Deconstructing l’istinto naturale

19bisCapita raramente che un commento a un post sia particolarmente interessante, perché in genere chi vuole argomentare bene in risposta a qualcuno sceglie di farlo o sul proprio blog o su un social network; i commenti intelligenti sono sempre più rari, ma quelli lunghi, argomentati e completamente idioti sono ancora più rari. Quindi quando ne capita uno, va immortalato.

Premessa: non importa se l’anonimo commentatore è un troll in vena di fini ragionamenti. Importa – ecco perché ce lo rileggiamo – che questi siano i ragionamenti di una maggioranza di bei maschioni. Quindi non sarà inutile dargli una spolveratina, e fregarsene se poi l’autore legge, risponde, ricommenta, e così via.
Spero che tutti voi conosciate già il blog
Ci riprovo, che vi consiglio di frequentare spesso e volentieri. Sotto questo post – che necessariamente dovete leggere prima di continuare – è apparso un commento notevole, che sarà un piacere rileggere insieme a voi.

Lola, non te la prendere per il mio modo provocatorio di affrontare la questione. [E’ sempre carino cominciare così, è la versione retorica di “io non sono razzista ma” – predispone alla gioia, proprio]. Premesso che non so nemmeno come ci sono capitato qui [figurati noi, ma grazie lo stesso]: in genere mi occupo di discussioni di tutt’altro tipo [attenzione: ha premesso lui che non se ne occupa di certe cose, eh, ricordiamocene], sono stato catturato [il linguaggio già denuncia l’atteggiamento giusto: lui se ne andava per fatti suoi nel web ed è stato catturato. Sempre per continuare a predisporre Lola alla gioia] dalla tua tesi sulla necessità di educare i maschi [lo avete letto il post, vero? Ce l’avete trovata questa tesi sulla necessità di educare i maschi? Io no, e manco Lola, ma lui, che in genere si occupa di discussioni di tutt’altro tipo, sì]. Dove per “educare” sembra che tu voglia intendere “addestrare”, o “ammaestrare” [sembra solo a chi non sa leggere o a chi ha dei pregiudizi grossi come la galassia, ma vabbè], secondo una concezione pseudofemminista di concepire i rapporti tra i sessi [ma non era uno che si occupava di discussioni di tutt’altro tipo? Se già è in grado di riconoscere ciò che sarebbe pseudofemminista, allora ne sa. Che giocherellone].

Una concezione che fondamentalmente si regge sulla negazione, o sulla diminuzione, di una verità fondamentale [attenti, arriva la verità fondamentale! Pronti?]: noi umani siamo animali [e fin qui c’ero arrivato pure io], siamo organismi soggetti all’imperativo naturale della riproduzione [e che sarebbe un imperativo naturale? Non c’è su Wikipedia, mannaggia, e adesso come facciamo? Pure quel filosofo, come se chiamava, Kant, non poteva metterci questo, tra gli altri imperativi?], come tutti i viventi. L’istinto riproduttivo è talmente primitivo e fondamentale che ci accomuna ai lombrichi e con altri viventi ancora meno evoluti di loro [condividiamo anche lo stesso pianeta e siamo entrambi soggetti alla forza di gravità – e potrei continuare all’infinito a trovare comunanze a cacchio con i lombrichi: rimane il fatto che non hai detto cosa sarebbe un imperativo naturale. Perché se fosse l’istinto riproduttivo, diciamo che tra l’avercelo – sempre tutto da dimostrare – e il come usarlo, qualche differenza tra i vari animali io la vedo. Per esempio, se fosse tanto imperativo, a che scopo i diversi, complicati e spesso fallibilissimi “rituali di corteggiamento”? (Grazie Volpe.) Oppure perché scegliere il partner invece di riprodursi con qualunque esemplare femminile fertile? Tipo, che ne so: tua madre, tua sorella… no, quelle l’imperativo naturale le dichiara off limits, almeno per te. Lo hai detto alle sorelle dei tuoi amici? Provaci, magari in presenza dei fratelli, vedi se sono d’accordo anche loro co’ st’imperativo naturale].

Guarda che carini…

http://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/thumb/f/f6/Mating_earthworms.jpg/1024px-Mating_earthworms.jpg [illustrazione a uso e consumo, evidentemente, di chi vi trova somiglianze nell’imperativo naturale.]

Questo per dire che il richiamo sessuale in sé non è per nulla educato, anzi: è maleducatissimo e, a volte, anche violento [attenzione, adesso parla del richiamo sessuale, non più dell’imperativo naturale. E questo che sarà? Ce lo spiegherà? Proseguiamo fiduciosi, dopo aver assistito a “come ti spiego lo stupro con cause naturali”. E’ proprio una gioia leggerlo]. Gli individui di alcune specie (qualche volta anche gli umani lo fanno) mettono a repentaglio la loro stessa vita per seguire questo istinto [ah, qualche volta, quindi non sempre e non tutti, e non di tutte le specie. Ma non era imperativo, non era violento? E come mai qualcuno se ne sottrae? E scusa, ma individui di tutti i sessi o solo di uno? Così, per sapere].

Certo, noi umani siamo evoluti [ah, ecco]: abbiamo imbozzolato questo istinto selvaggio in una serie di condizionamenti che ci consentono di vivere in società anche molto complesse [come? Quando? Il nostro etologo non ce lo dice, continua a fidarsi dell’evidenza di ciò che dice. Che non è evidente per niente: per esempio, perché ci sarebbero questi condizionamenti? Paragonandolo all’istinto di nutrirsi – oh, mi pare fondamentale e imperativo pure questo – com’è che invece non è poi tanto selvaggio e non fa incazzare la sorella del tuo amico? E poi, quale sarebbe il motivo di avere società anche molto complesse? L’imperativo naturale è scopare, mica costruire automobili]. Ma bisogna fare attenzione, perché a volte la necessità di dominare l’istinto con norme e condizionamenti di vario genere può spingersi fino alla sua negazione, e allora saltano fuori le nevrosi e talvolta le psicosi [ma perché c’è questa necessità, se c’è l’istinto? Intanto avete assistito anche a “lo psicologo dilettante”, gioco in voga da quando il pòro Freud pensò di pubblicare le sue cose e farle leggere a tutti. Da quel giorno, tutti pensano di poterle capire al volo]. E la negazione può diventare violenza brutale [di chi? Io mi nego le cose e poi divento brutale? Verso chi? Com’è che divento brutale verso l’altro sesso e non contro il mio, visto che i condizionamenti me li sono negati da solo? Oh, l’ha detto lui eh].

L’istinto lo si può e lo si deve controllare [e allora che istinto è? Perché chiamarlo così? Chiamarlo bisogno no?], ma negarlo è ipocrita e controproducente [io trovo ipocrita parlare a vanvera di cose che non si sanno e non si capiscono, e pure usare apposta un termine per avallare senza ragionamenti né prove i propri deliri. Se quello sessuale fosse stato chiamato un bisogno e non un istinto sarebbe un errore lo stesso, ma intanto tutta la costruzione pippologica sulla violenza e sull’imperativo crollerebbe].

Per dire: puoi essere certa che il tuo ragazzo, o marito, guarderà il culo o le tette di qualunque bonazza gli passi a tiro [comportamento dovuto all’istinto imperativo? E perché – tanto per fare la prima obiezione facile – se è tipico della nostra specie tante altre culture non danno alcuna importanza allo sguardo, a ciò che si vede? E ancora: perché, se c’è un istinto, in anni diversi, in luoghi diversi, tra gruppi diversi le caratteristiche tipiche della bonazza cambiano?]. Senza darlo a vedere, ovviamente: per non offenderti, perché il sesso è una cosa e l’amore è un’altra cosa [e adesso chi lo dice a Venditti?], ma lo farà [lui ne è certo, perché tutti i maschi di tutte le specie sono uguali: hanno l’imperativo naturale, no?].

E lo stesso farai anche tu, in modo diverso, meno esplicito, più complesso: perché sei femmina, e la missione biologica delle femmine è più complessa [CALMA, fermi tutti, facciamo ordine. Allora: c’è l’istinto naturale, il richiamo sessuale e adesso la missione biologica. CHE CACCHIO SONO? DOVE LE HAI PESCATE QUESTE SCEMENZE? Un link, un cognome… niente, tutta scienza infusa]. Ad iniziare [qui due parole sulla d eufonica] dalla scelta del maschio più adatto per finire al parto e alla cura della prole [traiamone le conseguenze: se una donna vuole vivere per cavoli suoi e senza avere figli, tradisce la sua missione biologica. E le suore? No, dico: E LE SUORE?].

I maschi hanno una missione biologica molto più semplice [ma guarda un po’, che culo]: possedere e inseminare quante più femmine possibile [deve averlo digitato usando il glande, a giudicare dal pacato climax retorico]. E anche nelle specie monogamiche come la nostra [ecco, qui basta Wikipedia per svelare la scemenza: la nostra non è affatto una specie monogamica, è solo un’opzione culturale di alcuni gruppi sociali] permane questo istinto primitivo alla promiscuità [ah, ecco, c’è un altro istinto: quello alla promiscuità. Ma sono due o è sempre quello di prima, meglio definito? Boh]. Anche nelle donne, eh? [oh, meno male, me stavo a preoccupa’.]

Dunque non ha senso proporre una educazione dei maschi [Lola non l’ha fatto, dovrebbe bastare saper leggere], e anche delle femmine [questo ancora meno], a partire dalla negazione di una realtà istintiva primaria [definizione del tutto personale: non c’è uno straccio di prova scientifica che lo sia, anzi che ne esista una] come l’attrazione sessuale [NO! Ma come l’attrazione? Ma hai parlato finora di riproduzione, promiscuità, sesso, violenza, e adesso te ne esci con una cosa moscia come l’attrazione?]: è ipocrita, nevrotizzante, controproducente [se gli effetti sono scrivere ‘ste cose, comincio a crederti].

Ha invece senso farlo a partire dal riconoscimento pieno della natura profonda di maschi e femmine [con buona pace degli altri generi – a proposito, ma come fanno a esistere tutti quei generi se c’è un istinto primitivo?], perché solo in questo modo uomini e donne possono rispettarsi per ciò che sono [belve inevitabilmente assetate di sesso i primi, e creature vòlte al parto e alla cura della prole le seconde. Però, complimenti per la scienza infusa].

Il pistolotto mi è uscito un po’ lungo [grazie anche per aver evitato il doppio senso]. E prima che parta la strigliata farò bene ad allontanarmi [tranquillo, Lola pensa solo al al parto e alla cura della prole, è il suo istinto, non hai nulla da temere]. Ciao. [Ciaone proprio.]

Quando si tratta di animali, per alcune persone niente è già troppo.

Quando si tratta di animali, per alcune persone niente è già troppo.

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Traduzione di questo articolo uscito sull’Huffington Post di Marco Reggio e feminoska, revisione di Eleonora.

N.B.: Nel testo in questione viene usato il termine ‘animali’ a designare gli animali non umani; pur rispettando la lettera del testo originale, ci preme sottolineare che animali non umani sarebbe stato un termine più felice, sia nell’ottica di riaffermare la ns. consapevolezza di essere anche noi animali – seppure umani – ed inoltre perché la dicotomia umano-animale è funzionale a quell’idea di ‘superiorità morale’ dell’animale umano sull’animale non umano che vogliamo demolire (come ben spiegato nella traduzione del testo Farla finita con l’idea di umanità precedentemente pubblicata su Intersezioni)… buona lettura!

Qualche giorno fa, ventiquattro intellettuali scuotevano l’opinione pubblica per far emergere finalmente una riflessione collettiva sullo status giuridico degli animali, considerati finora come delle “cose” dal Codice Civile francese.
In risposta a tale appello, Guy Birenbaum ha pubblicato una nota indignata: com’è possibile emozionarsi per la sorte degli animali mentre il paese versa in una così grave situazione? – ha spiegato Birenbaum in sostanza (sostanza che il “bilancio” da lui aggiunto in fondo alla nota, in fin dei conti, non riesce a mitigare). Non analizzerò qui il ricorso – probabilmente considerato spiritoso dall’autore – a prese in giro nei confronti delle/gli intellettuali e a metafore sessuali, per non dire sessiste (“anche se non sono un intellettuale, voglio che vengano protette le cagne a pelo lungo, i maiali e le pecorine “). Ciascun* potrà apprezzare o no… Io vorrei analizzare la sostanza.
La sostanza è la seguente: la sofferenza animale dovrebbe, pare, restare assolutamente inespressa. Ciò che sconvolge il signor Birenbaum, – e non è un caso isolato – non è il dolore che viene inflitto, ma il fatto che qualcuno abbia l’impudenza – o il cattivo gusto? – di evocarlo. Straordinario. Puo darsi che sia questo, d’altronde, il senso di quella legge americana approvata recentemente, che mira non a prevenire le torture nei confronti degli animali (quasi sistematicamente impunite nei fatti), ma a vietarne la… diffusione (e dunque la denuncia)! Straordinario. I social network sono la dimostrazione di questa impossibilità di evocare la questione: citare il dolore animale porta in modo quasi sistematico e istantaneo a una deviazione del dibattito verso esplicite prese in giro, verso la denigrazione dell’umanità del messaggio o la derisione in riferimento all’uso alimentare dell’animale in questione. Non è questa la sede per analizzare questo malessere le cui radici sono molto profonde. Che nessun carnivoro, o quasi, sia capace di guardare in faccia – e dunque di accettare – ciò che accade realmente ed effettivamente in un mattatoio è problematico in relazione alla coerenza delle nostre scelte di vita. Senza dubbio. Ma si tratta di un’altra questione.
Atteniamoci ai fatti: non è ragionevole sostenere che il nostro spazio mediatico sia invaso da manifesti riguardanti gli animali. Innegabilmente, la questione del loro status giuridico – di cui sarà facile mostrare la centralità dal punto di vista filosofico, etico e scientifico – non occupa affatto il dibattito! Ma i pochi secondi di eco mediatica che questo appello ha suscitato sono già troppi per Guy Birenbaum.
Tutte le sue argomentazioni, se così le vogliamo chiamare, poggiano sull’idea implicita che lo status giuridico attuale degli animali sia un’ovvietà. Un’ovvietà come potrebbero probabilmente esserlo anche le rappresentazioni della terra come piatta o dei neri come inferiori. Che potrebbero e che, senza dubbio, dovrebbero. Ma non voglio arrischiarmi a andare oltre, per rispetto di Guy Birenbaum. Il problema deriva interamente dal fatto che questa “ovvietà” è un errore scientifico. Lo studio dei comportamenti, così come quello dei neurotrasmettitori e della struttura cerebrale, mostra esattamente l’opposto. Questo non implica, in sé, che sia necessario cambiare comportamento nei confronti degli animali. Ma mostra, quantomeno, che se si continua a considerarli come delle “cose” o dei “beni”, bisogna farlo tenendo in grande considerazione le conseguenze logiche ed etiche di tale decisione.
Anche supponendo che la questione animale sia effettivamente secondaria, qual è il senso dell’avvertimento di Guy Birenbaum? Oggi ogni sei secondi un bambino muore di fame. Si tratta incontestabilmente di un abominio insopportabile. Ma dovremmo quindi dedurne che evocare ogni altra questione (poichè ognuna delle altre questioni può effettivamente essere considerata secondaria in rapporto a questa) sia indegno?
La reificazione di cui gli animali sono oggi vittime è di una violenza senza precedenti. Qual è dunque la logica – quella cui fa riferimento implicitamente ed energicamente la nota di Guy Birenbaum quando insiste sul tempismo disastroso – che permette di affermare che finché persiste il dolore umano, ogni altra preoccupazione che non lo riguardi direttamente non è accettabile? Un doppio errore sottende l’argomentazione: da un lato lascia intendere che prendersi cura degli uni (o, potremmo dire, massacrarli con meno violenza) implicherebbe trascurare le/gli altr*; dall’altro, presuppone che verrà un tempo in cui questa questione potrà finalmente essere affrontata, poiché i guai degli esseri umani saranno scomparsi. Queste due ipotesi sono inesatte. Se avessimo dovuto attendere che tutti i nostri mali fossero svaniti per preoccuparci d’arte, di sport o di fisica di base, non avremmo mai iniziato ed evidentemente non inizieremmo mai!
È straordinario come, quand’anche il destino degli animali risultasse perfettamente indifferente a Guy Birenbaum, costui non consideri l’idea che l’empatia verso gli uni si accompagni quasi strutturalmente a empatia verso le/gli altr*. Naturalmente alcuni contro-esempi vengono in mente (no, non Hitler, che come ormai sappiamo probabilmente non era nemmeno vegetariano) ma la questione dello status giuridico degli animali e il riconoscimento giuridico della loro capacità di soffrire – che la scienza ha oggi confermato senza lasciar spazio a dubbi – non può non riecheggiare la nostra indifferenza verso altre sofferenze umane. Queste questioni non sono opposte, anzi. Se la parola “comunità” ha ancora un significato oggi, è certamente quello di “comunità dei viventi”.
Così poco, pochi secondi alla radio, tra i risultati di calcio e il meteo, per accennare l’articolata questione dello status giuridico degli animali che oggi subiscono un trattamento che mai ha avuto precedenti nella storia, è quindi già troppo…
Guy Birenbaum non ci ha risparmiato nulla. Né la presa in giro nei confronti delle/gli intellettuali (di second’ordine, suppongo…), né i luoghi comuni più triti riguardo alla questione animale (fino alla scelta della fotografia e della didascalia), né l’eterno ritornello trito e ritrito: gli esseri umani soffrono, è dunque indegno (o meglio indecente) preoccuparsi – fosse anche solo per qualche istante – degli animali. La più ridicola delle preoccupazioni o informazioni umane (e ne abbiamo già in abbondanza!) sarebbe dunque più degna e decente di una discussione, così breve, sullo status giuridico degli animali. Straordinario. Questo anche se i progressi dell’etologia e della biologia – l’unica cosa che Guy Birenbaum non contesta, perché non può farlo – hanno dimostrato che le loro sofferenze e i loro dolori sono, nella maggior parte dei casi, del tutto paragonabili ai nostri. E lascio peraltro in sospeso una questione fondamentale: anche se fossero diversi dai nostri, questo cambierebbe la loro realtà, perdendone quindi in legittimità? Fino a che punto possiamo spingerci con questo criterio pericoloso della somiglianza come criterio di dignità?
Io ho alcune riserve, che ho esplicitato in altri contesti, su alcune delle opere filosofiche di alcuni delle/dei firmatari* di questo appello. Ma, data la reazione di Guy Birenbaum, è chiaro che passano più che in secondo piano. La sua reazione non è nemmeno insolita visto che molti dei media più importanti hanno ritenuto di dover trasmettere l’informazione come se si trattasse quasi di una… burla.
Il manifesto pubblicato – come ci si poteva aspettare e probabilmente come era necessario – era più che prudente. Non abbatteva alcun tabù. Chiedeva il minimo indispensabile: la presa in carico dell’evidenza dei fatti, vale a dire lo status giuridico degli animali come “esseri senzienti”. Ma era già troppo per Guy Birenbaum. Così “troppo” da mostrarsi visibilmente offeso e decidere di rendere pubblica la sua rabbia.
No! Questo “niente”, questo appello che sarà probabilmente dimenticato nel giro di pochi giorni, questa aspirazione a cominciare a considerare possibile porre un freno all’infinito, incondizionato e inalienabile diritto di infliggere agli animali una sofferenza illimitata e deregolamentata , io non trovo affatto che fosse troppo. E anzi quell’impegno – siatene certo, signor Birenbaum – non mi impedirà di continuare a sostenere i diritti dei rom e degli irregolari, per citare solo alcuni dei “temi caldi” attuali e nazionali. Conoscere la sofferenza degli animali non mi fa amare meno gli umani. È anzi l’esatto contrario. Queste lotte non sono in contrasto tra loro. Non avrebbe alcuna ragion d’essere, se non quella di decidere – arbitrariamente – di renderle reciprocamente esclusive.
Lascio a Kundera il compito di concludere: “La bontà umana, in tutta la sua purezza e libertà, può venir fuori solo quando è rivolta verso chi non ha nessun potere. La vera prova morale dell’umanità (quella più radicale, che si situa ad un livello così profondo da sfuggire al nostro sguardo) è rappresentata dall’atteggiamento verso chi è sottoposto al suo dominio: gli animali. Ed è qui che giace il fallimento fondamentale dell’umanità, un disastro così grave che tutti gli altri ne scaturiscono.”

Ma forse già si trattava di un intellettuale folle? Uno in più, uno… di troppo?