Il piacere politico di venire a spruzzi

dianaLo scorso 14 febbraio abbiamo festeggiato San Valentino al Tramallol, parlando di eiaculazione femminile. Diana Pornoterrorista ce lo ha spiegato attraverso un seminario teorico e una performance  che ha realizzato insieme alla Deny.

Da quando ho partecipato al seminario di Diana Pornoterrorista sull’eiaculazione femminile lo scorso 14 febbraio, ho passato la settimana seguente in “modalità Messia”, annunciando la buona novella: noi donne abbiamo la prostata e molte sono in grado di fare uno spruzzo, naturalmente o tramite qualche tecnica e un po’ di pratica. Beh, saperlo lo sapevo. Alcune amiche me lo avevano detto, e avevo sbirciato “squirting” qua e là in qualche pagina. Ma pensavo che fosse un fiasco dare tutto per perso e, conoscendomi, ‘dormire in una pozzanghera’ per pigrizia.

Quel pomeriggio minacciava di piovere un sacco a Siviglia. Ovunque e in tutte le direzioni. La piccola stanza adiacente al Tramallol si riempì fino a traboccare, e Diana ci spiegò pazientemente una parte della sua storia. Lei viene a fiumi da tutta la vita. Pensava, come molte altre, di pisciare ogni volta che lo faceva. Ma alcune lenzuola nere la fecero dubitare: ciò che lasciava un alone bianco non era pipì. Dopo molte ricerche, e aver notato che tutto ciò che non serviva per procreare era catalogato dalla fisiologia come organi “secondari ” o ” accessori”, trovò le ghiandole di Skene.

Che già il nome e la storia del suo scopritore sanguinario sono un’altra questione. Queste ghiandole sono responsabili della produzione di quel liquido che, se non viene espulso naturalmente, viene retroeiaculato ed eliminato attraverso l’uretra. Ma poche persone lo sanno. Nemmeno le donne che eiaculano regolarmente. Si tratta di un silenzio imbarazzante che la scienza perpetua, in cui molte donne si perdono, pensando di avere un problema dalla soluzione chirurgica. La sessualità femminile è sempre discreta, non dà molto fastidio. Se ti tocchi la clitoride mentre scopi cazzi, fai male, che importuna! Se spruzzi sei pessima, non puoi competere con la sborra maschile. L’eiaculazione femminile viene a dirci di permetterci questo piacere di infastidire un po’, di renderci visibili, e di capire i nostri corpi così come sono, non come dovrebbero essere.

Esco dalla stanza felicissima, mi piace l’idea. E mi fa incazzare essere io stessa quella che non fa casino, per paura che… Un’ora e due birre più tardi, la navata del Tramallol assiste alla performance. Eiaculerà selvaggiamente, scoperà con La Deny dal vivo e in diretta… c’è attesa. Inizia a pulire un tavolo scusandosi per l'”attacco da casalinga” che le è venuto e ci chiede di sederci. La mia miopia mi lascia intuire che si è conficcata degli aghi nelle sopracciglia e sul petto, e sta sanguinando. Qualcuno fa una faccia strana, Diana chiarisce che lo fa perché le piace. Sniffa una striscia di sale e piange lacrime e muco mentre parla dei corpi che attraversano la frontiera e vengono puniti per questo in Messico. Inevitabile non pensare a Ceuta, così vicina. Rimuove gli spilli e imprime la propria sacra Sindone col sangue del volto. Ma le si rompe la base del microfono, la musica salta da sola a metà di una poesia… è una terrorista e “errorista”, come lei stessa si definisce, cosa che personalmente apprezzo.

C’è spazio per le risate, che figata. Ci fa scrivere su un foglio come ci hanno apostrofate a volte, quello che ci ha fatto davvero male, proprio per aver anche oltrepassato certi confini: quello del decoro, della morale… Lei si spilla sul corpo i foglietti con i quali si identifica: puttana, frocia, cagna, malata… e poi ne fa un rogo, che brucia con il sangue della sua coppetta mestruale, mentre lei e la Deny e tutte noialtre osserviamo come tutto brucia e diventa cenere. La vendetta cura. Guariamo. E rimaniamo alcuni secondi tranquille, assimilando. Qualcuno le chiede perché non è venuta. Lei dice che non si sente molto bene, è il primo giorno di mestruazioni, è un po’ dolorante… inutile farlo.

Articolo originale di Tania B. Martinez qui, traduzione e revisione lafra, serbilla e feminoska.

Deconstructing l’alibi de li mortacci vostra

tomas-milian2Ci sono tanti modi per far passare come rispettabile un’opinione politica che ha il valore di una banale stronzata. Uno di questi è fraintendere fin da subito i termini in gioco, usandoli come se il significato di essi fosse comunemente accettato nel modo di chi scrive. Nella realtà dei fatti, però, non è così – ma se non ve ne accorgete subito, argomentazioni anche coerenti ma del tutto fuori luogo possono essere usate per dimostrare qualunque cosa. Questo articolo è un ottimo esempio di come una ben congegnata stupidaggine può risultare credibile e addirittura ragionevole, soprattutto se si parte dall’assunto che il movente di un assassinio non conta, non conta perché qualcuno viene ucciso, conta solo che un essere umano è morto. Cosa che si può facilmente constatare, mentre invece io vorrei sapere perché, in modo da evitare che succeda ancora. E sempre più spesso questo motivo è semplicemente che la vittima era una donna che ha detto un no a un uomo.

Invece dice che non importa che muoia un uomo o una donna, come se in questione ci fosse quello. Così si dice, negando che esistano i femminicidi e i motivi i quei corpi morti. Invece i mortacci vostra esistono sicuramente, e allora li usiamo per far sembrare il femminicidio un alibi politico.

10/03/2014 06:06

IL LAMENTO DELLA SINISTRA

L’alibi (culturale) del femminicidio

Le donne subiscono più violenze di quante ne commettono [e fino a qui, sembra quasi normale…]
Ma la discriminazione di genere nell’omicidio è ancora più pericolosa […ma ecco la formula che non vuol dire niente pronta a scattare: se distingui il sesso dei morti, sei tu che discrimini. Non conta che tu vuoi sapere i motivi per cui quell@ è stat@ uccis@, se distingui allora discrimini. Complimenti]

La «parità di genere» e il «femminicidio» sono due termini ai quali ci stiamo abituando rapidamente [eh, che vuoi farci, “sarà ‘sto buco daa azzòto” (cit.)]. Sono termini “di sinistra” [eh?], nel senso che descrivono fatti e fenomeni che esistono da sempre [però, hai capito] ma che, come avviene periodicamente in molti settori, la sinistra fa finta di scoprire per prima [ma per prima rispetto a chi? C’è chi lo dice dagli anni ’70. Vabbè], gli dà un bel nome, ci costruisce intorno campagne mediatiche [mah, campagne mediatiche mi pare un po’ esagerato], e alla fine le cose rimangono come erano prima [insomma, su, qualche cosa s’è fatta, dài] o, non sarebbe la prima volta, peggio di prima [eh ma come sei acida però]. L’assunto di base è semplice: le donne subirebbero molte più ingiustizie e/o violenze di quante ne subirebbero gli uomini [no, calma. Perché il condizionale? E poi, assunto di base di cosa? Non è questo l’assunto di base di la «parità di genere» e il «femminicidio». Infatti ci sarebbe da dire, per esempio, del tipo di ingiustizie e/o violenze; mica stiamo parlando di reati fiscali o scippi di borsette]. Questo dato non è vero in assoluto [e te credo], perché gli uomini, intesi come maschi, da sempre prediligono uccidere altri uomini, non importa se in guerra o in contese di altro tipo [EH? I maschi prediligono cosa? Beh, per certi versi è ovvio, dato che solo a loro viene insegnato che è “da maschi” risolvere le cose con la violenza. Ma non è che c’hanno il cromosoma del killer, eh]. È vero invece un altro dato: le donne subiscono più violenze di quante non ne commettano [ma no. Ma dài. Guarda, mi pare incredibile. E comunque: ma di che violenze parliamo? E per quali motivazioni?]. Ma questo dato è molto controverso [eh, mi pareva troppo bello – e comunque lo è per forza controverso, dato che non hai spiegato di che violenza parli, e del suo movente]. È controverso perché subiscono violenze quelle donne che in qualche misura si sottraggono alla «protezione maschile» [SCUSA? E dimmi, c’è disponibile il dato su cosa sarebbe la qualche misura? Oppure quello su cosa caspita intendere come «protezione maschile»?]. Laddove ancora oggi la donna accetta un ruolo subalterno rispetto a quello maschile [Laddove? E perché non dire dove? Accetta? Cioè il ruolo subalterno le viene gentilmente proposto? Ha delle alternative?], nelle culture tribali, nell’Islam, nell’Induismo, nelle varie forme di fondamentalismo religioso (anche ebraico e cristiano), la donna vive sottomessa ma sicura [SICURA? Cioè in quelle società – ammesso che si capisca quali sono, data la descrizione sommaria – non esiste la violenza di genere? Ma stiamo scherzando? E la sottomissione che sarebbe?]. Là dove la donna lascia i suoi ruoli tradizionali e chiede la sacrosanta parità di diritti, lì nasce lo spaesamento, la confusione, e subito dopo la violenza [quest’ultima frase è da manuale. Notate come, scritta così, faccia sembrare che la violenza subita dalla donna nasca dalla sua volontà di pretendere la sacrosanta parità. Non si nomina chi agisce quella violenza. Fantastico]. Ma le femministe occidentali, quelle vere, quelle che hanno studiato e militato, non quelle improvvisate dei salotti televisivi, alla parità di genere non ci credono e non la vogliono [nomi delle femministe occidentali, quelle vere? Nessuno. Link, riferimenti? Niente. Parole al vento, così, tanto per]. E non vogliono, quindi, nemmeno sentir parlare di “femminicidio” [ma quindi che cosa, che non hai messo uno straccio di riferimento? Che fai, deduci dalle tue stesse invenzioni? Ma come si fa a pensare di essere creduti argomentando in maniera così sfacciatamente ipocrita?]. Perché maschi e femmine sono diversi, diversissimi, e quello che si deve fare è rispettare questa diversità, non negarla, e men che mai omologare tutti [notate: è una frase talmente vaga che è ottima anche per pubblicizzare una fashion week]. Ma se per le femministe intelligenti [dopo quelle occidentali e quelle vere ci sono anche loro, quelle intelligenti – anche loro anonime, si vede che sono pure timide] il femminicidio è un falso problema [tornate qualche riga indietro e notate: non ha detto il perché sarebbe un falso problema, manco ha provato a inventarselo], per alcuni osservatori è addirittura un modo pericoloso di affrontare il problema più generale della violenza, chiunque possa essere la vittima [ci sono le femministe occidentali, vere e intelligenti e ci sono gli osservatori – alcuni, non tutti. Tutti e tutte anonim@, dev’essere una specie di gruppo di auto-aiuto, chissà]. Chiedere pene più alte per chi uccida una donna può sembrare che si possa invece fare uno sconto a chi uccide un uomo [nessuno ha proposto una cosa simile, che può sembrare verosimile solo a un@ deficiente, imho], creare procure o corpi di polizia specializzati [e chi l’avrebbe proposto?] può dare l’idea che altre forma di violenza siano meno gravi [di nuovo: nessuno l’ha detto], dedicare migliaia di progetti e di onlus nella speranza che mariti squilibrati smettano di picchiare o di uccidere le mogli può far sembrare che l’ignoranza o la pazzia si curino con le chiacchiere [cioè i progetti e le onlus sarebbero pensate per chiacchierare con vittime e violenti? Va bene dire stupidaggini, ma adesso cominciamo a offendere la professionalità di parecchi, eh], invece che con servizi sociali e sanitari efficienti e soprattutto non ideologizzati [quindi i problemi di genere sono patologie? Interessante. E per “curarli” servirebbero servizi sociali e sanitari efficienti, notoriamente il fiore all’occhiello della politica italiana; e poi, quale sarebbe l’ideologia di cui si parla? Altre parole al vento, altre ipotesi senza fondamento e prese di posizione campate in aria. Ma l’importante è dire che il problema è un altro]. Aprire tutti i telegiornali, come l’altro giorno, con l’omicidio di una donna, e confinare alle scritte che scorrono sotto il video la notizia di 3 morti a Napoli e in Calabria dà l’idea che ci dobbiamo rassegnare a un certo razzismo “di sinistra” [COSA? Le scelte editoriali di una testata giornalistica televisiva sarebbero razzistiche perché mettono una donna morta “davanti” a tre uomini morti? Ma cosa c’entra?], per cui i meridionali (che non a caso votano Berlusconi) sono animali e non ci si può fare niente [ma che paragone è? Che senso ha, a parte indignare il lettore già prevenuto e pieno di pregiudizi? E poi, questo sarebbe pensato sempre da tutti i telegiornali? Anche quelli di Berlusconi?]. Soprattutto, diciamocelo, parlare troppo di femminicidio è pericoloso là dove dà l’illusione alle donne di poter godere di protezioni particolari [EEEEEEH? Fossi una donna: io sento tutti i giorni che una donna come me viene ammazzata perché moglie, madre, donna che ha detto un “no”, e dovrei sentirmi sicura di poter godere di protezioni particolari? Da parte di chi, della Feniof?]. No, qualcuno dovrà avere il coraggio di ricominciare a raccontare alle nostre figlie che, poiché non si può mettere un poliziotto in tutte le discoteche e in tutte le auto dei loro fidanzati [che a questo punto non si capisce perché non si può: tanto siamo in là con la fantasia, perché non militarizzare il territorio e gli spazi privati? Ma sì, dài, che ce frega], sarà il caso che alcune precauzioni le prendono da sole [certo, invece adesso le donne escono tutte sicure e tranquille, no? Meno male che glielo dici tu, ché a sentire ‘ste cose di femminicidio dormono tutte sonni beati]. Perché l’imprevisto è sempre in agguato [tranquillizzare è sbagliato, il femminicidio è un’invenzione della sinistra, teniamoci il sano terrore sparso della destra]. Perché la natura non è buona [è il 2014, qualche sospetto l’abbiamo già avuto, sa?]. Perché il male esiste [questa l’ha presa da una locandina cinematografica, l’ho riconosciuta]. Perché la stupidità esiste [su questo siamo d’accordissimo]. Checché ne dica la facile propaganda di troppi sciagurati in cerca di consenso un tanto al chilo [i quali quindi direbbero che va tutto bene perché esiste il femminicidio? Ma che canali guarda, scusi? Ah, sì, quelli dove parlare troppo di femminicidio è pericoloso perché dà l’illusione alle donne di poter godere di protezioni particolari. Boh, forse stanno sul satellite, mi farò regolare l’antenna parabolica].

Francesca Mariani [casomai voleste essere sicure uscendo di casa, contattatela; c’ha sicuramente dei buoni consigli da darvi, amiche mie]

Così, per ribadire: distinguere non è discriminare. Voler sapere un movente non significa considerarlo “migliore” di un altro. Voler agire culturalmente per impedire a quel movente di esistere nella società non significa progettare momenti di chiacchiera. Mortacci vostra.

L’intersezionalità in discussione: la depoliticizzazione bianca (prima parte)

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Gli oppressi lottano con la lingua per riprendere possesso di sé stessi, per riconoscersi, per riunirsi, per ricominciare. Le nostre parole sono azioni, resistenza. (bell hooks, Elogio del margine)

Proponiamo la traduzione di un articolo pubblicato in originale qui, sul tema dell’intersezionalità. Le critiche mosse dall’autor@, che mette in guardia sui pericoli insiti nell’appropriazione del termine da parte di soggett@ bianch@ e anche da parte di certo ambito accademico ci ha dato notevoli spunti di riflessione, che abbiamo deciso di condividere qui.

Traduzione di feminoska, revisione di Eleonora.

Buona lettura!

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L’uso del termine intersezionalità in riferimento all’inclusione in un’ottica di lotta militante di razzismo, sessismo e lotta di classe è stato proposto da Kimberle Crenshaw all’interno di un articolo scientifico, disponibile qui in lingua francese. Se l’articolo è stato pubblicato nel 1991, possiamo dire che l’intersezionalità esisteva da quando le donne schiave, poi i/le colonizzat* e gli/le sfruttat*, hanno resistito contro il dominio di razza, classe e genere che le colpiva, indipendentemente dal fatto che la cosa fosse o meno teorizzata. Si è comunque avuta una forte scossa militante nell’attivismo degli anni 1970: le lotte delle donne nere hanno acquisito status politico. Nacquero così il Black feminism, e più tardi il Womanism. Le donne di colore erano ormai al centro, non ai margini.

Purtroppo, l’intersezionalità ha subito sempre più un processo di depoliticizzazione da parte di accademic* bianch*. In un articolo intitolato “Lost in translation? Femminismo nero, Giustizia sociale, e Intersezionalità” Patricia Hill Collins, figura di spicco del femminismo nero, si interroga su quello che è andato perso nel passaggio dall’intersezionalità della pratica militante femminista nera alle università. Sirma Bilge parla anche di “sbiancamento dell’intersezionalità”. Oltre alle/gli accademic* bianch*, sono coinvolt* nella sua depoliticizzazione le/gli attivist* bianch*, anche slegat* dal mondo accademico.

Sono dunque tre, al momento, i problemi principali che riguardano l’intersezionalità, o meglio ciò che ne viene fatto:
1) Trasmissione elitaria del concetto
Se l’intersezionalità nasce dalla lotta degli oppressi negli Stati Uniti, mi sembra che l’avvento dell’intersezionalità in Francia sia stato reso possibile dall’università. Quando un concetto viaggia e arriva dall’università, o viene reso visibile dall’università (che non è lo stesso), o dalla parvenza di attivismo all’interno delle pratiche che discendono da quello stesso elitarismo accademico e che mobilitano reti accademiche, esiste necessariamente un pregiudizio di razza e classe su chi se ne approprierà, anche se alcune delle cose offerte dal mondo accademico in materia sono piuttosto interessanti.
2) Intersezionalità come sinonimo di “convergenza delle lotte”
Penso che questo sia il punto che più m’infastidisce. L’intersezionalità non è stata costruita per creare alleanze militanti tra bianch* e non bianch*, soprattutto perchè le alleanze miste sono quasi sempre a vantaggio de* dominant* che impongono la propria visione. L’intersezionalità è stata, e per alcun* è ancora, e deve restare, un modo per le/gli oppress* non bianch* su diversi piani di essere AL CENTRO e non AL MARGINE. Noi non dobbiamo far convergere le lotte, perché questa espressione dimostra che le lotte continuano ad essere pensate da posizioni che non sono le nostre, e che si tratta semplicemente di evocare ciò su cui queste lotte si uniscono (e vedremo chi è che evoca…).
Noi SIAMO la convergenza. Noi non abbiamo nulla su cui convergere. Noi siamo l’intersezionalità, punto. E qui, noi significa donne, trans, queer, intersessuali, omosessuali, disabili non bianch*. Ponetevi la domanda: perché sono sempre bianch* di sinistra a parlare di “convergenza delle lotte”? Dal nostro punto di vista esiste una confusione terribile tra il nostro interrogarci sui punti deboli della nostra politica (legittimo) e il fatto che le/i bianch* impongono la “convergenza delle lotte ” (illegittimo), che spesso equivale a dire “seguite la nostra agenda politica”.
L’intersezionalità è sempre più sradicata, e la sua storia cancellata. Piuttosto che essere uno strumento delle comunità nere e non bianche, diventa uno strumento “femminista”, uno strumento di lotta “globale” contro il sistema. No, no e no. L’intersezionalità non è femminista, è femminista-nera o womanist negli Stati Uniti, è afro-femminista in Francia, come viene chiamata sui social network, e potrebbe servire alle/i trans e gay non bianch* se comprendono il valore di questa parola (perché in realtà, a parte la parola, il processo al quale rimanda l’intersezione è già esistente). Ma non è certo un giocattolo per le/i bianch* per dire alle/i non bianch* di seguire la loro agenda o le loro modalità di lotta, con il pretesto della “convergenza delle lotte!”
3) Intersezionalità come un modo per non mettere più in discussione le questioni razziali
Ecco, questo è l’aspetto “vetrina” dell’intersezionalità. Io sono bianc*, mi proclamo “intersezionale”. Ok, va bene, guadagno punti. Definirsi intersezionale non significa nulla se si è bianc*. Nulla.
Usare il termine in questo modo è una cosa oscena, e le/i bianch* sapranno leggere molto bene lo scopo nelle mie critiche, vale a dire una presunta immunità che si guadagnerebbe  sulla base di una rimessa in discussione dei discorsi e delle pratiche, solo perché si dichiarano “intersezionali”. Basta essere dalla parte giusta su alcune questioni, come, guarda caso, essere contro la violenza della polizia nel suo aspetto razzista, essere contro l’islamofobia e il divieto di indossare il velo, e alcun* bianch* credono di avere il diritto di fare o dire di tutto e soprattutto di venire a spiegare come va  la vita alle/i post – colonizzat*, rimproverare le/gli  antirazzist* di non essere abbastanza “intersezionali”, ecc .
Chi siete voi per credere di avere il diritto di chiedere una qualunque cosa alle/i antirazzist* non bianch*? Credete che solo perché vi accorgete che Valls è razzista potete avere il diritto di interferire e comportarvi con paternalismo? Ma davvero, vaffanculo! Che sia chiaro (diciamo così) alleat* bianch*: le/gli antirazzist* non- bianch* non vi devono niente, neanche uno stuzzicadenti.
Le femministe afro, le femministe decoloniali, le persone gay, trans e queer non- bianch* stanno facendo il nostro lavoro, e non abbiamo aspettato voi per conoscere le nostre convergenze e i nostri limiti tra di noi, politicizzat* o meno. Il nostro lavoro sarebbe anche meno difficile, se voi vi faceste i cavoli vostri, e penso qui alle questioni che riguardano la (omo)sessualità. L’intersezionalità non è mai stata, non è e non dovrà mai essere un modo per le/i bianch* di sottrarsi all’autocritica sui propri comportamenti militanti, prima di tutto le loro interferenze e il loro paternalismo.
Le etichette (intersezionali, anti coloniali, ecc) sono inutili. Solo le azioni contano. E tra le azioni escludo la realizzazione di tweet o post su FB in cui ci si dimostri “alleat*” delle/i colonizzat*.

Deconstructing Domani è un altro porno

 

Annie_Sprinkle_Neo_Sacred_ProstituteNon voglio deludere le/gli aficionad*s dei deconstructing di Lorenzo Gasparrini, di cui non mi illudo di raggiungere il livello… ma nei giorni scorsi ho letto un post sul blog di Femminile Plurale (nomen omen?) al quale non potevo rispondere che così. Buona lettura!

Domani è un altro porno

Ovvero: la dolce illusione borghese di porsi fuori della norma [Borghese? Da dove nasce questa presupposizione di appartenenza, e ancor di più, il senso dispregiativo con cui è utilizzata?] 

Questo post nasce come risposta ad una mail in cui ci veniva presentato il libro Pornoterrorismo di Diana Pornoterrorista.

Ogni iniziativa che si propone di rendere “la sessualità e il corpo come territori da decolonizzare dalla repressione patriarcale, ecclesiastica e capitalistica” suscita in noi interesse [Ottimi propositi, ma riusciranno ad essere messi in pratica? Stiamo a vedere].

Tuttavia le nostre perplessità sorgono nel momento in cui dalla problematizzazione iniziale, dalla posizione di alcune questioni che anche noi riteniamo urgenti, si passa poi al piano delle possibili soluzioni. [Soluzioni? Non mi pare Diana parli di soluzioni, al massimo  fa delle proposte. Liber* di condividerle o meno… le “soluzioni” appartengono ad un altro filone di pensiero, quello che definirei vagamente autoritario]. Lo scritto di Diana Pornoterrorista si inscrive all’interno di quel filone che si autodefinisce come femminismo pro-sex [Esatto, si autodefinisce, a pieno titolo perché non esiste, allo stato dell’arte, un patentino femminista… o sì?]. Di esso noi mettiamo in discussione non solo il presupposto fondante ma anche le conseguenze [Liberissime di non riconoscervi in questa proposta, ma forse un po’ meno di bocciarla come se si trattasse del Male incarnato. Pare che esistano molteplici femminismi…pare, perché esistono soggett* che invece non sono così possibilist* in merito a ciò che può definirsi femminismo e cosa no…ma andiamo avanti].

Il femminismo pro-sex si fonda sulla nozione superficiale [Per chi? E’ la commissione della genuinità del femminismo che ne ha decretato la fallacia?] e postmoderna secondo cui l’ uso consapevole del proprio corpo come merce/prodotto/oggetto di scambio sia espressione di libertà [Grazie per il tentativo di sintesi, fallito. Il femminismo pro-sex ha una visione un po’ più complessa di così – forse la complessità sfugge a chi guarda le cose solo dall’esterno senza mai cercare un incontro con chi è protagonista del movimento o semplicemente la pensa diversamente da sé.  Dunque, tra le altre cose, il femminismo pro-sex problematizza il tabù riservato all’uso consapevole della propria sessualità, anche – e non SOLO – come oggetto di scambio economico; e questo considerato il fatto evidente a chiunque, che tutte le altre nostre parti corporee, e anzi potremmo spingerci a dire tutte le nostre esistenze, divengono, nel sistema capitalistico, possibili merci di scambio; e che, date le condizioni attuali d’esistenza, per alcune persone l’utilizzo della propria sessualità come mezzo di sussistenza fa parte di una scelta autodeterminata e consapevole – il fatto che non sia sempre così non cancella la realtà di quest’affermazione]. In questo prospettiva per una donna è possibile accettare consapevolmente e volontariamente la prostituzione [Accettare? Scegliere!]. In egual modo il porno, come vendita di immagini a sfondo sessuale, appare come strumento che minerebbe le logiche del mercato e del capitale [Il postporno mette al centro lo sguardo e i desideri delle donne e delle soggettività non conformi:  questo è sicuramente rivoluzionario, e per il momento non entra in logiche di mercato mainstream – avete sentito vero del crowdfunding messo in piedi per il tour…non esattamente un prodotto appetibile dal vorace mercato capitalista, a quanto pare! Non si capisce inoltre perché l’unico campo di lotta anticapitalista da cui bisogna continuamente partire debba essere quello del lavoro sessuale – di fatto impedendo ad alcun* soggett*, a partire da un sentire personale nei confronti di certi aspetti della propria corporeità che non è universalmente percepito in maniera problematica, di autodeterminare la propria scelta in merito a quale parte del proprio corpo mettere a servizio di un sistema, al quale siamo asservit* tutt*, per sopravvivere. Il sistema va certamente messo in crisi, ma l’abolizionismo vede il mostro capitalista solo quando vuole impedire il lavoro sessuale, non certo nella comune, e per ora necessaria pratica, di vendere le proprie prestazioni ad altr*. Quando, anche grazie al vostro impegno profuso a piene mani, le persone avranno un reddito di esistenza che le svincoli dalla necessità di lavorare per vivere, allora sì che tutto il sistema di sfruttamento sarà rimesso in discussione; fino ad allora ad ognun* deve essere possibile fare scelte consapevoli per sé stess*, senza scelte calate dall’alto]. L’autosfruttamento sembrerebbe essere sintomo di autonomia, segno inequivocabile di libertà [L’autosfruttamento è tale per tutt* coloro che devono lavorare per vivere, e non solo per chi lavora in campo sessuale. E le badanti? E le cameriere? E i netturbini? E i contadini? E i minatori? E chi lavora in catena di montaggio? Ah, ma il loro sfruttamento si può sopportare! E in ogni caso, anche l’impiegato ‘sceglie’ obbligatoriamente di farsi sfruttare per sopravvivere, oppure muore di fame!]. All’essere sfruttati dagli altri si oppone lo sfruttarsi da sé, ponendo questa come azione anti-capitalista [Essere consapevoli di essere, volenti o nolenti, inserit* in un sistema di sfruttamento, e poter solo scegliere come e non sé essere sfruttat* a me pare di una lucidità disarmante, altro che autosfruttamento!]. Tale posizione è, al contrario, profondamente capitalista, diremmo il suo compimento finale [“Direste così” perché avete dei tabù nei confronti della sessualità; se non li aveste, o li metteste in discussione, vedreste il lavoro sessuale per quello che è: un lavoro come tanti, e tutti i lavori odierni sono inseriti in un sistema capitalista. Non si vede il motivo per il quale il lavoro sessuale sarebbe un ‘compimento finale’ rispetto a quelli citati precedentemente, che logorano e uccidono migliaia di persone ogni anno]. Essa è alla base della società consumistica in cui viviamo e del sistema economico in cui ci troviamo dove, grazie alla possibilità di disporre del proprio corpo come meglio si desidera, alcuni esseri umani in posizione di evidente svantaggio economico, di genere, sociale, etnico e geografico divengono merci ad uso e consumo di altri [Non è alla base, ma si inserisce in un sistema: o lo si mette tutto in discussione, o si evita di fare moralismi inutili]. Eterosfruttamento ed autosfruttamento appartengono allo stesso paradigma capitalistico. Per superarlo bisogna perciò guardare altrove [Sicuramente, ma in ogni direzione, non con l’ossessione monotematica di alcun* abolizionist*].

Abbiamo letto e discusso con attenzione tra di noi l’intervista a Diana Pornoterrorista e rileviamo uno slittamento tra lo scopo assolutamente legittimo di liberare i corpi dall’oppressione patriarcale, ecclesiastica e capitalista e le pratiche messe in atto per raggiungerlo. Rileviamo cioè un’evidente contraddizione tra ciò che si vuole ottenere e il metodo per ottenerlo, il quale, ci pare evidente,  genera risultati contrari a quelli desiderati [Leggere un’intervista ‘tra di voi’ non significa confrontarsi con chi si va a criticare, conoscerne in toto il pensiero, il modus operandi, la politica. Per fare questo bisogna affrontare ciò che non si conosce o non si comprende, più e più volte, scontrarsi casomai, ma in un’ottica dialogica, non monologante, altrimenti non esiste contraddittorio e perciò nemmeno crescita].

Come ogni paradigma anche quello eteronormativo si costruisce su alcune polarità che ne fissano i concetti e il senso. Muoversi all’interno di esse, non vuol dire non superarle ma, al contrario, affermarle [Dire che Diana si muove in un paradigma eteronormativo vuol dire avere una grande confusione in testa di lei, della sua politica e del suo lavoro… ovvero parlare senza conoscere, cosa che andrebbe evitata].

Tra queste polarità una centralità essenziale è quella tra il corpo e la mente/anima. Affermare la priorità dell’anima/mente è stare dentro al paradigma. Così come affermare, come fanno le pornoterroriste, l’assoluta centralità del corpo [Diana sicuramente non ha paura di usare il corpo  – anche a fini politici – ma nel contempo declama poesie e legge testi! Direi che c’è ampio spazio sia per la mente che per il corpo!]. E’ starci dentro, semplicemente rovesciandolo [Non è semplice per niente, e decostruire/riappropriarsi non è rovesciare]. Non si esce così dal paradigma, non lo si supera [Invece con la dicotomia donne perbene/donne permale lo si supera?]. Allo stesso modo, affermare la necessità della «riappropriazione del fallo», non mette in discussione l’assoluta centralità che esso riveste come simbolo fondante della cultura patriarcale [Quando si parla di fissazione fallica… a parte che un fallo finto, separato dal corpo, un fallo che diventa strumento, un fallo che esiste senza un uomo, un fallo che può essere… un vegetale, ne depotenzia l’immagine dominante, la ridicolizza, la neutralizza. In ogni caso è solo una parte di un discorso, non la sua totalità]. Non è cioè rifiutare la cultura patriarcale ma riaffermarla, perché il significato del simbolo è talmente forte e consolidato culturalmente che quello che passa in questa operazione non è il nuovo significato sovversivo, ma il simbolo in quanto tale (Questo discorso vale anche per altre parole — “puttana”, “cagna” — il cui significato e in cui la dimensione del simbolo sono così forti che una riappropriazione, lungi dall’ottenere l’effetto sovversivo sperato, rinforza il significato negativo e patriarcale di partenza. L’operazione di riappropriazione e rovesciamento non è evidente e non è efficace). [Questo continuerà a succedere fino a quando ci saranno tante donne aggrappate al loro status di donna perbene. L’uso che fanno della parola ‘puttana’ le sex worker lasciamolo decidere a loro che non sono minus habens – anche se alcun* soggett* parlano costantemente ‘su’ di loro, senza mai parlare ‘con’ loro].

Se da un lato ci troviamo in sintonia con la volontà di combattere la violenza contro quello che è fuori dalla norma, dall’altro lato ci rendiamo conto che Diana pone, a sua volta, una norma ben precisa, che emerge nel mondo in cui vengono stigmatizzate le donne che non si adeguano ad essa. Se non si scopa con il culo o non si apprezza il sado allora si è delle represse o addirittura delle bacchettone moraliste [Ma dove? Quando? Non mi pare che le performance di Diana siano obbligatorie o che si sia costrett* a portarsi il tubetto di vaselina appresso! O ad abbracciare le sue idee. Quello che vedo io qui, e che accade spesso, è che chi ha un approccio sanzionatorio – leggasi, le abolizioniste – immaginano le altrui proposte con lo stesso piglio legiferante che è l’unico che sanno immaginare loro. Direi che essere pro-postpornografia apre delle possibilità a chi le desidera, essere anti significa invece toglierle anche a chi vorrebbe averle – da parte di chi reputa di sapere dove stia il giusto e lo sbagliato per sé e per le/gli altr*. Se non è cattonazismo questo! E vale pure per chi si professa laic*! Ah, peraltro: poco prima si critica l’uso non convenzionale del simbolo fallico colpevole di non decostruire l’immaginario del potere, se usi il culo sei discriminatori* verso chi non lo fa… l’asessualità potrebbe rivelarsi a vostro giudizio  un’opzione abbastanza neutra?!]. Anche questa è esclusione. Anche questo è imporre una norma. Non solo, si impone così la stessa norma che si vorrebbe combattere. Cosa c’è di sovversivo in questo? Qui ritroviamo un’altra polarità tipica del paradigma eteronormativo, quella che ruota attorno ai due poli ‘santa’ e ‘puttana’. Focalizzarsi sull’uno opponendosi all’altro è stare dentro alla logica eteronormativa e non superarla. [Il bue diede del cornuto all’asino, ovvero essere abolizioniste è ok e non fa parte della logica eteronormativa, anche se dice ad alcune persone come devono vivere la propria esistenza; il postporno invece,  per come è descritto in queste ultime righe, appare come una milizia che obbliga a fisting anali…forse avete preso troppo alla lettera la parola terrorismo! Rassicuratevi, il tour di Diana non è lo sbarco dei mille dildo!]

Il porno appartiene in pieno all’etica eteronormativa, ne è una diretta discendenza, qualunque significato vogliamo dargli, di qualunque immagine vogliamo riempirlo. Il porno è in se’ mercato, ovvero capitalismo che si incarna nella sessualità e la sfrutta. Quello che esprimiamo non è un giudizio morale su di esso, ma una valutazione politica sulla sua funzione ‘economica’. [E’ invece un giudizio tutto morale, dal momento che non combattete con uguale fervore tutte le altre logiche di sfruttamento che sottendono al lavoro salariato, precario, ecc.ecc. E credo non abbiate mai visto postporno per dire che appartiene all’etica eteronormativa!]

E ancora: cosa c’è di sovversivo e terrorista nel proporre come modalità di “liberazione” il dolore al posto del piacere (sic) quando esso è esattamente ciò che viene già assegnato alle donne nella pornografia mainstream? [Il dolore che piacere – non al posto di – e perciò scelto consapevolmente non  è, e non può essere paragonato, al dolore inflitto contro la volontà di chi lo subisce]. Cosa c’è di liberatorio nel proclamare ancora una volta la necessità di relazioni basate sul dominio quando è esattamente questo che il patriarcato vuole per noi? [Il fatto che non si capisca o condivida come e perché le pratiche BDSM – che sono comunque performative più di quanto siano relazioni basate su una realtà di dominio, e c’è una bella differenza! –  possano essere fonte di piacere per alcun* non può diventare motivo valido per negare la realtà: per alcune persone è così, e pare siano tante, a giudicare dai siti/forum/luoghi dedicati a tali pratiche; ancora, nessuno vi costringe a pratiche non consensuali: di quello che di sé stess* scelgono di fare le/gli altr*, che ve ne importa?]. In molte parti del mondo le donne subiscono mutilazioni, violenze, matrimoni forzati, stupri. È preoccupante proporre il dolore come via di liberazione quando per la maggior parte delle donne nel mondo il dolore è la regola e non conduce di certo alla liberazione [Cosa c’entrano le pratiche citate? Suggerire di scoprire nuove possibili vie di piacere – scelte, consapevoli – non implica incitare allo stupro, trovo persino offensivo questa equazione!]

Quella che noi vorremmo è una sessualità libera e non l’imposizione di modelli di comportamento, qualunque siano questi modelli [E negando a Diana  – e a chi ne condivide il pensiero – la possibilità di vivere come desidera la propria sessualità, che chiaramente non corrisponde ai vostri modelli, fate esattamente l’opposto]. Vorremmo un paradigma dove ciascuno sia libero di esplorare la propria sessualità e scoprirne i lati nascosti, senza che ci sia nessuno che giudica quali siano quelli normali e quali anormali, quali morali e quali immorali [Ma se avete appena detto che il dolore non può essere piacevole! Migliaia o forse persino milioni di persone direbbero il contrario, ma chiaramente voi ne negate le capacità di giudizio e di scelta, o l* definite superficiali… se questa non è sovradeterminazione!]. Ma se la sessualità diventa sfruttamento economico dei corpi, allora non possiamo che dirci contrarie [Insomma, puoi sfruttare tutto di te, testa, mani, corpo, puoi farti venire il cancro, l’asbestosi, il tunnel carpale, ma la vagina – o la fica, secondo i gusti – non si tocca!]. E ciò non ha a che fare con la morale ma ha a che fare con il modello economico che ciò porta con sé. Esso è, per noi, l’esatto contrario della libertà [Ecco, quando farete un discorso realmente anticapitalista, ne riparliamo. Fino ad allora, prendersela con le sex worker, le/i performer postporno etc. è proprio quello che sembra: moralismo. Fatevene una ragione].

 

Deconstructing il genio della lobby rosa

l43-india-donne-rosa-120731155613_big2 E’ da molto tempo che girano pseudo difensori del machismo – pseudo perché certo il machismo non ha bisogno di difensori, dato che purtroppo se la passa benissimo – i quali usano argomenti abbastanza comici; se non fosse che molti li prendono sul serio, o per specularci e ottenere visibilità, o per trovare confermate le proprie ipocrite certezze di maschione. Questo pezzo è un po’ vecchiotto ma ha il pregio di riassumere quasi tutte le posizioni “difensive” di questo particolare tipo di sessista, che non si può tanto tacciare di ignoranza perché ha evidentemente studiato, né di ipocrisia perché in fondo è molto coerente. E’ che proprio non ci arriva, perché tutto fa tranne che mettere in dubbio il piedistallo sul quale l’ha messo il patriarcato. E da lì si mette pure a fare il difensore della “questione maschile” – per come la intende lui: cioè gli uomini soffrono tanto perché tutto trama contro di loro, poverini. Statene a sentire la genialità.

Parità per gli uomini. Dentro il tabù della questione maschile [quando si dice che il titolo è tutto un programma…]

di Marco Faraci

Ideologia femminista e paternalismo maschile, gli alleati che non ti aspetti [effettivamente ci vuole una certa dose di coraggio. Me costui ce l’ha, state a vedere]. Così la “questione maschile” resta un territorio inesplorato dall’analisi politica; di più, la sensazione è che si tratti di un argomento intoccabile per chiunque intenda fare politica “sul serio” [una bella dichiarazione di modestia, che traduce in termini più aulici il classico del Marchese del Grillo: “io so’ io e voi nun sète un c…”. E vedrete che tanta presunzione non è spesa invano].

Nei fatti, dietro all’apparente neutralità del termine “pari opportunità”, si nasconde una visione unilaterale ed escludente dei temi di genere che troppe volte si riconduce a un mero sindacalismo femminile [Nei fatti: vedremo quanti ce ne saranno, di qui in poi. Ah, è chiaro che già questa frase contiene parecchie cosucce sbagliate a bella posta: pari opportunità non si capisce come potrebbe essere un termine neutrale, in una società smaccatamente patriarcale come questa; né si capisce come potrebbero essere escludenti, se sono pari, le opportunità. Poi, che caspita è il sindacalismo femminile? Ah, sì,  quella visione maschilista per cui le donne sono tutte unite contro l’uomo, per cui non ci sono differenze nel pensiero femminista, nelle organizzazioni femministe, nelle azioni politiche delle donne. Cose che, ammettiamolo, solo un uomo può arrivare a concepire.]. Non è solo sudditanza al politically correct [ah, beh, in Italia, noto avamposto della correctness politica, c’è proprio questa sudditanza, come no]; c’è anche quello naturalmente, ma da solo non basterebbe a giustificare l’unanimismo e il trasversalismo [ma sì, perché usare due banali aggettivi quando posso sostantivarli e trasformarli in un mostro? Non una cosa unanime, ma l’unanimismo; non una cosa trasversale, ma il trasversalismo. Manco Rambaldi li faceva, effetti così speciali] che si riscontrano sulla maggior parte delle “soluzioni” invocate dalla “lobby rosa” [la famosa, unica, potentissima, riconosciuta e universalmente nota lobby rosa. Chissà, forse pensa a Peppa Pig]. Probabilmente questa assenza di contraddittorio [AHAHAHAHAHAH, certo, la nota assenza di contraddittorio alla lobby rosa, che infatti in Italia spadroneggia e decide tutto lei, no? AHAHAHAH] si spiega con il fatto che, nello specifico della questione di genere, entrano in gioco fattori inibitori profondi, in qualche modo legati all’atavico dovere maschile di proteggere le donne [sì, avete letto bene: secondo questo genio della sociologia, la fantomatica lobby rosa comanda incontrastata perché gli uomini sono inibiti dalla loro devozione al ruolo di difensori delle donne. Quanta fantasia sprecata]. Si crea così, all’atto pratico [all’atto pratico, infatti finora il nostro ha snocciolato esempi, numeri, dati, ricerche, no?], una sostanziale convergenza tra ideologia femminista e paternalismo maschile [mi permetto: costui – tra le altre cose – non ha idea di cosa significhi paternalismo] verso esiti politici che istituiscono nella legge o nella prassi speciali tutele a favore del sesso femminile [eh beh, sì, ammettiamolo, di queste speciali tutele a favore del sesso femminile non se ne può più. Le donne sono le più occupate, hanno i lavori migliori, hanno pensioni superiori, hanno ospedali più efficienti, strade più pulite, quartieri più sicuri, automobili più veloci e tutti gli orgasmi che vogliono –  nella legge o nella prassi, sia chiaro].

Rispetto ad altri ambiti dove se ne percepisce l’obsolescenza [quali? Non ci viene detto, ovviamente], sui “temi di genere” resiste una lettura paramarxista dei rapporti sociali in termini di contrapposizione di classe [fosse pure vero, ma da parte di chi? Di tutti/e? Tutti/e paramarxisti/e? Sicuro sicuro sicuro?]. Gli uomini sono visti come la classe dominante e le donne come la classe subalterna [davvero? Spiegalo a questi altri geni qui, dài, voglio proprio vedere come fai] e si ritiene, pertanto, che una condizione di “giustizia” possa essere conseguita solo attraverso l’intervento dello Stato per forzare un riequilibrio di potere politico, economico e sociale [non so di cosa sia definizione quest’ultima frase, ma certo non delle famigerate “quote rosa”].  In realtà questa lettura dei rapporti tra i generi come oppressione di un sesso sull’altro appare molto artificiosa [certo, come no – sulla base di cosa appare molto artificiosa? Non viene detto, non sapremo neanche questo, però diciamolo lo stesso, macheccefréga]; obiettivamente è più ragionevole pensare che uomini e donne abbiano contribuito a sviluppare e a consolidare i ruoli sessuali tradizionali – entrambi al di là di tutto con vantaggi e svantaggi [certo, alle donne piacciono tanto i vantaggi decisi dall’uomo per loro. Capita che se si ribellano a questo schema rischiano di venire ammazzate; e vabbè, al di là di tutto la vita è un rischio, si sa] – semplicemente perché probabilmente per lungo tempo essi erano gli unici compatibili con la sopravvivenza della specie [ah, “quello che non è la natura!” (cit.). E’ così che il maschio medio si spiega lo status quo: è stata la natura, l’evoluzione della specie a decidere che il mio sesso conta di più, mentre l’altro sesso ha barattato il suo ruolo politico, economico e sociale per stare al sicuro a casa a lavare i piatti. Beh, sì, solo un bel maschione può arrivare a pensare che tutto ciò sia naturalmente conveniente per tutti e due i sessi].

La verità è che il game changer [lo ammetto, ho dovuto usare Google per sapere che vuol dire, però ci sono arrivato da solo a capire che ‘sto parolone sta lì solo per bellezza] nel rapporto tra uomini e donne – quello che poi ha dato il la a tutte le speculazioni teoriche successive – è stato il progresso tecnologico che nell’ultimo secolo e mezzo ha reso la produttività umana sempre meno dipendente dalla forza fisica e di conseguenza ha aperto la strada a una modifica sostanziale di equilibri che erano rimasti stabili nei secoli [capito che scherzo abbiamo combinato alla natura? Lei aveva fatto il maschio forte e la femmina debole, e andava benissimo così a tutti; noi con la tecnologia ci siamo permessi di scombinare questo equilibrio così perfetto. Perfetto per quello forte, ovviamente, ma questo il nostro genio ben si guarda dal dirlo]. È in questo contesto che si inseriscono la straordinaria evoluzione della condizione femminile, ma necessariamente anche molte importanti trasformazioni che riguardano gli uomini e il concetto di maschilità. Limitare l’analisi sociologica e politica alla questione dell’avanzamento delle donne è un approccio parziale che non fornisce una buona chiave di lettura della questione di genere nel suo complesso [lo sta dicendo uno che finora non ha avallato le sue panzane con un dato che sia uno, una ricerca che sia una, un minimo di base teorica o scientifica. Per ora ha solo detto che l’òmo c’ha più muscoli della donna e la tecnologia ha fatto un casino, cosa questa che quindi non sarebbe parziale ma una buona chiave di lettura della questione di genere nel suo complesso. L’importante è crederci].

Certo, non si può negare che le donne, nella società di oggi, sperimentino particolari difficoltà o che si riscontri una presenza relativamente inferiore di donne – rispetto agli uomini – in posizioni normalmente associate ai concetti di prestigio e di potere sociale [non si può negare, eh, quindi bisogna spiegarlo – oppure sostenere che non vuol dire niente. Secondo voi che farà il nostro genio?]. Tuttavia, ritenere che questi fattori rappresentino la misura di una condizione di complessiva minorità femminile, da contrastare attraverso l’azione politica, potrebbe essere un errore di valutazione [bravi, c’avete preso, “la seconda che hai detto” (cit.)]. In effetti per inquadrare correttamente le statistiche di genere su cui riposa la strategia offensiva del femminismo [il femminismo è notoriamente offensivo, si sa, nasce proprio come tattica politica offensiva, basta chiedere in giro che tutti lo sanno] è necessario fare due tipi di considerazioni [pensavate che si fermasse lì, eh? Ve l’ho detto che è un genio. Sentite qua].

In primo luogo, in molti casi la minore presenza femminile in determinate aree ha più a che fare con l’espressione delle preferenze personali delle stesse donne che con quello che a molti piace chiamare “discriminazione”. Basta osservare la demografia di genere delle varie facoltà universitarie (Ingegneria contro Psicologia, Lettere o Scienze della Formazione), i sondaggi sui lavori ideali sognati dalle neolaureate o le preferenze delle donne in termini di conciliazione famiglia-lavoro, per spiegare perché abbiamo più dirigenti di azienda uomini che donne. Naturalmente determinati comportamenti femminili sono correlati a determinati sottostanti culturali e sociali, ma non si può pensare di correggere a tavolino l’esito di una miriade di scelte individuali imponendo un’uguaglianza statistica dei punti di arrivo [Non ho voluto interrompere cotanta esibizione di sfrontata ipocrisia – o di evidente limitatezza di comprendonio, non so decidermi. Rimane il fatto che questo paragrafo è il classico esempio di come si scambia la causa per l’effetto. Lo fa apposta? Non se ne rende conto? Non lo so, né me ne po’ frega’ di meno. Comunque sì, avete letto bene: le donne non comandano perché non gli va di farlo, altrimenti avrebbero da tempo preferito altri studi, altri lavori. E’ fantastico, davvero].

La seconda considerazione riguarda il fatto che le statistiche di genere utilizzate dalla lobby rosa [la quale quindi, oltre a esistere, fornisce statistiche univoche, capito?] sono fortemente selettive e si concentrano solamente su quegli ambiti dove i numeri confermano la premessa ideologica. In realtà se, anziché guardare alla presenza nei consigli di amministrazione, esaminassimo una serie diversa di fattori potremmo addivenire a conclusioni molto diverse [Ci-gît Monsieur de La Palice. Si il n’était pas mort, il serait encore en vie“; ma aspettate, adesso viene il meglio, perché adesso finalmente fa un esempio]. Ad esempio se prendessimo in considerazione indicatori come il numero di carcerati, di morti sul lavoro, di suicidi, di vittime di incidenti o di persone senza dimora fissa, vedremmo come semmai risultino proprio i maschi – e non le donne – a conformarsi al tipico canone di classe subordinata [certo, perché carcerati, morti sul lavoro, suicidi, vittime di incidenti o persone senza dimora fissa sono in quella situazione per motivi di genere, no? Ma veramente ancora gira qualcuno che fa finta di non sapere che il femminicidio serve a identificare un preciso movente, e non il sesso della vittima?]. Gli uomini, a quanto pare, prevalgono numericamente sia nella parte più alta della società, che nella parte più bassa. Sono al tempo stesso i primi, ma anche gli ultimi [A parte che questo non dimostra niente sul femminicidio, come già detto, rimane il fatto che, appunto, le donne nelle statistiche non ci sono. Che sarebbe una delle cose che dovresti evitare di dire, se vuoi difendere il punto di vista maschilista. “Ci sei? Ce la fai? Sei connesso?” (cit.)]. In altre parole, la condizione maschile più che essere banalmente una posizione di maggior privilegio, è una posizione di maggiore esposizione sociale. [Eh, appunto: hai appena detto che, nei fatti, ci sono solo loro, ci sono solo gli uomini. E questo alle donne dovrebbe stare bene?] Sugli uomini grava una forte pressione sociale, legata al modello di ruolo tradizionale di breadwinner. Questo li induce alla competizione e al rischio e li conduce – secondo i casi della vita – al successo oppure al fallimento [sì, appunto, infatti è proprio il modello del breadwinner che non funziona, e molti femminismi lo dicono da un pezzo. Se continui a credere all’esistenza della lobby rosa, lo dimostri da solo che dici sciocchezze, amico mio, e manco te ne accorgi].

Ritenere un problema politico l’affermazione professionale di alcuni (troppi?) uomini e non le difficoltà e le tragedie di altri è evidentemente ingiusto [peccato che finora lo stia dicendo solo tu e la tua fantomatica lobby rosa. Guarda che la maggior parte dei femminismi ha ottime spiegazioni sociali per le difficoltà e le tragedie di altri, e indovina un po’ da chi mai potrebbero dipendere?]. È ormai tempo di rapportarci alla questione di genere in un’ottica finalmente inclusiva, riconoscendo la complessità e la vulnerabilità della condizione maschile e quanto essa sia profondamente influenzata dalle aspettative sociali e culturali [amore mio, molti femminismi lo fanno da parecchi decenni, ma tu che ne sai? Tu credi alla lobby rosa]. Porre l’attenzione sulla questione maschile non deve essere visto come una “reazione”; non si tratta di contestare il processo di emancipazione femminile, né di riportare indietro l’orologio della storia a un qualche passato perduto. Si tratta piuttosto di considerare che solo un percorso inclusivo può condurre al superamento del sessismo e che tale percorso richiede anche il riconoscimento e il superamento dei pregiudizi e delle discriminazioni contro gli uomini [sì, tutto molto bello, ma per esempio: smettere di credere alla lobby rosa? Che dici, cominciamo con questo, di pregiudizio?]. I fronti su cui sarebbe necessario muoversi sono molti; qui se ne citeranno solamente alcuni che presentano, in questo momento, una particolare valenza politica, culturale ed istituzionale [ancora esempi? Aiuto…].

Di particolare centralità appare la lotta alle quote e alle azioni positive, che sono uno dei pilastri del femminismo ideologico [ma quale cacchio sarebbe mai il femminismo ideologico? Basta, siamo nel 2014, lo vogliamo capire che “il” femminismo non esiste e non è mai esistito? Lo vogliamo capire che è un’etichetta per definire tantissime storie e pensieri diversi, spesso opposti, sulle questioni di genere?] ma allo stesso tempo rappresentano un vulnus alla concezione liberale del diritto. Non è accettabile che la politica possa permettersi di usare qualsiasi mezzo per perseguire un fine definito a priori. Ci sono dei valori e dei princìpi che dovrebbero essere ritenuti “pre-politici” e non negoziabili [certo, come la natura che ha fatto l’òmo forte e la donna debole, no?] – tra questi il principio della neutralità della legge rispetto a caratteristiche quali la razza o il sesso. Il fatto che il potere imponga che una persona ne scavalchi un’altra solo perché questo serve a soddisfare delle statistiche generali è un’offesa alla dignità dell’individuo [a me pare un’offesa all’intelligenza dell’individuo interpretare in questo modo le leggi che prevedono quote di genere, che invece dicono tutt’altro. Dovrebbe bastare saper leggere, ma non so se tra i “liberali” questa pratica è diffusa: basta usare Google tre secondi per arrivare a un buon materiale didattico universitario che spiega la faccenda. Ne cito un brano: “Le quote e le altre forme di azioni positive sono quindi un mezzo verso la parità di risultato. In questa prospettiva, le quote non sarebbero una discriminazione nei confronti degli uomini, ma piuttosto una compensazione per le barriere strutturali che le donne incontrano nel processo elettivo. Questo sistema pone l’onere del reclutamento non sulla singola donna, ma su coloro che controllano il processo di reclutamento politico”. Ovviamente si tratta di un file PPT prodotto dalla lobby rosa].

Ma anche leggi scritte in maniera neutra possono essere viziate in fase applicativa da un sessismo anti-maschile [Fase applicativa che sarebbe anche questa in mano alla lobby rosa, immagino]. Uno dei casi più rilevanti è quello delle norme sull’affidamento dei figli, in particolare in virtù del sostanziale tradimento, a livello di prassi applicativa, dello spirito della legge del 2006 sull’affido condiviso. Nelle condizioni attuali una separazione può comportare conseguenze distruttive per un padre, sia dal punto di vista del rapporto con i figli che dal punto di vista economico. Lo strabismo dei nostri tribunali è tale che è solo grazie alla correttezza della maggior parte delle donne che esiti di totale abuso nei confronti degli uomini non diventano la norma [non mi ci spreco neanche a parlare delle norme sull’affidamento dei figli perché c’è chi lo fa onestamente e senza ipocrisia da prima e meglio di me. Ma notate che è grazie alla correttezza della maggior parte delle donne che… Allora? ‘Sta lobby rosa funziona o no? Ma per favore].

Infine, particolare importanza ha la necessità di contrastare, con forza, politiche di colpevolizzazione collettiva del sesso maschile [io ho sentito sempre e solo i maschilisti ripetere questa solfa che qualcuno accusa tutto il genere maschile. Anche qui dovrebbe bastare saper leggere per notare che non esiste alcuna corrente femminista – tra quelle seriamente proposte, ovviamente – che s’è mai sognata di accusare indistintamente tutto il genere maschile. Figuriamoci se esistono addirittura politiche di colpevolizzazione collettiva del sesso maschile. Da parte di quale partito, di quale organizzazione? Un esempio, un link? Niente]. Se si ripete spesso, specie a sinistra, che “la violenza non ha razza”, allora non è in alcun modo accettabile che si attribuisca alla violenza un sesso e che le campagne di sensibilizzazione sul tema siano espresse in termini sessuati e generalizzanti [e capirai, a sinistra s’è arrivati a dire che i morti fascisti sono uguali ai morti partigiani, figuriamoci. Notate che questa seconda frase passa dalle “cose” alla “comunicazione delle cose”, come se fossero termini equivalenti. E’ che gli serve per sparare la prossima].  In questo senso la campagna mediatica di questi mesi sul “femminicidio” è una campagna profondamente sessista [certo, come una campagna contro le frodi fiscali è discriminante nei confronti dei commercianti, no?], che rinfocola gli stereotipi di genere – anziché combatterli – quelli dell’uomo violento e prevaricatore e della donna innocente e naturaliter buona [di nuovo, questo è un noto stereotipo usato dai maschilisti: nessun femminismo s’è mai sognato manco di dire che la donna è innocente e naturaliter buona. Ma perché informarsi? Io sono maschio, quindi lo so, si sarà detto il genio]. È dunque una campagna moralmente sbagliata e culturalmente pericolosa [e certo, quella è culturalmente pericolosa; quella contro la fantomatica lobby rosa invece va bene], che deve essere confutata se ci stanno a cuore basilari princìpi di rispetto del diritto e delle persone.

In definitiva la sfida di portare il tema della “parità per gli uomini” nel dibattito è ambiziosa [no, è ipocrita, ma se tu c’hai quest’ambizione, fai pure], ma politicamente necessaria – la questione maschile è, prima di tutto, una questione di equità sociale e di diritti civili [che agli uomini sono da sempre negati, come voi tutti sapete bene]. Se non saremo in grado di coglierla pagheremo un prezzo molto alto nei prossimi anni in termini di disagio sociale degli uomini [porèlli, che brutta fine dopo secoli di sofferenze] e più in generale di avvelenamento dei rapporti tra i sessi [che invece da secoli vanno benissimo, no? Ma guarda tu ‘sta brutta lobby rosa che va a rovinare una tradizione tanto naturale e rispettosa: l’òmo comanda e protegge la donna, la quale obbedisce e si prende tutte le comodità di questa situazione].

Ve l’avevo detto, che è un genio.

L’autodeterminazione è un diritto! #ddl405

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Non è un mistero che le persone transessuali, transgender e intersex subiscano costantemente discriminazioni e violenze. In Italia si può morire di transfobia per un crimine d’odio o per mano propria quando ci si suicida per bullismo transfobico, si può essere costrette/i a non proseguire gli studi per lo stesso motivo, si può fare la fame perché la discriminazione transfobica impedisce di trovarsi un lavoro, ci si può stressare per anni e anni con carta d’identità, patente e via dicendo che non rispecchiano la propria fisicità causando perpetui ed involontari outing, si può nascere con una delle tante forme di intersessualità e dover subire, coercitivamente, interventi che hanno tutto a che vedere con l’ossessione di questo mondo per il binarismo sessuale e ben poco con la salute; si può essere privi di qualsiasi diritto ufficialmente riconosciuto e nonostante questo essere additati come richiedenti di privilegi, si può piangere a reti unificate la morte dell’ennesima/o ragazzina/o  per omofobia, bifobia, transfobia e contemporaneamente negare a milioni di altri ragazzini/e un’esistenza non eccellente, ma almeno entro i limiti della decenza.  Per questo e per un lungo elenco di altri motivi, riteniamo importantissimo sostenere la campagna a favore del disegno di legge 405, il cui testo completo è disponibile qui. Queste sono, in pillole,  le innovazioni che porterebbe la sua approvazione:

  • Sparisce il tribunale dal percorso di transizione, con un netto risparmio in termini economici, di tempo, di uso della pubblica amministrazione. Nessuno è chiamato a giudicare. La procedura di modificazione dell’attribuzione di sesso e del nome di nascita andrà presentata al prefetto, che in 30 giorni dispone il cambio. Sarà possibile cambiare nome e sesso o anche solo il nome. Occorre solo la relazione di disforia di genere per richiedere il cambio anagrafico. Il cambio anagrafico viene richiesto quando il diretto interessato lo desidera, non quando lo concede il giudice (situazione attuale).
  • Resta il ricorso al tribunale per i minori che, non essendo maggiorenni, possono comunque usare questa via per accedere al percorso, al cambio anagrafico e all’operazione. Sarà possibile ricorrere ad un tutore speciale in caso i genitori si oppongano alla volontà del minore.
  • È specificato che, in caso di disforia di genere, l’asportazione di organi sani (apparato genitale) non rientra tra le mutilazioni, ma un normale procedimento di tutela della salute della persona. Non è più necessario ricorrere al giudice per l’autorizzazione all’intervento.
  • Il matrimonio non può più essere sciolto automaticamente ma segue la normale procedura di separazione/divorzio.
  • È vietato qualsiasi intervento chirurgico cosmetico, di riattribuzione forzata del sesso, sui bambini nati con genitali atipici (intersessuali).
  • Tutte le procedure e i trattamenti sono gratuiti
  • È attivato un programma di sensibilizzazione riguardo la transessualità per il personale sanitario.

Qui potete trovare sia le novità di cui sopra, sia il confronto con l’attuale situazione legislativa. È importante, fondamentale, e questa lotta non riguarda esclusivamente le persone transessuali, transgender e intersex, ma tutte e tutti. L’austerità diventa la scusa più utilizzata per opporsi alle lotte per l’autodeterminazione di tutti i corpi: di donna – cis e trans, intersex e di uomo/donna/persona trans in generale, e questo non può essere permesso; non possiamo permetterglielo, non possiamo permettercelo. Firmate la petizione, fatela circolare, twittate e retwittate sull’hashtag #ddl405 e seguite l’account @ddl405. Informazioni, storie e contatti li trovate su questo blog. L’autodeterminazione è un diritto!

 

 

La storia di Enrico tra classismo e abusi di potere

nenesQualche giorno fa leggevo la storia di Enrico, un FtM che si è visto rifiutare dal giudice, a causa del suo basso reddito, l’autorizzazione per eseguire gli interventi di mastoplastica e di rimozione dell’apparato riproduttivo. Mi spiego. Il CTU, ovvero lo psichiatra incaricato dal tribunale per dichiarare se la perizia, fatta da altr@ suoi@ collegh@, fosse in regola o meno, ha pensato bene di chiedere un anticipo che il giudice gli avrebbe concesso mettendolo a carico del richiedente (Enrico ha diritto al gratuito patrocinio). A tali richieste l’avvocato di Enrico ha dovuto ricordare, manco ce ne si fosse dimenticat@, che chi si avvale del gratuito patrocinio lo fa perché non può sostenere certe spese, e che quindi la richiesta era assurda. Di fronte al rifiuto, lo psichiatra decide di non erogare alcuna prestazione, nonostante sia pienamente cosciente che ciò implica il blocco del percorso di Enrico, che dovrà a questo punto attendere chissà quanto altro tempo per ottenere l’approvazione del giudice. Trovo questo atteggiamento un vero e proprio ricatto, un abuso di potere che mai dovrebbe esser concesso a nessun@.

Questa storia mette in evidenza due elementi importanti: l’accesso alla sanità, diverso per classi, ed il potere che alcun@ specialist@/professionist@ hanno sulle nostre vite. Che la sanità pubblica stia subendo uno smantellamento a favore di quella privata è sotto gli occhi di tutt@. Che alcuni servizi siano esclusivi di alcune fasce di reddito anche. Conosco persone che, per una visita dentistica, soffrono le pene dell’inferno perché non hanno i soldi neanche per il ticket e quindi attendono di poterli racimolare, o che attendono mesi, prima di poter essere visitat@, perchè la lista di attesa è lunghissima. E’ palese come chi ha soldi può permettersi cure tempestive e migliori, rispetto a chi stenta anche a pagarsi il ticket – e non perché le prestazioni di chi lavora nel pubblico siano di minor valore rispetto a quelle dei privati, ma perché l’organizzazione, nelle strutture pubbliche, lascia molto a desiderare.

Chi ha soldi, chi appartiene a classi sociali cosiddette “alte”, non saprà mai cosa significa dover girare come una trottola in diverse regioni per ottenere un’interruzione di gravidanza, dato che potrà rivolgersi senza problemi ad un privato – che forse nel pubblico fa l’obiettore di coscienza; non conoscerà mai quella paura di non avere soldi a sufficienza per comprarsi la pillola del giorno dopo, perché si ostinano a non renderla gratuita oltre che a renderti un inferno tutto il processo per ottenerla; non conoscerà mai l’umiliazione di dover fingere di aderire a certi schermi preconfezionati perché, altrimenti, l@ psicolog@ da cui vai per la perizia che ti permette di accedere al percorso di attribuzione di sesso non ti rilascerà mai quella cavolo di approvazione; non conoscerà mai l’attesa di chi aspetta che il consultorio pubblico, a cui si è rivolti, smaltisca le visite e forse, se tutto va bene, tra due settimane ti permetterà di farsi una visita ginecologica; non saprà mai cosa vuol dire uscire da un medico privato con una cifra a tre zeri, anche a nero, e la rabbia di sapere che tutto questo lucrare sulla salute e il dolore degli/lle altr@ fa davvero schifo.

Ma oltre ad un accesso a due corsie nella sanità, c’è anche la questione del potere che viene concesso a quest@ specialist@/professionist@ che possono decidere se puoi o meno cambiare genere, se puoi o meno ottenere la pillola del giorno dopo, se puoi o meno abortire e scegliere il modo in cui farlo, senza mai chiedere il parere della persona su cui stanno legiferando. Se questa non è sovradeterminazione ditemi voi cosa lo è. Mai nessun@ dovrebbe avere il potere di decidere sul corpo e sulla vita di un’altra persona, mai nessun@ dovrebbe esser mess@ in grado di agire un abuso di potere, quindi un ricatto bello e buono, consci@ del fatto che, senza la sua prestazione, quella persona sarà in difficoltà. Quello che è accaduto ad Enrico, ma che accade quotidianamente sulla pelle di tante soggettività, dimostra come la medicalizzazione abbia permesso, a certe professioni, di avere il controllo assoluto sulle nostre vite, sui nostri desideri troppo spesso discriminati.

Ma questa storia parla anche di un iter legislativo autoritario, che, lungi dal concedere libertà, costringe le persone a subire il ricatto di specialisti operanti in diversi campi. Come la 194 ha al suo interno il meccanismo stesso del proprio sabotaggio, ovvero l’obiezione di coscienza, così la legge 164, che regola l’attribuzione del genere, costringe le persone trans a subire un continuo ricatto, da quello dell’approvazione di un psicolog@  – che attesti la tua sanità mentale e al contempo uno squilibrio – fino alla sterilizzazione forzata, condizioni indispensabili per poter vedere riconosciuta la propria identità di genere. Violenza, non c’è altro modo di definirla.

La storia di Enrico mi ha permesso, però, anche di conoscere questo sito  su cui sono raccontate molte altre storie interessanti, tra cui quella di Diego, che parla di spese mediche e legali insostenibili e di un bisogno di cambiare la cultura prima ancora che la legge. Come dargli torto? Non si può più accettare questa psichiatrizzazione, basata su una dicotomia del tutto culturale a cui si è costrett@ ad aderire per vedersi riconosciuta la propria identità di genere. Per questo credo sia importante supportare questa petizione che chiede di poter ottenere l’attribuzione di genere senza sottoporsi alla mutilazione genitale, ma anche di iniziare un percorso che porti alla depsichiatrizzazione della transessualità e di tutto ciò che viene definito “deviante”, esclusivamente in base all’esistenza di un’idea di ‘norma’ che ormai non è condivisa né rappresenta un numero sempre maggiore di soggett@.

Non ho mai creduto che le leggi potessero generare un reale cambiamento, dato che esso è e sempre sarà proprio della cultura, ma per ora, nel sistema in cui viviamo – sistema che per altro non amo né supporto – possono permettere a molte persone di sopravvivere. Per vivere ci toccherà lottare per una rivoluzione molto più ampia e radicale.

Se la prostituzione non fosse accompagnata dal rifiuto sociale, potrebbe risultare allettante per molte persone

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(Aiko. Detail. Collage on canvas. Photo © Jaime Rojo).

Intervista a Dolores Juliano di Itziar Abad. Traduzione di Serbilla Serpente revisione di feminoska, articolo originale qui.

Se la prostituzione non fosse accompagnata dal rifiuto sociale, potrebbe risultare allettante per molte persone

L’antropologa Dolores Juliano sostiene che, siccome “il modello di sposa e madre devota è davvero poco attraente, l’unico modo per ottenere che le donne vi si adeguino è assicurarsi che l’altra possibilità sia peggiore”.

Dolores Juliano (Necochea, Argentina, 1932) ha studiato a fondo le strategie culturali e di dominazione di genere contemporanee, così come i saperi e le pratiche delle collettività oppresse che le fronteggiano. El juego de las astucias. Mujer y construcción de mensajes sociales alternativos (1992); La prostitución: el espejo oscuro (2002); o Excluidas y marginales: una aproximación antropológica (2004) ce lo raccontano bene. Questa dottora in Antropologia e professora dell’Università di Barcellona ha fatto parte, fino al suo pensionamento, del progetto ‘Mujeres bajo sospecha. Memoria y sexualidad (1930-1980)’ condotto da Raquel Osborne. In esso, Juliano analizza i modelli di sessualità vigenti durante il franchismo e come l’omosessualità femminile fosse condannata al silenzio e all’invisibilizzazione.

I modelli di sessualità femminile sono cambiati rispetto a quelli dell’epoca della dittatura, oppure è cambiata la forma ma la sostanza è la stessa?

E’ cambiata la società. La chiesa cattolica mantiene i modelli sessuali tradizionali. L’idea di peccato o di devianza è molto presente in essa e nelle religioni monoteiste. Nel protestantesimo ci sono modelli puritani assolutamente fondamentalisti. Il dettato delle leggi religiose sembra ugualitario, ma nella pratica non è mai stato così.

Queste religioni sono più permissive con la sessualità maschile?

Sì, e ciò ha a che vedere con i modelli religiosi e l’organizzazione sociale. Le società patrilineari e patrilocali sono molto restrittive rispetto alla sessualità femminile.

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Basta aggiungere una “M” e lo Zoo va giù…

Room with a ZooPremessa necessaria: Gli zoo pubblici, per come li conosciamo oggi, affondano le proprie radici nel periodo di espansione coloniale europea. Storicamente, gli zoo di animali sono nati insieme agli zoo umani. Gli zoo umani erano una componente chiave delle fiere ed esposizioni mondiali, nelle quali le potenze coloniali mostravano la loro ricchezza e tecnologia avanzata accanto ai “selvaggi” conquistati. Venivano pertanto costruiti villaggi di popolazioni indigene come replica del loro supposto “habitat naturale”,  di modo che il pubblico potesse vederli nei loro supposti  “costumi tradizionali”. Questi individui erano spesso schiavi. Per lungo tempo i “selvaggi” vennero mostrati a fianco della fauna selvatica, a rafforzare la pretesa dei conquistatori che gli indigeni fossero l’anello mancante tra  animali ed esseri umani.  

Nel libro Metamorphoses of the zoo: Animal encounter after Noah, Ralph Acampora, citando la famosa e triste storia di Ota Benga, giovane guerriero pigmeo recluso nello Zoo del Bronx nel 1906, afferma:  “A prescindere dall’indignazione che ci suscita la prigionia di Ota Benga, la questione cruciale è quella posta da Hari Jagannathan Balasubramanian: Per quale motivo la maggior parte di noi non condanna, oggi, quello che nel 2107 sarà percepito come davvero vergognoso? Forse, nel 2107, gli zoo saranno visti come una vergogna.”

Immagino di trovarmi in una prigione di nuova concezione: al suo interno non ci sono sbarre.  Le celle non sono tutte bianche e uguali ma arredate con mobilio e svaghi. Le guardie sembrano persino un po’ più ‘umane’… Eppure, sono in prigione. Non esistono sbarre, eppure ci sono confini ben definiti; i volumi della libreria che arredano il mio spazio sono in realtà copertine ripiene di polistirolo; non posso scegliere di andarmene di lì, né chi frequentare – sono costretta a condividere i miei spazi con sconosciut*, o magari mi trovo sola – e soprattutto sono continuamente osservata.

Occhi che mi controllano, perché di lì non me ne posso andare. Occhi che definiscono le mie giornate – quando e quanto devo mangiare e bere, ad esempio – scandendole come un metronomo, indipendentemente dai miei desideri. Occhi che, soprattutto, spiano voyeuristicamente ogni centimetro del mio corpo e ogni mio movimento… perché io per quegli occhi sono intrattenimento, non un individuo.

Un posto del genere esiste, anzi ne esistono tanti. In questi posti, oggi, sono prigionieri animali non umani, catturati e reclusi al solo scopo di lucro. Vite rubate ai propri habitat, alle proprie famiglie, alle proprie relazioni, alla propria indipendenza, libertà e autodeterminazione: vite a perdere destinate alla dipendenza dagli umani con la scusa della “conservazione” – mentre al di fuori di questi spazi, la distruzione di habitat e biodiversità procede spedita e senza rimpianti. Vite alla mercé di persone spregevoli, che così tramanderanno, a persone in divenire (i bambini e le bambine la cui spontanea attrazione per il non umano e il selvatico diventa ottima occasione di guadagno), l’idea che i non umani sono a disposizione dei nostri capricci, che dal momento che possiamo disporne sono davvero inferiori agli umani… anche se in fondo fanno simpatia, e meritano un po’ della nostra benevolenza.  Quando fa comodo e ce ne avanza un po’, naturalmente.

Solo un essere umano potrebbe cadere nella trappola di una passata di marketing che, con un po’ di belletto pubblicitario e qualche escamotage, tenta di far passare il concetto che un bioparco sia qualcosa di differente dall’ormai screditato zoo. Come se la forma avesse la capacità di cambiare la sostanza. Come se 4 scenografie di resina, un sito web colorato e dalle foto accattivanti – neanche si trattasse di un villaggio vacanze – rendesse più accettabile la deprivazione degli spazi naturali che si tenta pateticamente di riprodurre, il trauma della cattura dei selvatici e l’abominio della cattività. Come se una M, aggiunta ad una parola che ora non va più di moda (zoo non si usa più, è politically uncorrect, e le sbarre, oramai si è capito, è meglio che non si vedano), cambiasse una realtà di sfruttamento e prigionia, isolamento e sradicamento.

Gli animali non umani non si fanno fregare così facilmente, nemmeno noi dovremmo essere così miopi.

“Le insegne luminose attirano gli allocchi” diceva una canzone che ascoltavo molti anni fa, ma gli allocchi a cui si riferiva non erano sicuramente rapaci. Se c’è qualcosa che dobbiamo imparare da quei luoghi di prigionia che sono i bioparchi, è non accettare di essere anche noi prigionieri di scenari falsi, aguzzini sorridenti e occhi perennemente puntati su di noi. Anche il nostro mondo, quello popolato perlopiù da esseri umani, assomiglia sempre più ad un bioparco. Nel quale siamo costantemente controllat*, nel quale non siamo liber* di dissentire, nel quale altr* decidono che cosa è meglio per noi e ci danno tanti nuovi giocattoli per farci dimenticare quanta libertà abbiamo perduto.

Ribellarsi a tutto questo, solidarizzare con chi è prigioniero –  indipendentemente dalla propria specie di appartenenza – non dimenticare mai che la libertà e l’autodeterminazione sono irrinunciabili per tutti gli individui e che non esiste giocattolo in grado di risarcirne la perdita. Lottare per la libertà di tutti e tutte: ma proprio TUTTI E TUTTE, indipendentemente da razza, specie, genere.

Questo è quello in cui, come attivist*, dobbiamo impegnarci senza sosta se davvero vogliamo abbattere un sistema che si alimenta dell’altrui sfruttamento … E che si tengano le loro cortecce di pino!

 

Un bicchiere e una risata per Riccardo

Pieter Bruegel il Vecchio, "Paese della cuccagna" (Luilekkerland), olio su tavola, 1567.
Pieter Bruegel il Vecchio, “Paese della cuccagna” (Luilekkerland), olio su tavola, 1567.

La notizia, immagino, la sappiate: Riccardo Venturi, tra pochi giorni, avrà l’udienza preliminare per il reato di “Attentato all’onore e al prestigio del Capo dello Stato”.

Le sue parole che raccontano fatti e pensieri sono qui. L’attentato che ha scatenato l’apparato di potere e i suoi kafkiani meccanismi lo potete leggere qui.

Ho avuto il piacere di incontrare Riccardo due volte – che considerando la sua socialità e la mia pigrizia è un record del quale andare fiero. Entrambe le volte in occasioni libere, antifasciste, comuni; momenti felici e intensi per i quali non ci sono parole.

Non posso che invitarvi a leggere tutto il possibile dal suo blog, tutte le sue parole, più che potete: salvatele, diffondetele, conservatele. Non lasciate che si attenti alla vostra libertà: scatenate la sua, e mi raccomando, oggi bevete e ridete pensando a lui, come faremo noi.

A presto, Riccardo, da tutt@ di Intersezioni. Come vuoi tu: verið þið öll blessuð og sæl.