#ioleggoperché non mi piace

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In questi giorni si sente parlare di #ioleggoperché, iniziativa nata per mano dell’Associazione Italiana degli Editori. Ammirevole, no? Qualcuno si preoccupa dello stato della cultura in Italia. Un po’ come se la Monsanto organizzasse una convention di tre giorni sul mangiar sano con tanto di stand atti alla diffusione di intingoli vari: un vero e proprio festival dell’assenza del conflitto d’interesse. Questa giornata sembrerebbe glissare senza ritegno sul perché le persone in Italia non leggono; si limita a dare la non-lettura come dato assodato. Qualcuno si domanderà se uno, per costruire iniziative, debba necessariamente preoccuparsi di massimi sistemi. La risposta è sì, per forza, specie quando nel farlo si diffonde la retorica subliminale che l’atto di non acquistare carta implica necessariamente non acculturarsi in nessuna maniera, che in qualche maniera la quantità dei libri venduti sia un dato di importanza equivalente alla qualità degli stessi e che l’assenza di passione letteraria collettiva origina da una specie di bifolcaggine innata propria degli autoctoni della penisola. Italiani e italiane non leggono, ok, ma per quali motivi?

Perché non possono, direi. I costi dell’editoria sono decisamente eccessivi per le tasche vuote e semivuote. Sto forse dicendo che editing, traduzione e grafica editoriale non dovrebbero essere attività retribuite? Certo che no, ma il problema è che non lo sono neanche con i prezzi disumani che ci sono ora, visto che il grosso della moneta va alla distribuzione: qualcosa non va. Per quanto il privilegio economico, considerevole o relativo, imponga le fette di prosciutto su occhi orecchie ed empatia, ebbene sì, esiste chi si trova in questa situazione, e non si tratta nemmeno di un paio di persone. Fino a qualche tempo fa genitori e parenti facevano da ammortizzatore sociale consentendo un regime di economia ristretto ma non troppo che lascia spazio al tomo occasionale; adesso che il lavoro l’hanno perso anche loro viene meno anche questa possibilità. Un cosiddetto lettore forte col portafogli in buona salute spenderebbe senz’altro, ma quando si ritrova a vivere con altre tre persone barcamenandosi con l’unico reddito esistente presso quel domicilio, una pensione da 800 euro, tolti 600 di bollette e pendenze economiche di varia natura ne rimangono sì e no 200 che dovranno sopperire alla necessità di cibarie, medicinali, spese accessorie. Il nostro “lettore forte” inevitabilmente smette di acquistare libri, poiché costretto a scegliere tra Carlo Emilio Gadda e un piatto di pasta, riconosce quest’ultimo come più funzionale alla sua sopravvivenza fisiologica, necessità non soddisfatta in modo alcuno da etti di cellulosa inchiostrata. Le conseguenze sono evidenti: il nostro “lettore forte” passa dall’acquisto di una quindicina di volumi l’anno a zero, al massimo uno, due, forse tre. Replicando la stessa situazione su scala industriale ne conveniamo che parlare dei bilanci dell’editoria senza tenere conto del contesto economico in cui quella si muove è cosa profondamente insensata. Non possono anche perché coloro che tutto sommato hanno la vaga fortuna di non essere ancora ritornati a casa di mamma e papà a sfogliare compulsivamente siti di annunci alternando ore di ripetizioni e attacchi di panico, di solito hanno un qualche impiego, immancabilmente precario, che porta via loro una quantità folle di tempo ed energie. Dopo ore e ore di servizio ai tavoli, di attività da promoter e di sollevamento scatoloni in magazzino, l’istinto vitale tende a trasportare corpi verso il divano, non verso la Feltrinelli.

Perché non vogliono, aggiungerei. Fin dalla più tenera età l’avvicinamento alla lettura lo si subisce senza neanche remotamente viverlo in maniera autentica e men che meno goderselo. La scuola italiana è particolarmente efficace nell’educare (nel senso di “infilare nei crani approcci al vivere malsani ma socialmente accettati”) e disciplinare (verbo che, tradotto dal burocratese all’italiano, significa “trattare come dei carcerati”) ma non si può dire lo stesso della sua attività di accensione di scintille culturali. Non ho mai conosciuto finora nessun essere vivente avvicinatosi all’ossessione narrativa o saggistica tramite l’acquisizione cognitiva di pagine nozionistiche sui classici della letteratura italiana di qualche secolo fa. L’effetto sortito, di norma, è invece la nascita di intenzioni omicide nei confronti delle proprie letture obbligate, che non hanno sfogo solo perché nei programmi scolastici sembrano avere cittadinanza quasi soltanto autori già decomposti. I quali, a rigor di logica, non possono decedere per più di una volta. Ma solo biologicamente: l’attività di uccisione spirituale è pratica quotidiana, di demanio e competenza del ministero dell’istruzione.

“Pronti a tutto per conquistarvi”, dicono. Anche a cambiare i presupposti del paese e del mondo in cui vivete? Anche a smettere di piangere miseria se Amazon ha un bilancio più roseo del solito, specie se in alternativa gli proponete altre grandi catene, quindi nulla di sostanzialmente diverso, e non le librerie indipendenti? Anche a farla finita col feticismo elitario e gratuito per l’odore della carta, come se la piattaforma su cui si legge fosse qualcosa di davvero rilevante? Anche a dichiarare guerra al classismo editoriale? In attesa di una risposta, vado a leggere.

La storia di Enrico tra classismo e abusi di potere

nenesQualche giorno fa leggevo la storia di Enrico, un FtM che si è visto rifiutare dal giudice, a causa del suo basso reddito, l’autorizzazione per eseguire gli interventi di mastoplastica e di rimozione dell’apparato riproduttivo. Mi spiego. Il CTU, ovvero lo psichiatra incaricato dal tribunale per dichiarare se la perizia, fatta da altr@ suoi@ collegh@, fosse in regola o meno, ha pensato bene di chiedere un anticipo che il giudice gli avrebbe concesso mettendolo a carico del richiedente (Enrico ha diritto al gratuito patrocinio). A tali richieste l’avvocato di Enrico ha dovuto ricordare, manco ce ne si fosse dimenticat@, che chi si avvale del gratuito patrocinio lo fa perché non può sostenere certe spese, e che quindi la richiesta era assurda. Di fronte al rifiuto, lo psichiatra decide di non erogare alcuna prestazione, nonostante sia pienamente cosciente che ciò implica il blocco del percorso di Enrico, che dovrà a questo punto attendere chissà quanto altro tempo per ottenere l’approvazione del giudice. Trovo questo atteggiamento un vero e proprio ricatto, un abuso di potere che mai dovrebbe esser concesso a nessun@.

Questa storia mette in evidenza due elementi importanti: l’accesso alla sanità, diverso per classi, ed il potere che alcun@ specialist@/professionist@ hanno sulle nostre vite. Che la sanità pubblica stia subendo uno smantellamento a favore di quella privata è sotto gli occhi di tutt@. Che alcuni servizi siano esclusivi di alcune fasce di reddito anche. Conosco persone che, per una visita dentistica, soffrono le pene dell’inferno perché non hanno i soldi neanche per il ticket e quindi attendono di poterli racimolare, o che attendono mesi, prima di poter essere visitat@, perchè la lista di attesa è lunghissima. E’ palese come chi ha soldi può permettersi cure tempestive e migliori, rispetto a chi stenta anche a pagarsi il ticket – e non perché le prestazioni di chi lavora nel pubblico siano di minor valore rispetto a quelle dei privati, ma perché l’organizzazione, nelle strutture pubbliche, lascia molto a desiderare.

Chi ha soldi, chi appartiene a classi sociali cosiddette “alte”, non saprà mai cosa significa dover girare come una trottola in diverse regioni per ottenere un’interruzione di gravidanza, dato che potrà rivolgersi senza problemi ad un privato – che forse nel pubblico fa l’obiettore di coscienza; non conoscerà mai quella paura di non avere soldi a sufficienza per comprarsi la pillola del giorno dopo, perché si ostinano a non renderla gratuita oltre che a renderti un inferno tutto il processo per ottenerla; non conoscerà mai l’umiliazione di dover fingere di aderire a certi schermi preconfezionati perché, altrimenti, l@ psicolog@ da cui vai per la perizia che ti permette di accedere al percorso di attribuzione di sesso non ti rilascerà mai quella cavolo di approvazione; non conoscerà mai l’attesa di chi aspetta che il consultorio pubblico, a cui si è rivolti, smaltisca le visite e forse, se tutto va bene, tra due settimane ti permetterà di farsi una visita ginecologica; non saprà mai cosa vuol dire uscire da un medico privato con una cifra a tre zeri, anche a nero, e la rabbia di sapere che tutto questo lucrare sulla salute e il dolore degli/lle altr@ fa davvero schifo.

Ma oltre ad un accesso a due corsie nella sanità, c’è anche la questione del potere che viene concesso a quest@ specialist@/professionist@ che possono decidere se puoi o meno cambiare genere, se puoi o meno ottenere la pillola del giorno dopo, se puoi o meno abortire e scegliere il modo in cui farlo, senza mai chiedere il parere della persona su cui stanno legiferando. Se questa non è sovradeterminazione ditemi voi cosa lo è. Mai nessun@ dovrebbe avere il potere di decidere sul corpo e sulla vita di un’altra persona, mai nessun@ dovrebbe esser mess@ in grado di agire un abuso di potere, quindi un ricatto bello e buono, consci@ del fatto che, senza la sua prestazione, quella persona sarà in difficoltà. Quello che è accaduto ad Enrico, ma che accade quotidianamente sulla pelle di tante soggettività, dimostra come la medicalizzazione abbia permesso, a certe professioni, di avere il controllo assoluto sulle nostre vite, sui nostri desideri troppo spesso discriminati.

Ma questa storia parla anche di un iter legislativo autoritario, che, lungi dal concedere libertà, costringe le persone a subire il ricatto di specialisti operanti in diversi campi. Come la 194 ha al suo interno il meccanismo stesso del proprio sabotaggio, ovvero l’obiezione di coscienza, così la legge 164, che regola l’attribuzione del genere, costringe le persone trans a subire un continuo ricatto, da quello dell’approvazione di un psicolog@  – che attesti la tua sanità mentale e al contempo uno squilibrio – fino alla sterilizzazione forzata, condizioni indispensabili per poter vedere riconosciuta la propria identità di genere. Violenza, non c’è altro modo di definirla.

La storia di Enrico mi ha permesso, però, anche di conoscere questo sito  su cui sono raccontate molte altre storie interessanti, tra cui quella di Diego, che parla di spese mediche e legali insostenibili e di un bisogno di cambiare la cultura prima ancora che la legge. Come dargli torto? Non si può più accettare questa psichiatrizzazione, basata su una dicotomia del tutto culturale a cui si è costrett@ ad aderire per vedersi riconosciuta la propria identità di genere. Per questo credo sia importante supportare questa petizione che chiede di poter ottenere l’attribuzione di genere senza sottoporsi alla mutilazione genitale, ma anche di iniziare un percorso che porti alla depsichiatrizzazione della transessualità e di tutto ciò che viene definito “deviante”, esclusivamente in base all’esistenza di un’idea di ‘norma’ che ormai non è condivisa né rappresenta un numero sempre maggiore di soggett@.

Non ho mai creduto che le leggi potessero generare un reale cambiamento, dato che esso è e sempre sarà proprio della cultura, ma per ora, nel sistema in cui viviamo – sistema che per altro non amo né supporto – possono permettere a molte persone di sopravvivere. Per vivere ci toccherà lottare per una rivoluzione molto più ampia e radicale.