La capacità del sistema di normalizzare le istanze radicali non è sicuramente una novità, e fa parte di quelle manovre biopolitiche volte a depotenziare e normare quelle soggettività che, perlomeno inizialmente, pongono la propria alterità come caratteristica fondante del proprio esistere e del proprio agire. Purtroppo, spesso, la fatica di trovarsi perennemente in lotta e il desiderio di potersi allontanare almeno parzialmente da quello che è per alcun* soggett* un vero campo di battaglia (che ha luogo sui propri corpi e sulle proprie vite) ha come amaro risultato che, a fronte di piccolissime concessioni dalla valenza apparentemente positiva, le istanze originarie e dunque la lotta in sé si snatura, non riconosce più il proprio obbiettivo, ed infine spesso rimane un vuoto involucro utilizzabile a mò di brand ogni volta si ambisca passare per rivoluzionarie le scelte più reazionarie che si possano immaginare. Per quanto riguarda il femminismo, avvicinandosi la ricorrenza dell’8 marzo e a seguito delle lodi sperticate al governo Renzi, definito in termini elogiativi come governo giovane e finalmente paritario, vorremmo fare una riflessione che possa restituire non solo quella che è la situazione reale, ma anche la necessità di una lotta femminista che ritrovi la sua radicalità, senza la quale anche il movimento delle donne si ritrova ad essere solo un marchio strumentalizzato a destra e a manca.
Le colpe di certo femminismo storico italiano il quale, ottenuti insperati successi oramai 40 anni fa, ha considerato la propria missione compiuta vivendo sugli allori di qualche battaglia vinta e diventando miope di fronte alle manovre del potere patriarcale, tutte volte a depotenziare quelle stesse vittorie (l’eterno braccio di ferro che si compie da 40 anni a questa parte sulla legge 194 ne è un chiaro esempio) o a dipingere, riuscendoci, il femminismo come fondamentalmente misantropo, superato, oramai relegato ad un passato remoto e appannaggio soltanto di donne brutte, indesiderabili e colme di odio per il maschio e desiderio di vendetta è cosa nota.
Negli ultimi anni poi, come se non bastasse, l’emergere di posizioni politiche femminicide propugnate da certo femminismo borghese ha dato il proprio imprimatur allo status quo, celebrando le quote rosa, l’italianità, la dignità delle donne da difendere ad ogni costo (anche calpestando l’autodeterminazione di altre donne) e il “diritto alla maternità” attraverso la conciliazione. Tutti ‘mostri’ nati dall’edulcorazione di un movimento le cui parole d’ordine erano quelle dell’autodeterminazione e della liberazione, non dell’emancipazione delle donne.
Il mostro del giorno è il governo Renzi, che, sdoganato da un discorso che preferisce di gran lunga il termine “femminile” – così moderato, così debolmente connotato, così maternamente accogliente e paziente – a “femminista”, è allo stato dell’arte per quanto concerne il pinkwashing, facendo bella mostra di donne che peraltro si prestano al gioco non solo adattandosi in maniera docile al loro ruolo di veline del solito uomo di potere, ma che, dalle prime dichiarazioni fatte, sono quanto e più sessiste di certi loro colleghi maschi; e il cui valore pare riassumersi in quella ‘donnità’ funzionale al riaffermare le solite politiche reazionarie che si realizzano sul corpo delle altre donne, quelle che ne fatti non rappresentano per nulla – anche se poi decidono per loro.
Giovani donne come Marianna Madia, che ricalcano visivamente e negli intenti l’immagine della ‘madonnina’ devota al Grande Padre Onnipotente, che col suo esempio – e purtroppo con le sue parole di fondamentalista cattolica che, senza alcuna vergogna, antepone con leggerezza alla laicità richiesta dal proprio ruolo istituzionale – rendono evidente che l’essere ‘donne’ in sè e per sè non presenta alcun valore aggiunto nè raggiunge alcun risultato positivo in un percorso il cui fine ultimo è quello della liberazione, non della concessione.
Mutuando un’immagine dall’attivismo antispecista: se, in quanto femministe, non desideriamo gabbie più grandi, ma gabbie vuote – e perciò donne libere e autodeterminate – non dobbiamo cadere nei tranelli che oramai sono sparsi a piene mani sul nostro cammino. E’ necessario e urgente pertanto ritrovare la radicalità del femminismo, che tuttora esiste e parla di intersezionalità, queer, non maternità, anticapitalismo, e soprattutto e sempre AUTODETERMINAZIONE.
E’ ora di svegliarsi da questo incubo dai colori pastello, rifiutare la conciliazione con questa Grande Madre e Madonna, felice e realizzata nel suo ruolo subalterno e vera propria kapò per tutte le soggettività non conformi… Altrimenti, continuando di questo passo, questo incubo diventerà il coma di un femminismo che si riconosce in tutto ciò che si ammanta di rosa.
Disegno di Sasha Foster.