Deconstructing le gender contraddizioni

contradictionOh, finalmente anche le grandi menti prendono posizione nei confronti della fuffa. Che l’ideologia gender sia una fuffa inventata da chi teme di perdere potere, e da questi ben orchestrata lo si sa ed è stato ben dimostrato, e ci siamo divertiti anche noi spesso a farlo capire. Però è bene ricordare che ci sono giovani e valenti studiosi impegnati nel lodevole tentativo di farla esistere comunque, perché è uno spauracchio che serve alla loro, questa sì, ideologia: quella della “vita”, quella cattolica, quella della natura, insomma quella intollerante, per capirci. Questa intolleranza, per ammantarsi del ruolo di difesa eroica, quando non di vittima che resiste, deve demonizzare il suo avversario, e tratteggiarlo in maniera insieme netta ma opaca, forte ma vaga, con pochi princìpi ma tutti sbagliati. L’ideologia gender in sé non viene mai definita, non vengono citati articoli o libri, e ci mancherebbe: non esiste. Vengono solo ben nominate le sue supposte teorie, i suoi fantasiosi assunti – peccato che nessuno li abbia stabiliti se non quelli che se la sono inventata. Cioè i suoi detrattori, come questo genio qui.

Le tre contraddizioni dell’ideologia gender [oh, finalmente uno preciso: sono tre le contraddizioni di una teoria che non esiste, né più né meno]

L’ideologia gender non esisterebbe. Sarebbero tutte menzogne. Tutto terrorismo psicologico. Tutte paure messe in giro da fanatici ed incompetenti [no, i fanatici incompetenti sono quelli come te che pensano che esista: quelli che dicono che non esiste davvero, ma che è un’invenzione di fanatici incompetenti, sono fior di studiosi e studiose]. La replica più frequente a coloro che osano discutere taluni innovativi “progetti educativi” – conformemente a collaudate prassi totalitarie [le prassi totalitarie sono vietate dalle legge, e infatti non c’è stato nessun caso di persone arrestate perché predicherebbero l’ideologia gender, dato che non esiste], che riconducono qualsivoglia critica alla patologia – si sostanzia in un invito al ricovero ospedaliero [non è vero, a me e a tanti basta che stai zitto e che accetti o di non capirci niente o di essere in malafede. Non credo che tu sia matto, ma ipocrita – o venduto. Scegli pure tu, in piena autonomia]. Se si è tuttavia abbastanza forti da sopportare quest’allergia al dissenso [che eroe], risulta in realtà semplice non solo individuare il nucleo ideologico della teoria gender, ma anche le insanabili contraddizioni che la paralizzano. Per quanto riguarda il primo aspetto – il riconoscimento dell’ideologia – è sufficiente osservare come il tentativo di combattere le discriminazioni anzitutto di matrice sessista conduca sempre più spesso al voluto equivoco secondo cui, per contrastare le diseguaglianze fra uomo e donna, occorrerebbe negare alla radice le differenze fra i sessi [chi l’ha detto? Mai letto in nessun testo seriamente femminista o queer, nessuno nega le differenze tra i sessi – e notate come il nostro campione d’ignoranza inconsapevole o di calcolata ipocrisia passi dalla parola “sesso” alla parola “genere” come se fossero sinonimi – e senza dire che rapporto c’è tra loro]. Differenze che quindi, nella misura in cui fossero anche solo oggetto di semplici studio ed osservazione [lo sono storicamente proprio per i femminismi più diversi, che le studiano come il pensiero generalmente maschilista non s’è mai sognato di fare], diverrebbero potenziali alibi per trattamenti iniqui [quali? Non si sa. Come le prassi totalitarie più sopra, un nome minaccioso e altisonante che non vuole dire niente].

Si spiegano così meraviglie come la svedese Egalia, scuola materna di Stoccolma dove già anni or sono si è pianificata l’abolizione dei sessi [EH? Ma stai fuori? L’abolizione dei sessi? Questa è la loro pagina in inglese, e con Google potrete trovare molto materiale. Non c’è nessuna abolizione di niente in quella scuola, a parte dei pregiudizi tipo i tuoi] coniando persino un pronome neutro, «hen», in luogo dei vetusti – e verosimilmente ritenuti sessisti [non sono ritenuti sessisti, sono solo dei pronomi. Semplicemente, connotano qualcosa che dovrebbe essere consapevolmente scelto, cioè il genere e non il sesso. L’abolizione dei sessi è una frase senza senso, vorrebbe dire che lì evirano i bambini o cose del genere] – «hon» e «han», e prescrivendo per i piccoli il dovere di chiamarsi fra loro «amici», bandendo parole come “bambino” o “bambina”, termini da consegnare al passato insieme alla differenze sessuali [no, quelle scelte linguistiche servono a preservarli per una scelta consapevole, e per non inquadrare i/le bambini/e in ruoli stereotipati che non hanno scelto. E’ un tentativo di insegnare una libertà, per consegnare loro un migliore senso si sé, per non dargliene uno preconfezionato dai luoghi comuni sociali]. Per quanto possa apparire sorprendente e prima che in una panoramica che pure sarebbe agevole fra autori che teorizzano quanto la scuola materna di Stoccolma ha poi messo in pratica, l”inesistente” ideologia gender è tutta qui: nell’ostinata negazione delle difformità attitudinali fra i sessi [NON E’ VERO, è per questo che si chiamano STUDI DI GENERE (GENDER STUDIES), dato che sono approcci diversi e non ideologie rigide; basterebbe leggersi la bibliografia citata da Wikipedia per capirlo], da presentare al mondo come vergognose diseguaglianze di genere [ma de che], laddove il genere – qui sta un passaggio fondamentale – non include la mera possibilità d’essere uomini e donne [e invece sì, alla faccia tua, basterebbe leggere]; non solo. Una liberazione compiuta dall’oppressione impone infatti anche il superamento della prospettiva binaria maschile e femminile attraverso la forgiatura di un’identità sessuale fluida, definita solamente da una individuale e sempre riformabile percezione di sé [mescolando in allegria cose mal capite e mal riportate della teoria queer].

Al di là di comprensibili perplessità [se esponi le cose a cacchio in questo modo, e certo che ci sono, le perplessità], questa prospettiva si scontra – lo dicevamo poc’anzi – con molteplici contraddizioni. La principali sono essenzialmente tre. La prima concerne la logica definitoria che il concetto di genere vorrebbe oltrepassare e nella quale, in verità, continuamente ricade. Risulta infatti poco sensato da un lato respingere come limitante la distinzione fra maschi e femmine e poi, dall’altro, accettare che per esempio ci si debba riconoscere in una delle 70 differenti opzioni di genere che Facebook mette a disposizione dei propri utenti [il problema che non vuoi accettare è che non è una logica definitoria, ma una libertà da scoprire. Se non la vuoi sono problemi tuoi, non cercare di argomentare le contraddizioni altrui invece dei tuoi limiti di comprensione]. E se un soggetto si percepisse simultaneamente come appartenente a più generi o avvertisse come proprio un genere non contemplato da alcuna classificazione [ma se è questa la situazione alla quale i gender studies vogliono rispondere!]? Con quali argomenti, se non ricorrendo all’imposizione [ma CHI la pretende questa imposizione, chi? Ce lo dici?], si potrebbe chiedergli di definirsi? Occorre decidersi: o il genere è davvero libero, oppure è solo una volgare parodia di quella distinzione sessuale che si vorrebbe superare. Il problema è che, accettando coerentemente di non poter definire il genere, non solo si archivia il concetto di sesso [solo per i cervelli come il tuo che non possono o non vogliono accettare che genere e sesso non sono la stessa cosa] ma si pensiona anche quello d’identità [EH? E che c’entra adesso l’identità?]. Parlare di identità di genere [cosa che non hai argomentato, che salta fuori adesso come se niente fosse] rivela così tutta la sua insostenibile portata ossimorica [bei paroloni, ma per ora s’è solo vista la portata ossimorica della tua ignoranza, che pretende di formulare agli studi di genere domande sbagliate, formulate con lessici inesatti e sostenute da convinzioni erronee. Di ossimorica c’è solo la tua pretesa di averci capito qualcosa].

Una seconda contraddizione dell’ideologia gender emerge in quello che pretende di denunciare, ossia l’ingerenza ambientale nella genesi della propria identità [formulato male, ma almeno s’è vagamente capito]. Se finora è esistita una più o meno netta distinzione fra maschile e femminile [notate come cambiano i termini a seconda della convenienza: adesso sono spariti sesso e genere, adesso ci sono il maschile e il femminile: che sono, spiriti? Concetti? Idee platoniche? Eau de toilette?] – sostiene la prospettiva gender – ciò non è avvenuto in ragione di una natura maschile o femminile, che sarebbe inesistente [mai detto da nessuna gender theory, ovviamente], bensì a causa di una data cultura [no, non è affatto così. Gli studi di genere – è importante dire che sono molti e non solo la prospettiva – studiano i significati socio-culturali della sessualità e dell’identità di genere, non la natura dei sessi – quello lo fa la biologia, forse]. D’accordo, ma se le cose stanno così [e invece non stanno così], se è l’ambiente il responsabile di come ci siamo finora percepiti [no, non è così banale, devi definire bene l’ambiente, se no finiamo a parlare di scie chimiche], com’è possibile non sospettare che sia sempre l’ambiente – e precisamente la cultura occidentale nel 2014 veicolata da università, parlamenti e redazioni, il famoso “Pensiero Unico” – la vera origine della teoria gender? [Certo, è lo stesso metodo per cui la voglia di stuprare la mette la minigonna, vero? Sempre il solito giochetto di scambiare gli effetti con le cause, vero? Anche di queste frittate abbiamo già parlato.] Sulla base di quali elementi, anche senza necessariamente tornare al concetto di natura umana, possiamo con certezza affermare che le imposizioni culturali che si vogliono far uscire dalla porta non rientrino poi dalla finestra con la pedagogia gender [non so, io ho la vaga idea che se evito di dire ai bambini che potranno fare tutto nella vita ma alle bambine che possono solo fare le infermiere, le maestre, le mamme, certa merda non rientrerà dalla finestra]? Chi e come può garantire totale liberazione da coercizioni esterne [non è quello che si ripromettono i gender studies, chi te lo ha detto? E soprattutto, che cacchio vuol dire garantire totale liberazione da coercizioni esterne? Che è, ‘na scuola zen?]? Anche qui dunque urge intendersi: o le influenze esterne sono sempre negative oppure, se lo sono solo alcune, stiamo ragionando in termini etici; se è così diciamolo, evitando di sbandierare una neutralità di facciata [e quando facciamo meno gli ipocriti ed evitiamo di porre tutte le questione come “o bianco o nero”, per non ammettere di non aver capito tutte le altre sfumature di colore? Costa l’umiltà, eh?].

L’ultima, vertiginosa [in sottofondo, mi raccomando, l’ossessionante musica di Bernard Hermann] contraddizione della prospettiva gender, strettamente collegata alla precedente, riguarda il metodo scelto per la nuova educazione contro qualsivoglia discriminazione: un metodo inevitabilmente a base di cultura, conferenze, libri, incontri nelle scuole [e che vuoi farci, per la telepatia di massa la RAI ci nega i permessi. Rendetevi conto di che critica sta facendo questo tizio]. Un metodo oggi così promosso ma che domani – questo, in fondo, si augurano gli artefici della nuova educazione – sarà la stessa famiglia, o quel che ne resterà, a mettere in pratica organizzando insegnamenti [le famiglie? Organizzando insegnamenti? Ma che roba ti cali? Ma dove hai mai letto che gli studi di genere prospettano un futuro di famiglie indottrinanti? Quello è il cattolicesimo, casomai] che impediscano ai giovani di credere che esistano fondamentali, notevoli ed anche arricchenti differenze fra uomo e donna [di nuovo, ‘sta panzana non si trova in nessun testo che si occupa di questioni di genere]. Ma in questo modo si soffocherà il fondamentale principio della libertà educativa [attenzione, stiamo assistendo al rivoltamento di frittata #2: adesso i gender studies sono quelli che vanno contro la libertà educativa, certo, come no, lo dicono sempre], andando tragicamente a concretizzare, fra l’altro, quanto lo psichiatra Wilhelm Reich (1897–1957) [ma sì, tiriamo fuori la citazione e facciamo vedere che un nome grosso lo sappiamo], nel suo Psicologia di massa del fascismo [sappiamo pure er titolo, tiè], scriveva della famiglia come realtà organica all’autoritarismo, definendola «la sua fabbrica strutturale ed ideologica» [una bella citazione «che non c’entra un cazzo ma che piace ai giovani» (cit.), tanto per unire confusamente gender studies e fascismo, inventandosi un legame inesistente, tanto per fare paura]. Cosa che non era e soprattutto non è affatto, considerando la dichiarata ed odierna diffidenza di molte famiglie verso la cultura di genere [e te credo, se se la fanno spiegare da te], ma che purtroppo potrebbe diventare, dando quasi un secolo dopo fondamento ai timori di Reich e a quelli dei non entusiasti di una nuova era gender [complimenti per la sintassi, è lo specchio della chiarezza d’idee che l’ha prodotta].

Non so dire se le contraddizioni dell’ideologia gender sono tre, perché non esiste. Ma quelle dell’ignoranza e della malafede, uh!, non si contano.