Maschio e femmina dio li creò!? Il binarismo sessuale visto dai suoi zoccoli, di Lorenzo Bernini

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Inauguriamo oggi una nuova categoria, l’Archivio Intersezionale, nella quale saranno pubblicati tutti quegli articoli scovati in rete che, a nostro personalissimo giudizio, meritano di essere raccolti in un ‘archivio del pensiero’ intersezionale. L’articolo che segue, pubblicato su Nazione Indiana nel 2008, è l’estratto di una lezione su transgenderismo e intersessualità che Lorenzo Bernini ha tenuto il 9 settembre 2008 presso il corso di dottorato di ricerca in Studi Culturali dell’Università degli Studi di Palermo.

Pur non trovandomi assolutamente d’accordo su una delle conclusioni tratta dall’autore – la chiusa della prima parte auspica un ‘progetto riformista, e non rivoluzionario, che oggi potrebbe scontentare un certo pensiero queer, ma a me sembra un progetto autenticamente libertario e soprattutto mi sembra l’unico progetto realmente praticabile. […] La mia proposta è quindi di abbandonare ogni progetto di fuoriuscita dal dispositivo binario della sessualità, per tentare di mobilitare le categorie del dispositivo dal suo interno’ – reputo questo articolo puntuale sotto molti aspetti e meritevole di attenzione… buona lettura!

 

1. Perché questi punti, perché questi zoccoli: Il titolo che ho scelto per questa lezione è una citazione del versetto 1, 27 della Genesi – “Maschio e femmina Dio li creò” – a cui ho aggiunto un punto esclamativo e uno interrogativo. E per iniziare vorrei spiegarvi il senso di questa aggiunta poco elegante e piuttosto “pop”. Ho aggiunto il punto esclamativo per esprimere un tono imperativo: infatti, dal momento che tutto quello che Dio fa è cosa buona e giusta, le descrizioni degli atti divini contenute nella Bibbia devono essere lette come prescrizioni. In particolare, il versetto 1, 27 della Genesi deve essere letto come una frase che ci ordina: “Tu devi essere maschio oppure femmina – punto esclamativo! – perché così vuole Dio”. Il punto interrogativo simboleggia, invece, la collocazione che ho scelto di assumere di fronte a questa ingiunzione divina. Per illustrarvi questa collocazione, mi è però necessaria una breve digressione.
In un breve saggio del 1950, Hannah Arendt riflette sul proverbio secondo cui “non si può fare una frittata senza rompere le uova”, e per farlo assume il punto di vista delle uova. Il testo si intitola, infatti, The Eggs Speak Up: Le uova prendono la parola. La filosofa ebrea sostiene che al proverbio secondo cui “non si può fare una frittata senza rompere le uova”, le uova preferirebbero il principio enunciato da Clemenceau in occasione dell’affaire Dreyfus. Nel 1894, quando Alfred Dreyfus, capitano dello stato maggiore francese di origini ebraiche, fu ingiustamente accusato di alto tradimento, Georges Benjamin Clemenceau (che sarebbe poi diventato presidente del consiglio francese) ne prese le difese sostenendo che “l’affare di uno è affare di tutti”. Con queste parole, Clemenceau intendeva affermare che nessun cittadino francese poteva sentirsi garantito nelle sue libertà di fronte a uno stato che discriminava gli ebrei, perché la libertà delle minoranze è garanzia anche della libertà della maggioranza. Parole che non dovremmo dimenticare di fronte alle attuali politiche sull’immigrazione del governo italiano, ma che ci saranno utili anche per comprendere l’attuale biopolitica dei sessi.
Con il punto interrogativo ho voluto segnalare che la mia collocazione, nell’analisi che sto per fare, non sarà quella di un soggetto che si pretenda universale e neutrale, ma sarà consapevolmente particolare e parziale. L’oggetto del mio intervento sarà il binarismo sessuale, cioè quel dispositivo biopolitico che impone alla nostra sessualità una divisione netta a due termini: maschio-femmina, uomo-donna. Seguendo la lezione di Arendt, nelle mie riflessioni cercherò di dare la parola a quelle uova che devono essere rotte per fare quelle frittate che sono le identità tradizionali degli uomini e delle donne – ai soggetti intersessuali e transgender che non si conformano a queste identità, che di fronte alle alternative binarie del sesso e del genere non sanno che cosa scegliere e restano perplessi. Per usare un’altra metafora che chiarirò in seguito, potrei dire che vorrei dare la parola a quegli zoccoli che restano piantati, e stritolati, negli ingranaggi della fabbrica della sessualità. Questo spiega il sottotitolo che ho scelto per questo seminario: “il binarismo sessuale secondo i suoi zoccoli”.

2. Premesse di metodo. Ma prima di parlarvi dei soggetti intersessuali e transgender, vorrei soffermarmi sui tre criteri diagnostici, sulle tre coppie di concetti opposti – di concetti binari – con cui oggi psichiatri, psicologi e sessuologi classificano le identità sessuali delle persone. E ancor prima vorrei fare qualche precisazione sul mio metodo: nella mia analisi seguirò l’impostazione inaugurata da Michel Foucault nel primo volume della sua Storia della sessualità, intitolato La volontà di sapere (1976). In questo libro, il filosofo francese sostiene, contro le teorie della “rivoluzione sessuale” che erano molto in voga nei movimenti della contestazione degli anni settanta, che la relazione che lega potere e politica non è principalmente la repressione: a suo avviso il potere, piuttosto che reprimere la sessualità, la produce. Agendo attraverso la cultura, la socializzazione, l’educazione, il potere produce dialetticamente tanto la norma sessuale, quanto le identità perverse che le sono correlate. La sessualità per Foucault, lungi dall’essere un nucleo di desideri originario e naturale come volevano le teorie della “rivoluzione sessuale”, è un dispositivo della biopolitica – è uno dei meccanismi attraverso cui il potere esercita la sua presa sulla vita biologica della specie umana plasmandola in una specifica forma di vita. Nell’analisi di Foucault, che poi è stata ripresa dal pensiero femminista e dalla rielaborazione che di quest’ultimo ha operato Judith Butler, il dispositivo di sessualità è un meccanismo culturale complesso attraverso cui convenzioni linguistiche, religiose, morali, scientifiche, giuridiche si applicano all’individuo condizionando i suoi rapporti con gli altri e con se stesso. Gilles Deleuze ha sostenuto che uno dei grandi insegnamenti di Foucault consiste proprio nell’aver messo in evidenza che “il dentro” altro non è se non “un fuori ripiegato” – che il modo in cui il soggetto pensa la propria interiorità deriva da significati culturali che provengono dall’esterno. Ognuno impara infatti a nominare se stesso, a interpretare i propri desideri, a relazionarsi alle altre persone attraverso l’educazione, la cultura, la morale: attraverso un mondo esterno che lo determina, e che gli offre i sostantivi, gli aggettivi, tutti gli strumenti linguistici e teorici con cui gli è possibile pensarsi come dotato di un’identità.

3. La recente storia degli invertiti. Affermare che la sessualità non è legata alle profondità della natura, significa aprire la possibilità di analizzare la sessualità nella superficialità dei suoi eventi, tratteggiandone una storia. Secondo le ricostruzioni di Foucault, ad esempio, l’omosessualità non è esistita da sempre: l’omosessuale è, piuttosto, un personaggio che appare soltanto nell’Ottocento. Presso gli antichi, nel Medioevo e ancora all’inizio dell’età moderna, la sodomia designava infatti una tipologia di atti vietati, ma non un’identità: solo a partire da uno studio del 1870 dello psichiatra Karl Friedrich Westphal (Die Konträre Sexualempfindung) l’omosessuale maschio è diventato invece un «tipo umano». Da quel momento in avanti, l’omosessualità ha cessato di essere un problema di atti ai quali il soggetto può decidere se abbandonarsi o no, ed è diventata una questione di desideri, di fantasie, di personalità che richiede tutto un lavoro di comprensione e di decifrazione che il soggetto può condurre nel confessionale con il prete, sul lettino con l’analista, o attraverso un silenzioso dialogo con se stesso. Questo lavoro coinvolge non solo gli omosessuali, ma anche gli eterosessuali: anch’essi sono costretti a confessare i loro desideri omosessuali, a riconoscerli per allontanarli da sé e per accedere così all’identità eterosessuale.
Ne La volontà di sapere, Foucault rivolge però la sua attenzione al solo concetto di omosessualità, trascurando di ricostruire la genealogia del concetto di transessualità. In realtà la categoria di könträre Sexualempfindung (sensibilità sessuale invertita), coniata da Westphal e a lungo utilizzata nella letteratura medica, non faceva differenze tra omosessualità e transessualità, e le comprendeva entrambe in quanto inversioni tra gli elementi maschili e femminili della psiche. Soltanto nel 1953, nel saggio Transvestitism and Transexualism di Harry Benjamin, l’identità dell’invertito si è “sdoppiata” nelle due identità dell’omosessuale e del transessuale come le conosciamo oggi. È stata così concettualizzata la differenza tra sesso, genere e orientamento sessuale con cui oggi medicina e psicologia pensano non solo l’omosessualità e la transessualità, ma anche l’eterosessualità.

4. Criteri diagnostici della sessualità contemporanea. Come sapete, per “sesso” si intende la dotazione genotipica e fenotipica di un individuo: essere maschi significa avere nella propria dotazione genetica un cromosoma X e uno Y, avere pene e testicoli, e poi avere spalle larghe, barba baffi e un po’ di peli, il pomo d’adamo e la voce profonda; essere femmine significa invece avere due cromosomi X, avere vagina ovaie e seni, avere fianchi larghi e meno peli, e una voce sottile e possibilmente aggraziata. Per “genere” si intende invece l’adesione al modello culturale di mascolinità e femminilità che agisce nella propria società di appartenenza. Non basta essere maschi per essere uomini, né essere femmine per essere donne. Ad esempio un maschio che indossi abitualmente minigonna e tacchi alti difficilmente dirà di sentirsi uomo nella nostra società. Il sesso quindi è una dimensione fisica, il genere una dimensione psicologica e assieme culturale. L’”orientamento sessuale” designa invece la direzione prevalente dei propri desideri: è eterosessuale chi desidera persone di sesso opposto al proprio, omosessuale chi desidera persone del proprio stesso sesso.
Nelle società del nostro mondo globalizzato, attraverso la psichiatria, la psicologia, la medicina, ma anche e soprattutto attraverso la cultura e – come vedremo – attraverso il diritto, sull’identità sessuale agisce quindi una sorta di «operatore logico», che possiamo chiamare binarismo sessuale. Questo operatore logico impone alle identità sessuali alternative a due termini che riguardano il sesso, il genere e l’orientamento sessuale. Combinando i concetti del binarismo sessuale si possono comporre differenti identità: uomini etereossesuali, gay, bisessuali; donne eterosessuali, lesbiche, bisessuali; donne transessuali o transessuali MtF (male to female: persone nate maschi che vogliono diventare donne) che possono a loro volta essere eterosessuali, lesbiche o bisessuali; uomini transessuali, o transessuali FtM (female to male: persone nate femmine che vogliono diventare uomini) che possono a loro volta essere eterosessuali, gay o bisessuali. Ci sono poi le persone transgender, di cui vi parlerò tra poco, che possono desiderare uomini, donne, o altre persone transgender. Se consideriamo tutte queste soggettività nella prospettiva teorica di Foucault, se li consideriamo come prodotti di quel dispositivo di sapere-potere che è la sessualità, appare evidente come i concetti di sesso, genere e orientamento sessuale, messi a punto negli anni cinquanta del secolo scorso, definiscano ancora oggi tanto la norma sessuale quanto la “perversione”. Non si tratta, infatti, di categorie puramente descrittive, ma di concetti che servono per istituire una gerarchia: per classificare gli esseri umani attribuendo solo ad alcuni di essi, considerati “normali”, e non ad altri, considerati “anormali”, lo statuto di un’umanità “piena” – di un’umanità pienamente meritevole di godere dei diritti umani, pienamente tutelata giuridicamente.

5. Una nuova Bibbia che fabbrica zoccoli. Nel DSM (Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorders), l’elenco ufficiale dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association che dagli anni cinquanta del secolo scorso è considerato una sorta di Bibbia della psichiatria, l’identità sessuale viene definita appunto attraverso quei tre “criteri diagnostici” che sono il sesso, il genere e l’orientamento sessuale. Ma in questa definizione, la Bibbia della psichiatria contemporanea ha ereditato il punto esclamativo della Bibbia ebraico-cristiana. Infatti, sulle pagine delle quattro edizioni del DSM, l’eterosessualità non è mai comparsa come malattia mentale, mentre vi sono comparse altre identità prodotte dal dispositivo binario della sessualità. L’omosessualità è stata definitivamente depennata dal DSM solo il 17 maggio 1990 – e questa è la ragione per cui la data del 17 maggio è stata scelta come “giornata mondiale contro l’omofobia”. Mentre ancora oggi transessualità e transgenderismo sono considerate affezioni psichiatriche e catalogate come GID: Gender Identity Disorder, disturbo dell’identità di genere – definizione rispondente all’imperativo che impone coerenza tra sesso, genere e orientamento sessuale. Quindi: se nasci maschio ma ti senti donna, o se nasci femmina e ti senti uomo, per il DSM sei affetto da un disturbo psichiatrico. L’intersessualismo invece non compare nel DSM – non perché l’associazione psichiatrica americana non lo consideri un malattia, ma perché non lo considera un malattia mentale. Come dirò più avanti, dalla medicina contemporanea l’intersessualismo è infatti considerato una malattia fisica, e quindi una malattia da correggere con il bisturi prima che con gli psicofarmaci.
Nella prospettiva costruttivista di Foucault, quindi, anche transessualità, transgenderismo e intersessualismo sono prodotti del dispositivo di sessualità – ma prodotti difettosi, scarti, malfunzionamenti. Io vorrei invitarvi, appunto, a porvi nella prospettiva di questi malfunzionamenti, a cercare di immaginare la loro perplessità, il punto interrogativo che è la loro reazione di fronte agli imperativi del binarismo sessuale. Vorrei invitarvi a seguire il principio di Clemenceau e di Arendt (“l’affare di chi viene patologizzato dall’attuale dispositivo biomedico di sessualità è affare di tutti”), dando la parola alle uova che servono per cucinare la frittate delle identità di genere – a quelle uova che però preferisco chiamare zoccoli – e ora vi dirò perché.
Provate a pensare al dispositivo binario della sessualità come a una fabbrica di zoccoli, che con i suoi ingranaggi produce soprattutto zoccoli “normali” – zoccoli maschi e uomini e zoccoli femmine e donne – ma che ogni tanto, con gli stessi ingranaggi produce per errore anche “zoccoli difettosi”: gay, lesbiche, transessuali, transgender, intersessuali… In francese zoccolo si dice “sabot”, e dal sostantivo “sabot” deriva il verbo “saboter”, che significa “fabbricare zoccoli”, ma anche “sabotare”! Lo zoccolo era infatti, un tempo, la calzatura dei poveri, e quindi degli operai. Calzatura che all’occorrenza poteva diventare un efficace strumento di lotta politica: lo zoccolo poteva infatti essere incastrato ad arte tra gli ingranaggi di una fabbrica, anche della stessa fabbrica che lo aveva fabbricato, per arrestarne la produzione. Questa è la ragione per cui ho scelto di utilizzare questa poco elegante metafora degli zoccoli. Nella prospettiva interpretativa di Foucault, o almeno nella mia lettura di essa, le identità perverse, le minoranze sessuali – e in particolare le soggettività transgender e intersessuali -, non sono situate “prima”, “fuori”, o “oltre” il dispositivo binario della sessualità (come vorrebbero le teorie della rivoluzione sessuale): esse stanno, semmai, piantate (e stritolate) come zoccoli tra le sue ruote dentate. Ed è proprio da questa posizione, e non da un immaginario “fuori” (“prima” o “oltre”) della fabbrica, che le minoranze sessuali possono sabotare il sistema che le produce, senza pretendere di farlo saltare in aria, ma cercando di rinnovarlo per renderlo più accogliente, cercando di assumere al suo interno una posizione più confortevole. Si tratta sicuramente di un progetto riformista, e non rivoluzionario, che oggi potrebbe scontentare un certo pensiero queer, ma a me sembra un progetto autenticamente libertario e soprattutto mi sembra l’unico progetto realmente praticabile. Anzi mi sembra che questa sia la strada fino ad ora percorsa, più o meno consapevolmente, dal movimento lesbico gay trans – una strada tutt’altro che conclusa che occorre continuare a edificare.
La mia proposta è quindi di abbandonare ogni progetto di fuoriuscita dal dispositivo binario della sessualità, per tentare di mobilitare le categorie del dispositivo dal suo interno. Per tentare di reinterpretarle, di renderle più vivibili per tutti senza pretendere di sussumere l’identità di tutti sotto un’unica categoria – come a volte mi sembra accadere in una certa vulgata queer. Judith Butler utilizza a questo proposito il verbo “to displace”, dislocare. Per Butler è possibile dislocare i significanti del binarismo sessuale, senza illudersi si dislocarsi al di fuori di essi. Come una lingua parlata evolve nel tempo a opera dei parlanti, così è possibile modificare i significanti culturali dell’identità mediante la stessa ripetizione delle pratiche che li generano. È quello, mi pare, che è successo nel movimento lesbico-gay-trans quando è stato coniato il termine “transgender”: categoria che non pretende di designare un oltre del binarismo sessuale, ma che opera una risignificazione fluida e non esclusiva della sua logica binaria. È, appunto, di questa categoria che vorrei parlarvi ora…

6. Violenze giuridiche su corpi trans. Per affrontare la questione del transgenderismo, occorre affrontare preventivamente la questione della transessualità. I primi interventi di riassegnazione chirurgica del sesso sono stati praticati negli anni cinquanta, e infatti, come già ho ricordato, solo dagli anni cinquanta nella letteratura medica è stata operata la distinizone tra transessuale e omosessuale attraverso quelle categorie di sesso, genere e orientamento sessuale che sono oggi utilizzate anche per definire l’eterosessualità. Si tratta naturalmente di una distinzione che ha le sue ragioni pratiche oltre che teoriche, e che non ho alcuna intenzione di mettere in discussione.

Poco ragionevolmente giustificabile e molto discutibile mi sembra invece l’attuale trattamento giuridico della condizione transessuale in Italia. Un trattamento in cui appare evidente come, ancora nelle nostre società postmoderne, il binarismo sessuale mantenga pesantemente il suo carattere imperativo (il suo punto esclamativo). Come vi dicevo prima, secondo il DSM gay e lesbiche non sono persone malate – fino al 1990 sì, gay e lesbiche erano malati, ma dal 1990 sono tutti guariti! Le persone trans invece sono malate tuttora, affette da disturbo dell’identità di genere. E chi è malato deve essere curato. La cura a cui un transessuale FtM deve sottoporsi prevede assunzione di testosterone, mastectomia (asportazione del seno), isterectomia (asportazione di utero ed ovaie) ed eventualmente falloplastica (ricostruzione chirurgica di un simil-pene). La cura a cui una transessuale MtF deve sottoporsi consiste invece nell’assunzione di estrogeni e di farmaci antagonisti del testosterone, nella rimozione di pene e testicoli ed eventualmente nella mastoplastica additiva (ricostruzione chirurgica del seno) e nella vaginoplastica (ricostruzione chirurgica di una simil-vagina). Vaginoplastica e falloplastica sono interventi molto pesanti, che durano anche 10 ore, e che danno spesso scarsi risultati. La falloplastica nella maggior parte dei casi dà forti reazioni di rigetto: spesso la protesi viene rifiutata dal corpo. La vaginoplastica invece, oltre ad essere un intervento molto invasivo, talvolta va ripetuta perché la vagina artificiale tende a chiudersi (il termine medico è stenosi). Ma soprattutto la vaginoplastica spesso comporta la rinuncia al piacere sessuale.

Fortunatamente nessuno e nessuna è obbligato a sottoporsi a questi trattamenti contro la sua volontà; tuttavia in Italia è necessario sottoporvisi per chi vuole che il proprio desiderio di cambiare genere sia riconosciuto dalle istituzioni. Infatti, secondo la legge 164, del 14 aprile 1982, tuttora in vigore, questi interventi (almeno nella loro forma demolitiva) sono necessari per poter ricevere l’autorizzazione di cambiare il nome sulla carta di identità. Quindi l’identità di genere per lo stato italiano dipende non dal senso di sé di un soggetto, ma esclusivamante da ciò che un soggetto ha tra le gambe, si tratti di un organo genitale naturale o di una sua copia artificiale. Il nostro sistema giuridico risponde quindi a una logica binaria molto rigida: o sei maschio e quindi devi essere uomo, o sei femmina e quindi devi essere donna. Se sei maschio ma vuoi essere donna, il nostro sistema giuridico ti concede di diventare legislativamente donna o uomo solo a patto che tu ti faccia demolire ed evenualmente ricostruire i genitali, anche se probabilmente questo potrebbe farti rinunciare al piacere dell’orgasmo o dare forti reazioni di rigetto, e anche se l’operazione di ricostruzione genitale potrebbe non riuscire affatto.

Non vorrei che le mie parole venissero fraintese: io difendo fermamente il principio secondo cui le persone trans debbano avere il diritto di autodeterminare i propri corpi, anche intervenendo chirurgicamente su di essi se lo desiderano. Ma credo anche che il diritto di autodeterminazione debba includere un’informazione completa e dettagliata sui risultati realmente possibili e soprattutto un contesto istituzionale e legislativo che renda la scelta realmente libera. Le mie critiche non sono quindi in alcun modo rivolte alle persone transessuali, ma sono rivolte alla legge secondo cui il riconoscimento giuridico dell’identità di una persona transessuale deve passare dall’intervento chirurgico. Non è così in tutta Europa: ad esempio in Spagna nel 2007 è stata approvata una legge che afferma il principio secondo cui “il riconoscimento giuridico dell’identità di genere non deve necessariamente dipendere dall’intervento chirurgico di riattribuzione dei genitali”. E già dal 1980 in Germania è prevista quella che vien chiamata “piccola soluzione” (kleine Lösung), cioè il cambiamento dei dati anagrafici senza alcun intervento né chirurgico, né ormonale. La legge italiana, rendendo obbligatoria l‘operazione genitale per il cambio dei documenti, a mio avviso è una legge violenta, che induce le persone ad operarsi per normalizzarle secondo i criteri del binarismo. Un uomo con ovaie, utero e vagina o una donna con testicoli e pene per la legislazione italiana sono soggetti intrattabili.

7. Soggetti intrattabili (1). Il fatto è che questi soggetti intrattabili in realtà esistono, si autodefiniscono transgender, e a mio avviso possono essere assunti come figure esemplari di possibili pratiche di riappropriazione creativa del binarismo sessuale. “Transgender” è un termine polisemico che si è diffuso nel movimento lesbico gay trans in seguito alla pubblicazione, nel 1992, di un libro di Leslie Feinberg intitolato Transgender Liberation. In senso stretto, si definiscono transgender le persone che si identificano con il genere opposto al sesso di nascita ma che scelgono di non sottoporsi alla riassegnazione chirurgica del sesso: si può essere transgender ad esempio vestendo i panni del genere desiderato, scegliendo per sé un nome proprio del genere desiderato, assumendo eventualmente ormoni e modificando alcuni tratti del proprio corpo, ma senza intervenire chirurgicamente, o intervenendo solo parzialmente, sui propri genitali. In senso lato, la categoria può essere estesa anche alle persone transessuali, che sono invece quelle persone che desiderano modificare anche i propri genitali per diventare il più possibile simili al “sesso” di elezione: secondo questa interpretazione “transgender” è un termine di ampio significato che contiene al suo interno tanto il concetto di transessuale, quanto quello di transgender in senso stretto. Ma si definiscono transgender anche persone come Leslie Feinberg, l’autrice/autore di Transgender Liberation, e anche di altri saggi come Transgender Warriors (1996); Trans Liberation (1998), e dei romanzi Stone Butch Blues (1993) e Drag King Dreams (2006) (http://www.transgenderwarrior.org/). Feinberg è nata con corpo femminile e ha avuto in sorte un nome, Leslie, che in inglese è sia maschile sia femminile. Nel tempo ha reso il suo corpo parzialmente somigliante a un corpo maschile, ma non ha voluto completare la transizione verso il sesso maschile, e ha poi scelto per sé un genere intermedio come il suo nome. Oggi lascia ai suoi commentatori la libertà di scegliere il pronome con cui sostituire il suo nome, e al tempo stesso insiste sulla necessità di introdurre nel vocabolario pronomi personali intermedi come “s/he” (she/he) e aggettivi possessivi come “hir” (her/his). “Transgender” indica quindi anche quei soggetti che nel corso della vita hanno sperimentato differenti ruoli di genere, e che collocano la propria identità tra il maschile e il femminile. Un esempio italiano è Porpora Marcasciano, militante del Movimento Identità Transessuale (http://www.mit-italia.it/) e autrice/autore di libri come Tra le rose e le viole (manifestolibri, 2002), Antologaia (Il dito e la luna, 2007), e Favolose narranti (manifestolibri, 2008): Porpora è nata con un corpo maschile che ha in parte modificato per renderlo somigliante a un corpo femminile, e oggi, come Feinberg, usa per sé indifferentemente il genere maschile e femminile.

In un testo del 2004, La disfatta del genere, Butler utilizza il termine transgender per contestare il senso comune (che, come vi ho mostrato, è anche senso medico e giuridico) secondo cui il genere è una conseguenza del sesso. Assumendo la prospettiva genealogica di Foucault, Butler opera un interessante rovesciamento di prospettiva e sostiene che sono le norme di genere a rendere culturalmente significative le differenze sessuali dei corpi, anche le differenze genitali: è il sesso che deriva dal genere, e non il genere dal sesso. Butler si spinge ancora oltre: fin da Scambi di genere (1989) ha sostenuto infatti che nell’ordine simbolico tradizionale il genere è un epifenomeno dell’orientamento sessuale. Al cuore del binarismo sessuale si troverebbe cioè il dogma dell’eterosessualità obbligatoria: sarebbe il dovere dell’eterosessualità a rendere culturalmente significativa le differenze tra i generi, e sarebbe poi l’importanza culturalmente attribuita alle differenze tra i generi a rendere culturalmente significative anche le differenze corporee tra i sessi. Una legge che impone con nettezza il binarismo sessuale, come la legge italiana, rendendo giuridicamente intrattabili i soggetti transgender, secondo Butler sarebbe quindi in ultima istanza riconducibile a una rigida interpretazione del dogma dell’eterosessualità obbligatoria: poiché la norma eterossessista impone che gli uomini debbano desiderare le donne e viceversa, allora è fondamentale che non esistano ambiguità nello stabilire chi è uomo e chi è donna. E affinché non ci siano ambiguità, la norma stabilisce che a decidere siano i genitali: naturali o chirurgicamente ricostruiti. Il fatto è che, in realtà, non è affatto detto che i genitali siano il modo migliore per disambiguare le identità sessuali, e ora vorrei dirvi perché. Vorrei infatti concludere sulla questione dell’intersessualismo, l’altra condizione a cui allude il punto interrogativo del mio titolo, l’altro zoccolo piantato negli ingranaggi della fabbrica moderna della sessualità.

8. Soggetti intrattabili (2). Come ho anticipato, il DSM non comprende l’intersessualismo tra i disturbi mentali, perché l’intersessualismo è una condizione fisica prima che psicologica. Intersessuale è infatti un individuo il cui corpo presenta caratteri intermedi tra quelli maschili e quelli femminili. Secondo le stime statistiche dell’Intersex Society of North America (http://www.isna.org/), nasce intersessuale un bambino ogni duemila. Questo significa che, se la popolazione italiana è stimabile attorno ai 60 milioni di abitanti, le persone intersessuali in Italia sono probabilmente attorno alle 30 mila unità. Ma naturalmente anche se fossero meno, quello che vi dirò non sarebbe meno valido, perché abbiamo detto che gli zoccoli di cui abbiamo assunto il punto di vista, vorrebbero essere trattati secondo la massima di Clemenceau e di Arendt: “l’affare di uno è affare di tutti”. Al di là dei dati statistici, mi sembra infatti che l’intersessualismo, al pari del transgenderismo, possa valere come cartina tornasole per comprendere la violenza insita nel binarismo tradizionale così com’è stato interpretato nelle società tradizionali, e come ancora è interpretato nel nostro ordinamento giuridico. Come le persone transgender, infatti, anche le persone intersessuali sono considerate intrattabili dal nostro sistema giuridico e simbolico, e per questa ragione vengono “trattate” dal nostro sistema sanitario.

Un esempio di intersessualismo, è la sindrome di Klinefelter (cfr. wikipedia), che è l’esito di una variazione genetica: chi ne è affetto non ha due cromosomi sessuali (i canonici XX delle femmine, e XY dei maschi), ma tre: due cromosomi X e un cromosoma Y. Per la presenza del cromosoma Y, i portatori della sindrome, o meglio le persone XXY – come loro preferiscono chiamarsi – sono classificati dalla medicina come maschi. Alla nascita, in effetti, appaiono maschi, ma quando giunge la pubertà non sviluppano i caratteri secondari maschili: non hanno barba, né pomo d’adamo, né spalle larghe, né voce profonda, non sviluppano pene e testicoli di dimensioni “normali”. Hanno invece voce sottile, fianchi arrotondati, spalle spioventi, e spesso sviluppano il seno. Un altro esempio di intersessualismo è la sindrome di Morris (http://www.sindromedimorris.org/): le persone che ne sono affette, geneticamente sono uomini XY, ma, per una incapacità di razione agli ormoni maschili durante la gravidanza, nascono come bambini micropenici con testicoli introflessi. Hanno quindi genitali ambigui: il loro pene assomiglia a una clitoride, ma lo scroto introflesso forma una piccola cavità cieca, che non sfocia in una vagina. Non avendo i testicoli non produrranno mai testosterone, e quindi non potranno in adolescenza acquisire i caratteri secondari maschili. Un altro caso che può essere associato all’intersessualismo è quella che una volta veniva chiamata sindrome adrenogenitale, e che ora si preferisce chiamare iperplasia surrenale congenita (http://www.adrenogenitale.it/): può colpire sia uomini, sia donne, e consiste in un malfunzionamento delle ghiandole surrenali che producono poco cortisolo e poco aldosterone. La conseguenza è un aumento di testosterone, che nelle donne provoca la comparsa di caratteri secondari maschili: peli, barba, voce profonda. Il testosterone agisce anche sulla conformazione dei genitali: le donne affette da iperplasia surrenale congenita presentano spesso una clitoride ipertrofica, simile a un pene, e in alcuni casi una vagina poco profonda e la fusione delle grandi labbra.

Nella storia dell’umanità le persone intersessuali sono state celebrate da miti e leggende (pensate a Ermafrodito e a Tiresia), ma sono anche state ampiamente perseguitate. Nel 1978 Foucault ha curato la pubblicazione delle memorie di Herculine Barbin, detta Alexina B., un intersessuale francese vissuto nell’Ottocento. Nelle memorie si legge che ad Herculine Barbin, soprannominata Alexina, alla nascita fu attribuito il sesso femminile. Fu quindi educata come una bambina, in un convento. Con l’adolescenza scoprì di essere attratta dalle compagne, si innamorò di una di esse e ne divenne amante. Per questo fu processata, e la sentenza decretò la sua trasformazione legale in uomo, stabilendo che il suo vero sesso fosse quello maschile, e che i medici che l’avevano visitata da neonata avessero commesso un errore: in una società dominata dal dogma dell’eterosessualità obbligatoria, se un soggetto si innamora delle donne, allora è un uomo. E se è un uomo, allora deve essere anche biologicamente maschio. Così Alexina fu costretta a indossare abiti maschili – e si suicidò.

9. Violenze chirurgiche su corpi intersessuali. Nel caso ottocentesco preso in esame da Foucault, quindi, le autorità mediche cercarono nel corpo intersessuale di Alexina, e soprattutto nella sua biografia, i segni del suo “vero sesso”. Invece a partire dalla metà del Novecento, da quando si è iniziato a praticare interventi di riassegnazione genitale, negli Stati Uniti e in Europa, e in buona parte del mondo, i medici hanno iniziato a intervenire direttamente sul corpo delle persone intersessuali, normalizzando chirurgicamente poco dopo la nascita l’aspetto dei genitali ambigui, e in seguito modificando i caratteri sessuali secondari con terapie ormonali. Questo avviene abitualmente anche in Italia. Anche in questo caso, la mia intenzione non è di negare, ma al contrario di difendere il diritto delle persone intersessuali a modificare chirurgicamente il proprio corpo e ad assumere ormoni in modo da adeguare il proprio corpo alla propria identità. Ma la mia intenzione è anche quella di contestare la normalizzazione forzata delle persone intersessuali, denunciando il fatto che il sistema giuridico italiano da un lato impedisce a persone transgender maggiorenni di cambiare genere sui documenti a meno che non si sottopongano a un intervento chirurgico, e dall’altro permette a genitori e medici di intervenire chirurgicamente sul corpo di minorenni o peggio ancora di infanti per “normalizzarli” secondo i dettami del binarismo sessuale. Non è così in tutto il mondo: in Colombia è vietato intervenire sui genitali ambigui di persone che non abbiano ancora raggiunto l’età del consenso. E a me sembra una legge giusta: perché questi interventi chirurgici e queste prescrizioni di ormoni, se sono praticati su neonati incapaci di scegliere sulla propria identità e il proprio corpo, oppure se sono presentati come cure necessarie o come unica scelta possibile a degli adolescenti in situazione di grave disagio emotivo, altro non sono se non mutilazioni genitali e corporee dettate dal dogma del binarismo sessuale. L’occidente grida giustamente allo scandalo di fronte all’infibulazione che viene praticata in alcuni paesi islamici africani; ma farebbe bene a farsi un esame di coscienza e a proibire una volta per tutte le mutilazioni genitali che vengono praticate nei propri ospedali.

Vorrei farvi un esempio: la storia di Cheryl Chase, la fondatrice (nel 1993) dell’Intersex Society of North America. Nata con genitali ambigui, fino a 18 mesi è stata cresciuta come un bambino. Poi i medici hanno detto ai suoi genitori che si trattava in realtà di una bambina, e che bisognava quindi procedere all’asportazione della pronunciata clitoride. A 8 anni è stata operata di nuovo per rimuovere ciò che in seguito ha saputo essere la porzione testicolare delle sue ovaie-testicoli. Oggi vive come una donna lesbica, ma le operazioni subite l’hanno privata della sensibilità clitoridea e della risposta orgasmica, proprio come succede alle donne infibulate in Africa. Il caso di Cheryl Chase dimostra quindi che la logica con cui questi interventi vengono praticati spesso non è il rispetto degli interessi soggettivi, come il mantenimento della possibilità di provare piacere, ma l’obbedienza a un imperativo di normalizzazione.

Secondo questo imperativo, alla nascita un pene non deve misurare meno di 2,5 cm; e una clitoride non deve essere più grande di 0,9 cm. Bambini con membri tra 0,9 e 2,5 cm sono quindi considerati inaccettabili e bisognosi d’intervento chirurgico. La maggior parte degli intersessuali viene fatta diventare donna semplicemente perchè è più facile costruire una simil-vagina piuttosto che allungare un micropene. Così ad esempio, le donne affette da sindrome adrenogenitale subiscono un intervento di “apertura” della vagina e di “accorciamento” della clitoride, anche a costo di perdere la sensibilità clitoridea. Ma anche chi ha la sindrome di Morris, pur essendo genotipicamente maschio (XY), a causa della micropenia e dei testicoli introflessi viene ricondotto al genere femminile: si accorcia il pene, si pratica una vaginoplastica, si prescrivono estrogeni. Un uomo diventa così una donna dotata di una similvagina a rischio di stenosi, che spesso va rioperata nel corso degli anni. Sembra che i medici non abbiano dubbi: è meglio essere una femmina imperfetta piuttosto che un maschio imperfetto – forse perché il regime del binarismo sessuale è un regime maschilista, in cui le donne sono considerate imperfette per natura.

A chi è affetto da sindrome di Klinefelter, invece, una volta giunto all’età dell’adolescenza, i medici “prescrivono” la mastectomia (l’asportazione del seno) e la somministrazione di testosterone. L’assunzione dell’ormone provoca la comparsa di caratteri secondari maschili (barba, peli, voce profonda) ma provoca anche cambiamenti caratteriali nella sfera della libido e dell’aggresività che in alcuni casi possono produrre profondo turbamento e perdita del senso di sé. Non sono poche nel mondo le persone XXY che rifiutano questo trattamento forzato: alcune scelgono la strada della femminilizzazione, altre rivendicano per sé il diritto di essere semplicemente quelle che sono – di mantenere il proprio corpo intersessuale e la propria personalità ipodesiderante – (si veda, a questo proposito, la testimonianza di Michael Noble), ma tale diritto, di solito, viene loro riconosciuto con grande fatica dai medici con cui hanno a che fare.

10. Il sabotaggio del binarismo: le teorie transgender. Di fronte a questi fatti, credo che sia facile intuire come le teorie transgender, che mettono in discussione la rigidità del binarismo sessuale dichiarando la possibilità che un’identità abiti uno spazio intermedio tra il genere maschile e quello femminile, possono diventare uno strumento prezioso per rinnovare il nostro ordinamento giuridico, per rendere più vivibile la vita delle persone intersessuali e trans (transessuali o transgender), e per allargare la gamma delle definizioni identitarie disponibili per tutti.

Transgenderismo e intersessualismo sono condizioni psicologiche e fisiche prodotte dalla logica binaria del dispositivo moderno della sessualità e rese intelligibili dalle sue categorie. Non rappresentano pertanto un “oltre” del binarismo, perché non negano il fatto che la sessualità degli umani, così come riusciamo a pensarla oggi, si dia tra gli estremi del maschile e del femminile. Però la presa di parola di soggetti transgender e intersessuali, la loro rivendicazione di una piena umanità, può provocare un dislocamento del binarismo sessuale, un suo sabotaggio che potrebbe portare a un suo migliore funzionamento. Dare ascolto ai soggetti transgender e intersessuali significa infatti disporsi ad accettare che la sessualità non si esaurisce in un’alternativa rigida e netta tra il maschile e il femminile, ma si configura come una gradazione tra il maschile e il femminile ricca di sfumature. Guardare alla fabbrica moderna della sessualità assumendo il punto di vista di quegli zoccoli difettosi che si trovano piantati e stritolati tra i suoi ingranaggi, induce a concludere che all’interno di quel continuum tra maschile e femminile che è la sessualità umana, ogni essere umano dovrebbe avere il diritto di scegliere dove collocare il proprio corpo e la propria identità. Senza condizionamenti e pregiudizi, ognuno dovrebbe avere il diritto di sperimentare quale sia la collocazione che più gli risponde – quella da cui potrà trarre maggior piacere.

Testo di Lorenzo Bernini (lorenzo.bernini@unimi.it)