Siate come i maiali

Riceviamo, e volentieri condividiamo, questo post di Sara Romagnoli. Buona lettura!

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In questi giorni, centinaia di allevatori si sono radunati in piazza, davanti a Montecitorio.

Lo hanno fatto con alcuni maiali, che inconsapevoli, insieme a loro, protestavano perché non riconosciuti come maiali italiani da forchette, coltelli e più in generale signori palati e compagne papille.

Chiusi in un recinto, sdraiati su giacigli di paglia nel vano tentativo di dormire, cuccioli di maiale si stringevano forte gli uni sugli altri, un unico roseo corpo. Tra gli esponenti della Coldiretti qualcuno li accarezzava – i cuccioli fan sempre un certo effetto, nonostante tutto – e nel fragore di clacson, fischietti, megafoni e microfoni giornalistici si sbraitava, si accusava, si denunciava e soprattutto si pretendeva di argomentare facendo uso di termini come “materia prima”, accomunando quegli stessi cuccioli alle spighe di mais i cui chicchi macinati al mulino diventano farina, ed in seguito filoni di pane.

Svolgendo quell’equazione matematica frutto di sociopatia per la quale i maiali stanno al Parmacotto come le conifere della Russia stanno all’Ikea, il teatrino svoltosi in piazza a Roma costringe l’antispecismo teorico ad inventare nuove teorie e ad affinare quelle già discusse, perché con la protesta di oggi (e a dire il vero con proteste simili già svoltesi anni addietro), ha chiamato in causa qualcosa di peggiore del fatidico “referente assente”, giacché il referente era presente eccome, in carne ed ossa – è proprio il caso di dirlo – al centro del dibattito, spalleggiato da parenti più o meno stretti sotto forma di cosce affumicate.

Nella recriminazione di una folla arrabbiata che rivendica diritti per se stessa, in quanto categoria lavoratrice, nessuno pare cogliere l’irrazionalità di un comportamento quasi bipolare che dispensa carezze al suo protetto ed al tempo stesso esige il rispetto ed il riconoscimento per la sua futura carriera di cotechino.

Inutile sottolineare in questa sede, quanto al danno si aggiunga la beffa per coloro che, volenti o nolenti, si ritrovano a contribuire ANCHE di tasca propria a questa forma di follia istituzionalizzata, giacché le sovvenzioni agli allevatori incarnano talmente bene lo spirito democratico del Paese che non fanno distinzioni ed attingono in egual misura da animalisti, vegetariani, vegani, antispecisti, che diciamolo chiaramente, spenderebbero più di buon grado quegli stessi soldi in cubetti di ghiaccio in Antartide.

E mentre nella capitale della politica italiana va in scena la mistificazione distillata della felice storia di tutte le Peppa Pig del mondo, nella capitale della Cina italiana (Prato), il palco è impegnato con la citazione delle tre scimmiette: Io non vedo, Io non parlo, Io non sento.

Complice la crisi, l’assenza di questi ulteriori referenti dagli occhi a mandorla è diventata man mano sempre più accentuata, ma si tratta di un accento che si limita a farsi (non)sentire solo sul piano nominale.

Che piccole mani orientali tessano, cuciano, incollino, taglino, sferruzzino e tanto altro ancora 24h su 24 è risaputo da tutti ormai, ma i cinesi ci rendono le cose molto più semplici: si rendono “assenti” senza che ci sia bisogno che qualcun altro lo faccia per loro; si fanno piccoli, più piccoli di quanto già non siano, e si calano talmente bene nell’occidentalissimo ruolo di “risorse umane” (quanto fa schifo questo termine? Diciamo anche questo suvvia), da diventare schiavi.

Schiavi che stipati, pigiati, pressati e sfruttati lavorano in silenzio per meno di 3€ l’ora senza lamentarsi, senza denunciare, senza quasi scomporsi. Limitandosi a tentare di salvarsi la vita quando proprio sono al limite e quando arriva il fuoco a lambire gli scatoloni ove a conti fatti dormono, mangiano e lavorano.

Le analisi di premesse e dinamiche che permettono che cose come queste avvengano sono complesse e meriterebbero interi saggi.

A quei cinesi qui possiamo solo limitarci a dire di essere come i maiali. I maiali da vivi, ben inteso.

Avete mai provato a forzare un maiale? A costringerlo a fare qualcosa che capisce esser male per lui, o anche semplicemente a fargli fare qualcosa che non vuole, che non gli piace?

Il maiale strepita, si dibatte, si agita, si impunta, si dispera, urla, piange. Il maiale si ribella.

E a dispetto dello specismo che lo prende a prestito per indurre la vergogna ed indicare perversione e lordura, il maiale è un animale nobile che sconta l’esser divenuto l’incarnazione del concetto di risorsa al massimo livello.

Perché del maiale non si butta via niente dice l’antico adagio.

Niente esclusa la vita. Aggiungiamo noi.

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Deconstructing il Queer Bilderberg

muccassassina_672-458_resizeEbbene sì: c’è in atto un complotto internazionale che vuole il mondo abitato da poche persone che non si riproducono e che sono facilmente influenzabili soprattutto nei loro costumi sessuali. Vi lascerà stupiti tutto ciò, eppure è così, ci dicono: è in atto una Rivoluzione sessuale globale e noi siamo ancora qui, seduti davanti a un gelido schermo luminoso invece di copulare a volontà con partners neanche mai lontanamente immaginati. Che imbecilli.

Prima di addentrarci nell’esame del testo rivelatore di questo nefando disegno internazionale, che ci vuole tutti sterili e insensatamente dissoluti, una piccola nota e una raccomandazione squisitamente filosofiche – perdonatemi per qualche riga, poi capirete perché.

Nota: Ratzinger soprattutto ha sostenuto praticamente un giorno sì e l’altro pure della sua carriera anche precedente il soglio papale qual è il male del secolo, ovverosia: altro che AIDS, cancro e guerre sostenute dal capitalismo, ciò che fa tanto male al genere umano è il dispregio di ogni verità assoluta – tipo diopadre, Cristo e altre di queste cose. Il relativismo (questo è il nome del male supremo tra i supremi) è quell’atteggiamento filosofico – non è una dottrina, o si contraddirebbe – che ritiene inesistenti le verità assolute, oppure che non siano conoscibili o esprimibili, o che comunque lo possono essere solo in parte, cioè relativamente a circostanze storiche. A questo modo di intendere e interpretare il rapporto dell’uomo col mondo la chiesa cattolica – ma non solo lei – si oppone, sostenendo ovviamente che invece gli assoluti esistono (sarebbero quelli che dice lei) e dimenticandosi a bella posta che essa stessa è nata in un particolare periodo storico, e che tantissima altra umanità, altrove, ne fa a meno senza farsi problemi.
Raccomandazione: non credete a nulla di quello che “si dice” su Nietzsche. Vi prego.

Ma adesso addentriamoci nel complotto più relativista di tutti.

Rivoluzione sessuale globale

di Antonio Malo (Professore Ordinario di Antropologia nella Pontificia Università della Santa Croce) [Capito? Mica pizza e fichi – qui una spiegazione per gli esterni al G.R.A.]

L’autrice del libro La rivoluzione sessuale globale (Die globale sexuelle Revolution), la sociologa e pubblicista tedesca Gabriele Kuby, è una delle poche voci che con autorità riconosciuta si levano per criticare il relativismo occidentale odierno. [Eccoci qui; la nostra eroina Gabriele, nota al mondo per accusare di relativismo nientepopodimenoche Harry Potter, ha davvero una storia personale interessante e per niente relativista, no no.] A lei si deve, ad esempio, che il ministro federale della famiglia in Germania, Ursula von der Leyen, sia stata obbligata a togliere dalla circolazione il libro di educazione sessuale Corpo, amore, il gioco del dottore, in cui fra altre aberrazioni si invita ai genitori a giocare sessualmente con i loro bambini. [Non voglio mettere link appositamente: se anche voi credete davvero che in Germania sia stata mai autorizzata la stampa e la vendita di un libro di educazione sessuale apertamente pedofilo, siete nel blog sbagliato.]

Il saggio di cui mi occupo riprende alcuni temi di due delle sue opere precedenti [scusate il prof. Malo per il suo italiano, è molto emozionato]: Gender Revolution. Il relativismo in azione (Cantagalli 2008) e Statalizzazione dell’educazione. Sulla via per diventare uomini nuovi (2007). Adesso però la sua denuncia acquista una portata universale. [Prima ce l’aveva solo con Harry Potter, che infatti è noto solo nel suo paese, no?] Da qui il titolo del libro La rivoluzione sessuale globale; una rivoluzione che, come indica il sottotitolo (Distruzione della libertà nel nome della libertà), pretende di cambiare radicalmente le persone e la società facendo leva su una volontà di potenza, di chiara ispirazione nietzschiana. [Notate che non s’è capito né di che rivoluzione si tratti, né cosa c’entra la libertà e soprattutto perché ci deve andare di mezzo sempre il povero Federico.] A partire da questa chiave interpretativa [quale? E soprattutto, chiave interpretativa di che cosa?], Kuby riesce a raccontare la storia, i metodi e le conseguenze di un’agenda globale potentissima [la storia di un’agenda globale, ditemi che ho letto male, vi prego] che cerca di modificare le costituzioni dei paesi, le istituzioni educative e le consuetudini dei cittadini [oh mamma, la SP.E.C.T.R.E.!] con un solo scopo: la costruzione di una società globale in cui le persone siano poche e completamente manipolabili. [Ricapitoliamo: un professore ordinario di antropologia ci dice che trova importante il saggio di una sociologa che prima ha scritto contro le posizioni relativiste sostenute dalla saga di Harry Potter, poi adesso ha individuato un complotto internazionale per decimare la popolazione del globo e renderla idiota. E secondo loro ancora dovremmo starli a sentire.]

A qualcuno potrebbe venire in mente il pensiero: “Ecco, un altro libro sui complotti”. [Antò, guarda, a questo punto di pensieri me ne sono venuti già di ben peggiori.] Basta, però, guardare alla quantità di documenti analizzati, ai fatti e alle statistiche raccolte per capire di trovarci di fronte a un libro rigoroso e oggettivo. [Documenti, fatti e statistiche che qui non vengono citati manco di striscio, purtroppo. Si va a fiducia, che com’è noto non è affatto relativa.] Nonostante la mole di materiale, la lettura del libro, lungi dall’essere noiosa, diventa pagina dopo pagina piena di suspense e di rivelazioni sorprendenti. [Ah, noioso il libro non lo è di sicuro: già solo questa recensione mi sta facendo schiattare dalle risate!] Il lettore viene informato del retroscena, i mezzi e la ragnatela di organizzazioni governative e non governative implicate nella messa in pratica di questa agenda globale. [Che culo, eh? Noi sappiamo tutto – grazie Kuby! – mentre il mondo, ancora ignaro, vive tranquillo.] Nel contempo gli si offrono le categorie antropologiche e sociologiche necessarie perché questi possa fare le valutazioni pertinenti con cui prendere decisioni.[Non bastavano documenti, fatti e statistiche, c’è anche un compendio di antropologia e sociologia che permette a tutti di raggiungere il grado di preparazione necessario a fare le valutazioni pertinenti – senza, le vostre valutazioni non sarebbero pertinenti, eh – e anche a prendere decisioni. Tipo buttare via il libro, per esempio.]

Nella prima parte del libro (capitoli 1-4), l’autrice presenta brevemente l’origine storica dell’attuale rivoluzione sessuale. [NO! Ce la siamo persa! Ecco, succede una cosa interessante e tocca venirla a sapere da un libro di una in odore di beatificazione. Però la rivoluzione sessuale è attuale, se ci diamo una mossa forse facciamo in tempo per l’afterhour.] Dopo aver segnalato la rivoluzione francese come punto di inizio storico della lotta per raggiungere l’uguaglianza, indica il movimento femminista del 68 come tappa precedente all’ideologia di genere, [FERMI TUTTI, un momento. A casa mia, 1968 meno 1789 fa 179 anni. Non è successo niente, in questi quasi due secoli? E poi, che sarebbe l’ideologia di genere? Ah, già, ne abbiamo parlato qui.] secondo cui l’umanità non è fatta di uomini e donne, bensì di un’informe massa di uguali [EH?] che hanno il diritto di costruirsi la propria identità sessuale. [Scusi la critica, prof. Malo, ma la vedo parecchio confusa nel muoversi tra i concetti di sesso e genere. Senza offesa, eh.] Il filo rosso che collega il ‘68 e l’ideologia di genere è, secondo l’autrice, il maltusianismo, cioè il tentativo di diminuire la popolazione mondiale, soprattutto i poveri di Occidente e dei paesi in via di sviluppo. [Premesso che quello cui si riferisce Malo è il neomaltusianismo, non si capisce come questa teoria sia collegata alle questioni di genere: la teoria dice che dovremmo controllare le nascite, non che l’eterosessualità deve scomparire dalla faccia della terra. Questo, casomai, è roba di Kuby.] Da questo punto di vista sono molto interessanti i ritratti intellettuali di alcune figure di spicco, come Margret Sanger, Alexandra Kollonti, Wilhelm Reich, Eddie Bernays, Simone de Beauvoir, John Money, Judith Butler, ecc. [Sì, sono interessanti, ma non hai detto che cosa c’entrano e perché. Poteva essere pure la formazione dello Stade de Reims del ’59.] L’impulso globale della rivoluzione sessuale non procede, però, solo dalle idee, ma soprattutto dalle conferenze organizzate dalle Nazioni Unite (Pechino, Il Cairo, ecc.) con cui si è tentato di decostruire i diritti umani, la sessualità, la famiglia.[Quindi l’ONU fa parte di – o forse è, sotto mentite spoglie – la SP.E.C.T.R.E.: sono loro che decostruiscono i diritti umani, la sessualità, la famiglia. Cose delle quali, malgrado ci fossero apposite conferenze internazionali pubbliche, s’è accorta solo la Kuby.] Da lì sono partiti alcuni degli slogan che hanno fatto il giro del mondo, come l’aborto è un diritto della donna, il “genere” non va imposto ma scelto. [Ah, ecco, questi sarebbero slogan. E il relativista sarei io.] Nonostante i secoli trascorsi, i metodi della rivoluzione sessuale globale sono gli stessi della vecchia rivoluzione francese: il terrore. [EH? COSA? Il terrore? L’ONU sta imponendo al mondo di cambiare genere sessuale con il terrore? Antò, sei proprio sicuro? Non è che ti sei entusiasmato un po’ troppo?] Oggi, però, la ghigliottina non taglia le teste degli oppositori, ma “solo” il posto di lavoro, la carriera accademica o politica. [Quindi chi si oppone alla rivoluzione sessuale globale viene licenziato, perde il posto, il prestigio sociale e il suo peso politico? MA MAGARI!!! A quest’ora Vladimir Luxuria sarebbe segretaria generale della NATO!]

Nella seconda parte (capitoli 5-10), Kuby continua la sua analisi degli organismi e dei documenti con cui si tenta di introdurre l’ideologia di genere. Fra questi ultimi concede particolare valore ai 29 principi di Yogiakarta, che furono formulati nel 2007 da un gruppo di “famosi esperti” senza autorizzazione né legittimazione in un incontro privato nella capitale indonesiana. [Stiamo parlando di questo segretissimo e inquietante documento che qui vi presentiamo in esclusiva galattica.] Nel marzo dello stesso anno, questi principi furono presentati all’opinione pubblica nella sede delle Nazioni Unite a Ginevra. [Neanche Totò sarebbe riuscito a mistificare le cose come sta facendo Malo.] L’Unione Europea li accolse subito e incominciò a imporli alle istituzioni, ospedali, tribunali… e anche agli asili e alle scuole. [Incominciò a imporli! E da noi quando arrivano?No, perché siamo stufi di vedere ambienti LGBTQI ovunque tranne che in Italia, eh?] Perché, come spiega l’autrice in un altro capitolo, per distruggere il fondamento della famiglia si deve minare l’unione eterosessuale, [che bella novità cattolica, meno male che lo spiega l’autrice] il che non è facile fra adulti nella stragrande maggioranza eterosessuali. [E certo, adesso ad avere un problema di resistenza al sistema sono gli eterosessuali, vero?] Invece i bambini e gli adolescenti possono essere facilmente plasmati, soprattutto se chi occupa il ministero delle politiche familiari condivide quest’ideologia. [Infatti, com’è noto, i ministri delle politiche familiari sono i veri potenti nei governi, mica quelli degli Interni, degli Esteri o dell’Economia che invece non plasmano nessuno con le loro politiche, con la loro comunicazione.] Come documenta Kuby, sempre più spesso nella scuola e nel giardino d’infanzia i bambini vengono sessualizzati con giochi, fiabe, rappresentazioni teatrali. [Sì, ma di rosa e celeste, mica queer!] Essi vengono così derubati dell’innocenza tipica dell’infanzia. Si presenta ai bambini ogni sorta di pratica sessuale deviante come scelta equivalente incoraggiandoli a esperimentarla. [Ci siete ancora? Il professor Malo, supportato dai documenti, fatti e statistiche di Kuby, sostiene che i ministri delle politiche familiari presentano nelle scuole pubbliche ogni sorta di pratica sessuale deviante. E il relativista sono sempre io eh, loro stanno bene così.] Con ciò la loro personalità può subire cambiamenti irreversibili. [Invece Kuby sta a posto, dopo la conversione?] Inoltre, le istanze statali creano strutture per minare attraverso l’educazione sessuale generalizzata e obbligatoria a partire dalla scuola materna il diritto e l’autorità dei genitori. [Siamo allo Stato Queer contro i genitori eterosessuali. Come se Platone e Platinette si fossero coalizzati. Ma dove le prende Malo ‘ste fantasie? Che fumetti legge?] Nell’implementazione dell’ideologia di genere gioca anche un ruolo decisivo la violenza linguistica e la pornografia, definita dall’autrice la nuova piaga globale. [Nuova? La pornografia?] Mediante la creazione di neologismi come “gender”, la sostituzione di parole, come genitore A (padre) e genitore B (madre) e l’attacco al linguaggio non solo si corrompono le parole, ma si dà origine a “nuove realtà”, poiché — come hanno sempre pensato gli ideologi di ogni tempo – “non è la verità a farci liberi, ma la libertà a fare la verità”. [A parte che “gender” non è un neologismo ma casomai un prestito, l’ONU sarebbe anche la responsabile del nostro linguaggio ormai del tutto corrotto verso l’ideologia di genere? E come mai siamo ancora pieni di insulti, stereotipi e luoghi comuni sessisti, allora? E quella cretinata tra virgolette, chi l’avrebbe detta? Chi sono gli ideologi di ogni tempo? Non si sa. E’ un complotto, dopotutto, mica possiamo fare i nomi, bisogna fidarsi, senza relativismi.]

Nell’ultima parte del libro (capitoli 11-15), Kuby analizza le armi che il nuovo totalitarismo usa per combattere i ribelli: l’intolleranza e la discriminazione. [Notate il linguaggio militare, tipico dell’antropologia e della sociologia, si sa.] In questo modo l’autrice sottolinea il paradosso, già accennato nel sottotitolo, di cercar di togliere la libertà nel nome della libertà. [I diritti LGBTQI sarebbero un “togliere la libertà” agli eterosessuali. Certo, come no. Allora Rosa Parks voleva i bianchi tutti in piedi sull’autobus, ‘sta stronza.] Di fronte a questa dittatura relativista che strumentalizza la sessualità per imporre una nuova concezione della persona, l’autrice consiglia di formare la propria coscienza sulla scia della verità. [E indovinate quale verità? Ma quella non relativa, no? LA NOSTRA.] Come antidoto alle derive dell’ideologia di genere, propone di educare non alla sessualità, ma all’amore [aaaaaaah l’amooore / questo folle sentimento che / aaaaaaah l’amooore / più lo fuggo e più ritorna da meeee].

Come scrive Spaemann nella prefazione, [ma sì, buttiamo là un cognome] si deve ringraziare l’autrice per il coraggio di andare controcorrente [uh, guarda, un sacco controcorrente] offrendoci un saggio che illumina ciò che si nasconde sotto i cambiamenti linguistici, le mode pedagogiche e accademiche che ad un primo sguardo sembrerebbero solo una bizzarria, quando in realtà sono strumenti di una volontà di potenza [perdonalo, Federico, perdonalo] impegnata alla costruzione di una nuova umanità [e che è, l’Internazionale socialista?]. Penso perciò che questo libro meriterebbe di essere tradotto nelle principali lingue. [Eh, su questo l’ONU è in vantaggio, bisogna ammetterlo.] A questo scopo, mi permetto di dare due suggerimenti all’autrice. [Malo è partito per la tangente, adesso propone suggerimenti per migliorare il testo di Kuby, sai com’è tra eterosessuali, l’uomo comunque ha un po’ più di ragione rispetto alla donna.] In primo luogo, di rivedere i capitoli dell’ultima parte per darle più unità togliendo ripetizioni [eh eh, Kuby, ti sei ripetuta, eh? Forse Harry Potter, il tuo acerrimo nemico, t’ha fatto l’incantesimo dell’eco]; in secondo luogo, di distinguere fra almeno due tipi di femminismo [ecco, adesso ce lo dice Malo cos’è il femminismo]: quello che ha lottato e continua a farlo per il riconoscimento dei diritti politici e sociali delle donne, cioè per l’uguaglianza della donna come persona [brrr], e quello, invece, radicale, che scimmiotta una sessualità maschile degenere [scusi?] per la quale il sesso si riduce ad un uso della genitalità senza responsabilità. [“genitalità” invece non è un neologismo, no no, non è sostituzione di parole o attacco al linguaggio. E il relativista sono sempre io.] In questo modo apparirà con più chiarezza ciò che costituisce il genio femminile, la donazione, [donna = producifigli, questo sì che è femminismo!] la cui rivendicazione, lungi dall’essere un ostacolo all’amore, ne è la premessa.

Allora? Siete pronti per la rivoluzione sessuale globale? Mi raccomando portate l’amore, lasciate a casa il relativismo e attenzione all’ONU! Non fate tardi eh!

(Ringrazio Chiara per i documenti, i fatti e le statistiche 😀 )

AIDS, non solo il 1 dicembre

Poche parole, oggi, per dire che l’AIDS esiste, esiste tutto l’anno, non solo il 1 dicembre, e non è l’unica malattia a trasmissione sessuale. Controllare la propria salute permette di tenere al sicuro sé stess@ e chi amiamo o chi semplicemente condivide con noi un momento di intimità.
Tutti gli organismi rischiano di ammalarsi, al di là delle predisposizioni, delle debolezze  e delle costituzioni. Bastano pochi gesti per mettere tra noi e alcune malattie, mortali e no, una barriera pressocché sicura. Questi gesti richiedono pochi secondi, possono essere compiuti con il coinvolgimento de@ partner.
Usate il preservativo, maschile o femminile. Usate una protezione per le dita se entrate in contatto con parti intime sanguinanti. Fate il test periodicamente, se donate il sangue vi verrà fatto anche il test dell’HIV.

Qualche link:

Il test dell’HIV come funziona? Qui.
Come si indossa il preservativo femminile? Qui.
Come si indossa il preservativo maschile? Qui.
Come si usano le Dental Dam? Qui.
Come si usa il preservativo digitale? Qui.

P.S.
Anche con il sesso orale bisogna usare il preservativo.

Una veglia non è abbastanza

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Un po’ di giorni fa, ho deciso di partecipare, assieme ad un amico, al mio primo Transgender Day Of Remembrance.

Nella mia vita mi è capitato diverse volte di partecipare a manifestazioni e commemorazioni per-ricordare, in-onore-di e via discorrendo, e la sensazione è sempre stata, più o meno, di tenere in mano un bel pacchetto regalo di rabbia, infiocchettata con senso di impotenza, con tanto di bigliettino allegato contenente aperto disprezzo per chi, nelle circostanze in questione, avesse osato sfoggiare un sorriso. Con un sottile margine di tolleranza per i sorrisi nervosi, così, per non disprezzare proprio tutti tutti.

Questa volta no, e non ci trovo nulla di particolarmente strano. Per quelle e quelli come noi l’incazzatura è quotidianità, e personalmente mi incazzo così spesso che una volta l’anno credo di essermi preso la licenza di non sentirmi in dovere di farlo: ogni tanto è bene che se ne occupi qualcun altro.

Non intendo certamente dire che di queste persone, morte suicide o morte ammazzate, non mi importa niente. Nient’affatto. La rabbia di cui mi parlo è qualcosa che mi tappa la vena. E questo succede ogni volta che apro un articolo del solito giornalista da due spicci bucati che declina una donna trans al maschile, quando sono sulla metro e sento imbecilli prendere in giro qualcuno dalla presentazione di genere androgina, tutte le volte che c’è chi fa misgendering (ovvero sbaglia i pronomi di una persona trans), e tutte quelle violenze e microaggressioni presenti in una gamma pressoché illimitata di situazioni assortite; in strada, a scuola, al lavoro, nella ricerca di un impiego. Praticamente quasi sempre e quasi ovunque.

Quello che mi piacerebbe dire è questo: con quale ipocrisia sfilze di attivisti partecipano a questa giornata, con che coraggio tanti prendono le distanze dalla transfobia un giorno all’anno, quasi a fare ammenda per i restanti 364 giorni di passività? Non basta. No, non basta assolutamente. A maggior ragione se quegli stessi attivisti in separata sede lamentano la scarsità di partecipazione trans alle loro attività, non rendendosi conto né del maggior stigma presente sulla popolazione trans, né delle maggiori difficoltà di una persona trans a intraprendere un percorso militante per molti motivi, ad esempio un livello di disoccupazione preoccupante (nonché la necessità di mantenere un lavoro quando lo si ha) e la discriminazione transfobica all’interno della stessa comunità LGBTQIA+. In che misura è possibile pensare a collettivizzare i propri sforzi se non ce la si fa a tenere in piedi neanche sé stessi? Me lo chiedo.

La morte di tutte queste persone mi rende furioso. Con tutte le fiammelle del candle light vorrei mettere a ferro e fuoco le città. Quando ci picchiano, ci fanno del male, ci uccidono, ci stuprano, ci minacciano io voglio la lotta, voglio vendetta, voglio urlare fino a rimanere senza voce. Ci tengo troppo a tutte e tutti noi, per reputare lo stare in un silenzio ad una veglia qualcosa di sufficiente. Non voglio ricordare i miei morti col dolore, voglio che il periodo in cui sono stati in vita non sia vano. E voglio lottare affinché i vivi rimangano tali. Troppe e troppi di noi sanno cos’è la depressione, hanno pensato almeno una volta al suicidio o l’hanno tentato, soffrono di transfobia interiorizzata e non considerano la propria come una condizione esistenziale, bensì una malattia. Io voglio promettere a ogni persona transessuale e transgender che l’esistenza piena di miserie che ci è riservata non è né meritata, né ineluttabile e che insieme possiamo distruggerla; che la sofferenza è privata, ma il privato è sociale, e il sociale è privato. Non voglio sottovalutare l’importanza del ricordo. Ma la memoria è qualcosa di più del ricordo: è rendergli giustizia. E non legalità, ma giustizia sociale.

Io voglio che si arrivi ad un giorno in cui non bisognerà più preoccuparci per la sicurezza e in cui non ci servirà mai più abituarci all’idea di dover essere pronti a difenderci da qualcuno ogni volta che usciamo di casa, ma finché quel giorno non arriverà, terrò il coltello fra i denti. Ma non lo desidero, quel giorno: lo pretendo.

Paura dei sentimenti: trauma e guarigione nel movimento di liberazione animale

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di Pattrice Jones, traduzione di feminoska, revisione di Eleonora.

Anche nel caso di questa traduzione sottolineiamo che nel testo viene usato il termine ‘animali’ a designare gli animali non umani; pur rispettando la lettera del testo originale, ci preme sottolineare che animali non umani sarebbe stato un termine più felice, nell’ottica di riaffermare la ns. consapevolezza di essere anche noi animali – seppure umani – ed inoltre perché la dicotomia umano-animale è funzionale a quell’idea di ‘superiorità morale’ dell’animale umano sull’animale non umano che vogliamo demolire (come ben spiegato nella traduzione del testo Farla finita con l’idea di umanità precedentemente pubblicata su Intersezioni)… buona lettura!

Sola su di un palco alla Syracuse University, Sarahjane Blum trema dall’emozione mentre racconta ciò che ha visto all’interno di una fabbrica di foie gras. Ascoltando ma anche vivendo le sue parole, il pubblico assiste alla sofferenza delle anatre attraverso gli occhi di Sarahjane. Quando le parole vengono a mancare, Sarahjane mostra alcune scene del video ‘Delicatezza della Disperazione’. Seduti nella sala buia, studiosi e attivisti vorrebbero sottrarsi, ma si sforzano di assistere alla sofferenza visibile sullo schermo.

Su un banchetto informativo appena fuori dall’auditorium, uno schermo trasmette in loop video di maltrattamenti animali filmati sotto copertura all’interno dei laboratori dell’Huntingdon Life Sciences. Ripetutamente, un uomo urlante in camice bianco da laboratorio compie abusi su cuccioli di beagle. Si possono solo immaginare le elucubrazioni mentali necessarie alle/agli attivisti seduti al banchetto per tollerare la raffica incessante di rabbia umana e sofferenza animale. E che dire dell’attivista che è entrata all’HLS sotto copertura, come dipendente, per far emergere la realtà di tali abusi? Come ha potuto gestire le proprie emozioni in quel momento? Che cosa sente ora?

In un bel pomeriggio di fine settembre, Karen Davis, Presidente di United Poultry Concerns si ferma al rifugio Eastern Shore. È sconvolta, ha appena assistito all’eutanasia di una gallina malata e incurabile dal veterinario. Come sempre, Karen è rimasta con la gallina fino alla fine. Le persone le chiedono di continuo: “Come puoi andare avanti senza sentirti turbata?” Quello che non capiscono, dice, e il tono di voce si fa più alto, è che “io sono sempre turbata!” Tutto quello che può fare, sostiene Karen, è andare avanti, incanalando i propri sentimenti in qualcosa – qualche documento, qualche discorso, qualche parola – in grado forse di fare la differenza.

Il disastro ha colpito un’altra fabbrica di uova. I soccorritori convergono sul posto, cercando di salvare il maggior numero possibile di galline. Migliaia sono già morte. Essendo rimasti senza cibo né acqua per molti giorni, gli uccelli sopravvissuti – intrappolati nelle gabbie con i loro compagni morti – sono ancora più sconvolti delle solite galline in batteria. Qualcuno sbatte le ali freneticamente, altri stanno immobili, i dorsi ricurvi esprimono i loro sentimenti di impotenza. Uno dei soccorritori nota alcune galline intrappolate nelle fosse degli escrementi sotto le gabbie e guada il letame nel tentativo di salvarle, ma deve tornare indietro quando, ormai immerso fino alla cintola, rischia di essere risucchiato. Nelle settimane successive, soffrirà di insonnia, sogni ricorrenti di essere impotente in mezzo ad animali non umani che hanno bisogno di aiuto e ricordi intrusivi degli uccelli che non ha potuto salvare.

Le nostre emozioni animali

Le persone sono animali. Gli animali hanno sentimenti. Gli animali hanno corpi che sperimentano ed esprimono i loro sentimenti. Come tutti gli altri processi fisiologici, i sentimenti persistono anche quando vengono ignorati o negati.

Uno dei miti della superiorità umana è che siamo in grado di trascendere le nostre percezioni, mentre gli altri animali ne sono vincolati. Questo va di pari passo con l’idea che possiamo e dobbiamo superare la nostra corporeità, mentre gli animali non umani vi coincidono sempre. Questa idea è così profondamente radicata in molte culture occidentali ed orientali che anche le/gli attivist* per la liberazione animale possono implicitamente abbracciarla.

Quando ci rifiutiamo di riconoscere i nostri limiti fisici o ci aspettiamo di essere immuni dal fattore emotivo che influenza gli altri animali, siamo pericolosamente vicin* alla mentalità “mente (umana) contro corporeità (animale)” che porta alla biotecnologia e agli altri sforzi per rimodellare il mondo naturale secondo le nostre fantasie di onnipotenza e di controllo.

In realtà la vita segue le proprie regole, non le nostre. Non abbiamo più controllo sulle nostre emozioni animali di qualsiasi altro vertebrato. Possiamo scegliere quello che facciamo dei nostri sentimenti e anche, in certa misura, se sperimentarli pienamente. Ma non possiamo scegliere di non arrabbiarci per le ingiustizie o di sentirci tristi di una perdita, più di quanto un pollo possa scegliere di non avere paura di un falco o di sentirsi frustrato da una gabbia.

I sentimenti possono essere sia spaventosi che seducenti poiché rimangono selvatici, indipendentemente da quanto invece siamo diventati addomesticati noi. Tuttavia, l’unica cosa da temere dei sentimenti è la paura di quei sentimenti. Come fiumi, i sentimenti sono più pericolosi quando arginati o impropriamente incanalati. Come fiumi, fluiranno in ogni caso e possono diventare imprevedibilmente distruttivi, se non gli si permette di seguire i propri percorsi naturali.

Spesso, le/gli attivist* esitano a parlare dei propri sentimenti – o anche a pensarci – perché la sofferenza degli altri animali è, a confronto, molto più grande. I motivi di questa auto-repressione sono altruistici, ma i risultati possono essere controproducenti. Ovviamente, il disagio causato dall’assistere alla violenza non è paragonabile al terrore e al dolore vissuto dalla vittima della violenza. Ma l’angoscia del testimone è reale e non può essere cancellata dai paragoni. Recenti ricerche hanno dimostrato che gli eventi traumatici possono avere un impatto emotivo ugualmente potente sui testimoni e sulle vittime. Sia i testimoni sia le vittime di stupro e violenza domestica, per esempio, possono sviluppare sintomi di stress post-traumatico (PTSD). Secondo la PTSD Alliance, segni di stress post-traumatico possono svilupparsi dopo ogni esperienza che porti a sentimenti di “paura intensa, orrore e senso di impotenza.” L’impotenza di fronte al pericolo per sé o altr* è un enigma per il corpo. I sensi gridano “Questa è un’emergenza!” e il sistema nervoso risponde bloccando la digestione, pompando sangue extra per i muscoli di braccia e gambe, liberando adrenalina nel sangue, rendendo la visione più acuta, e in ogni modo preparando l’organismo a combattere o fuggire. Ma il corpo non ha nulla da fare! Il sistema nervoso mantiene su di giri i motori interni e i sensi continuano a gridare “Emergenza!”, ma non c’è nessun posto per tutta quell’energia ed emozione. Se questa situazione persiste abbastanza a lungo o si ripete abbastanza spesso, l’organismo può venirne danneggiato permanentemente. Era facile notare atteggiamenti come questi durante la prima guerra mondiale, quando i soldati bloccati nelle trincee sopportarono bombardamenti apparentemente senza fine senza poter fare nulla per combattere o difendersi. Molti finirono colpiti da psicosi traumatica, seduti immobili in letti d’ospedale mentre i loro cuori battevano come se fossero ancora sotto il fuoco.

Stress traumatico

Gli americani hanno scoperto lo stress traumatico – come lo intendiamo oggi – sulla scia della guerra in Vietnam. Incubi, flashback e sentimenti debilitanti di paura o rabbia – scoprimmo – erano le conseguenze più comuni dell’esposizione agli orrori della guerra. Come Judith Herman ha ampiamente dimostrato nel suo libro ‘Trauma e guarigione’, è una lezione che abbiamo dimenticato prima ancora di impararla. Ogni generazione cerca di dimenticare i traumi che ha subito e, così facendo, diventa più probabile infliggere un trauma alla generazione successiva.

Un trauma è una lesione o uno shock. Lo stress dovuto all’aver vissuto un evento traumatico, di avervi assistito, o persino di esserne venut* a conoscenza può scatenare reazioni cognitive, emotive o fisiche. Recenti studi sulle persone con PTSD hanno mostrato che episodi traumatici, in particolare quando sono subiti o ripetuti, possono portare a cambiamenti nella chimica del cervello, nel flusso del sangue e nel metabolismo. I liberatori, le persone che compiono investigazioni nei luoghi dove si commettono crudeltà sugli animali non umani, il personale dei rifugi e le/gli attivisti per i diritti animali affrontano e spesso testimoniano direttamente e ripetutamente sofferenze estreme, sperimentando continuamente la combinazione di emergenza e di impotenza che è il segno distintivo di ogni evento traumatico. Come risultato di ciò, spesso lottiamo con disturbi del sonno, ricordi intrusivi ed emozioni troppo acute o al contrario assenza di emozioni.

Se hai livelli elevati di noradrenalina, livelli più bassi di serotonina e un flusso anormale di sangue al cervello, raccontarti che gli animali non umani hanno la peggio non cancellerà i problemi. Se questi problemi ti impediscono di riposare a sufficienza, interferiscono con la tua capacità di concentrazione, o compromettono la tua capacità di mantenere rapporti di lavoro produttivi con le altre persone, allora è probabile che anche l’efficacia del tuo attivismo per gli animali non umani peggiori. Le quattro caratteristiche dello stress post-traumatico sono:
• Tendenza a rivivere l’esperienza traumatica. Incubi, ricordi intrusivi, flashback e forti risposte emotive nel richiamare l’esperienza sono tutti i modi in cui una persona rivive le esperienze traumatiche.
• Intorpidimento emotivo. Può assumere la forma di sentimenti di distacco o estraneità, perdita di interesse per attività solitamente piacevoli, mancanza di sentimenti positivi, o mancanza di qualsivoglia sentimento.
• Tendenza ad evitare ricordi legati all’esperienza. Le persone spesso evitano o addirittura sviluppano reazioni fobiche a persone, luoghi, cose o attività che ricordino in qualche modo l’esperienza traumatica. A volte, cambiamenti di comportamento che sembrano non avere alcun senso risultano essere sforzi per evitare di ricordare il trauma.
• Maggiore eccitazione. Può assumere la forma di una reazione amplificata a rumori forti o altri stimoli, ma anche di una maggiore soglia di vigilanza nei confronti tutto ciò che riguarda il trauma vissuto.

Se subisci un trauma, devi essere pront* ad una reazione di stress. Fai il possibile per prenderti cura di te stess* o permetti ad altr* di farlo, ricordando che – se ci si prende il tempo di farlo immediatamente – puoi così prevenire o attenuare l’emergere di sintomi di PTSD più persistenti e debilitanti. Trova il modo di vivere e di esprimere i tuoi sentimenti, soprattutto parlando con persone che si immedesimino facilmente, ma anche attraverso il movimento, la musica, l’arte, o altre modalità sicure di espressione. Presta particolare attenzione al riposo e all’alimentazione, in modo che il corpo abbia le risorse per far fronte agli aspetti fisiologici del trauma. Se noti che tu o altr* state sviluppando sintomi riconducibili allo stress post-traumatico da un mese o più e che queste reazioni sono causa di disturbo o disagio significativo, è il momento di agire. I gruppi di lavoro – che si tratti di una terapia di gruppo con un terapista o una serie di discussioni tra pari con regole di base in uno spazio sicuro e moderato da un mediatore esperto – possono essere modalità d’elezione per gli attivisti che hanno a che fare con lo stress legato al proprio lavoro con gli animali. La terapia individuale si è dimostrata efficace contro i casi di PTSD legata a un’ampia gamma di traumi. Conosco divers* attivist* animalist* che hanno cercato una buona dose di psicoterapia con psicolog*, assistenti sociali, o altri consulenti professionisti.

Diversi farmaci hanno dimostrato di essere efficaci nel trattamento di sintomi fisici come nervosismo e insonnia. Coloro che evitano i prodotti farmaceutici commerciali a causa della sperimentazione animale, dovrebbero sapere che esistono una serie di rimedi a base di erbe che, in studi clinici con volontari umani, hanno dimostrato un’efficacia pari o superiore a quella dei farmaci sintetici. Consulta un medico qualificato, allopatico o olistico, può aiutarti a decidere se e come trattare i sintomi. Qualunque cosa decidi di fare, non vergognarti di essere un animale. Qualunque cosa senti è la risposta naturale del tuo corpo a ciò che hai vissuto. Nascondere o negare i tuoi sentimenti non li farà svanire, ma potrebbe anzi farti sentire peggio. Al contrario, portare i tuoi sentimenti allo scoperto spesso aiuta ad indirizzarli. Prima li affronti, prima ti senti meglio e sei in grado di fare ciò che desideri.

Depressione.

La depressione è un’altra conseguenza comune dell’esposizione prolungata o ripetuta a ingiustizie e sofferenze. Come nel caso del disturbo da stress post traumatico, la depressione può compromettere in modo significativo la capacità di agire dell’attivista ed è spesso accompagnata da cambiamenti nel sistema nervoso e nel metabolismo. La depressione è una condizione debilitante spesso associata allo stress post-traumatico, ma può anche essere causata da fattori che vanno da una carenza vitaminica temporanea a conflitti intra-psichici persistenti. Chiunque passa attraverso brevi periodi di tristezza che si possono definire “depressione”. Ma si tratta di una depressione diversa dalla depressione clinica, che è una condizione grave che l’Organizzazione Mondiale della Sanità considera una minaccia a livello mondiale. Se non trattata, la depressione clinica può durare per anni senza sollievo. Con un trattamento adeguato, la depressione può sparire completamente o diventare molto più gestibile.

I sintomi della depressione clinica includono:
• Tristezza prolungata o pianto inspiegabile.
• Cambiamenti significativi nelle abitudini alimentari o di riposo.
• Irritabilità persistente, rabbia, preoccupazione, agitazione o ansia.
• Pessimismo o indifferenza.
• Perdita di energia, letargia persistente o stanchezza inspiegabile.
• Sentimenti persistenti di vergogna, senso di colpa, o inutilità.
• Difficoltà di concentrazione o incapacità di prendere decisioni.
• Isolamento sociale o mancanza di interesse per attività precedentemente piacevoli.
• Dolori inspiegabili.
• Pensieri ricorrenti di morte o suicidio.

Se hai cinque o più di questi sintomi per più di due settimane, o se uno qualsiasi di questi sintomi provoca grave sofferenza o disagio, è il momento di chiedere aiuto a un medico. Poiché molti dei sintomi della depressione possono anche essere causati da patologie gravi, è fondamentale parlare con qualcuno che sia qualificato per determinare se la depressione sia il problema primario e, in caso affermativo, decidere quali misure adottare per trovare un po’ di sollievo, mentre si cercano la causa o le cause.
Esistono persino più modalità di trattamento per la depressione rispetto al PTSD. Le terapie cognitive, comportamentali e psicodinamiche hanno dimostrato di aiutare alcune persone che soffrono di depressione. Se un tipo di terapia non funziona, prova una terapia o un trattamento del tutto diversi. Come nel caso del PTSD, esistono rimedi a base di erbe con efficacia dimostrata pari o superiore a quella dei farmaci sintetici, così non devi scendere a compromessi con i tuoi principi per ottenere un sollievo sintomatico. Come nel caso del PTSD, la mente e il corpo influenzano e sono influenzate dalla depressione. Oltre al riposo e alla nutrizione, l’esercizio fisico è molto importante per le persone che convivono con la depressione.

Se qualcuno che conosci sta parlando di morte o di suicidio, non esitare: chiama l’1-800-SUICIDE per avere consigli su cosa fare. Dimentica quello che pensi di sapere su omicidio e suicidio. Parla con persone competenti in materia e ascolta i loro consigli.
Se sei tu che stai pensando al suicidio, ricordati che il suicidio è una decisione irreversibile che non dovrebbe essere presa alla leggera. La maggior parte delle persone che si suicidano lo fanno perché non si rendono conto che possono liberarsi della propria depressione. Puoi sentirti meglio, e succederà, una volta che avrai avuto il tipo di aiuto giusto per te. Allora, avrai a disposizione molti altri anni per lavorare per gli animali non umani. Anche se non credi che riuscirai a fermare lo sfruttamento animale, devi sapere che l’essere salvato è la cosa più importante per ogni singolo animale che viene salvato. Se stai pensando al suicidio, chiama senza indugi l’1-800-SUICIDE, un numero verde locale, il tuo ex insegnante preferito, il tuo migliore amico, o la persona più simpatica del tuo gruppo per i diritti degli animali non umani.
Prima di proseguire, vorrei offrire un pensiero a qualsiasi attivista che stia lottando contro la depressione: puoi non avere alcuna speranza in questo momento, ma io ne ho tanta e te la posso prestare finché non recuperi la tua. Poi potrai passarla a qualcun altr* e saremo pari, perché anche io ho dovuto prenderla in prestito da altre persone in passato. Dico sul serio. Pensaci un minuto e la percepirai. E quando arriverà il momento di trasmetterla, saprai cosa fare.
Ciò che ognun* di noi può fare.
Che ne siano o meno consapevoli, tutt* coloro che si occupano di rifugi per animali, indagini o salvataggi devono gestire le conseguenze naturali di un lavoro emotivamente pericoloso.

Tutt* abbiamo visto cose che nessuno dovrebbe vedere perché tale sofferenza non dovrebbe esistere. Tutt* abbiamo affrontato il peggio che le persone sono in grado di fare e siamo consapevoli che nessuno è veramente sicuro nel mondo perversamente violento dell’attività umana. Siamo tutt* traumatizzati dalla nostra incapacità di fermare la violenza e perseguitat* dai ricordi di animali che non siamo stati in grado di salvare. Sappiamo tutt* che il nostro è un trauma secondario, che il trauma primario è subito dagli animali. Ma sappiamo anche che dobbiamo prenderci cura di noi stess* e delle/gli altr*, anche solo allo scopo di agire in modo più efficace per gli animali.

Stando così le cose, ci sono una serie di cose che gli individui, i gruppi, e il movimento come entità possono fare per aiutarci a essere più in salute possibile nel contesto profondamente malsano del mondo sociale che le persone hanno creato.
Il primo passo è quello di ricordare che sei un animale e che gli animali hanno dei sentimenti. I sentimenti associati con PTSD e depressione sono le reazioni normali di un organismo sottoposto a stress innaturale. Prima impariamo a riconoscere e rispondere ai sintomi di depressione e stress post-traumatico in noi stess* e nelle altre persone, più forte diventerà il nostro movimento.

Strategie personali

Riposati. Stress e depressione sono sia cause che conseguenze dell’insonnia. Da sola, la privazione del sonno può trasformare persone altrimenti felici in persone ansiose, arrabbiate, o abbattute. Se sei già alle prese con sentimenti difficili, la mancanza di riposo adeguato può rendere la lotta più difficile. Riposa il corpo anche se hai difficoltà a dormire. Puoi provare un rimedio di erbe per la mancanza di sonno che non crei dipendenza, come la camomilla, o prendere in considerazione altre strategie per favorire il sonno. Prendi delle vitamine. I corpi sani sono più in grado di sopportare forti emozioni senza crollare. Inoltre, una carenza di alcune vitamine può a sua volta causare depressione. Parla dei tuoi sentimenti. Ascolta quelli degli altri. Esprimi empatia quando si può.
Ascolta il tuo corpo. Dove ti fa male? Che cosa ti aiuta? Che cosa sta cercando di dirti? Ricorda che il tuo corpo ha i propri diritti animali. Non fargli del male. Dagli aria fresca, molto esercizio fisico, e qualsiasi piacere sicuro e consensuale che desideri. Non peggiorare le cose. Le persone a volte cercano di “curare” il loro stress o la loro depressione con alcol o droghe. Se bere in compagnia va bene, bere regolarmente o in maniera compulsiva crea più problemi di quanti ne risolva. Dal momento che l’alcol ha effetti depressivi, le persone alle prese con la depressione dovrebbero evitarlo del tutto.

Strategie collettive

Il tuo gruppo è impegnato in un lavoro che potrebbe portare a stress post-traumatico? Se è così, cosa fa il gruppo per aiutare i propri membri a prendersi cura di se stessi e degli altri? Un gruppo non è altro che un insieme di relazioni. Se queste relazioni sono forti e nutrienti, il gruppo durerà più a lungo e svolgerà più lavoro utile. Il tempo investito nel rendere il gruppo più sano e più solidale sarà restituito con un aumento di produttività e una diminuzione dei tassi di abbandono.

Strategie di movimento

Se potessi, vieterei l’espressione “(x) è niente in confronto a (y)” da tutte le riunioni di movimento e conferenze. Le persone la usano per rimproverarsi le une le altre ed evitare i propri sentimenti di stress e depressione.
I polli “da carne” vivono in capannoni affollati e sono trasportati dai camion verso una morte dolorosa e terrificante a circa sei settimane di età. Le galline ovaiole nelle fabbriche di uova sopportano fino a due anni di tortura nelle gabbie prima di essere trasportate, magari con un viaggio lunghissimo, verso le proprie morti dolorose e terrificanti. Non diremmo mai che ciò che i polli da carne sopportano “non è niente” rispetto a quello che sopportano le galline ovaiole. Anche se è relativamente minore, la sofferenza dei giovani polli da carne è reale e significativa. È particolarmente reale e significativa per loro.

No, il trauma della persona che per svolgere indagini sotto copertura osserva scimmie torturate non è così grave come la sofferenza delle scimmie stesse. Ma non è “niente”. Tutta la sofferenza è reale e significativa, in particolare per chi la subisce. Dobbiamo cambiare l’atteggiamento del nostro movimento verso un’empatia per tutt*, inclus* noi stess*.

Dobbiamo anche iniziare a costruire un’infrastruttura di movimento che aiuti a far fronte in modo più efficace al trauma insito in molte forme di attivismo animale. Perché non abbiamo gruppi di sostegno con moderatori addestrati a tutte le nostre conferenze? Perché non esiste una rete di psicologi per i diritti degli animali che offrano trattamenti gratuiti o a basso costo per gli animalisti che hanno subito traumi? Perché si parla – quando lo si fa – dei nostri sentimenti solo in conversazioni frettolose tra una riunione e l’altra?

Io e la mia compagna gestiamo un rifugio per polli nel bel mezzo di una regione dominata dall’industria avicola. Camion per il trasporto dei polli rombano proprio di fronte alla nostra porta di casa. Non posso dire quanti uccelli siano morti tra le mie braccia. Questo mese sarà il nostro quinto anniversario. Dubito che avrei superato il dolore del primo anno se non fosse per la vicinanza e il sostegno di altre persone che salvano polli. Ci capiamo allo stesso modo – ne sono certa – delle persone che devono affrontare le sfide estreme ed uniche del lavoro sotto copertura. Cerchiamo di trovare modi di sostenerci l’un l’altr* in modo che nessuno di noi si senta sol* nella lotta!

Prima di co-fondare l’Eastern Shore Sanctuary and Education Center, Pattrice Jones ha studiato e lavorato nella psicologia clinica, specializzandosi in terapia individuale e di gruppo per i sopravvissuti ai traumi.

Concha!

CONCHA è il primo cortometraggio postporno del collettivo femminista e queer COVEN Berlin. Ispirato dal concetto foucaultiano della degenitalizzazione del sesso e del piacere (cioè la rottura del monopolio erotico tradizionalmente detenuto dai genitali), questo film prova a perturbare le aspettative di spettatrici e spettatori sul porno, mixando elementi simbolici e e non-espliciti in una provocatoria danza intima. CONCHA è  un pezzo video di 2 minuti e 9 secondi, con musica della berlinese Jane Freiheit, realizzato dall’artista multimediale e queer Judy Mièl, che vede la partecipazione del talento-di-lingua Lo Pecado. Buona visione!

Genuino clandestino e la Fattoria (in)Felice

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Negli ambienti militanti e non, si sta diffondendo la solidarietà e la partecipazione attiva alla campagna Genuino Clandestino, promossa dall’associazione Campi Aperti per denunciare un insieme di norme ingiuste che, equiparando i prodotti contadini trasformati a quelli delle grandi industrie alimentari, li rende fuorilegge. La campagna si è nel tempo trasformata in una rete dalle maglie mobili di singol* e di comunità in divenire che, oltre alle sue iniziali rivendicazioni, propone alternative concrete al sistema capitalista vigente.

Andando a leggere il manifesto che è stato discusso nell’estate di quest’anno emergono dei punti assolutamente condivisibili, che però meritano di essere contestualizzati e analizzati per quello che in realtà comportano e per le contraddizioni che fanno emergere.

Leggi tutto “Genuino clandestino e la Fattoria (in)Felice”

25 Novembre – Una violenza enorme che ne oscura tante (più o meno) piccine

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25 Novembre, e non so cosa dire.

Ogni volta che leggo gli articoli, le riflessioni, i post scritti in  occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della  violenza contro le donne, mi sembra di guardare la Terra da  Plutone. Di più, mi sento ammutolire: perché sento parlare di  femminicidio, di botte e stupri, e io, seppur femminista, di queste  cose non so parlare. Non ne so parlare perché non le conosco, o  meglio non le conosco direttamente, sulla mia pelle o sulla pelle di  chi mi è più vicin@ – e non ho mai assistito (fortunatamente) ad  episodi di violenza estrema e brutale.

Eppure, mentre mi apprestavo a seguire il filo dei pensieri e degli  eventi legati a questa importante giornata da spettatrice, mi sono  resa conto che la violenza sulle donne la vedo agita ogni giorno, da  sempre. Non è una violenza eclatante, da prima pagina dei  giornali, non si chiama femminicidio, né botte, né stupro. Eppure  esiste, è pervasiva, è quotidiana, è come la goccia che scava, scava  e attraversa l’anima, annichilisce persone con costanza e pazienza nell’arco di una vita, in molti casi trasformando chi la subisce in maniera radicale.

Quella agita su tante donne che ho conosciuto e conosco, intrappolate per una vita in rapporti coniugali impari, alla mercé di mariti i quali, seppure non platealmente ‘violenti’, sono quasi sempre freddi, distratti, economicamente e psicologicamente abusanti e inclini ad approfittare di qualsivoglia privilegio patriarcale sia a portata di mano per trattarle come colf, badanti, mammine di ricambio e sex workers, al bisogno e, ovviamente, gratis.
Quella su colleghe di lavoro precarie come me, mandate via alla prima gravidanza in quanto non più pienamente produttive e in alcun modo tutelate – le stesse che, alla notizia della gravidanza, ricevevano il plauso patriarcale della dirigenza maschile per aver ottemperato ai propri impliciti ‘doveri biologici’ di femmine – rispedite prontamente al mittente del lavoro di cura e della dipendenza economica, senza vergogna né rimorso.
E poi c’è quella ubiquitaria che ho sentito sulla mia pelle, su quella di amiche o semplici conoscenti continuamente sottoposte a controllo, giudicate e condannate dall’inquisizione patriarcale che agisce in ognun@ di noi, uomini e donne – sempre troppo puttane, troppo suore, troppo maschiacci, troppo loquaci, troppo sciacquette, troppo serie, arriviste, pazze, stupide, instabili, fragili, grasse, magre, aggressive, audaci, passive, indolenti, indipendenti o dipendenti… sempre troppo o troppo poco di qualsiasi cosa, perennemente fuori posto o talmente al loro posto da meritare in ogni caso solo disprezzo.

Ecco, questa è la violenza che io conosco. E mi spaventa pensarla così ‘normale’, così quotidiana, così pervasiva da diventare invisibile, persino a volte ai nostri stessi occhi. Perché di fronte al femminicidio, di fronte alle botte, di fronte allo stupro, io ammutolisco. Qualcun@ mi direbbe persino che io, ‘al confronto’, sono una donna fortunata. Eppure anche io conosco la violenza, una violenza che accompagna i miei giorni, da sempre: e non mi sento fortunata, proprio no, quando penso a quante volte ho dovuto incassare i colpi di un sistema che mi discrimina in quanto donna.

E allora quello su cui rifletto oggi, in una giornata così importante e simbolica, è che la violenza contro le donne non si riduce al suo estremo, e la violenza brutale non cancella tutte le altre, ma va inserita – concettualmente e politicamente – in un contesto più ampio, quello che richiede un’azione culturale e sociale che nessun provvedimento emergenziale e securitario potrà in alcun modo sostituire.

Auguro a tutte le donne di trovare la forza – in sé stesse e in amic@,compagn@, sorell@ – di riconoscere e opporsi a qualsiasi forma di violenza, anche le più piccole, anche quelle considerate insignificanti, che le riguardi in quanto donne. Perché dalla nostra personale dose di violenza quotidiana, nasca la forza di una resistenza che è anche e soprattutto politica.

Deconstructing la redazione

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Lo scorso 21 Settembre sono stato ospite dell’associazione “Io sono bellissima” per una giornata di incontri sul sessismo e sul linguaggio; la mattina un confronto sui giornali e i loro vari sessismi, con la presenza di giornalisti, e il pomeriggio un seminario sull’antisessismo. Una giornata, giustamente, bellissima, di quelle che ti lasciano motivazioni e ricordi politici felici – e non è che capitino spesso, eh.

Tra le persone presenti alcuni uomini e donne di Galatina, particolarmente impegnati sul loro territorio, con cui sono stato ben felice di parlare. Qui un loro comunicato per una iniziativa di domenica 24 novembre. A questo comunicato ha risposto una testata giornalistica locale con un pezzo davvero straordinario, che didatticamente ci fa il favore di raccogliere in un solo brano quasi tutti gli stereotipi e i luoghi comuni sessisti riguardo la violenza di genere – aggiungendoci vistose lacune culturali. E’ il caso di parlarne inseme perché raramente capitano esempi così esemplari dei tipici errori di chi pensa di sapere qualcosa sulle questioni di genere, semplicemente perché appartiene a un genere. E’ firmato “redazione”, e sono convinto che sia così: una persona sola non può infilare una dopo l’altra tutte queste stupidaggini, evidentemente è un lavoro di squadra. Cominciamo.

UNITI CONTRO LA VIOLENZA DI GENERE… si ma per limitarsi a chiaccherare? [Il titolo promette bene: sembra che a qualcuno non vada bene che ci si limiti alle parole contro la violenza di genere. Pazienza per l’accento mancante, di questi tempi manca ben altro.]

Siamo tutti contro la violenza, e su questo non c’è discussione, sulle donne poi. [Eeeeeh, sì, beh, grazie per la generosità, ma in effetti la discussione c’è, anzi c’è pure parecchia gente che pensa che sia giusto menarle spesso. Ma apprezzo l’entusiasmo, andiamo avanti con fiducia. ]

Se però essa sia il retaggio di una cultura patriarcale, o invece è la conseguenza dei lascivi comportamenti di questa società, è tutto da dimostrare. [Beh, no, ci sono almeno quarant’anni di letteratura femminista, sociologica, filosofica e storica che dimostrano abbastanza bene che i lascivi comportamenti, se abbiamo capito bene cosa potrebbero essere – dato che la redazione non l’ha scritto –  sono il prodotto del patriarcato e non una possibile causa alternativa alla presente discriminazione di genere.] E anche il riferimento al razzismo mi pare che abbia a che fare come il cavolo a merenda. [No, il cavolo a merenda è quello della redazione: il sessismo è una forma di razzismo, quindi il riferimento c’entra eccome. Io non sarei manco d’accordo a definirlo latente, ‘sto razzismo.]

Si ha l’impressione che tutti gridino per far vedere come sono sensibili e bravi, ma che poi nessuno voglia andare a fondo alla questione e dire le cose come stanno. [Oh, e questa è una bella frase che ci sta benissimo dalla cronaca politica, al gossip, allo sport; adesso vediamole, le cose come stanno, adesso la redazione ci dà una lezione di giornalismo. Pronti?]

Anche perchè questo richiederebbe ad ognuno di noi un esame di coscienza serio, approfondito e sopratutto onesto. [Bravi, così si dice, il personale e il politico, un bell’esame di coscienza che è passato di moda perché non fa comodo.] E riconoscere di aver sbagliato, e dirlo pubblicamente e molto difficile per non dire impossibile. [Bene, abbiamo capito, ma sarebbe ora di smetterla con i sottointesi e dire a cosa ci si riferisce, ormai è mezza pagina di rimuginamenti – e s’incomincia a tollerare poco i continui errori di ortografia. Ostacolano molto l’esame di coscienza serio, sapete?] Riconoscere che tante battaglie che da ragazzi ci sembravano sacrosante hanno prodotto tanti guasti richiede un coraggio ed un’onesta intellettuale non comuni. [Pare che l’esame di coscienza serio debba partire da parecchio lontano; da ragazzo mi ricordo sacrosante battaglie per vendere i cornetti a scuola senza pagare la percentuale ai bidelli, e una mezza rivoluzione quando i flipper passarono da duecento a cinquecento lire a partita. Mi sfuggono però in che senso queste sacrosante battaglie abbiano fatto danni alle generazioni successive. Ma leggiamo, forse finalmente arriviamo al dunque.]

Spesso sentiamo dire che la violenza sulla donna  e lo stesso omicidio [immagino intenda dire “e il suo eventuale conseguente omicidio”, ma che ne so, io mica sono una redazione] nascano dalla voglia di possesso, dal considerare una donna come un oggetto [capita molto spesso, e insisto: non è un sentito dire, è proprio sicuro che in molti casi sia così, fidatevi]. E allora ci domandiamo, un uomo che prima uccide la moglie e poi si toglie la vita, lo fa perchè vuol possedere un oggetto? [Sì; se oltre a sentirlo dire lo aveste pure letto da qualche parte, è tutto spiegato in autorevoli testi, nero su bianco. In giro per questo blog pure ci sono molte indicazioni bibliografiche – qui il sentito dire non è molto apprezzato, forse perché non siamo una redazione.] Qualcuno può seriamente pensare che per non perdere un oggetto uno perda la cosa più preziosa, la propria vita? [Sì, lo pensano in parecchi, come detto sopra, e lo scrivono pure. Quel famoso patriarcato cui si accennava prima ti insegna proprio che senza il possesso e il controllo di (almeno) una donna tu non sei un uomo degno, un uomo completo, un “vero” uomo, ed ecco perché quando si vedono lasciati, abbandonati, privi del requisito minimo richiesto dal patriarcato, alcuni uomini non sanno gestire la situazione e annichiliscono l’oggetto ribelle e se stessi.] O invece vi è un disagio più profondo, legata al nostro tempo che non riusciamo a interpretare  a comprendere, o magari non vogliamo comprendere? [Quale? Parliamone, vediamo.]

Nella società tradizionale la donna era il sesso debole [non è che adesso invece sia considerata tanto meglio eh, forse la società è cambiata ma la mentalità ci mette molto di più], e nonostante ci trovassimo in presenza di una società dove il tasso di violenza era certo più alto che ai nostri giorni, “la donna non la si doveva toccare nemmeno con un fiore”. [Oh, bene, così lo diciamo una volta per tutte: “la donna non si tocca nemmeno con un fiore” è un’espressione sessista come poche, perché non solo divide gli esseri umani in due – deboli e forti – a seconda del sesso, ma prescrive pure che è nell’ordine delle cose che uno “protegga” l’altro da ogni forma di violenza, attribuendosi così pure il diritto di decidere cosa è violenza e cosa no. (Se qualcuno non ha capito la frase precedente, mi permetto di pensare che il suo problema non sia la violenza di genere.)] Chi lo faceva era tacciato di vigliaccheria, [leggi: il vero uomo non ha bisogno di ribadire la sua superiorità, gli è dovuta, e se non riesce a ottenerla “con le buone” allora non è un uomo – figuriamoci cos’è una donna che non accetti questa sua inferiorità naturale!] e ogni altro uomo che pure non avesse a che fare con quella donna era legittimato ad intervenire in sua difesa [tutti poliziotti insomma, secondo un codice cavalleresco che, come ricorderete, ha rinchiuso le donne nei castelli per secoli, in quanto beni di esclusiva proprietà del maschio che andava alla guerra – proprio un bel modello di società]. Un uomo che usava violenza su una donna, non era sicuro neppure in galera [succede anche adesso; ma non capisco perché bisognerebbe essere soddisfatti del sapere che anche in galera il codice patriarcale è rispettato].

Poi un bel giorno ci siamo raccontati che la donna è uguale all’uomo, [EH? Ci siamo raccontati chi? Mi pare che siano le donne ad averlo detto, e che continuino da parecchi decenni con alterni risultati, purtroppo. E poi perché questo tono da favoletta? In che senso la redazione non crede che la donna è uguale all’uomo? La finiamo con i sottintesi?] che può fare il militare, che può fare la guerra, che quindi è un guerriero, [EEEEEH? Redazione, ma che gente frequentate? Forse – ma forse, eh – queste sono tesi portate avanti da alcuni femminismi, e anche fosse, qui sono espresse molto sommariamente e in maniera del tutto incompleta e fuorviante. Il primo pensiero delle donne è fare la guerra?] e così abbiamo smesso di considerarla una cosa diversa dall’uomo, [MA CHI? MA DOVE? Il voler dare alle donne e ad altri generi i diritti che spettano loro significa che si vuole tutti guerrieri? Ma lo sapete che è il 2013, che questa idea del “tutti guerrieri” quasi manco più i neonazisti la sbandierano? Ma ci vogliamo aggiornare un po’ prima di sparare di queste scemenze?] che doveva godere di una maggiore protezione [ancora con questa storia?], abbiamo smesso di alzarci nell’autobus per cedergli il posto [ah, ecco. La manifestazione pubblica dell’emancipazione femminile dipende dalle aziende comunali dei trasporti urbani. Tesi interessante, davvero], abbiamo deciso che invece della dolcezza, della femminilità, i tratti che dovevano caratterizzare la donna moderna, dovevano essere la decisione, la fermezza [MA ABBIAMO DECISO CHI, MA QUANDO? Ma in base a cosa una redazione si permette di parlare per tutto un genere, per tutta una massa, per tutti? E come non si accorge che se dice una cosa come abbiamo deciso i tratti che dovevano caratterizzare la donna moderna sta facendo razzismo sessista – oltre che dire un sacco di corbellerie?], al centro del suo mondo non più la famiglia, ma la carriera [ma non è vero! Milioni di donne vogliono cose diverse oppure queste – il problema è che non possono liberamente sceglierlo perché non hanno le stesse possibilità di realizzarsi grazie a una cultura patriarcale e maschilista imperante, non quello che ci siamo raccontati]. Non più mogli, amanti, amiche complici…ma donne in carriera, veline, competitori decisi e disposte a tutto [ma parlate per voi! In base a cosa vi attribuite un plurale che personifica decisioni epocali, e ci fate pure semplificazioni sociologiche a dir poco imbarazzanti? Pensate davvero che TUTTI gli uomini e TUTTE le donne siano così banali? O che anche solo “la maggior parte” abbia questa ridicola psicologia? O un esercito di docili sottomesse (mogli, amanti, amiche complici) oppure un esercito di competitori decisi e disposte a tutto? Voi vedete troppa televisione, ve lo dico io].

Poi, ad un certo punto, smarriti, ci siamo chiesti ma come mai la famiglia non funzionasse più [ovviamente è colpa delle donne, no?], come mai sempre più donne usassero la seduzione come arma per far cadere ai propri piedi, non il marito, il compagno, l’amante, ma il capoufficio colui che può dare uno mano per far carriera, per aver maggiore potere da utilizzare non solo su i colleghi, ma anche sul proprio uomo. [E certo che ve lo chiedete smarriti, se pensate che quello che sia successo sia che ci siamo raccontati che la donna è uguale all’uomo. Cosa pensate di poter capire con questo schema ridicolo? La seduzione come un arma da utilizzare per far cadere ai propri piedi il capoufficio è quello che vi raccontate perché non volete capire che è stato il patriarcato ad aver instillato anche nelle donne che il potere va conquistato a tutti i costi. Ed è l’uomo – il capoufficio – che decide di dargliene le briciole in cambio di sesso, continuando a mantenere il suo potere. Vi pare il risultato del “femminismo” questo, cara redazione? Se alle donne fosse stato concesso davvero quello che si prende anche l’uomo, allora sarebbero le donne il capoufficio, senza bisogno di avere maggiore potere ottenendolo da un uomo attraverso il sesso, perché lo avrebbero ottenuto col merito. Ma non vi rendete conto neanche di che esempi fate?]

Poi…. un brutto giorno scatta la violenza, a volte la follia omicida, questi uomini, compagni perfetti, ottimi mariti, padri esemplari per una vita, che all’improvviso diventano terribili assassini. [Quindi? Che vuol dire? Cosa significa questa frase qui, che la colpa dello scatta la violenza è della donna che usa lo stesso potere del patriarcato? Non avete neanche il coraggio di dirlo apertamente, vi affidate all’ellissi, alle figure retoriche? Questo sarebbe il risultato dell’esame di coscienza serio, approfondito e sopratutto onesto?]

E noi tutti rimaniamo increduli e incapaci di comprendere [e ti credo, con questa visione delle cose che cosa sperate di comprendere?], e così finiamo per limitarci a piangere sulle tragedie ed ad augurarci che non si ripetano più [ah ecco, alle associazioni rimproverate di limitarsi a chiacchierare, voi invece pianterello e scongiuri. Voi sì che pensate ai fatti], magari lanciando strali su un fantomatico uomo [quale fantomatico, qui si ammazzano davvero, oh!], dimenticando che quell’uomo ci assomiglia, o assomiglia ai nostri uomini, in maniera incredibile [ma assomiglierà a voi, forse, che ancora vi raccontate queste favolette assolutorie e che continuano a colpevolizzare tutto e tutti tranne la cultura patriarcale ancora vigente e le mentalità che produce. Voi non vi limitate a chiacchierare, no no, vi fate proprio portavoce di quella cultura, scambiando la causa con l’effetto. Certo, i femminicidi e la violenza di genere esistono perché ci siamo raccontati che la donna è uguale all’uomo e perché sempre più donne usano la seduzione come arma. Ancora complimenti per la profondità d’analisi, proprio quello che ci si aspetta da una redazione].

Per la cronaca, l’iniziativa a Galatina c’è stata ed è andata benissimo. No, loro non si limitano a chiacchierare.

Nu Project: la vera bellezza

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Traduzione di questo articolo a cura di Serbilla – Enjoy!

“La nudità femminile non è difficile da trovare nei mezzi di comunicazione di questi tempi: ma i corpi che vediamo normalmente rappresentano una gamma abbastanza limitata di forme e dimensioni.”

Corpi senza un grammo di grasso, proporzionati, atletici e la maggior parte dei quali ritoccati magicamente con Photoshop. Nu Project è una collezione di foto di nudo scattate dal fotografo Matt Blum, di Minneapolis, con il quale si vorrebbe aggiungere un po’ di varietà e perché no, il riconoscimento alla bellezza autentica al di là degli stereotipi e delle etichette.

AtHome049-2B7K0748 Blum ha dato vita al progetto nel 2005 lavorando assieme a sua moglie, Katy Kessler.

“Quando cominciai a fotografare nudi, non avevo in progetto questo. I lavori che ho visto usano modelli con misure ideali o standard che sembrano estremamente perfetti o imponenti. Pensai che doveva esserci un modo per catturare la bellezza di una donna reale (di qualsiasi forma e corporatura), che funzionasse da modello e fotografarle belle e rispettosamente.”

Le modelle di questo progetto sono tutte volontarie, nel sito web dello stesso si possono apprezzare gallerie di donne nordamericane così come sudamericane; sebbene il tipo di donna che ha fotografato è l’unione di distinti corpi ed etnie, Blum assicura che gli piacerebbe che più donne avessero il coraggio di partecipare e si spogliassero delle loro insicurezze.

Il fotografo spera che queste immagini ispirino le donne a sentirsi meglio con il loro corpo.
“E’ stato molto emozionante ascoltare le reazioni della gente di fronte alle immagini (…) Abbiamo ricevuto molti commenti di donne (soprattutto) che hanno lottato per vedersi come le bellezze che sono e questo progetto le ha aiutate in questo cammino”.