di una capsula di Petri, piuttosto che del sesso! C’è stato un tempo in cui l’amore era per sempre e finché morte non ci separi, ora ci si separa per molti motivi e pochissimi hanno a che fare con la morte. Le nostre idee in merito all’intimità sono cambiate con l’uso di Internet, le nostre idee sull’amore sono cambiate, nel mondo di oggi sorelle/fratelli sono adottat* o sono le nostre amicizie, i genitori possono essere un uomo e una donna, un uomo e un uomo, una donna e una donna, due uomini e una donna, e così via – perché dunque facciamo difficoltà a riconsiderare le nostre idee sulla famiglia? Forse se ci lasciassimo la possibilità di immaginare, potremmo sognare diverse mutazioni e combinazioni per creare la nostra famiglia, e poi forse impareremmo a guardare con soddisfazione a quella biologica, e a cercare comunque il sostegno, la cura e la comprensione di quella non biologica. Questo per me rappresenterebbe una nuova era!

‘Yes, we fuck!’: la rivoluzione dei corpi dissidenti

Immagine tratta da Yes we fuck!
Immagine tratta da Yes we fuck!
Articolo pubblicato su Pikara, traduzione di Lafra, revisione di feminoska.
Avete dato una possibilità a persone, spesso considerate asessuate o al contrario ipersessuali – comunque sempre posizionate in un luogo quasi inverosimile rispetto alla sessualità – di vedersi rappresentate e di essere protagoniste. State introducendo una questione importante, quella della sessualità nelle persone diversamente abili, attraverso alleanze non sempre così evidenti come quelle con la sessualità non normativa, la critica alla grassofobia, la dissidenza sessuale e il genere. Antonio, come nasce questo progetto dal nome così arrapante?
Il  titolo è una parodia dello slogan della campagna di Obama “Yes, We  can”. Volevamo usare un linguaggio esplicito e un tono divertente, ci sembrava un modo particolarmente appropriato di gettare le basi per un documentario sulla sessualità e la diversabilità. Siamo partiti alla fine del 2012 con l’idea di fare qualcosa che contribuisse a cambiare l’immaginario collettivo sulle persone diversamente abili, rendendo visibile la loro condizione di esseri sessuali e  sessuati, mostrando i loro corpi come desiderabili e desideranti.
Immagine tratta da Yes we fuck! (con censura per facebook)
Immagine tratta da Yes we fuck! (con censura per facebook)
Avete collaborato non solo con collettivi di attivismo critico, ma anche con gruppi che fanno postporno, come Post-Op, o con progetti femministi che rivendicano, per esempio, l’eiaculazione femminile. Come sono andate queste alleanze?
Si sono rivelate esperienze inaspettate, e al tempo stesso ricche ed emozionanti. Andrea García-Santesmases, collaboratora di Yes, We  Fuck!, si è messa in contatto con Diana Pornoterrorista, che ha inserito nel libro Pornoterrorismo un capitolo sulle e sui “diversamente abili” e ci ha condotto da Post-Op, che si è offerto di realizzare un workshop di postporno e diversabilità che costituisce la prima storia del documentario. Ha rappresentato una sorta di  inaugurazione, dato che in questo incontro si è confermato quello che avevamo già intuito rispetto ai discorsi dei diversi collettivi: che condividevamo la stessa lotta per il diritto alla differenza e contro l’idea di normalità. A partire da questa esperienza, che si è rinsaldata con il workshop di eiaculazione femminile, Yes, We Fuck! si è costituito come spazio di incontro e alleanza tra differenti attivismi che fanno politica sul corpo. Mi piacerebbe evidenziare che questa visione sul vincolo tra il crip e il queer, con il quale si è arricchito moltissimo il documentario, è stata possibile solo grazie al lavoro di Andrea García-Santesmases, che oltre a realizzare i due workshop (oltre al tema della diversità intellettuale) è stato colei che ci ha costantemente orientati nella linea ideologica che avrebbe potuto renderlo possibile.

Cosa vi ha portato a privilegiare la forma del documentario invece di creare una associazione o un progetto sociale?
Non avevamo l’intenzione di essere particolarmente pedagogic@, quanto piuttosto quella di scuotere l’immaginario collettivo riguardo la sessualità e la diversabilità, e nulla risulta così potente come l’immagine esplicita. Nella nostra cultura, ciò che non si vede difficilmente si immagina.
Ripetiamo  spesso che il linguaggio è uno strumento per pensare, però come è possibile che non si conosca il termine “abilismo” allo stesso modo di altri termini quali razzismo, xenofobia, sessismo o classismo? Per chiarire, l'”abilismo” è la convinzione che alcune capacità siano intrinsecamente migliori, e che chi le possiede sia migliore del resto delle persone.
Questa assenza nel linguaggio è il segno inequivocabile di quanto questa forma d’oppressione basata sulla differenza corporea sia stata naturalizzata, per giustificare la disuguaglianza sociale che ci colpisce da tempo immemore. Siamo forse l’ultima roccaforte nella quale continua a sembrare naturale che la biologia giustifichi la disuguaglianza sociale, al contrario di quello che succede con le questioni di genere o di razza.
Sappiamo che avete all’attivo anche un crowdfunding, che cosa sperate di ottenere?
L’idea del crowdfunding è  di poter finanziare la produzione e la diffusione del documentario senza dover ricorrere a una casa di produzione classica, che quasi certamente significherebbe la perdita di un certo margine di libertà per esprimere le questioni più spinose. Una volta terminato il documentario e passata la fase di diffusione nei festival, in televisione, su internet e gli altri media, abbiamo intenzione di mantenere il sito, nel quale sia possibile continuare con la visibilizzazione dei temi relativi alle sessualità diversamente abili attraverso video amatoriali, fotografie, articoli, notizie…
Il vostro progetto vuole stimolare modi nuovi di intendere la sessualità fuori dai confini eteronormativi,  che includono –  tra le varie riflessioni emancipatorie e chiaramente generatrici di autodeterminazione – il godimento con le protesi, la degenitalizzazione e la ricerca di nuove forme di raggiungimento del piacere. Come viene accolto il vostro lavoro da parte dei movimenti di persone diversamente abili più generalisti? State incontrando resistenze?
Fino ad ora il progetto ha avuto più diffusione negli ambienti affini, come il Movimiento de Vida Independiente (Movimento per la Vita Indipendente) e altri spazi di attivismo, e li è sempre stato ben accolto. Rimane da scoprire come verrà accolto su terreni più tradizionali e di carattere maggiormente istituzionale.  Ad ogni modo, se andrà bene, ipotizziamo che entusiasmerà molt*, irriterà diverse persone e non lascerà indifferente quasi nessuno.
 Puoi saperne di più su ‘Yes, we fuck!’ visitando il sito, il canale Vimeo e appoggiando il crowdfunding.

Prima froci, ora anche vegan: Satana è fra noi?

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Articolo originariamente apparso su Liberazioni e Antispecismo, ripubblicato per gentil concessione di Grazia Didio.

La pubblicazione in Italia del Manifesto Queer Vegan di Rasmus Rahbek Simonsen rappresenta, credo, un piccolo sforzo utile ad avviare riflessioni con ripercussioni sia teoriche che a livello di attivismo politico. Ma l’aspetto più sintomatico del fatto che Simonsen qualche cosa di significativo l’abbia effettivamente detto è rappresentato, paradossalmente, da una recensione firmata da tale Lupo Glori, alias Rodolfo De Mattei (un vero anti-identitario!), pubblicata di recente su un sito di ispirazione cattolica tradizionalista, diretto nientepopodimeno che da un ex vice-Presidente del CNR, Roberto De Mattei.

Lupo Glori sembra sinceramente spaventato dalla pubblicazione di questo librettino rosa. In effetti, l’”ideologia del gender” è già abbastanza destabilizzante di per sè per chi parla di famiglia “naturale”; l’antispecismo è già di per sè una “delirante visione”, “finalizzata a mettere sullo stesso piano gli uomini e le bestie” (sic). Figuriamoci se provano a dialogare fra loro…

“Cosa hanno in comune la teoria queer e l’animalismo vegano”? chiede Lupo. Molto semplice rispondere: sono entrambi fumo negli occhi per l’ortodossia cattolica. Ma se fosse solo questo non sarebbe molto interessante accostare le due parole, queer e vegan, in un saggio, come fa Simonsen. Per fortuna, qualche idea in più su cosa abbiano in comune questi due termini, Simonsen sembra averla.

De Mattei mostra di aver compreso bene quali siano questi elementi sottolineati dall’autore del Manifesto. Veganismo e femminismo queer condividono un’“orgogliosa rivendicazione della devianza, intesa come comportamento antisociale e antinormativo”, una critica radicale all’identitarismo, una “resistenza metaforica e materiale all’ordine sociale dominante”. Entrambi attaccano le istanze essenzializzanti condensate nell’idea di “contronatura”, un’idea non a caso applicata sia all’omosessualità che al veganismo. Entrambi sono oggetti di pratiche di discriminazione (De Mattei denuncia – pardon, cita – l’omofobia e la vegefobia).

Insomma, Satana è fra noi… vegetariano e frocio. Un vero finocchio.

E non poteva certo lasciare indifferente un giornale diretto da un vice-Presidente del CNR contestato perchè ha detto che il terremoto in Giappone è stato un segno della bontà di Dio o che la caduta dell’Impero Romano è stata causata dagli omosessuali.

A dare retta a gente come Simonsen, dice Glori, non si sa dove si va a finire. Si comincia con la dissoluzione della famiglia tradizionale, per arrivare alla morte della società e della specie umana, passando per un’allegra orgia interspecifica. Eh sì, perchè alla fine della sua invettiva, il Nostro evoca lo spettro della zoorastia: umani che sodomizzano animali e – orrore ancor più grande – animali che sodomizzano umani. In effetti, su un sito di De Mattei (Roberto…) l’allarme era già stato lanciato da tempo: i rapporti sessuali con animali dilagano ed è “davvero sorprendente la faccia tosta degli animalisti che anziché sdegnarsi per il fatto in sé rivendicano ancora una volta i pseudo diritti degli animali e ne denunciano la violazione”.

Insomma, Glori-De Mattei-Lupo-Rodolfo è davvero terrorizzato. Anche se, a leggere la sua fedele descrizione degli spunti di Simonsen, il suo appassionato riassunto dei temi più originali del libro, la sua padronanza delle tesi più ardite di Lee Edelman, sembra quasi che ne sia affascinato. Forse, questo “queer vegan” sotto sotto attrae anche gente insospettabile…

 

Grazia Didio