Donne e violenza

Leggendo questo titolo, molte persone avranno pensato alla violenza contro le donne, che è tanta. Tuttavia voglio riferirmi alla violenza che  queste esercitano o, meglio, a quella che potrebbero esercitare in propria difesa, una violenza quasi inesistente, sia organizzata in gruppi, sia esercitata in modo individuale. La domanda che mi faccio sempre è: Perché le donne raramente usano la violenza contro un sistema patriarcale che è così violento contro di loro?

autodefensa

Assistiamo continuamente a scene di violenza contro le donne: reale e romanzata. Abbiamo visto video o immagini di fustigazione, lapidazione, abusi fisici e abbiamo visto le donne camminare per le strade di alcuni paesi sotto un burka. Ogni pochi giorni, in questo paese, una donna viene uccisa da un uomo, e spesso vediamo donne reali con ematomi reali. Vediamo anche molte immagini romanzate di stupro, pestaggi e omicidi, in film o telefilm. Nella nostra cultura globale il maltrattamento delle donne è molto comune ed è assolutamente diffuso. La violenza contro le donne non è sorprendente, conviviamo con essa, è un’immagine quotidiana e reale; ci accompagna costantemente. E nonostante ciò, questa campagna mi ha colpito, mi ha scosso, mi ha fatto male:

E mi ha fatto pensare, ancora una volta, a una domanda che mi sono fatta molto spesso: Perché le donne non si sono mai organizzate con la violenza per difendersi dalla violenza perpetrata continuamente contro di loro? E perché non si difendono con la violenza da coloro che le maltrattano? Perché ci sono così pochi omicidi per legittima difesa? Sì, sappiamo che noi donne siamo educate a non esercitare la violenza fisica e che, storicamente, non siamo state parte di eserciti o istituzioni che fanno uso della forza; che da bambine non giochiamo giochi che implicano violenza, che siamo educate per curare e sopportare, per non rispondere alla violenza con la violenza, ma con lacrime e preghiere. Tutto questo implica un grande freno fisico e psicologico alla possibilità di usare la violenza in alcune circostanze ma, tuttavia, sono numerose le occasioni in cui le donne hanno superato questa barriera.

Le donne imbracciano spesso le armi; le donne partecipano e hanno sempre partecipato a sommosse, guerre o rivoluzioni. Le donne oggi sono militari, terroriste o guerrigliere; mettono bombe, dirottano aerei, fanno parte con naturalezza dell’esercito. Meno degli uomini, certo, perché i ruoli di genere  mettono loro dalla parte della guerra e non noi, ma anche così, questa barriera non è mai stata impenetrabile. Le donne hanno preso le armi per difendere le proprie famiglie, i propri paesi, le proprie divinità o le proprie idee. Le donne muoiono e uccidono lottando contro il capitalismo, contro un’invasione, contro il colonialismo, il razzismo, la povertà, contro il comunismo o contro l’influenza straniera. E tuttavia, non hanno mai preso le armi per difendere sé stesse dal patriarcato. Le donne muoiono e uccidono, ma mai per sé stesse; e nel caso, contro il patriarcato, uccidono sé stesse, si suicidano. Perché? Perché questa idea suona completamente folle? Mi riferisco ai patriarcati più barbari, mi riferisco all’obbligo di nascondersi sotto un burka, al divieto di uscire di casa, ai matrimoni forzati, alle lapidazioni, agli stupri, al divieto di studiare … E mi riferisco in particolare a quando queste circostanze sono “nuove”, cioè quando si verificano dopo periodi di patriarcati “normalizzati”; il caso dell’Afghanistan è il più noto, ma non è l’unico. La domanda che mi faccio sempre è: perché donne che hanno studiato all’università, che hanno sposato qualcuno per amore, che sono state imprenditore o lavoratore, che hanno viaggiato e camminato per la strada normalmente, non si sono organizzate in gruppo armato prima dell’arrivo dei talebani? Perché per noi è molto più facile optare per il suicidio, che per l’aggressione ad altri, anche in circostanze come quelle menzionate? E anche conoscendo le risposte che spesso vengono date a questa domanda, a me non basta; riconosco le barriere, i freni psicologici, ma… Mai? Nemmeno in questi casi?

Se ci riferiamo alla possibilità di esercitare la violenza individuale per rispondere alla violenza individuale, mi assalgono gli stessi dubbi. Recentemente ho discusso con qualcun@ sul fatto che il patriarcato si sia instaurato a causa della maggiore forza fisica degli uomini. Sebbene qualsiasi sistema di dominio usi la forza come strumento, questa non è indispensabile. Il nucleo del potere consolidato è sempre simbolico e infiltra la costruzione personale; altrimenti la resistenza si manifesterebbe immediatamente. Per esempio, esistono – e sono esistiti già in passato – gruppi umani in cui il potere è detenuto dagli anziani, che sono fisicamente i più deboli. Inoltre l’intelligenza, l’organizzazione o le armi possono ben sostituire la forza fisica. La forza fisica non è fondamentale quando si può afferrare un’arma, e vi sono paesi in cui le armi sono a disposizione di uomini e donne.

La forza deriva sempre da un potere simbolico, e questo stesso potere  serve anche per privare altr@ del potere. Nel caso del patriarcato, la  forza fisica fa riferimento al potere simbolico di genere che dipinge  tutti gli uomini come assai più forti fisicamente di tutte le donne,  anche se questo non corrisponde al vero in molti casi specifici o non  deve essere sempre così. E questo potere simbolico dà loro una forza  reale, del potere, mentre allo stesso tempo indebolisce le donne e le  lascia immerse in un’impotenza fisica e psicologica assoluta.

Per  combattere la violenza maschile, come femministe, intendiamo usare la  forza, simbolica e reale, della legge. E’ vero che se la legge  condannasse e perseguitasse questa violenza, se si utilizzassero le  risorse per l’educazione contro di essa, se la condanna sociale fosse  totale, lentamente faremmo passi avanti. Tuttavia, nel caso del dominio  patriarcale, la legge è solo uno strumento, ma non è l’unico, perché per  quanto si condanni e punisca la violenza contro le donne, se lasciamo  intatto il sistema di dominazione simbolica, la violenza esisterà sempre, anche  se punita e condannata. Questo sistema è perversamente perfetto e  mentre punisce da un lato, incoraggia la violenza simbolica dall’altro.  Mentre legifera a favore della parità, si approvano o  semplicemente si incoraggiano comportamenti, abitudini,  rappresentazioni, leggi o istituzioni chiaramente ineguali.

Quindi la lotta contro la violenza di genere passa attraverso le leggi, passa attraverso l’educazione alla parità, ma passa anche attraverso qualcosa di molto più complicato, quale è l’aspetto simbolico, culturale. Nell’ambito culturale, il potere di autodeterminazione delle donne deve esprimersi anche sul piano fisico, perché le ragazze sono educate alla convinzione che tutti gli uomini sono più forti di loro e che, di fronte ad un’aggressione, possono ricoprire esclusivamente il ruolo di vittime. Tutti i giochi femminili, l’esercizio fisico che (non) fanno, l’abbigliamento, le scarpe, i movimenti, il linguaggio del corpo e persino il vocabolario che usiamo, tutto va nella direzione di togliere forza fisica alle donne. I ragazzi, però, non vengono educati nel timore dei ragazzi forti, ma nella coscienza dell’uguaglianza. Anche le donne possono anche essere forti, ma soprattutto, possono essere, sentirsi, fisicamente alla pari. Il punto non è promuovere l’uso della forza, ma non sentire barriere, blocchi, paure o sentimenti di impotenza di fronte ad altr@ presenze corporee e anche riguardo al proprio stesso corpo.

In questo senso vorrei raccontarvi qualcosa del mio rapporto speciale con la forza fisica. Siccome ho sofferto di poliomielite alle gambe, la mia famiglia decise che sarebbe stato molto importante rafforzare il resto del mio corpo per compensare. Mi hanno fatto fare ginnastica da quando avevo tre o quattro anni. Ho fatto ginnastica per rafforzare il corpo in generale, in particolare i muscoli delle braccia, tutti i giorni della mia infanzia e adolescenza. Ogni pomeriggio dopo la scuola ho trascorso due ore con un’allenatora facendo le parallele, l’arrampicata con la corda, gli addominali e il sollevamento pesi. A causa di ciò, ero una bambina molto forte, insolitamente forte rispetto a come sono le bambine di solito, e anche i bambini. In realtà, ero la personcina più forte nella mia classe, cosa che mi ha fatto avere un diverso rapporto con il corpo rispetto rispetto a quello che di solito hanno le bambine.

Se si doveva salire su di un albero, scalare una parete o trasportare qualcosa chiamavano me.

Se giocavamo a qualche gioco in cui la forza era importante, tutti mi volevano in squadra. I bambini a volte si picchiano, spingono, hanno relazioni mediate dal contatto fisico senza che ciò debba finire in combattimento. Queste relazioni sono state per me una forma di espressione naturale e tutto ciò ha avuto conseguenze, ha determinato il mio inserimento nel gruppo dei bambini, e non delle bambine. Non si faceva nel mio caso il confronto per capire se ero più forte o più debole degli altri, di pochi, o della media. Ero una in più. La cosa importante non era la forza concretamente misurabile, ma l’uso che facevo del mio corpo, della mia forza fisica, quella che fosse; la sensazione era di essere uguale agli altri bambini.

Gli uomini che picchiano le donne non lo fanno perché sono più forti e sicuri di vincere la lotta. Le picchiano perché sanno che in ogni caso la vittima non si ribellerà. Ricordiamo che la violenza del partner maschile in una coppia è un’escalation in cui tutto comincia con un insulto o uno schiaffo a cui lei non risponde mai. Che sia chiaro che non intendo affatto banalizzare il problema della violenza maschile, e non sto suggerendo che la risposta ad essa sia di restituire i colpi. Ma credo che molti degli uomini che picchiano le proprie mogli non siano particolarmente forti, né coraggiosi, e non colpirebbero nessuna se immaginassero che questa qualcuna è capace di resistere. Picchiano una donna perché sanno di poterlo fare, perché è completamente impotente, anche fisicamente.

Conosco bene i meccanismi psicologici che portano molte di queste donne a non lasciare i propri aguzzini, a non denunciarli, a non combatterli; so quello che ci fa ‘l’amore romantico’, la dipendenza affettiva e materiale, ecc. Comprendo che parliamo di un sistema naturalizzato che si rende invisibile, che si manifesta nel simbolico, nello psicologico, nell’autocostruzione personale, che spesso non percepiamo in quanto sistema di oppressione; si manifesta in tanti piccoli atti quotidiani contro cui è difficile ribellarsi, che coinvolgono la famiglia, le persone care, i figli e le figlie. Comprendo che la repressione che viene agita contro le donne che rispondono agli attacchi è stata storicamente terribile, e ancora oggi è orrenda in molte parti del mondo. E il femminismo fa molto per combattere tutto questo. Voglio solo dire che, come parte della nostra lotta femminista, dobbiamo imparare a posizionarci nel mondo con una corporeità autodeterminata, forte, coraggiosa e consapevole; che ciò contribuirà – contribuirà solamente – a cambiare alcune cose. E comunque, torno alla domanda iniziale.

Al di là della violenza machista in particolare, per quale ragione le donne mai, mai si sono organizzate e hanno preso le armi per difendersi, almeno in situazioni straordinarie? Questa domanda mi passa continuamente per la testa senza che io riesca a trovare una risposta – Mai?

(Articolo originale qui. Traduzione di feminoska, revisione di Serbilla Serpente.)

Costruendo un discorso antimaterno

Il femminismo tende a ignorare la natura compulsiva della maternità, l’importanza del suo ruolo nella comprensione della discriminazione strutturale e ideologica delle donne e a perpetuare il tabù verso qualsiasi discorso contrario.

Señora Milton

L’altro giorno, nella penombra di una riunione notturna, parlando di quelle cose che non si suole menzionare alla luce del giorno, finimmo col parlare di maternità tra amiche, con grande sincerità. E dopo le chiacchiere, fummo in molte a concordare che al femminismo resta molto da dire sulla maternità, anche quando si potrebbe pensare che in merito abbia già detto tutto; in fin dei conti, la maternità è uno dei suoi temi da sempre. Possiamo constatare che, a dispetto del fatto che la maternità è stata studiata, analizzata e messa in questione, e che la rivendicazione dei diritti riproduttivi è una costante all’interno del femminismo, non esiste all’interno di esso una discorso chiaramente antimaterno.

Sebbene la maternità apparentemente sembri essere molto cambiata, abbiamo il diritto di domandarci se questo mutamento sia stato qualcosa di più di una semplice modernizzazione per continuare ad essere, nel profondo, un discorso prescrittivo che pretende di continuare a mantenere pienamente operativo il binomio donna-madre, nonostante oggi si tratti di una donna moderna e anche di una madre moderna. Il femminismo, a mio parere, tende a ignorare la natura compulsiva della maternità e a sottovalutare il suo ruolo nella comprensione della discriminazione strutturale e ideologica delle donne. Il tabù che incombe su qualsiasi discorso antimaterno all’interno del femminismo evidenzia il carattere conflittuale di una questione che non riguarda solamente la configurazione dell’identità delle donne, ma il mantenimento stesso dell’ordine sociale nel suo complesso.

Durante la maggior parte della sua storia moderna, il principale obbiettivo del femminismo è stato da un lato difendere una condizione materna compatibile con la vita (nel senso più letterale), o, nei paesi ricchi, difendere una gestione della maternità che permettesse di essere madri rimanendo sé stesse. E pur essendo queste due preoccupazioni logiche e giuste, non significa che si debbano soffocare altri modi di pensare la maternità. In generale, salvo eccezioni, sono poche le voci che hanno formulato dei discorsi contrari a una questione che, semplicemente, si assume come normale, naturale, inevitabile, indiscutibile, ecc.  Quasi tutte le posizioni femministe attorno alla maternità partono, in ogni caso, dalla posizione che dà per acquisito e indiscutibile, politicamente ed esistenzialmente, che la maggioranza delle donne del pianeta voglia essere madre e che, in ogni caso, essere madre sia qualcosa di buono.

Non si tratta qui di giudicare se la maternità sia buona o cattiva, ma semplicemente di richiamare l’attenzione sul fatto che ci troviamo di fronte a una istituzione talmente radicata nella nostra organizzazione sociale e nella nostra soggettività che non ammette nemmeno un solo discorso contrario, anche qualora fosse minoritario. Non è possibile che in merito ad un’esperienza umana con una capacità tanto potente di cambiare la vita di qualsiasi donna, non esistano discorsi negativi, anche soltanto per il fatto che la pluralità dei punti di vista è sempre desiderabile di fronte a qualsiasi questione complessa. E tuttavia, sulla questione non esistono diversi punti di vista, o i punti di vista negativi non sono visibili. La verità è che non esiste nessun’altra istituzione sociale che goda di questo stesso grado di accettazione e assenza di critica; e questo deve far pensare.  E’ vero che quando parliamo del diritto all’aborto o dei diritti riproduttivi, presupponiamo che questo includa il diritto a non avere figl*, ma si tratta di qualcosa che resta implicito, supposto, non di un diritto che si esplicita e ancor meno che si rende culturalmente visibile non solo allo stesso modo, ma anche con qualche tratto positivo, come discorso alternativo ai discorsi materni egemonici.

Perché la questione è: si può davvero scegliere qualcosa quando una delle due opzioni è praticamente un tabù sociale, scientifico, politico, eccetera? La verità è che le donne fanno le proprie scelte di maternità in un contesto coercitivo rispetto non solo al non avere figl*, ma specialmente all’avere accesso ai vantaggi o alla felicità che può consentire il non averne. Qualsiasi posizione, politica o personale, contraria al discorso maternalista deve affrontare una sanzione sociale, economica o psicologica brutale. E’ in questa sensazione di mancanza di alternative che il discorso pro-maternità è totalitario.

L’unico discorso negativo ammesso sulla maternità è quello della cattiva madre, la madre perversa, quella che non ama le/i propr* figl*, quella che l* maltratta. Il discorso sulla cattiva madre non serve ad altro che a rinforzare e prescrivere un tipo di maternità, esattamente quella contraria, quella praticata dalla buona madre. Perché la cattiva madre è la peggiore immagine che tutte le culture riservano ad alcune donne, quelle pessime; nessuna vuole ricoprire questo ruolo. Attraverso il femminismo una donna può accettare, e persino difendere trasgressivamente, di essere una cattiva moglie, una cattiva compagna, una cattiva figlia, una cattiva amante, una cattiva lavoratrice, una cattiva donna, una cattiva in generale (Le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive vanno dappertutto), ma… una cattiva madre? Che questa idea ci risulti tanto devastante a livello personale è il sintomo di quanto sia assolutamente rigido il controllo sulla maternità e, pertanto, sulle donne. Essere una cattiva madre è forse la cosa peggiore che una donna possa essere.

Non essere madre è una scelta personale alla portata di pochissime donne nel mondo e che si persegue con discrezione, quasi in solitudine, e sulla quale continuano a gravare le sanzioni sociali. La non-madre passerà la vita giustificandosi di fronte a domande che danno per scontato che la normalità sia scegliere di essere madre. Ma nonostante questo margine di scelta sia molto limitato, c’è un’altra questione ancora più proibita: quella di essere madre e di pentirsene. Esistono molteplici barriere psicologiche e sociali che impediscono di esprimere cose del genere, anche a sé stesse. Colei che si pente di essere diventata madre, non lo confesserà mai. Riconoscersi pentita della maternità è come riconoscere che non si amano le/i figl*, o che non l* si ama abbastanza e così, nuovamente, si ricade nella categoria della cattiva madre. E tuttavia, la maternità è un’esperienza tanto determinante nella vita di ogni donna che, di certo, è possibile anche pentirsi o pensare che avendo avuto la possibilità di sapere prima ciò che davvero significava essere madre, si sarebbe scelto di non esserlo. E questo lo si può pensare anche amando le/i propr* figl*, o amandoli molto, non è contraddittorio.

Per di più, per quale motivo è obbligatorio amare le/i figl*? Esiste una quantità minima di amore obbligatorio? La maternità esige che l* si ami sempre sopra ogni cosa: al di sopra di sé stesse soprattutto; l’amore materno si suppone sempre e in ogni caso incondizionato, questa è una delle sue principali caratteristiche. In realtà, questo è ciò che definisce la maternità. Invece, l’amore del padre si suppone molto meno incondizionato; di fatto, non esiste l’amore paterno come categoria. I padri di solito amano le/i propr* figl*, sì, ma senza che questo amore sia categorizzato come assoluto, come estremamente generoso o incondizionato. Piuttosto sembra che ogni padre ami le/i propr* figl* come può o come vuole. L’amore materno, al contrario, non ammette sfumature.

E possiamo spingerci anche più in là: si può non amare le/i propr* figl* e non essere un mostro. Le/I figl* si fanno nella completa ignoranza; nessuno sa come sarà quando arriveranno e invaderanno la vita per sempre, nonostante intorno sia pieno di immagini positive, quasi celestiali, della condizione materna. E tuttavia, la disillusione, o la scoperta di sentimenti che non ci si aspettava non è così infrequente come si potrebbe supporre: come le depressioni di cui soffrono le madri in maggiore misura rispetto alle altre donne, e che gli uomini interpretano come un sintomo di qualcosa di inespresso e inesprimibile. E’ risaputo che, di contro a ciò che il mito della maternità sostiene, ci sono molte madri che hanno bisogno di tempo per amare le/i propr* bambin* e per adeguarsi alla nuova vita alla quale nessun* ci ha preparato. Per altre ragioni, è perfettamente possibile che una si separi emotivamente dalle/i propr* figl* quando quest* diventano adult*. Non si amano le/i figl* per istinto, una cosa del genere non esiste. Si è solite amare le/i figl*, sì, ma a volte non così velocemente come ci raccontano; a volte non tanto come credevamo; a volte, poi, l’amore cambia e si affievolisce con il tempo e, infine, a volte, anche amandol* molto, è possibile pensare che la vita sarebbe stata migliore se avessimo preso la decisione di non averl*; se qualcuno ci avesse spiegato davvero ciò che significano, se avessimo avuto accesso a una pluralità di discorsi e non a uno solo. E tutti questi sentimenti, assolutamente umani e così normali come quelli opposti, non trasformano queste donne in cattive persone, né in subumane. Ma non troveremo nessun discorso, nessun personaggio, nessuna storia, che non offra immagini non già positive, ma anche neutre di una donna del genere.

Di contro, sappiamo bene che esistono molteplici discorsi e condizionamenti che esaltano la maternità e sappiamo che questi discorsi pro-maternità si danno in tutti gli ambiti ideologici, non soltanto negli  ambiti conservatori. Oltre ai discorsi pro-maternità propri del sessismo, la verità è che periodicamente, dagli ambiti ideologici femministi, si manifestano discorsi pro-maternità che offrono, apparentemente, nuove visioni della maternità che finiscono con l’essere quella di sempre: visioni mistiche e volontaristiche nelle quali si vorrebbe spogliare la maternità dei suoi antichi significati semplicemente perché lo si desidera. Di fatto, è possibile che attualmente il discorso maggioritario all’interno del femminismo sia quello di una neomaternità romanticizzata, che in realtà non è mai esistita prima, ma che si presenta come un recupero dell’antico e del naturale.

Molte femministe ora scoprono il piacere della maternità e lo fanno come se fosse una novità, come se non ci portassimo addosso centinaia di migliaia di anni da madri. Tutto si vende con la freschezza e il profumo della novità: il parto naturale, l’allattamento e i piaceri della maternità intensiva riappaiono in tutti gli ambienti e lo fanno con la forza della conversione. Inoltre, si presentano nuove situazioni – come la maternità delle lesbiche o la maternità mediante tecniche di inseminazione – quasi fossero atti di ribellione contro il patriarcato, ignorandone il significato di partecipazione consumistica di derivazione capitalista, oltre a confermare, più che dissentire, dal ruolo materno tradizionale.

Qualsiasi discorso sotterraneo ha qualche aspetto che vale la pena rivelare; in questo caso è capire perché non si (rap)presenti la non-maternità come una alternativa di uguale ricchezza rispetto all’altra. Per questo sono convinta che dobbiamo riflettere di più sull’istituzione materna inscritta oggi nel consumismo di massa e nell’essenzialismo naturalista; dobbiamo reclamare, almeno, uno spazio di riflessione sull’antimaternità. E ancor di più dal momento che attualmente il discorso dominante si sta sforzando di ridefinire la maternità attraverso discorsi che sembrano meno patriarcali, ma che non mettono in questione l’aspetto fondamentale: il fatto che la donna possa avere figl* non spiega né giustifica che voglia averne; né che averne sia la scelta giusta, migliore o anche solo più desiderabile.

Costruendo un discorso antimaterno [Construyendo un discurso antimaternal]
di , tradotto e adattato da Serbilla Serpente e revisionato da feminoska. Articolo originale apparso qui su pikaramagazine.com.