La mia esperienza di femminista in un partito politico

politicadi Beatriz Gimeno.

Articolo originale qui, traduzione di Sabrina Zanardini, revisione di La Pantafika e feminoska, segnalazione dell’articolo di  Jo!

É successo a tutte, ci succede sempre e, alcune volte, tutte abbiamo desiderato che non ci succedesse piú. Ci sono volte che ci piacerebbe non portare questi occhiali ultravioletti che ci obbligano a vedere tutto alla luce del femminismo. Questi occhiali ci rendono piú coscienti, piú sagge, ci permettono di vedere alcuni aspetti della vita, e del mondo, che in generale risultano invisibili a molte persone, peró al tempo stesso ci obbligano a vedere anche quando vogliamo riposare, riposare dal vedere, riposare dal sapere. Essere permanentemente coscienti é sfiancante, e in politica é anche peggio, perché se c’é un ambito in cui è imprescindibile introdurre il femminismo, questo é, chiaramente, quello della politica.

Quando ero giovane davo per scontato che donne e uomini fossero uguali. Di piú, credevo veramente che fossimo uguali. In fin dei conti non credevo ci fosse nessun problema dovuto all’essere donna. Questo mi ha permesso di fare politica direi quasi con allegria e una certa incoscienza. Ho militato in vari partiti politici e associazioni e sono stati tempi molto felici. Io ero una di quelle che si identificava molto di piú con gli uomini che con le donne. I miei compagni di allora erano compagni di militanza, ed erano anche compagni di vita, molti erano amici, alcuni sono stati fidanzati o amanti. E tutto andava bene. Poi un giorno mi sono messa questi maledetti-  e benedetti – occhiali e tutto é cambiato per sempre. Una volta che una sa, non puó scegliere di non sapere.

Da quel momento in avanti, non mi sono piú sentita a mio agio in quasi nessun partito, sindacato o associazione. I compagni (e le compagne molte volte) giá non sono piú amici o compagni di vita. Molte volte tra di noi alza una barriera che ci impedisce di comunicare, camminare nella stessa direzione. Non mi diverto piú. É doloroso percepire questa barriera, é sfiancante dedicare il tempo e le energie a fare in modo di renderla permeabile, a far si che la visione del mondo che ho, un punto di vista femminista, sia incorporata in qualsiasi attivitá politica.

La cosa peggiore di tutte, la piú invisibile, la più appiccicosa, la più inquinante, ciò che ti si attacca alla pelle come una rete soffocante, contro cui é difficile lottare, è l’androcentrismo; quello che noi femministe, e temo solo noi percepiamo chiaramente, tanto chiaramente che sembriamo dotate di un allarme interno, un allarme che non smette di suonare per un solo secondo, che peró sentiamo solo noi.

Invece per chi non è femminista, per chi non è abituat@ a a indagare, questo androcentrismo é lo stato naturale delle cose. Questo sguardo maschile che non si interroga, che mette l’uomo al centro e a misura di tutte le cose, é devastante per le femministe in politica. Ë la ragione per la quale in qualunque partito politico è piú importante, ad esempio, una legge di repressione politica o di cittadinanza, che una di repressione del corpo; o che difendiamo con molta piú forza la scuola pubblica (sì, lo so che é fondamentale) degli asili pubblici. O che, per andare avanti con gli esempi, nel corso di discussioni fondamentali come quella sul reddito garantito universale o la riforma fiscale, non si spende un minuto a pensare alle conseguenze non volute di questioni quali le pari opportunitá che potrebbero includere alcune di queste misure, se non si tiene in considerazione il principio di uguaglianza sin dall’inizio.

Le politiche pensate, decise o applicate dai partiti non considerano mai che uomini e donne non hanno lo stesso posto nel mondo e che o si tiene in considerazione questo, o qualunque politica venga proposta e applicata sará ingiusta, quando non sfoci direttamente nella disuguaglianza palese.

E allora lo dici. Lo dici continuamente, ogni volta che si pretende di andare avanti a spiegare il mondo a partire da questo sguardo; ogni volta che le questioni che a noi – che siamo la metá del mondo –  importano, sono sottovalutate o posticipate per altre questioni che sono anch’esse importanti, peró non piú importanti. E percepisci subito che hai smesso i panni della donna combattiva per indossare quelli della femminista noiosa; noti che la gente si distrae quando prendi la parola, e ti rendi conto che le risposte sono sempre di due tipi: quelle che ti danno ragione per passare rapidamente a un altro tema e quelle che te la negano perché, a seconda del tema trattato, da femministe ci siamo convertite in femminiliste e perché sei arrivata al limite in cui ti riescono a sopportare.

Alla fine taci. Non solo taci, é anche possibile che arrivi a provare vergogna; e che ti vergogni nonostante la situazione sia sempre la stessa, da millenni. O puó essere che decidi di andartene, che smetti di andare alle riunioni. La pressione del gruppo che ti fa sentire insopportabile é… insopportabile. Io alla fine finisco sempre con l’andarmene.

Discussioni, presentazioni, liste, interviste, foto… da qualunque parte ci devono essere donne. Non si puó fare niente in politica se non ci sono donne, finalmente! Siamo riuscite a mettere le donne quasi in tutti i posti. Adesso chissá che cominciamo a riflettere su che tipo di donne devono esserci, perché abbiamo imparato che la paritá ha un lato perverso che presto o tardi, dovremo affrontare. Per cominciare, é tipico che gli uomini, quelli che parlano, che si vedono nelle foto, che comandano, sono sempre gli stessi, noi, invece, siamo sempre diverse. Noi veniamo sostituite. Cosí loro continuano a essere i padroni, acquistano maggior potere nell’organizzazione, si fanno conoscere, si fanno una carriera. Noi, invece, sembriamo essere messe lí un tanto al kilo. “Deve esserci una donna, trovane una tra la multitudine dei bianchi, o dei verdi, o dei rossi ..” (questo l’ho sentito con le mie orecchie).

La seconda questione é quella che chiamo “donne pretesto”: giá che bisogna mettere una donna, si fa in modo piú o meno velato che le donne proposte non siano femministe. Scegliere donne non femministe é garanzia di sottomissione di queste a chi le ha promosse, per questo viene assegnato loro il posto; e questo garantisce anche che queste “donne pretesto” siano la testa d’ariete da scagliare contro le femministe all’interno dell’organizzazione. L’ho vissuto sulla mia pelle. Le donne non femministe, che occupano incarichi importanti proprio perché non femministe, fanno tutto il possibile affinché le donne femministe non riescano a conseguire un potere reale dentro l’organizzazione poiché ció costituirebbe una minaccia al proprio potere, sempre delegato e precario. Cosí alla fine, ci facciamo la guerra tra di noi, e quegli altri ne escono indenni. É un meccanismo perverso, peró funziona come un orologio.

Ci sono altre questioni difficili all’interno di un partito. L’autorganizzazione é uno di questi. Credo che non si dovrebbe mai rinunciare a spazi propi senza che questo escluda, ci mancherebbe, la partecipazione in spazi misti e la trasversalitá del femminismo in tutte le questioni. Ma é imprescindibile discutere tra di noi le proposte che vogliamo escano fuori e anche di come costituirci in un polo di influenza. In generale questo continua a nutrire forti resistenze che si esplicitano giá a partire dall’uso di un linguaggio suppostamente profemminista: “un altro ghetto?” , “non volete stare in tutto il partito?”. Ció che fa paura é che ci riuniamo, discutiamo, organizziamo e da lí, pensiamo come ricavarci uno spazio di influenza o, almeno, metá dello stesso. Potere politico per cambiare le cose. É la tradizionale paura maschile che noi donne formiamo alleanze tra di noi invece che allearci con loro. La possibilitá che esista un gruppo di donne influenti é quasi sempre vista con sospetto e si tenta di ritardare il piú possibile la sua costituzione ( mentre, si noti come si costituiscono con sorprendente facilitá gruppi di migranti, di persone con disabilitá o LGTB, per fare alcuni esempi).

Così , dopo aver confuso e svuotato di contenuti e potere il gruppo (nessun diritto di veto sui temi fondamentali o esclusivi che competono alle donne) ció che si ottiene é che le femministe si stanchino e se ne vadano. Poiché mentre l’autoritá femminista é permanentemente negata, indebolita e messa in discussione, quella di coloro i quali la mettono in discussione non lo é mai. Mettere in discussione il femminismo non paga pegno in un partito peró ad essere femminista lo si paga tutto il tempo.

E infine, sui contenuti: le idee che, come femministe, vogliamo difendere. Certamente i partiti di sinistra tollerano molto di piú un certo tipo di femminismo che un altro. Di piú, uno lo sostengono mentre l’altro lo ostracizzano: sostenere il primo é un modo, per nulla dissimulato, di combattere il secondo. Ciò significa che i partiti non sono mai neutrali davanti a distinti femminismi. Diciamo che i partiti che reputano che qualcosa di femminista debba essere incluso, preferiscono un femminismo che pretende di rinominare o dotare di nuovi significati i ruoli di sempre; che ci riesca o meno questa é un’altra questione. Questo tipo risulta molto meno minaccioso per loro, sicuramente perché la capacitá di rinominare a partire dall’essere impotente non esiste. La mia esperienza dimostra che in uno spazio di sinistra gli uomini mai si opporranno a difendere la regolamentazione della prostituzione, l’ ampliamento dei diritti delle madri, lo stipendio delle casalinghe o i diritti di quelle impegnate nei ruoli di cura. Peró verranno sollevati problemi se esigiamo una ripartizione reale e immediata del potere, delle risorse materiali, se esigiamo metá della visibilitá, della voce e della capacitá per lasciare il segno nel discorso generalista o per vietarlo.

Poiché la paritá reale é un osso duro da rodere; poiché una cosa é che ti paghino come casalinga (non ci prendiamo in giro, gli uomini non vogliono essere casalinghi) e altra, e ben distinta, che gli si tolga il posto dove sono sempre stati e dove vogliono continuare a restare: che si metta in discussione il potere reale. Poiché la paritá reale non significa altra cosa che dove ci sono 2 uomini adesso ce ne deve essere uno, e questo significa la metá di tutto. E poiché la capacitá di determinare ció che é importante e ció che non lo é tocca niente meno che l’androcentrismo sopra cui é tutto costruito, dalla cultura fino alla soggettivitá. Se si sfida l’androcentrismo, si sfida ció che si intende per realtá, si destabilizza tutto.

Quando si dice che del femminismo beneficiano anche gli uomini, io mi permetto di metterlo in dubbio in linea generale. É possibile che a lungo termine una situazione di maggior uguaglianza risulti benefica per tutti, puó essere che ci siano uomini per i quali la giustizia risulti un imperativo etico inderogabile, peró a breve termine il femminismo sopprime privilegi maschili; e nessuno rinuncia con facilitá ai propri privilegi. Se i vantaggi fossero evidenti per tutti e tutte, giá avremmo smontato il patriarcato. E dato che tutti i partiti politici sono l’ambito privilegiato della spartizione del potere e dell’influenza risultano al tempo stesso il luogo dove la lotta femminista, se c’é, deve essere a muso duro.

Poi arrivano le elezioni e tutt@ diventano femminist@. Tutti i partiti rivendicano il proprio essere femministi e senti compagni di militanza – che ti hanno reso la vita impossibile – dichiararsi femministi, senza nessun ritegno. Si programmano conferenze e incontri dove le stesse donne che sono servite per svuotare di femminismo il gruppo pontificano sul femminismo, di cui adesso si dichiarano attiviste. Adesso tutti si portano liste di rivendicazioni femministe da leggere quando ne hanno occasione. É l’effetto elettorale peró è sicuro che io, a questo punto, di solito mi tengo alla larga da tutto questo.

La maternità nella società capitalistica è lo schiavismo del 21° secolo

snowwhiteIl titolo del post è uscito un po’ allarmista, ma mi spiegherò meglio e mi capirete alla perfezione. Ho appena visto un video realizzato da un’azienda che produce biglietti d’auguri. Nel filmato un uomo d’affari offre un lavoro. I colloqui con le/i potenziali candidat@ si svolgono via skype. L’uomo comincia a descrivere il lavoro: bisogna essere reperibili 365 giorni l’anno, notti incluse. Disponibilità assoluta e altre amenità. La situazione si mette male quando spiega che non è prevista alcuna paga, la gente protesta e pensa si tratti di uno scherzo.

Allora il nostro amico ci comunica che il posto è già occupato da migliaia di persone in tutto il mondo: si tratta delle madri.

http://www.youtube.com/watch?v=ZD8yfyaeaxM

Mi sono messa a piangere quando alla fine il gruppo di persone ringrazia la propria mamma e vengono presentati alcuni di questi biglietti di auguri del tipo “per la migliore mamma del mondo.” Problema risolto ragazzi, eh? Tua madre ha lavorato come una schiava per anni senza ricevere nessuno stipendio, e la soluzione del problema è acquistare un merdoso biglietto per la festa della mamma.

Nelle società matriarcali come i Moso in Cina, o matrifocali, come i Minangkabau in Indonesia, le madri hanno una serie di privilegi che almeno non le lasciano completamente indifese, come avviene nel sistema patriarcale capitalista nel quale viviamo. Ad esempio, tra i Minangkabau le donne sono quelle che posseggono la terra, le madri e le/i figli@ sono quelli che hanno case e terreni fertili, di modo che una donna non si troverà mai sola, senza casa e senza un soldo con due bambin@ a carico come avviene qui, nel nostro popolo in-civile, giorno dopo giorno. Che ad ascoltare i telegiornali viene voglia di urlare.

I Moso semplicemente non hanno un’istituzione matrimoniale e si risparmiano i relativi sacrifici. I rapporti sessuali sono liberi e le/i figli@ fanno parte della famiglia della madre. Gli uomini assumono il ruolo di padri delle/i bambin@ delle sorelle. Se vi interessa l’argomento, potete visitare il mio archivio, dove ho pubblicato alcuni testi al riguardo e vi sono state più di due discussioni sulla questione. L’ultima di queste a Vienna, tra l’altro, in un discorso sul matriarcato queer che evidentemente non ho saputo affrontare, visto che mi sono saltat@ alla giugulare. La prossima settimana torno in Austria per un workshop e spero di risolvere il pasticcio.

La mia amata Alicia Murillo dice che la gente nelle proprie discussioni non ha problemi ad esigere un salario per i lavori domestici, ma far pagare le prestazioni sessuali è più complicato. Penso che il problema risieda nell’enorme tabù che la società ha con la prostituzione, e la questione ha a che fare con tutto quello di cui stiamo parlando. Mi spiego:

La ‘signora’ si sveglia alle 7 del mattino (al più tardi) dopo una notte intensa, i bambini si sono svegliati 5 volte, tanto che, tra biberon e latte, questa persona ha a malapena chiuso occhio. Fa un pompino al suo ‘signor’ marito, perché vada al lavoro contento, poi prepara la colazione per tutta la famiglia e le attività che seguono già le sappiamo: pulizie, spesa, medico, figli@, cucinare, lavare. Siamo tutt@ d’accordo che questa ‘signora’ lavora come una schiava e non è giusto che l’unico a lavorare “legalmente” qui sia l’uomo, che lavora otto ore scarse e poi corre a casa sul divano.

Va ancora peggio quando lei lavora anche fuori casa, perché allora fa un doppio lavoro e la situazione è già disperata. Questa è la realtà di milioni di donne da queste parti, in questa rabbiosa e frustrante attualità.

E siamo ancora lontan@, o forse non così tanto, dalla possibilità che questa persona ottenga uno stipendio per il lavoro che fa, e che si prenda in considerazione che tutto questo lavoro fisico eccessivo possa ottenere una compensazione economica in un mondo capitalistico. Questo o cambiamo mondo. E quel pompino o aprire le gambe senza desiderio alla fine di una giornata interminabile, anche questo è lavoro. Sono cure, così come sono cure le attenzioni dedicate ai bambini, cucinare, fare lavatrici, pulire la casa, alzarsi alle due, alle tre e alle cinque del mattino per rispondere al pianto di un bambino malato.

Basta perdio! Con tutto quello che si è detto del crowdfunding su Verkami del libro Maternidades Subversivas, l’attenzione si è concentrata sui parti e sugli allattamenti orgasmici, credo perché sono temi vistosi e mediatici. Ecco, una puttana che gode a partorire, se non è vero che il vizio non conosce limiti… Le donne in questa società non si comportano così, partoriscono, puliscono e crescono le/i figli@ col dolore e il sudore della fronte. Ovviamente, senza stipendio. Si chiama schiavitù. Spero che il libro venga pubblicato e che si dicano un paio di cose ben dette, con l’aiuto di un sacco di persone potenti e di tutti voi.

PS: Vi regalo il link a un bell’articolo sull’origine della festa della mamma e le parole sagge in merito a questo articolo di Rosario Hernández Catalán:
“Il figlicidio e il matricidio informano, purtroppo, la storia. Sicché la femminista Julia Ward convocò un’alleanza di madri contro la guerra, perché la guerra è il più grande figlicidio (uccisione delle/i giovani, delle/i figli@) e il più grande matricidio (sterminio dell’opera materna). La guerra è progettata dal Patrix, la gerontocrazia (il governo dei vecchi) patriarcale. E pensate a come è significativo che la fanteria,il corpo ammortizzatore di un esercito, si chiami così, dal termine infanti (giovani, ragazzi). La grande Victoria Sau nel suo Dizionario Ideologico Femminista, alla voce “guerra” vi illuminerà su questo tema.”

Articolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di Serbilla Serpente e Elena Zucchini (grazie!)

Una donna registra il proprio aborto per mostrare alle altre che la procedura è sicura

http://www.youtube.com/watch?v=OxPUKV-WlKw

Emily Letts è una 25enne, ex attrice professionista e attualmente consulente presso la New Jersey Women’s Clinic. Dopo aver scoperto la propria gravidanza indesiderata, ha deciso di registrare il suo aborto per mostrare alle altre donne che la procedura è sicura. Letts lavorava al Cherry Hill Women’s Center da un anno, al momento della scoperta. Ha raccontato la sua storia in un articolo di Cosmopolitan, spiegando di non sentirsi pronta a diventare genitore e di non essere impegnata in una relazione seria:
“Sentivo di non essere pronta a prendermi cura di un bambino”.

Letts ha dunque deciso di interrompere la gravidanza presso la clinica Cherry Hill, dove è consulente. Incinta da sole due o tre settimane, aveva cercato un video per rendersi conto di come avvenisse un aborto, senza trovarne nessuno. Perciò ha preso la decisione di filmare il proprio, allo scopo di aiutare tutte le altre donne che si trovino ad affrontare gravidanze indesiderate e che temono l’aborto.

Scrive Letts: “un’interruzione di gravidanza al primo trimestre dura dai tre ai cinque minuti. E’ più sicura del parto, non vengono praticati tagli operatori e il rischio di infertilità si attesta sotto all’1%. Ciononostante molte donne arrivano in clinica terrorizzate e convinte di venire macellate, e che non potranno più avere figli@ dopo l’aborto. La pessima informazione circolante è incredibile”.

Ha scelto l’aborto chirurgico in anestesia locale e non totale, proprio perché voleva sperimentare il tipo di procedura che più spaventa le donne che si rivolgono a lei per consigli. Voleva in tal modo capire meglio le donne angosciate che si trova di fronte e che deve aiutare, non far sentire le donne in colpa nello scegliere l’aborto ed anzi, essere loro d’esempio a non sentirsi in colpa riguardo alla decisione di interrompere la gravidanza.

“La nostra società alimenta questo senso di colpa, lo respiriamo dappertutto. Anche le donne che arrivano in clinica assolutamente convinte di volere l’aborto, si sentono in colpa per il fatto di non sentirsi in colpa! “Io non mi sono sentita in colpa…  e ringrazio di poter condividere la mia storia e ispirare altre donne per smontare quel senso di colpa.”

Su YouTube, Letts scrive:

Questa è la mia storia. SOLO la mia storia. Non immagino sia più o meno di questo. Non parlo per tutt@ in merito a questa questione delicata, e rispetto le opinioni di tutt@ fintantoché non vengono imposte per altr@.

La mia più grande speranza è che qualcun@, in qualche parte del mondo, veda il video e vi trovi guida, forza, supporto, o qualsiasi cosa quella persona stia cercando in quel momento. Voglio dire a quella persona “non sei sola”. Abortire non ti rende un mostro, una donna  per male, una cattiva madre.  Abortire non ti rende una colpevole. E’ soltanto un avvenimento della tua vita riproduttiva. Non sei sola. Sono qui per te. Siamo tutt@ qui per te.

Condividete questo video, PER FAVORE.  Aiutatemi a farlo girare in tutti gli angoli remoti della rete. Una donna ogni tre ha scelto, o sceglierà un ‘interruzione di gravidanza nel corso della propria vita riproduttiva. Questo video è per tutte noi.

Inutile sottolineare come i commenti negativi al video dei ‘difensori della vita’ si sprechino in parole di tolleranza quali, puttana, cagna, demone, speriamo che tu muoia/ti leghino le tube/ ti penta per tutta la vita/non abbia mai figli@, ecc.ecc.

Articolo originale qui, traduzione di feminoska.

Tsipras e la politica dei selfie

WHAT_IS_THIS_BULLSHIT_by_okchickadeeNoia, noia totale. (cit. Frantic)

In una realtà nella quale si fatica ad esprimere un pensiero compiuto in più di 150 caratteri  – e in cui ogni occasione è buona per finirla in una caciara inutile, dove cane mangia cane – la diarrea verbale e gli schieramenti monolitici delle ultime ore causati dal selfie di tal Paola Bacchiddu meritano qualche riga di commento.

Dico ‘tal’ perchè, prima di questo ‘cataclisma’, della protagonista della vicenda io non conoscevo nemmeno il nome: sarà che non seguo da tempo la politica istituzionale, che al sentire la parola ‘lista’ subito mi sale una irrefrenabile nausea, che la democrazia rappresentativa è per me un fossile del passato che dovrebbe trovare degna sepoltura nel dimenticatoio degli esperimenti falliti,  e che in definitiva privilegio altre modalità di far politica, che non passino dal delegare a sconosciuti una rappresentanza farlocca… fatto sta che nel mio mondo rotondo Bacchiddu contava meno di un paramecio.

Nelle ultime ore ho dovuto fare ammenda di questa mia terribile mancanza, approfondendo la conoscenza di lei medesima: prima del suo lato b, poi del suo ruolo ‘istituzionale’, infine delle intenzioni recondite celate nel suo criptico gesto – di sovversione comunicativa o di conformismo comunicativo, a seconda delle campane. Sopitosi l’interesse mediatico mainstream,  della durata di un battito di ciglia, è a livello della politica di base femminista che la bomba sganciata non ha ancora perso in virulenza, anzi.

Ma che noia però! Davvero ci stiamo lambiccando sulla foto di un culo? A me non importa un fico secco di arrivare ad una verità condivisa che determini inequivocabilmente se il culo mostrato sia eteronormato/normativo o se strizzi le chiappe al sessismo patriarcale. Certo, se mi si domandasse in merito alla foto posso dire che non è esattamente un’immagine sovversiva, o che il messaggio in 150 parole allegato poteva perlomeno sforzarsi di piegarla ad altri significati – magari non dichiaratamente sovversivi, ci si sarebbe accontentat@ di un pò di ironia/problematizzazione – ma così non è stato; questa è però soltanto una mia opinione personale su di un argomento che ritengo poco interessante, considerato per di più che tanta parte della comunicazione online si basa sulle ambiguità, sui non detti, e via discorrendo… chi ha pubblicato la foto, quei meccanismi che tirano un colpo al cerchio e uno alla botte li conosce bene. E’ chiaro che, volendo,  questo culo autoreferenziale si presta a scrivere interi trattati: de culibus non disputandum est, dei delitti e dei culi, psicopatologia dei culi quotidiani, ecc… ma è ciò che vogliamo?

La politica dei selfie (ah, en passant, questa mania di ritrarsi in ogni posa, se umanamente è vagamente egotistico,  politicamente è davvero penoso!) dimostra invece, se ce ne fosse ancora bisogno, che l’unico gesto sensato ancora non portato a compimento sarebbe l’astensione in massa dalle urne. Vorrei, con queste poche righe, invitare le femministe, tutte, a ritrovare la lucidità: non sarà questo culo a fare la rivoluzione, a prescindere dai suoi buoni – o meno – propositi, perché come sosteneva Audre Lorde, “Non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone”. Ma intendiamoci, attrezzo del padrone è la politica istituzionale, non il culo in questione: quello lascia il tempo che trova, e a breve non ne resterà traccia. 

 

 

L’importanza dell’aborto, tra diritto negato e strumentalizzazioni

ph Unknown
ph Unknown

Chi legge questo blog probabilmente già è al corrente del fatto che per promuovere il proprio libro Mario Adinolfi ha fondato, nel nome della mamma, dei circoli. Uno scritto e dei circoli contrari ai diritti umani, nello specifico contrari al diritto a un aborto in sicurezza, contrari al diritto a non subire discriminazioni in base al proprio orientamento sessuale e alla propria identità di genere, e contrari al diritto di poter morire senza subire accanimento terapeutico.
Le stesse idee misogine, omofobe e autoritarie espresse negli anni passati da Giuliano Ferrara, dalle destre (e pseudosinistre) più o meno organizzate in partiti, movimenti e associazioni, assieme a fanatici religiosi di ogni credo e credenza. In difesa di una presunta “famiglia naturale”. “Famiglia” significa “comunità umana” e, in quanto tale, non può essere “naturale”, con lo stesso significato che diamo all’aggettivo “naturale” quando lo usiamo per descrivere le piante; ormai non esiste neanche più il “paesaggio naturale”, dato che anche ciò che appare come frutto della natura è, in qualche modo, stato oggetto di modificazione da parte dell’essere umano; anche un prato è un paesaggio antropizzato. Il concetto stesso di paesaggio o di pianta è antropico, culturale. La famiglia è, unicamente, culturale. Essa assume forme diverse a seconda del momento storico, in base al quale può fondarsi su valori del tutto estranei alla contemporaneità di chi scrive. Siamo ai fondamentali del ragionamento attorno all’essere umano.

Purtroppo queste persone hanno già segnato punti a loro favore nel momento in cui ci occupiamo delle loro uscite populiste, della loro bassezza umana e pochezza culturale. In più, spararla grossa per creare scompiglio, è una tecnica di imbarbarimento del dibattito, in questi casi il dibattito non esiste nemmeno, siamo ben oltre.

Siamo oltre se una ragazza di diciannove anni se ne sta seduta nella sala di attesa del padiglione di Ostetricia e Ginecologia dell’ospedale San Martino di Genova, le è stato dato il farmaco per indurre l’aborto. Lei non lo sa ma il medico è obiettore, le infermiere non si interessano al suo caso e per le prossime ore sarà invisibile. A fine giornata dovrà chiamare la polizia per ottenere l’assistenza medica che le spetta di diritto dal Servizio Sanitario Nazionale.

Siamo oltre se una ragazza di venti anni, incinta di circa sette mesi, va ad abortire in una struttura non accreditata dal Servizio Sanitario Nazionale. Lei forse non lo sa ma per la legge è infanticidio (o lo sapeva ma ha voluto rischiare lo stesso, perché se vuoi abortire lo fai e basta, a rischio della vita e della pena prevista dalla legge). Durante i prossimi mesi la sua vita sarà sotto il microscopio, verrà condanna a una pena detentiva, assieme ai complici, il medico e l’infermiere che le hanno interrotto la gravidanza, a chi ha occultato il fatto.

Due storie tra le tante. Mettiamo in discussione il Servizio Sanitario Nazionale, a cosa serve se non fornisce alcun servizio? Se quello che fornisce non è omogeneo sul territorio? Se è afflitto dalla piaga dei nullafacenti – come chiamare altrimenti una persona che percepisce uno stipendio ma non svolge le mansioni per cui è stata assunta? Qual è l’etica del Servizio Sanitario Nazionale? La strada intrapresa è quella di una sanità privata? Allora perché un ginecologo e un infermiere che “privatamente” hanno “aiutato” una donna in difficoltà devono subire una pena? Quale coscienza hanno tutte le persone che lavorano nella sanità? Qual è il compito di un medico? E di un@ infermier@? Che ce ne dobbiamo fare della Legge 194? Siete convinti che la vita si difenda obiettando? Siete convinti che gli aborti si riducano lasciando le donne in una corsia d’ospedale ad aspettare per ore un controllo? Di che cosa parlano queste persone? Dove vivono?
Il medico che si è rifiutato di seguire la ragazza a Genova è stato denunciato, ma la catena di responsabilità non sembra essere chiara.

La scelta di interrompere una gravidanza è oggetto di messa in discussione costante, un fatto scottante, più importante della mancanza di lavoro, della difficoltà ad avere relazioni di valore, della malattia, più importante della morte stessa di quella parte di umanità che chiamiamo donne.

Abortire è un peccato che non si può perdonare, ci fanno intendere. L’aborto “è sempre un dolore”, l’aborto “è una scelta difficile”, per altri l’aborto “è una scelta facile”, l’aborto “non può essere banalizzato”, l’aborto “deve essere regolamentato”, per fare un aborto “bisogna essere coscienti di ciò che si sta facendo”, per fare un aborto bisogna avere “una motivazione valida”, l’aborto è “la negazione della vita”. Ma un aborto è solo un aborto, cosa vi spinge a pensare che sia qualcosa di così importante e speciale, per voi che non lo state facendo? Credete che l’umanità finirà perché alcune donne abortiscono? Credete che i feti abortiti rimpiangano di non essere nati? Credete che le donne che abortiscono non siano vita?
Un aborto ha sempre un significato, per chi lo fa, ma non è detto che sia quello che vi immaginate. E, quale che sia quel significato, l’unica cosa importante è che si tratta di una pratica medica, che deve svolgersi in sicurezza perché, se per voi la vita è davvero importante, allora l’obbiettivo è ridurre il rischio che una donna entri in ospedale con i propri piedi e ne esca in una bara.

Parlare di aborto dovrebbe essere come parlare di colecisti. Come tutti gli interventi, dall’asportazione delle tonsille alla colecisti, prevede un rischio e quindi andrebbe evitato, ma se una persona si trova in ospedale è perché evidentemente è giunta al punto di dover effettuare l’intervento, da lì merita un’assistenza continua, rispetto e comprensione, esattamente come tutt@ gli/le altr@ degenti.

Non ci sono “mamme” come categoria a parte alle quali appellarsi. Le donne sono singole persone, alcune sono anche madri, alcune sono anche lesbiche, alcune sono anche trans.

Aborto. Una storia di scarsa importanza

La metropolitana era affollata come al solito. Alessandra raggiunse uno spazio rimasto miracolosamente vuoto tra una porta e un tubolare, vi si sistemò stringendo a sé la borsa con la biancheria e la copia della cartella clinica. Il day hospital era andato bene, non avvertiva nessun dolore particolare, era solo un po’ stanca. Si chiuse nei propri pensieri, girava attorno all’idea del prossimo viaggio all’estero, doveva scaricare la cartina della metro da quel sito così utile. Si sentì toccare un braccio.
Un ragazzino sui tredici anni, riccioluto e già afflitto dall’acne, le stava cedendo il posto, chiamandola “signora”, probabilmente costretto da sua madre, la donna che gli sedeva accanto e le faceva cenno di sì con il capo.
Ogni volta che qualcuno la chiamava signora si sentiva in imbarazzo. Quanti anni di differenza potremmo avere io e te ciccio? Sgusciò tra i passeggeri e si sedette ringraziando sia madre che figlio annoiato. E’ troppo grande d’età per sedersi sulle cosce di mamma e troppo giovane per darsi un contegno, pensò.

“Viene dall’ospedale?” le chiese la donna. “Ho abortito” disse Alessandra mentre si sedeva. La donna annuì sorridendo. “Anche io l’ho fatto un paio di volte, una prima di lui e una dopo. Abbiamo voluto solo questo” disse indicando il figlio.
“Avevo preso la pillola ma è andato storto qualcosa.”
“Purtroppo a volte succede, l’importante è che ora stia bene. ”
“Sì si, sono solo stanca, ma è andato tutto bene.”
“Mio marito ha fatto una vasectomia, non voleva che dovessi subire altri interventi, la chiusura delle tube è più complessa come procedura.”
“Me l’hanno detto.”

Due fermate più tardi la donna e il ragazzino scesero salutandola, la metro si stava svuotando rapidamente. Alessandra abitava quasi al capolinea.

Ognun@ ha la sua opinione?

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Chi non ha sentito almeno una volta la frase: ‘Ognun@ ha la sua opinione’? Probabilmente è successo a chiunque.

È la frase favorita da discriminator@, oppressor@ e stronz@ di ogni risma per giustificare le proprie attività di rinforzo dell’idea dominante. Come anarchic@, antirazzist@, femminist@, persone lgbtqia, antispecist@ ci troviamo costantemente a fronteggiare atti di sopraffazione e violenza verbale liquidati con questa locuzione.

Come sbarazzersene definitivamente, purtroppo, non lo so. Ma decostruire i pensieri che sono alla base di questa mossa retorica è sicuramente il primo passo.

Libertà di parola per molt@ significa il diritto a dire la propria cazzata senza prendersene la responsabilità, e chiunque critichi questo concetto è un “fascista”, un “illiberale” e via dicendo: come se “libertà”, fosse libertà di opprimere. L’idea per cui occorre tollerare l’espressione di chiunque, perché ognun@ ha diritto a esprimersi è meravigliosa in teoria, ma terrificante nella pratica: l’effetto che produce è tollerare chiunque e qualunque cosa, comprese le tendenze reazionarie che di fatto impediscono di cambiare le cose e mantengono lo status quo. La chiave sta nel concetto di responsabilità, poiché il numero di coloro che si sperticano a difesa della libertà di parola – e non solo – e che sono poi dispost@, nell’eventualità, ad accogliere reazioni negative e addirittura a prendere atto di aver sbagliato, è così ridicolmente basso da sfiorare l’inesistenza. Ciò che si desidera, dunque, non è la libertà di parola, ma la libertà della propria parola.

Perciò accade, spesso, che chi si ritrova a ricoprire un ruolo subaltern@ è disciplinat@ assai severamente, molto più della controparte; e questa severità proviene proprio da coloro che per sé stess@ sventolano il vessillo della democrazia, della tolleranza, della libertà d’opinione e di parola, della neutralità, dell’imparzialità, dell’equidistanza. Tutte finzioni che hanno decisamente poco di libertario, propugnate da soggett@ che, pur affermando di rifuggire gli estremismi, finiscono per incarnarne uno: il fascismo.

Pur non essendo esplicitamente fascista, il paradosso democratico risiede nel fatto che per non negare sé stessa la democrazia deve tollerare, suo malgrado, chi finirà per distruggere la sua esistenza, e con lei chiunque tenti di criticare chi, nei fatti, la distruggerà. Questo è quanto mi basta per affermare, con orgoglio, che democratico non lo sono e non lo sarò mai.

Un’opinione, in realtà, non è mai un’opinione e soprattutto non è mai soltanto un’opinione. Opinione è quando dico che il gelato al pistacchio non mi fa impazzire, cosa contro cui sarebbe difficile e stupido argomentare; quando invece, fuori dai confini delle preferenze personali, parlo di ciò che mi circonda, le mie affermazioni non possono essere per nulla apolitiche, equidistanti, o neutrali,  ma situate e indubbiamente di parte.  Se un’affermazione è irrispettosa, dannosa e pericolosa, nessuna legge dell’universo conosciuto impone che vada preservata soltanto in quanto opinione: ognun@ ha il sacrosanto diritto di sputarci sopra. Se la cosa vi spaventa, ciò riguarda voi e il vostro segreto timore che il vostro privilegio e la vostra parzialità, di cui forse neanche voi siete a conoscenza, venga allo scoperto. Non il vostro interlocutore o interlocutrice.

Perciò: no, non avete diritto alla vostra opinione.

Deconstructing una certa idea di maschio etero

real-doll-02Scusate se in questo caso non mi applicherò su un testo preciso, ma su un aspetto credo non secondario di una recente vicenda di media, generi, televisione e sessismo.
Premessa importante: non ho una opinione su Belen Rodriguez in quanto donna, perché non la conosco e non ho avuto occasione di ascoltare o leggere nulla che la riguardi o la esprima personalmente in qualche suo ambito privato; inoltre, so benissimo che il fatto che lei presenti un programma non significa certo che quello è un ‘suo’ programma – ci sono autori, produttori, e altri. Ne parlo come personaggio televisivo: come tale, è solo la mia opinione, lei definisce l’immagine di se stessa in una maniera penosa (“Fisicamente non ho difetti” è una lapide più che una frase), ed è difficile immaginare che davvero qualcun@ possa fare una tale confusione tra personaggio televisivo e vita reale – ma tant’è, c’è poco da fare. Questa sua “versatilità” per il facile mercato dei media è stata anche ribadita nella coincidenza, rimarcata ovunque nel mainstream, tra la presentazione del suo libro fotografico e il compleanno del figlio.

Immagino quindi che la notizia dell’esistenza del programma televisivo “Come mi vorrei”, sul canale Italia1, vi sia già nota; forse però non sapete che si presenta al pubblico con queste parole inquietanti:

Vi è mai capitato di vivere un momento della vostra vita in cui volevate cambiare TUTTO, dalla pettinatura al modo di fare? Ricominciare da capo si può! Un nuovo programma di make over non solo estetico: Belen Rodriguez consiglia il protagonista di puntata su come piacersi di più e risolvere problemi relazionali con fidanzati, parenti o colleghi di lavoro. Hai tra i 18 e i 26 anni e hai bisogno di aiuto per migliorare te stessa e cambiare il tuo look? Partecipa a COME MI VORREI!

Parole che già basterebbero da sole per farsi un’idea e formulare un giudizio, ma se volete proprio continuare a farvi del male qui ci sono un riassunto e poi un altro riassunto di due puntate.

Le critiche non sono mancate: televisivamente la conduttrice è apparsa inadeguata se non impreparata; e poi giustamente c’è chi rifiuta una rapprensentazione di questo tipo dei rapporti tra generi, e lo dice apertamente. E indubbiamente, come dice Zanardo, questo ottimo segno di presa di coscienza è sempre più diffuso e quantitativamente rilevante – perché la banale risposta “basta cambiare canale” non serve per quelle migliaia di persone che invece non lo cambiano, e che rappresenteranno prima o poi un problema per quell@ che invece cambiano canale o non hanno la televisione. Altrettanto indiscutibile appare il fatto che un tale tipo di programmi è destinato a vivere poco (anche prima che funzionino le petizioni) perché è fatto davvero troppo male.
Tutto giusto e adeguato, in toto o in parte, ma credo ci sia ancora una cosa da dire, che da qualcuno è stata accennata, ma non nei toni più adatti.

Questo programma televisivo produce non solo una immagine precisa di cosa e come una giovane donna “normale” dovrebbe essere secondo i canoni della moda e della vita sociale più comuni e diffusi – cioè secondo un’ignobile accozzaglia di pregiudizi, sessismi, volgarità, adeguamenti alla moda commerciale più triviale, ignoranze multiple. Dice anche qualcosa di ben preciso – per forza di cose, senza farlo espressamente –  su cosa dovrebbe essere un uomo eterosessuale “normale”; e dice sostanzialmente che un uomo eterosessuale “normale” cerca solamente una donna capace di compiacerlo.

Secondo questo programma televisivo, io (maschio eterosessuale) desidero una donna addestrata a obbedire, ad adeguarsi ai miei gusti, a non sollevare obiezioni né tantomeno a esprimere idee o concetti per me ignoti o incomprensibili. Il tutto presentandosi agghindata e truccata secondo uno standard pornocommerciale più o meno assimilabile alla categoria “secretary xxx” (cercate su Google, togliete i filtri e buon viaggio). Vengo scambiato, letteralmente, per una testa di cazzo: uno che ragiona col glande – e un glande anche molto insicuro, parecchio ignorante e poco fantasioso.

Ecco, questo è il motivo per cui la sola esistenza di un programma così dovrebbe far scattare nella maggioranza degli uomini eterosessuali indignazione e rabbia, a prescindere da quello che viene espresso come idee e convinzioni riguardo le donne; perché è evidente che queste assurde idee e convinzioni riguardo l’uomo eterosessuale medio sono cose molto diffuse, eh.

(Per esempio: qui in Italia Belen Rodriguez e il suo team di produttori e autori dà per scontato che il mio gusto e il mio pisello possano e debbano essere adeguatamente compiaciuti da una specie di “Barbie ufficio” semovente e disponibile, meanwhile altrove un festival di musica classica pensa bene di farsi pubblicità creativa mettendo giovani mangagirls a ballare ammiccanti una musica di Dvorak. Così, per dire, un esempio a caso.)

Questo tipo di comunicazione, che in questo momento è felicemente rappresentata dal programma condotto da Belen Rodriguez – ma è stato e sarà ancora per un pezzo rappresentato da tante altre produzioni – mi sta dicendo che il desiderio sessuale maschile standardizzato e appiattito sul modello “lobotomizzata in lingerie” è il più normale e regolare, e che sarebbe il caso che le donne che non si sentono adeguate vengano normate a tale livello, perché l’origine dei loro problemi personali e sociali è tutto lì. E mi dice inoltre che tutto questo mi dovrebbe stare bene, ne dovrei essere soddisfatto e beato.

Cosa ha ridotto milioni di uomini eterosessuali (i numeri sono questi) a pensarla così?
A farsi ritrarre in questo modo ridicolo?
A permettere che il proprio desiderio, la propria immaginazione sessuale siano questa miseria?
A costringere la conoscenza di una donna ad avere la forma di un colloquio di lavoro?
A trovare sicurezza nell’adeguarsi a un modello preconfezionato?
A far manovrare il proprio sesso da mode, tendenze e luoghi comuni?
E’ sempre e solo un problema mio, questo?

Un elenco semiserio di ragioni per cui potresti essere bisessuale

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Se hai dovuto fare coming out più di una volta con la stessa persona, potresti essere bisessuale.

Se il tuo orientamento sessuale è quanto basta agli altri per poter dare per scontata la tua promiscuità, potresti essere bisessuale.

Se la tua reazione alla quantità assolutamente scarsa di attenzione che riceve la comunità trans dalle organizzazioni “lgbt” mainstream è disgusto… seguito da gelosia perché tu non hai nemmeno quella, potresti essere bisessuale. Se invece la tua reazione è disgusto e rabbia perché si prende in considerazione soltanto metà della tua identità, potresti essere bisessuale. E trans.

Se media, attivisti e via dicendo pensano che la migliore maniera di categorizzare l’arcobaleno sia di nominare tutte le parti di esso meno la tua, potresti essere bisessuale.

Se la locuzione “gay, lesbiche, trans” alle tue orecchie arriva come “gay di sicuro, lesbiche forse, trans solo formalmente… e io non esisto” potresti essere bisessuale.

Se ogni volta che presenti un/a nuovo/a partner agli amici devi ripetere che la tua sessualità è sempre quella di prima, potresti essere bisessuale.

Se chiunque pensa di poter definire la tua sessualità meglio di te, potresti essere bisessuale.

Se sei sottoposto/a all’accusa di essere velato/a nonostante tu faccia una quantità spropositata di coming out al giorno o addirittura nonostante tu sia attivista, potresti essere bisessuale.

Se il tuo superpotere è l’invisibilità ed è così potente da estendersi ad ogni eventuale rappresentazione artistica e mediatica della tua comunità, potresti essere bisessuale.

Se hai perso più amici gay e lesbiche che etero quando ti sei dichiarato/a, potresti essere bisessuale.

Se tu non sei gay o lesbica ma il/la tua partner sì, potresti essere bisessuale.

Se qualcuno pensa che il tuo orientamento sessuale vada di moda – la discriminazione è trendy? – potresti essere bisessuale.

Se fai volontariato per la tua comunità e gli altri ti ringraziano per essere un alleato/a (invece che parte integrante della comunità), potresti essere bisessuale.

Se ti cascano le braccia ogni volta che un attivista gay si lamenta della lunghezza della sigla LGBTQIA (perché tanto la sua appartenenza ad essa non è mai stata messa in dubbio), potresti essere bisessuale.

Se la tua identità è stata considerata “una fase” da qualcuno che quando hai fatto coming out era ancora uno zigote, potresti essere bisessuale.

Se sei una figura storica, letteraria, politica, sociale estremamente famosa e ultradichiarata e tuttavia gli altri continuano lo stesso a usare la definizione sbagliata, potresti essere bisessuale.

Se sei la persona più monogama del globo terracqueo eppure chiunque ti vede come potenziale cornificatrice, potresti essere bisessuale.

Se sei poliamoroso/a e non hai voglia di definire il tuo orientamento sessuale per non correre il rischio di confermare uno stereotipo, potresti essere bisessuale.

Se ti identifichi come gay o lesbica per non dover dare spiegazioni in giro, potresti essere bisessuale.

Se sei perverso/a e polimorfo/a, potresti essere bisessuale.

Se non ti senti a tuo agio né nella comunità gay né in quella etero, potresti essere bisessuale.

Se gli altri ti vedono come “metà qualcosa” e “metà qualcos’altro” ma tu ti senti tutto/a intero/a, potresti decisamente essere bisessuale.

Donne e violenza

Leggendo questo titolo, molte persone avranno pensato alla violenza contro le donne, che è tanta. Tuttavia voglio riferirmi alla violenza che  queste esercitano o, meglio, a quella che potrebbero esercitare in propria difesa, una violenza quasi inesistente, sia organizzata in gruppi, sia esercitata in modo individuale. La domanda che mi faccio sempre è: Perché le donne raramente usano la violenza contro un sistema patriarcale che è così violento contro di loro?

autodefensa

Assistiamo continuamente a scene di violenza contro le donne: reale e romanzata. Abbiamo visto video o immagini di fustigazione, lapidazione, abusi fisici e abbiamo visto le donne camminare per le strade di alcuni paesi sotto un burka. Ogni pochi giorni, in questo paese, una donna viene uccisa da un uomo, e spesso vediamo donne reali con ematomi reali. Vediamo anche molte immagini romanzate di stupro, pestaggi e omicidi, in film o telefilm. Nella nostra cultura globale il maltrattamento delle donne è molto comune ed è assolutamente diffuso. La violenza contro le donne non è sorprendente, conviviamo con essa, è un’immagine quotidiana e reale; ci accompagna costantemente. E nonostante ciò, questa campagna mi ha colpito, mi ha scosso, mi ha fatto male:

E mi ha fatto pensare, ancora una volta, a una domanda che mi sono fatta molto spesso: Perché le donne non si sono mai organizzate con la violenza per difendersi dalla violenza perpetrata continuamente contro di loro? E perché non si difendono con la violenza da coloro che le maltrattano? Perché ci sono così pochi omicidi per legittima difesa? Sì, sappiamo che noi donne siamo educate a non esercitare la violenza fisica e che, storicamente, non siamo state parte di eserciti o istituzioni che fanno uso della forza; che da bambine non giochiamo giochi che implicano violenza, che siamo educate per curare e sopportare, per non rispondere alla violenza con la violenza, ma con lacrime e preghiere. Tutto questo implica un grande freno fisico e psicologico alla possibilità di usare la violenza in alcune circostanze ma, tuttavia, sono numerose le occasioni in cui le donne hanno superato questa barriera.

Le donne imbracciano spesso le armi; le donne partecipano e hanno sempre partecipato a sommosse, guerre o rivoluzioni. Le donne oggi sono militari, terroriste o guerrigliere; mettono bombe, dirottano aerei, fanno parte con naturalezza dell’esercito. Meno degli uomini, certo, perché i ruoli di genere  mettono loro dalla parte della guerra e non noi, ma anche così, questa barriera non è mai stata impenetrabile. Le donne hanno preso le armi per difendere le proprie famiglie, i propri paesi, le proprie divinità o le proprie idee. Le donne muoiono e uccidono lottando contro il capitalismo, contro un’invasione, contro il colonialismo, il razzismo, la povertà, contro il comunismo o contro l’influenza straniera. E tuttavia, non hanno mai preso le armi per difendere sé stesse dal patriarcato. Le donne muoiono e uccidono, ma mai per sé stesse; e nel caso, contro il patriarcato, uccidono sé stesse, si suicidano. Perché? Perché questa idea suona completamente folle? Mi riferisco ai patriarcati più barbari, mi riferisco all’obbligo di nascondersi sotto un burka, al divieto di uscire di casa, ai matrimoni forzati, alle lapidazioni, agli stupri, al divieto di studiare … E mi riferisco in particolare a quando queste circostanze sono “nuove”, cioè quando si verificano dopo periodi di patriarcati “normalizzati”; il caso dell’Afghanistan è il più noto, ma non è l’unico. La domanda che mi faccio sempre è: perché donne che hanno studiato all’università, che hanno sposato qualcuno per amore, che sono state imprenditore o lavoratore, che hanno viaggiato e camminato per la strada normalmente, non si sono organizzate in gruppo armato prima dell’arrivo dei talebani? Perché per noi è molto più facile optare per il suicidio, che per l’aggressione ad altri, anche in circostanze come quelle menzionate? E anche conoscendo le risposte che spesso vengono date a questa domanda, a me non basta; riconosco le barriere, i freni psicologici, ma… Mai? Nemmeno in questi casi?

Se ci riferiamo alla possibilità di esercitare la violenza individuale per rispondere alla violenza individuale, mi assalgono gli stessi dubbi. Recentemente ho discusso con qualcun@ sul fatto che il patriarcato si sia instaurato a causa della maggiore forza fisica degli uomini. Sebbene qualsiasi sistema di dominio usi la forza come strumento, questa non è indispensabile. Il nucleo del potere consolidato è sempre simbolico e infiltra la costruzione personale; altrimenti la resistenza si manifesterebbe immediatamente. Per esempio, esistono – e sono esistiti già in passato – gruppi umani in cui il potere è detenuto dagli anziani, che sono fisicamente i più deboli. Inoltre l’intelligenza, l’organizzazione o le armi possono ben sostituire la forza fisica. La forza fisica non è fondamentale quando si può afferrare un’arma, e vi sono paesi in cui le armi sono a disposizione di uomini e donne.

La forza deriva sempre da un potere simbolico, e questo stesso potere  serve anche per privare altr@ del potere. Nel caso del patriarcato, la  forza fisica fa riferimento al potere simbolico di genere che dipinge  tutti gli uomini come assai più forti fisicamente di tutte le donne,  anche se questo non corrisponde al vero in molti casi specifici o non  deve essere sempre così. E questo potere simbolico dà loro una forza  reale, del potere, mentre allo stesso tempo indebolisce le donne e le  lascia immerse in un’impotenza fisica e psicologica assoluta.

Per  combattere la violenza maschile, come femministe, intendiamo usare la  forza, simbolica e reale, della legge. E’ vero che se la legge  condannasse e perseguitasse questa violenza, se si utilizzassero le  risorse per l’educazione contro di essa, se la condanna sociale fosse  totale, lentamente faremmo passi avanti. Tuttavia, nel caso del dominio  patriarcale, la legge è solo uno strumento, ma non è l’unico, perché per  quanto si condanni e punisca la violenza contro le donne, se lasciamo  intatto il sistema di dominazione simbolica, la violenza esisterà sempre, anche  se punita e condannata. Questo sistema è perversamente perfetto e  mentre punisce da un lato, incoraggia la violenza simbolica dall’altro.  Mentre legifera a favore della parità, si approvano o  semplicemente si incoraggiano comportamenti, abitudini,  rappresentazioni, leggi o istituzioni chiaramente ineguali.

Quindi la lotta contro la violenza di genere passa attraverso le leggi, passa attraverso l’educazione alla parità, ma passa anche attraverso qualcosa di molto più complicato, quale è l’aspetto simbolico, culturale. Nell’ambito culturale, il potere di autodeterminazione delle donne deve esprimersi anche sul piano fisico, perché le ragazze sono educate alla convinzione che tutti gli uomini sono più forti di loro e che, di fronte ad un’aggressione, possono ricoprire esclusivamente il ruolo di vittime. Tutti i giochi femminili, l’esercizio fisico che (non) fanno, l’abbigliamento, le scarpe, i movimenti, il linguaggio del corpo e persino il vocabolario che usiamo, tutto va nella direzione di togliere forza fisica alle donne. I ragazzi, però, non vengono educati nel timore dei ragazzi forti, ma nella coscienza dell’uguaglianza. Anche le donne possono anche essere forti, ma soprattutto, possono essere, sentirsi, fisicamente alla pari. Il punto non è promuovere l’uso della forza, ma non sentire barriere, blocchi, paure o sentimenti di impotenza di fronte ad altr@ presenze corporee e anche riguardo al proprio stesso corpo.

In questo senso vorrei raccontarvi qualcosa del mio rapporto speciale con la forza fisica. Siccome ho sofferto di poliomielite alle gambe, la mia famiglia decise che sarebbe stato molto importante rafforzare il resto del mio corpo per compensare. Mi hanno fatto fare ginnastica da quando avevo tre o quattro anni. Ho fatto ginnastica per rafforzare il corpo in generale, in particolare i muscoli delle braccia, tutti i giorni della mia infanzia e adolescenza. Ogni pomeriggio dopo la scuola ho trascorso due ore con un’allenatora facendo le parallele, l’arrampicata con la corda, gli addominali e il sollevamento pesi. A causa di ciò, ero una bambina molto forte, insolitamente forte rispetto a come sono le bambine di solito, e anche i bambini. In realtà, ero la personcina più forte nella mia classe, cosa che mi ha fatto avere un diverso rapporto con il corpo rispetto rispetto a quello che di solito hanno le bambine.

Se si doveva salire su di un albero, scalare una parete o trasportare qualcosa chiamavano me.

Se giocavamo a qualche gioco in cui la forza era importante, tutti mi volevano in squadra. I bambini a volte si picchiano, spingono, hanno relazioni mediate dal contatto fisico senza che ciò debba finire in combattimento. Queste relazioni sono state per me una forma di espressione naturale e tutto ciò ha avuto conseguenze, ha determinato il mio inserimento nel gruppo dei bambini, e non delle bambine. Non si faceva nel mio caso il confronto per capire se ero più forte o più debole degli altri, di pochi, o della media. Ero una in più. La cosa importante non era la forza concretamente misurabile, ma l’uso che facevo del mio corpo, della mia forza fisica, quella che fosse; la sensazione era di essere uguale agli altri bambini.

Gli uomini che picchiano le donne non lo fanno perché sono più forti e sicuri di vincere la lotta. Le picchiano perché sanno che in ogni caso la vittima non si ribellerà. Ricordiamo che la violenza del partner maschile in una coppia è un’escalation in cui tutto comincia con un insulto o uno schiaffo a cui lei non risponde mai. Che sia chiaro che non intendo affatto banalizzare il problema della violenza maschile, e non sto suggerendo che la risposta ad essa sia di restituire i colpi. Ma credo che molti degli uomini che picchiano le proprie mogli non siano particolarmente forti, né coraggiosi, e non colpirebbero nessuna se immaginassero che questa qualcuna è capace di resistere. Picchiano una donna perché sanno di poterlo fare, perché è completamente impotente, anche fisicamente.

Conosco bene i meccanismi psicologici che portano molte di queste donne a non lasciare i propri aguzzini, a non denunciarli, a non combatterli; so quello che ci fa ‘l’amore romantico’, la dipendenza affettiva e materiale, ecc. Comprendo che parliamo di un sistema naturalizzato che si rende invisibile, che si manifesta nel simbolico, nello psicologico, nell’autocostruzione personale, che spesso non percepiamo in quanto sistema di oppressione; si manifesta in tanti piccoli atti quotidiani contro cui è difficile ribellarsi, che coinvolgono la famiglia, le persone care, i figli e le figlie. Comprendo che la repressione che viene agita contro le donne che rispondono agli attacchi è stata storicamente terribile, e ancora oggi è orrenda in molte parti del mondo. E il femminismo fa molto per combattere tutto questo. Voglio solo dire che, come parte della nostra lotta femminista, dobbiamo imparare a posizionarci nel mondo con una corporeità autodeterminata, forte, coraggiosa e consapevole; che ciò contribuirà – contribuirà solamente – a cambiare alcune cose. E comunque, torno alla domanda iniziale.

Al di là della violenza machista in particolare, per quale ragione le donne mai, mai si sono organizzate e hanno preso le armi per difendersi, almeno in situazioni straordinarie? Questa domanda mi passa continuamente per la testa senza che io riesca a trovare una risposta – Mai?

(Articolo originale qui. Traduzione di feminoska, revisione di Serbilla Serpente.)

Deconstructing se si preferisce un cane a un bambino

baby-loves-dogLeggo questo articolo, uno dei tanti – di cosiddetti ‘esperti’ – che affollano le pagine di giornali on line, noti e meno noti. Di solito ignoro tali ‘perle’, ma in questo particolare pezzo ho visto tanti e tali di quei concetti e preconcetti contro i quali combatto, che ho sentito necessario scriverne un deconstructing ‘à la Gasparrini’! Buona lettura!

I bambini rappresentano un argomento sempre più importante a livello politico e sociale [affermazione tanto ovvia quanto scontata, per dare subito un taglio il più possibile banale al ‘ragionamento’]. Una politica che guarda al futuro dovrebbe investire sempre più risorse su di loro; ma nei decenni scorsi la politica italiana ha considerato poco questo aspetto e ha legiferato trascurando le «future generazioni» [a dir la verità, la politica italiana trabocca di ideologia familista da sempre, salvo poi fregarsene beatamente quando la realtà, fatta di una popolazione sempre più povera e più precaria, si manifesta in forma di individui che non stanno zitt@ a subire in silenzio ma avanzano le proprie legittime richieste. A quel punto diventano tutt@ fannullon@ che non hanno voglia di fare niente].

A loro ha lasciato un debito pubblico pesantissimo, che è una delle principali cause del dissesto italiano. I bambini di ieri sono oggi lavoratori, magari disoccupati a causa del vergognoso disinteresse dell’Italia di allora per il suo futuro. Negli anni ’80-’90, per questo e per vari altri motivi, gli italiani hanno deciso di mettere al mondo sempre meno figli. [sicuramente la situazione economica generale da molti anni non aiuta nessun@ -nemmeno chi vorrebbe avere prole – ma rispetto alla natalità in calo in Italia non si deve trascurare nemmeno la rivoluzione culturale che, a partire dai movimenti femministi degli anni 70 e dall’autocoscienza, hanno riconsegnato  – almeno in parte, nonostante la continua ingerenza della chiesa e del patriarcato – le scelte riguardanti la sessualità e la riproduzione alle donne… e direi posizione abbastanza condivisa anche da molti uomini, i quali non desiderano  – né necessitano più di – 12 figli a testa  – per mandare avanti il lavoro nei campi o perché dei 12, 8 ne morivano per malattie e/o denutrizione].

Eravamo nel mondo il fanalino di coda, con appena 1,2 figli per donna. Poi siamo aumentati a 1,4, per il contributo delle mamme straniere (il 20% in Italia, il 24% in Trentino); ma negli ultimi anni stiamo ridiscendendo a 1,3. In Italia nel 2013 abbiamo registrato un netto calo di nascite (510.000: 5% in meno rispetto al 2012). In Trentino i nati del 2013 sono calati del 10% rispetto al 2008…. [ma cos’è, una gara a chi ne fa di più? In un mondo dalle risorse finite non conta nulla il fatto che siamo già a livelli disastrosi di sovrappopolazione, che non ci sono più risorse, più spazio, più possibilità per chi già è qui e sta crepando, nel momento stesso in cui parliamo? Senza contare la mostruosa distruzione di habitat e biodiversità, la perdita di specie animali che non hanno più alcun luogo in cui rifugiarsi, ecc.ecc. ] Non è una bella notizia: con poche nascite e molti vecchi l’economia italiana sarà ancor più povera nei prossimi decenni. [se l’economia italiana è sempre più povera è, in massima parte, a causa della corruzione e delle scelte scellerate compiute in materia di spesa pubblica – prassi condivisa da qualsiasi governo, di destra, centro e sinistra – non certo perché nascono pochi bambini. Anche perché i bambini di ieri, che oggi sono giovani adult@, sono tutt@ precari@! Sui vecchi cosa si suggerisce, le camere a gas? ]

Vedo però che, in parallelo, stanno aumentando sempre di più le persone con cani da compagnia. [io vedo ancora più persone con gli smartphone in mano anche al ristorante, posso pertanto trovare un nesso causa-effetto anche in questo caso?] È facile fare una passeggiata e incontrarne decine, più delle carrozzelle secondo me. [e allora? Perché si vuole fare dei cani un capro espiatorio per scelte che evidentemente l’articolista non condivide – ca..voli suoi, potremmo aggiungere tra l’altro, o siamo ancora al ‘fare i figli per la patria?’] Come i bambini i cani sono affettuosi, ricambiano le premure, hanno emozioni e fanno sentire all’uomo il «piacere» di avere un amico fedele. Ma perché scegliamo di allevare un cane anziché un figlio? Perché e dove facciamo queste scelte? [bene, adesso dì la tua, che poi ti dirò la mia, e non so perché, ma credo che le motivazioni non coincideranno].

Nel cervello di uomini e cani, al primo piano, c’è un «cervello da rettile» (vecchio di almeno 300 milioni di anni), con centri che regolano la sopravvivenza dell’individuo e della specie nella lotta per la vita (istinti, automatismi…). I piaceri, le emozioni, la memoria, i desideri si localizzano al secondo piano, in parti centrali del nostro cervello (mesencefalo). Ormoni e sostanze chimiche ben note (dopamina, serotonina, ossitocina, endorfine…) sono responsabili della sensazione di «piacere» e di benessere che ci danno la cioccolata, la musica, un profumo, un massaggio, ogni atto di amore fisico o psichico, una vittoria, un atto di generosità…. Al terzo piano del nostro «cervello trino», in zone specifiche della corteccia, l’uomo, solo l’uomo, è dotato di linguaggio, di coscienza, di ragione, di intelletto, di pensiero rivolto anche al passato e al futuro. Qui – nella corteccia prefrontale in particolare – la mente valuta le informazioni che riceve dall’esterno e «dal basso» (emozioni, desideri, memoria), formula giudizi e sceglie come dobbiamo comportarci, come «essere Uomini». Usando la mia intelligenza, io posso scegliere di valorizzare il mio cervello da rettile, per cui ho «piacere» nel dominare sui più deboli,anche nel far loro violenza, con sadismo: Hitler aveva piacere nel programmare e attuare un genocidio! Posso scegliere le emozioni del secondo piano e mirare solo ai massimi «piaceri» per me, sempre in modo intelligente: godermi la vita, valorizzare gola, sesso, lusso, usare droghe per avere subito piaceri artificiali. Al giorno d’oggi il consumismo e un diffuso individualismo ci spingono a comportarci così: carpe diem… [allora, ho lasciato volutamente integro questo passaggio perché è davvero impagabile l’assurdità e la fallacia del ragionamento su esposto. Lasciando da parte il ‘cervello uno e trino’ (!)… Prima di tutto, gli esseri umani SONO animali! Forse gioverebbe all’autore, che toglie DIO dal trono per rimpiazzarlo con la sua laica versione IO, discostarsi da quella concezione cartesiana secondo cui uomo e animale fanno parte di quelle contrapposizioni di merito in cui uno dei termini del discorso – tutto quello che sta dalla parte umano, razionale, maschio, ecc.ecc. – è sempre SUPERIORE  a quello che sta dall’altra parte. Le cose sono un po’ più complicate di così: 1 – gli umani sono animali, 2- gli umani sono PECULIARI tanto quanto gli altri animali – ogni specie è ‘speciale’ perché tutte sono diverse – 3- vari studiosi del comportamento animale hanno decostruito negli anni tutte quelle caratteristiche che – sempre seguendo quel ragionamento vecchio di 300 anni per cui l’uomo è DIVERSO, MIGLIORE, ecc.ecc. – lo renderebbero UNICO. Spiacenti informarla che non è così, e molte caratteristiche definite in termini esclusivamente umani – ad esempio nell’articolo, linguaggio, coscienza, ragione,  intelletto, pensiero rivolto anche al passato e al futuro – sono possedute da molte specie animali, e non solo da quelli più simili a noi, come i primati. Senza contare poi che anche gli altri animali hanno caratteristiche UNICHE – tipo respirare sott’acqua,  volare senza l’ausilio di strumenti – e non si capisce perché alcune caratteristiche – guardacaso, le nostre –  dovrebbero essere migliori di altre. Tantopiù che la massima espressione dell’umana mente è perlopiù utilizzata, da secoli, per dominare altri esseri umani e altre specie, alla faccia dell’uomo simile agli angeli e blablabla!]

Oppure uso la mia intelligenza guardando al futuro in modo responsabile: e allora scelgo di avere come punto di riferimento non un Dio che giustifica ogni autorità («non c’è autorità se non da Dio: chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio», scrisse san Paolo), non il mio Io, il mio egoismo (me ne frego del futuro del mondo), ma il più piccolo Bambino di oggi che tra vent’anni giudicherà le nostre scelte politiche o familiari. [il più piccolo bambino di oggi non deve per forza uscire dal mio utero, se non lo desidero…può essere il bambino del mio vicino, quello del migrante che mi affanno ad incolpare di tutti i miei problemi, quello che nemmeno vedo e vive a migliaia di kilometri da me o che crepa su un barcone al quale il nostro glorioso stato impedisce di sbarcare]. Discorso troppo serio? Cosa c’entra con i cani? [qui per un attimo l’autore ha un barlume di consapevolezza, peccato si spenga immediatamente] Il cane è un animale superiore che, come il cavallo o il gatto, ha un cervello quasi come il mio (il 90% del suo Dna è uguale al mio!), cerca anche lui emozioni e relazioni, ha piacere a essere coccolato e allevato dall’uomo; soddisfa i miei bisogni di affetto e aumenta i livelli di ossitocina e dopamina al secondo piano del suo e del mio cervello. Se mi dà fastidio, un cane posso cambiarlo, mentre con un figlio ho un impegno ben diverso, un impegno di responsabilità verso il futuro dell’umanità…. [cioè l’autore prima ci dice che condivide col cane il 90% del Dna, che è un essere affettuoso, intelligente, con emozioni e relazioni, e poi afferma “se mi dà fastidio un cane posso cambiarlo”! Ah, davvero? E’ questo il comportamento responsabile che si vuole stimolare nel lettore? A parte che chiunque ami i cani – o che possieda un briciolo di compassione e onestà intellettuale –  risponderebbe che è un ragionamento totalmente scellerato,  dovremmo perdipiù dedurne che chi non è nemmeno in grado di prendersi la responsabilità di non abbandonare un cane, una volta che si è scelto come compagno di vita – nessuno ci impone di adottarne, no? – potrebbe/dovrebbe quindi essere in grado di badare ad un bambino? Non fa una grinza!]

I bambini sono il simbolo concreto del nostro futuro. [Esatto, e in quanto simbolo non abbiamo bisogno che siano ‘nostri’… o il discorso vale per tutti i bambini, o per nessuno. Se sono solo i ‘nostri’ che contano allora il discorso è puramente egoistico, oltreché razzista.] E perché l’umanità migliori dobbiamo educarli a diventare cittadini responsabili. Con loro dobbiamo fare scelte razionali, con i più alti livelli di intelligenza, con vero amore. Lavorare per un mondo a misura di Bambino ci può dare «piaceri» non effimeri, profonda gioia, vera felicità, ma solo se considero ogni Bambino come «soggetto di diritto». Se lo considero «oggetto di proprietà», posso usare il mio cervello da rettile e maltrattarlo. Se lo considero solo un «oggetto di piacere», da coccolare e da viziare purché non mi dia fastidio, allora posso anche surrogarlo con un cane da compagnia…. [non è proprio così. I cani, o gli altri animali ‘da compagnia’, proprio per la loro capacità di intessere relazioni e provare emozioni, stringono legami con noi. Legami a volte più autentici di quelli tra esseri umani, specie per le persone più sole, più povere, più abbandonate. Ma non sono surrogati di nulla. Chi ama un animale non umano lo ama per quel legame di affetto e amore che si può creare tra esseri di specie diverse. Le eventuali ‘mancanze’ degli altri esseri umani (familiari, amici) non si colmano in questa maniera, e l’amore per gli altri animali non entra in conflitto con l’amore per gli altri esseri umani.]

Concludendo: tante sono le cose che si possono dire di ‘ragionamenti’ come quelli esposti in un articolo del genere. Un articolo nazionalista e razzista – perché in un mondo sovrappopolato dove la maggioranza delle persone, anche  bambin@, muore di stenti, dire che devono nascere più figli@ italian@ è vergognoso; magari si potrebbe suggerire più felicemente di rinunciare ai propri privilegi, in modo che i bambini che oggi già vivono una vita di privazioni possano avere un futuro. Un articolo sessista e in generale paternalista – le donne oggi scelgono di fare meno o nessun figlio? E’ una scelta legittima che va sempre rispettata – spiace turbare l’autore rendendogli noto che ci sono donne, come la sottoscritta, che hanno sempre provato amore per gli altri animali, fin da piccolissime, e nessuna attrazione per i bambin@ –  e in ogni caso: se anche chi li desidera  – uomini e donne  – vi rinuncia non è per mancanza di responsabilità, anzi: è proprio per il senso di responsabilità che deriva dal fare i conti ogni giorno con una povertà sempre più difficile da affrontare, che si sceglie, anche in maniera assai sofferta,  di non far nascere nuovi individui, che risulterebbero privati dalla nascita di reali prospettive e destinati a soffrire per questa situazione. Dulcis in fundo, un articolo specista e bugiardo – perché dire che non nascono i figli perché è più facile avere dei cani sminuisce i legami affettivi interspecifici, fomenta l’odio per gli altri animali, ed è una menzogna.

Che si continui pure a delirare sulla natalità zero in un mondo sovrappopolato e al collasso…chiedo solo un favore: con tutti i possibili colpevoli da additare (corruzione, clientelismo, spese militari, grandi opere inutili, disoccupazione, finanche l’autodeterminazione femminile che per alcuni individui evidentemente non dovrebbe esistere!)…non date la colpa di tutto ai cani!