Di pippe all’asilo, ideologia gender e comici norvegesi

Non so se lo sapete – il tipico inizio di chi presuppone che i suoi lettori siano già d’accordo con chi scrive, ed è per questo che vi amo così tanto – ma da qualche tempo pare che ‘sta polemica sul “gender” abbia passato un po’ il limite. Anzi, ne ha passati diversi, perché come insegna il buon Carlo Cipolla, «sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione». E questo ha delle conseguenze, soprattutto se, com’è facile dimostrare, a trarne vantaggio sono sempre i soliti banditi – per usare ancora la terminologia di Cipolla.

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L’extracomunitario stupido in divisa (avvisate Salvini)

In questa immagine potete vedere l’inizio di una comunicazione che un parroco di Cerveteri ha pensato bene di diffondere sul suo territorio, presa da questo luogo virtuale su facebook. Leggiamo che:

…i vostri figli saranno istigati all’omosessualità […] saranno invitati alla masturbazione precoce fin dalla culla […] obbligati ad assistere alla proiezione di filmati pornografici […] obbligati ad avere rapporti carnali con bambini dello stesso sesso.

Il tutto, secondo questo genio, accadrebbe in corsi presenti nel Piano di Offerta Formativa della scuola, cioè in un documento ufficiale di una struttura pubblica. E in più, il suo delirio di stupidità non è proiettato al futuro, ma è storia ed esperienza, perché

Queste cose sono già accadute nelle scuole in cui il gender è stato sperimentato, Italia compresa, producendo nei minori pianti, svenimenti e danni psicologici irreparabili!

Ovviamente, nessuna prova a riguardo. Perché prove non ce ne possono essere, dato che si parla di una cosa che non esiste né è mai esistita. Un qualunque avvocato, anche non particolarmente esperto di questi argomenti, potrebbe facilmente convincere il genitore ingenuo ma ancora fedele alla parrocchia che:
1) quel parroco si è reso colpevole del reato di diffamazione verso tutte quelle persone che lavorano nella scuola e per la scuola alla costruzione del P.O.F., dato che non può provare nulla di quanto afferma gravemente, gettando così discredito sulla sua persona e sull’istituzione che rappresenta (che poi questo non interessi manco alla suddetta istituzione è un altro discorso, ma vabbè);
2) il parroco non capisce niente di leggi e cita a vanvera le norme nazionali e internazionali sul diritto all’istruzione scelto dai genitori: una volta che hai iscritto la prole a una scuola, hai esercitato il diritto. Punto. Questo non si estende direttamente agli argomenti e ai contenuti, altrimenti ai miei figli avrei prescritto almeno cinque ore settimanali di storia dell’A.S. Roma.

Di solito a un extracomunitario in divisa che pensa di capirci qualcosa di questioni di genere e di diritto all’istruzione – e invece è solo, nei termini cipolliani, uno “stupido” perché col suo agire arreca danno a sé a agli altri – rispondo abbastanza esagitato che “l’ideologia gender non esiste” passando ad argomentare punto per punto le sue castronerie.
Ma così facendo rischio di essere stupido anche io. Passiamo a un argomento più serio. Dura poco, promesso.

Ma ‘sta ideologia gender esiste o no?

marescialli2Dice molto saggiamente l’amico Alessandro Lolli che sia “ideologia” che “gender” sono diventate parolacce a causa del loro uso politico da parte di una ben precisa cerchia di persone, che avevano e hanno ancora un interesse specifico affinché queste parole, sia separatamente che insieme, siano connotate negativamente – a questo tipo di persona affibbio il nome cipolliano di “banditi”.

E tuttavia quello che affermano gli studi di genere è una visione del mondo, di un mondo non presente, una visione rivoluzionaria di un mondo a venire. Non dobbiamo credere alle paranoie delle maggioranze accerchiate, questa immagine è falsa e offensiva. È terribilmente offensiva perché i nazisti, che sul tema erano sicuramente più vicini alle posizioni di Miriano e delle Sentinelle in piedi rispetto a quelle dei movimenti LGBT, hanno sterminato migliaia di omosessuali. È palesemente falsa perché la società occidentale è ancora dominata dal maschio bianco eterosessuale e le sue categorie strutturano le menti delle donne e degli uomini. La maggior parte delle persone crede che ci sia qualcosa di naturalmente maschile come la determinazione, l’aggressività e la passione per gli sport e qualcosa di naturalmente femminile come la dolcezza, la remissività e la mania dello shopping. Quello che De Beauvoir, Belotti e Butler, pensano delle donne e degli uomini, e di conseguenza quello che Chiara Lalli, Pasquale Videtta e Simona Regina riassumono nei loro articoli, è tutt’oggi enormemente distante da ciò che ne pensano le donne e gli uomini comuni.

In effetti tutti quegli stupidi che straparlano di gender senza averci mai capito niente si fanno rispondere che, come ho detto anche io spesso, la teoria del gender non esiste. Questo però tecnicamente non è esatto, perché anche quella proposta e difesa dalla chiesa cattolica è una ideologia gender, una delle tante possibili: “la natura ci fa uomini e donne eterosessuali, il resto è un’offesa al creato cioè a Dio, vallinferno punto”. Dire che non esiste è una tattica produttiva?

Ma se sono delle tattiche bisogna capire se funzionano, se raggiungono gli obiettivi. Forse localmente questa tattica è vincente, forse negare la propria radicalità per entrare nelle scuole, nei festival, negli ospedali, nelle istituzioni è efficace; ma ho dubbi sulla bontà strategica di questa ritirata nella non-esistenza. Mi ricorda una delle mosse che ha fatto la sinistra italiana per raggiungere la propria estinzione negli ultimi vent’anni.

Méttece ‘na pezza… (per gli esterni al GRA, la traduzione è: “non è facile da confutare, questo punto di vista”). E a proposito di pezze, a sostenere che l’ideologia gender non esiste si corre un altro rischio, come sottolineano Federico Zappino e Deborah Ardilli:

Sarebbe poco interessante replicare alle argomentazioni di ciascun negazionista, così interessato a sostituire idraulicamente la teoria del gender con gli irenici “studi di genere”, o con i programmi scolastici di “educazione alle differenze” volti alla decostruzione degli stereotipi o alla promozione di un maggior rispetto per le “diversità”, o a bacchettare col dito alzato sulla parola “teoria”, sostituendola con il plurale “teorie”, o con il rocambolesco “teorizzazione”. Sarà sufficiente digitare su qualunque motore di ricerca “la teoria del gender non esiste” per avere una panoramica sufficientemente ampia dell’allucinato dibattito in corso. Quale che sia il nostro giudizio sugli “studi di genere”, sulle “teorie” al plurale, sulle equilibriste “teorizzazioni”, sulla bontà della decostruzione degli stereotipi o sull’auspicabilità di una società più rispettosa, reputiamo innanzitutto più importante rinunciare a fare atto di sottomissione ai termini del discorso così com’è impostato, poiché attraverso questo discorso l’eteronormatività tenta di mettere una pezza ai problemi che essa stessa ingenera.

E anche questo è vero: a furia di dire che non esiste si assume come valido il paradigma discorsivo di chi il gender non lo vuole, e certo non si fa un favore a quel modo di vedere il mondo liberatorio e auspicabile per tutt* che invece l’eteronormatività continua a volere per sé, “concedendolo” più o meno e in vario modo a chi eteronormale non è. Rimane il fatto che non si può parlare allo stesso modo col parroco di Cerveteri e con Marzano e Muraro, che negano – loro sì – l’esistenza di qualunque gender non corrisponda alla loro ideologia. E allora?

Diceva qualcuno: tattica ed etica

Faccio un esempio personale, a proposito di esistenza o meno di ideologia gender.norwegian_glbt_pride_flag_postcard-r85f11401be624623bdb6c8ed413a7044_vgbaq_8byvr_512

Qualche settimana fa trovo sul solito gruppo facebook di difensori della famiglia naturale e di tutte le altre cose belle della chiesa loro ma non delle altre un link a questo documentario norvegese, nel quale il comico Harald Eia avrebbe fornito prove per le quali «il governo norvegese ha ritirato il finanziamento al Nordic Gender Institute nato a sostegno dell’ideologia del gender». Facciamo finta che queste parole abbiano un senso, e chiediamoci: mo’ che faccio?

Io ho fatto una cosa credo molto sensata: ho chiesto a una persona affidabile che sa il norvegese perché vive in Norvegia di aiutarmi a capire se quello che viene detto nel documentario, e ciò che si racconta di esso, è vero ed è andato proprio così. Con facebook è facile eh, è fatto apposta per conoscere gente. Non lo usate solo per farvi gli affari degli altri, ogni tanto usatelo per fare anche i vostri. Ne è risultato che, parole di Cinzia Marini che ringrazio per l’aiuto,

il centro di ricerca interdisciplinare per gli studi di genere non è stato chiuso. Nel 2012 il Consiglio nazionale per le Ricerche norvegese ha tagliato temporaneamente i fondi ad uno specifico programma di ricerca di genere, integrandolo in un programma di ricerca più generale. Il centro è ancora aperto e attivo come vedi dalla versione inglese del loro sito. Dopo il programma di Eia, che era tendenzioso nella scelta degli interlocutori ma ben fatto, sono divampate le polemiche. Quello che ha evidenziato sono debolezze non negli studi di genere tout court, ma indubbiamente in certi ricercatori, nelle loro attitudini e nel modo di esprimersi, che naturalmente hanno portato all’assurdo certe differenze di paradigma. Le critiche fatte in Norvegia sono soprattutto riferite all’impenetrabilità di certa ricerca e al linguaggio usato, oltre che alla mancanza di aperture verso il paradigma biologico, ma non hanno mai messo in discussione l’esistenza e la necessità degli studi di genere. Cathrine Egeland e Jørgen Lørentsen, i due ricercatori intervistati, sostengono che Eia ha tagliato passaggi centrali dalle loro interviste. Secondo me non ci fanno una bella figura. Cathrine Egeland lavora oggi all’istituto per al ricerca sul Lavoro dell’Università di Oslo, sempre su studi di genere. Nel 2012, dopo il programma, ha tra le altre cose pubblicato questo rapporto. Jørgen Lørentzen, l’altro ricercatore, ha fatto ricorso al Comitato etico dei Giornalisti accusando Eia di aver tagliato e redatto gran parte della sua intervista. Su questo sito, purtroppo in norvegese, puoi vedere i due spezzoni (quello intero e quello redatto) a confronto: Dette sa Lorentzen til «Hjernevask». Lørentzen parla ad esempio molto del fatto che alcune teorie riducono l’essere umano al suo genere, mentre la faccenda è molto più complicata. Registri, emozioni, capacità di cui veniamo privati. Dice anche chiaramente, a proposito di domande precise sulla biologia, “questo non lo so, non è il mio campo”.

L’ideologia gender esiste anche se forse i due ricercatori norvegesi non l’hanno sostenuta molto bene, e anche se un comico con grossi pregiudizi – il suo documentario era certamente orientato verso una tesi da dimostrare a tutti i costi – prova a sostenerne l’infondatezza. L’uso strumentale, arbitrario e in evidente malafede della faccenda è un’ovvia conseguenza, quando si hanno amici politici come il parroco di Cerveteri.

In questo caso ci vuole un po’ di attrezzatura in più del solito – compresa un’onesta amica che vive in Norvegia – ma rimane il fatto che chi costruisce discorsi oppressivi alla fine viene fuori chi è, anche se invece di inventarsi balle, diffamare e parlare a vanvera oppure cantilenare ipocrisie perché sta in cattedra fa un bel documentario tecnicamente perfetto e apparentemente oggettivo.

norway_gay_pride_tshirt-r1dc9e7c2e76646e789d5ac7f557d2c6c_8nhmm_512Bene, la critica l’ho capita e starò più attento: invece di dire l’ideologia gender non esiste dirò «queste stronzate che vai dicendo sono solo pietose difese, non sai neanche di che stai parlando quando usi quell’espressione», oppure «non provare a rigirare le cose come ti fa più comodo, sai solo manipolare le chiacchiere», o anche «egregi* professor* non provi a nascondere o a dedurre cose perché non ci casco, lei è un* ipocrita»Il tutto seguito da argomenti convincenti non su qualcosa che non esiste, ma su qualcosa che esiste e che evidentemente è molto fastidiosa per chi ha un qualche potere patriarcale.

Anche io, in fondo, sono un ideologo del gender.

La fine dell’università e gli studi di genere. Cambia qualcosa per le donne?

Riceviamo da Paola Di Cori e volentieri pubblichiamo.*

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Sul fascicolo di “Internazionale” di questa settimana (22/28 maggio 2015) un articolo di Terry Eagleton, tradotto dal Chronicle of Higher Education e intitolato La fine dell’università eleva al cielo alti lai per la distruzione dei saperi umanistici. Il contributo di Eagleton – noto critico letterario marxista, di famiglia operaia, con studi a Oxford e Cambridge negli anni ’60 e ’70, noto per le prese di posizioni polemiche nei confronti delle correnti sperimentali più audaci della critica contemporanea – è pubblicato nello stesso numero della rivista il cui piatto forte viene annunciato dalla copertina che ritrae il disegno di un irsuto personaggio dalla cui barba fuoriescono omini neri armati di fucili, con il titolo “Lo stratega del terrore”. Il servizio giornalistico, tradotto dallo “Spiegel”, si interroga infatti sul disegno politico che sta dietro alla vittoriosa marcia dei jihadisti in Siria.

La pubblicazione di entrambi gli articoli nello stesso numero, forse  semplice coincidenza casuale, è una tentazione a immaginare una affinità esistente tra i due: come le truppe del Califfato stanno facendo a Palmira – mediante l’invasione violenta, le decapitazioni dei prigionieri e il proposito di radere al suolo quei monumenti che un tempo l’avevano resa celebre e i cui splendidi resti forse hanno vita breve – così agiscono i nuovi manager che ormai governano le università di tutto il mondo, trasformando quelli che un tempo erano luoghi privilegiati dei saperi “alti” in sedi decentrate affinché le élite prossimo-future acquisiscano le nuove competenze necessarie a consolidare l’egemonia della finanza internazionale. Gli antichi ideali di elevazione sociale, raffinatezza culturale, etica pubblica, vengono velocemente spazzati via dalla brutalità degli attuali responsabili di quell’insieme di pratiche informatiche, amministrazione e gestione burocratica che hanno trasformato le università in sedi deputate all’acquisizione di conoscenze di carattere tecnico-scientifico, dalle quali i saperi umanistici stanno scomparendo o hanno pochi anni di vita davanti. Ridotti drasticamente gli studi classici, tagliati i fondi ai settori letterari, filosofici, artistici in genere, depauperate le scienze sociali, che giacciono in stato di indigenza estrema, una nuova barbarie sta velocemente prendendo piede negli atenei. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: le ultime generazioni che escono con titoli ottenuti mediante sistemi di valutazione più indicati per misurare costi e ricavi di un’azienda che una acquisita maturità scientifica, intellettuale e culturale, sono ormai avviate verso forme di desolante  analfabetismo crescente.

Sono argomentazioni che – anticipate una ventina di anni fa da un grande libro del compianto Bill Readings, The University in Ruins (Harvard University Press) – da tempo risuonano di qua e di là dell’Atlantico negli interventi pubblici di accademici e studiosi di provenienze diverse, negli inserti di cultura dei quotidiani, riviste on-line e blog, destinati a denunciare gli effetti deleteri della riduzione di fondi e l’inarrestabile declino nella qualità della formazione scolastica e universitaria.

Difficile non concordare con buona parte di questi contributi, che  da prospettive svariate si interrogano sul destino imminente degli studi umanistici, e sulla qualità scadente della formazione avanzata in generale. Tuttavia, queste lamentazioni sono spesso scontate e purtroppo inevitabilmente inefficaci; come in parte anche le tesi sostenute da Eagleton, condite di un brillante stile Oxbridge ma in fondo poco saporite. Se poi guardiamo a quel che accade nel nostro paese, è facile constatare che l’accelerazione dei processi degenerativi in atto ha conseguenze ancora più gravi che altrove. In parte perché si finge di assistere a un disastro giunto all’improvviso, come quello del Vajont o il terremoto dell’Aquila. Non c’erano forse state tante avvisaglie negli ultimi venti o trent’anni? Nessuno dei sapientoni che soloneggiano dalle pagine del “Sole-24 ore”, del “Corriere” e di “Repubblica” si era mai accorto, se non per commentarli scuotendo la testa con qualche amico, dei baratri di formazione dei nostri laureati rispetto a quelli del resto d’Europa, delle decrepite strutture entro cui sono costretti a formarsi gli studenti?

Eppure l’imminente catastrofe era facilmente prevedibile all’indomani della riforma Berlinguer alla fine degli anni ’90, quando l’introduzione del famigerato percorso “3+2” accelerò l’inarrestabile crollo, i cui disastri furono subito sotto gli occhi di tutti. Ma nessuno protestò; non ci furono levate di scudo in massa da parte dei docenti più autorevoli, dei molti notissimi ‘liberi pensatori’ e intellettuali che ancora riempivano i senati accademici. Com’è consuetudine da queste parti del globo, si cercò di trarre vantaggi individuali e personali dalle pessime istruzioni ministeriali che si ammucchiavano sulle scrivanie dei presidi; soltanto l’improvviso successo nel 2007, del libro “La casta”, scritto da due giornalisti, sembrò rendere visibile la miserabile condizione dell’accademia italiana; tutti ne erano al corrente da tempo, ma nessuno si era preso il disturbo di denunciarla. E ora il terremoto annunciato ha scosso fin dalle fondamenta edifici secolari; una cupa rassegnazione è la paralizzante risposta a tanto disastro, mentre i giovani benestanti fuggono oltre i confini.
In questo apocalittico quadro di distruzione e povertà crescente, ha senso chiedersi cosa succederà agli studi di genere? Anche una modesta osservatrice si rende conto che non sono in molte a porsi il problema; e questo è forse il lato più malinconico dell’intera questione. Tuttavia, per quanto possa sembrare una domanda superflua le risposte sono forse meno scontate e deprimenti di quanto si possa pensare.

Per un verso, i cambiamenti non potranno incidere più che tanto in una situazione dai contorni sfuggenti a ogni tentativo di tracciarne il profilo, e il cui statuto disciplinare è incerto per definizione. Inoltre, a differenza del resto dell’Europa e del mondo, gli studi di genere hanno tradizionalmente goduto nel Belpaese di una esistenza malaticcia, frammentata, dispersa e disomogenea; fatta di qualche insegnamento di prima alfabetizzazione, con scarsa incidenza dei medesimi sull’insieme del piano formativo individuale; in breve: sono studi che hanno sempre goduto di una identità instabile. Alcune ottime esperienze qualificate – dottorati di storia delle donne e letterature a Napoli e a Roma, qualche convegno di settore, molte pubblicazioni di buon livello, associazioni con centinaia di iscritte, tante laureate e dottorate in questi temi nei decenni passati – si sono rivelate purtroppo di corto respiro, “senza sbocco al mare”, sia per il taglio dei fondi ma ancor di più per l’assenza di una specifica strategia politica concertata a livello nazionale e in collaborazione effettiva con la rete europea; a questo c’è da aggiungere un generalizzato disinteresse generale: i gruppi e le associazioni influenti del femminismo li hanno sempre guardati di malocchio; le docenti provenienti dai movimenti degli anni ’70 hanno spesso preferito prendere le distanze, aderire occasionalmente e con cautela a questa o quella iniziativa, senza mai impegnarsi in un confronto serio con le gerarchie accademiche. Più spesso si è trattato di percorsi solitari, talvolta veri e propri esercizi semi-clandestini di militanza, con pochissime sedi dove gli studi di genere risultano effettivamente inseriti nei programmi, uno scarso numero di dottorati attivi e – ancor più grave – con un atteggiamento radicato di estraneità, spesso ostentato distacco,  da parte di docenti che si richiamano al femminismo e che grazie ad esso hanno anche fatto carriera.

Sono state soprattutto le tante situazioni esterne all’università ad aver garantito la sopravvivenza e qualche briciolo di trasmissibilità delle esperienze e delle conoscenze relative alla condizione delle donne in Italia: centri delle donne, fondazioni, incontri e seminari estivi e invernali, riviste, pagine di quotidiani, blog e reti sociali, libri e librerie, case editrici, premi, dibattiti e laboratori, senza dimenticare naturalmente le reti sociali; ecc.; in poche parole, la società civile femminile attiva. Coloro che sono inserite stabilmente nelle istituzioni hanno sempre preferito assecondare lo status quo, ‘andare in trasferta’ presso le molte sedi del femminismo esterno invece che impegnarsi all’interno. Un intenso scambio tra dentro e fuori le università ha perciò sostituito in Italia insegnamenti istituzionali di base e corsi formativi modellati sugli esempi migliori a livello europeo (Utrecht, Gran Bretagna, Francia, ecc.).

Come noto, tranne poche eccezioni, non c’è mai stato nel nostro paese un aperto interesse da parte delle donne appartenenti ai gradi alti della docenza per inserire stabilmente gli studi di genere nei curricola, costruire solidi percorsi formativi di base, ingaggiare una negoziazione di breve e lungo periodo con l’establishment accademico. In questo, le italiane presenti nelle università hanno, abbiamo, lavorato male, poco, e peggio di come hanno fatto le altre europee, per non dire dell’impegno e degli esiti straordinari ottenuti in questo campo da parte delle donne attive in molti paesi del cosiddetto terzo mondo.
Di conseguenza, è un fatto che la quasi totalità delle giovani e meno giovani femministe inserite nelle università e nelle scuole, comprese docenti precarie e a tempo parziale, supplenti, volontarie, – oltre che attraverso la rete di centri esterna all’università – si sono formate fuori d’Italia, per poi proseguire con aggiornamenti su testi prevalentemente scritti da autrici non italiane. In linea con i tagli di fondi dei governi degli ultimi anni, e le pessime ministre che si sono succedute a presiedere e pianificare l’istruzione scolastica e universitaria, gli scarsi dottorati di un tempo non sono stati rifinanziati, al pari di quelli di molti altri settori; non più riattivati corsi e programmi insegnati anni fa; i seminari intorno ai ‘gender studies’ (inutile neanche menzionare il tristo destino di qualche rara sperimentazione LGBQT) si contano ormai sulle dita di una sola mano; i convegni sono rari o relativi a tematiche specialistiche. Palmira sei tutte noi, viene quasi da dire.

Non tutto il male viene per nuocere

Questo malinconico quadro di rovine fumanti non risponde tuttavia alla situazione reale. La quale versa certamente in acque melmose, ma non peggiori o diverse da quanto accadeva negli anni ’90 o nel decennio successivo. A differenza di quanto si lamenta in altri contesti, in Italia la situazione non è molto diversa da quella di un tempo. Sono in molte le docenti che ormai hanno incorporato nei propri corsi, ricerche e attività professionali, tematiche nate e cresciute grazie al luppo nei paesi di lingua inglese dei “gender studies” (la denominazione è sempre più imprecisa, ma utile, almeno in questo contesto); e in virtù della libertà di insegnare ciò che si vuole, ancora diffusa tra le pieghe delle discipline umanistiche negli italici atenei, anche se sono di fatto inesistenti sono curricula specifici ed è  risibile numero di posti di dottorato che premia questi studi, capita di veder sorgere qua e là verdi germogli “di genere”, la cui crescita ulteriore viene demandata alla buona volontà e alle risorse economiche delle giovani leve. Esistono di fatto in Italia un gran numero di insegnamenti dove le donne e le differenze sessuali sono al centro dei programmi approvati dai dipartimenti, talvolta anche insegnati da uomini; ma spesso si ha la sensazione di muoversi sul crinale di qualcosa che non è ben definito, inserito tra tematiche solo parzialmente legittime, con pochi crediti attribuiti. ‘Curricolabile’ solo in alcune circostanze e non in altre, la sua natura è piuttosto quella di abitare un territorio  pericolosamente ‘labile’. Come prima, meglio di prima, con qualche differenza. Ciò che prima era invisibile e nascosto, ora si vede e si sente, ma è povero e inadeguato.

Anche se questo quadretto assai nero e buio non invita a sperare in meglio, una esperienza come quella dei “gender studies all’italiana” potrebbe offrire qualche soluzione positiva. Tradizionalmente, si è detto, essi esistono fuori dai programmi, in numero scarso, sparsi, scollegati. In questo si manifesta coerenza con l’insieme della accademia nostrana, in particolare nel caso delle discipline umanistiche; basta pensare a quanto l’aggettivo ‘umano’, attaccato alle scienze abbia spesso in Italia una fisionomia incerta; al punto che certe volte viene scambiato con ‘sociale’ o utilizzato come fossero sinonimi. Per quanto sia assai difficile immaginare nel breve periodo un rovesciamento di segno – sentieri fioriti sullo sfondo di mari azzurri dove tuffarsi allegramente nella bella stagione – si potrebbero anche sfruttare alcuni lati positivi e utilizzare con profitto qualche ricchezza nascosta. Difficile immaginare che le italiche università mettano in poco tempo la testa a posto, che le subalternità femminili all’establishment si capovolgano per costituirsi in bellicose avanguardie resistenti, e nel breve giro di qualche mese di pragmatismo ‘renziano’ siano eliminati corruzioni, sprovvedutezze, superficialità, familismi, cortigianerie – unitamente alla sparizione di quell’egemonico, immutabile, odioso, violento stile patriarcale e paternalistico che continua a essere la nota prevalente nei nostri atenei.

Tuttavia, l’esperienza di un lavorio incessante tra il dentro e il fuori – tra il mondo reale esterno alle aule e ai dipartimenti da un lato, e i saperi accumulati in alcuni decenni in nome del femminismo dall’altro; tra pratiche politiche antisessiste e antirazziste, e le vecchie istituzioni che nel tentativo di rinnovarsi rimangono implacabilmente uguali o peggio di prima – potrebbe costituire un buon esempio anche per l’insieme dell’università, e non solo per i corsi di gender studies. Se le facoltà umanistiche – dove questi studi e chi li pratica sono stati maggiormente presenti – si sgretolano, ed è impossibile ricostruirli con risorse interne, forse qualche boccata d’ossigeno potrebbe venire attingendo alle risorse esterne, questa volta rovesciando le direzioni di marcia. Sono esigenze molto sentite da gran parte dei settori scientifici e delle scienze sociali nel loro insieme, quelle dirette ad avviare un rapporto sinergetico con centri di ricerca, istituzioni, associazioni, italiani e non italiani, esterni alle università; queste ultime si trovano  crudelmente imprigionate da burocrazie soffocanti, indifese e impotenti a scalfire la salda impalcatura di paralizzanti interessi corporativi che le avvolge.

Forse è giunto il momento di cominciare a pensare ai tanti modi con cui, per esempio, lo strumento interdisciplinare – su cui gli studi delle donne, quelli di genere ed LGBTQ si sono sviluppati – potrebbe trasformarsi in una strategia di lavoro trasversale: tra istituzioni accademiche e mondo esterno alle università; tra settori della conoscenza chiusi in autoritratti monocolori e il resto del mondo; tra lingue diverse e non solo in dialogo esclusivo con l’inglese; tra donne e uomini intesi come esseri percorsi da una molteplicità di tensioni e pulsioni identitarie diverse, invece che considerati come riflesso di sessualità naturali prestabilite. La proposta di pratiche conoscitive e politiche entre-deux potrebbe contribuire intanto allo svecchiamento del femminismo italiano; e chissà, forse anche l’università nel suo insieme sarebbe in grado di usufruirne ed emettere qualche segnale di vita. La conclamata interdisciplinarietà – per non parlare della comparazione, vera e propria araba fenicie della ricerca- che per l’insieme degli insegnamenti impartiti negli atenei italiani continua a rappresentare un impossibile miraggio ma anche uno dei problemi più assillanti, è una via obbligata da sempre percorsa dagli studi di genere e dai suoi ancor più sfortunati compagni LGBQT; uno strumento indispensabile di crescita intellettuale e di militanza politica, spesso mortificata dalle ansie di legittimazione istituzionale che hanno ingessato tante pratiche di genere interne all’accademia.
Paradossalmente, ciò che per tanto tempo ha costituito il punto debole dei gender studies all’italiana, è forse una risorsa ancora da sfruttare a fondo. Sarebbe possibile avviare esperienze a metà strada tra università e mondo esterno – peraltro già sperimentate lungo gli anni, e molte ancora in vigore – purchè siano garantite alcune condizioni: una maggiore disponibilità effettiva da parte di chi occupa posizioni privilegiate e ha accumulato conoscenze e pratiche; la proposta di obiettivi politici mirati, meno settari e ideologici di quelli che hanno dominato nei decenni trascorsi; un coinvolgimento comune effettivo nella costruzione di percorsi formativi.

E’ un dato di fatto che buona parte dei temi ‘caldi’ che hanno animato il dibattito femminista – a livello teorico e di ricerca – anche se avviati da qualcuna inquadrata nelle istituzioni, pur rimasti ai margini di più roboanti argomenti, si sono sviluppati  prevalentemente fuori dalle università e sono stati promossi da esponenti di quella società civile femminile attiva, o per iniziativa di giovani che studiano e lavorano fuori d’Italia: da quello intorno alla trasformazione (dissoluzione? evaporazione?) della parola “gender” e alle mobilitazioni per frenare gli attacchi clerico-patriarcali intorno a una presunta “teoria del gender”, fino alle prospettive riguardanti l’intersezionalità; dalle tante manifestazioni relative alla galassia “queer” – mostre, convegni, incontri, collane editoriali, ricerche; tutte iniziative rigorosamente extra-murarie – alle questioni divenute drammaticamente attuali legate al ruolo e rappresentazione delle donne nei più recenti fronti di guerra in Asia e medio-Oriente; alle migrazioni e al razzismo. Se la marginalità e la carenza di risorse materiali soffoca progettualità ed energie di chi sta fuori, dentro le università i saperi legati agli studi di genere si sbriciolano, e i soggetti che li avevano coltivati e cresciuti tornano all’invisibilità. Per continuare a svilupparsi, agli uni e agli altri è indispensabile rendere più dinamici i passaggi tra dentro e fuori, capire che in tempi di crisi è vantaggioso rafforzare le alleanze con situazioni e luoghi di sperimentazioni vitali; laddove sia possibile, conviene infatti da entrambe le parti: da un lato, attenuare rigidità e sbarramenti in nome di improbabili ideali di scientificità; dall’altro, pretendere l’adesione a formule politiche invecchiate, fantasiose e illusorie.
Sopravvivere a stento tra le macerie, o continuare faticosamente a praticare esperienze marginali di invenzione?

(Con ringraziamenti a Francesca, Marilena, Roberta.)

Deconstructing filosofi coi pregiudizi, pregiudizi sui filosofi e filosofi dei pregiudizi

lp-village-peoplemacho-man-PDopo Zecchi (uno e due) evidentemente circolano brutte dicerie sui professori di filosofia. Non volendo essere in nessun modo discriminatori, eccone qui uno che ancora non assurto alle glorie televisive è però ben assestato nelle pagine di un noto quotidiano di sinistra che vanta nobili natali e un nome – addirittura! – di derivazione marxista. Tutto ciò che leggerete è stato fatto in occasione dell’otto marzo, occasione nella quale io personalmente mi comporto così. Avviciniamoci con rispetto e una vaga inquietudine a quanto di sublime sta per rivelarci il nostro professore in tema di donne – nel senso di questioni di genere eh, non fate i maliziosi. Ecco qui l’originale di Paolo Ercolani, giornalista e docente di Storia della Filosofia e Teoria e tecnica dei nuovi media all’Università di Urbino.

Restare Donne [Abbiamo dunque un cattedratico di filosofia che scrive sul giornale un invito alle donne a fare qualcosa – restare tali, dice il titolo. Inizia maluccio, ma via, diamogli una possibilità.]

Iste­ri­che, insta­bili, inaf­fi­da­bili, emo­tive, ute­rine, anti-sociali, ferine. Puttane! [Attenzione, l’autore vorrebbe essere ironico. Teniamone conto o ci potrebbero sfuggire alcune parti essenziali del suo raffinato pensiero, per ora espresso anche con insulti sessisti. Però è ironia – chi era quello che diceva sempre che era frainteso e che voleva solo essere ironico?]

La lista seco­lare del pre­giu­di­zio miso­gino è lunga e sem­bra scritta sulla parete eterna dell’umanità per rimar­care l’inferiorità dell’essere fem­mi­nile [sembra, «com’è buono lei» (cit.)]. Infe­rio­rità ine­men­da­bile e irre­cu­pe­ra­bile, tanto da giu­sti­fi­care e anzi ren­dere oppor­tuna e per­sino neces­sa­ria la sot­to­mis­sione al maschio. Quest’ultimo sta­bile, coe­rente, affi­da­bile. Razionale! [Ah, ecco svelata l’ironia. Non ridete? Problemi vostri: l’otto marzo è una festa, no?]

IL PIU’ ANTICO PREGIUDIZIO

Quello con­tro la donna si rivela come il più antico, radi­cato e dif­fuso pre­giu­di­zio che la sto­ria umana è stata in grado di pro­durre. Tetra­gono agli urti del tempo e per­fet­ta­mente in grado di tra­sfor­marsi per poter resi­stere a ogni forma di sana resi­pi­scenza. Anche oggi che quasi nes­suno ha più il corag­gio (e il buon senso) di espli­ci­tare quei pen­sieri sulle donne (e molto spesso sono le donne stesse) [duole constatare che gli ordinari di filosofia, come vuole un altro tetragono pregiudizio, vivono non si sa dove: di maschilisti che esprimono tranquillamente fior di pregiudizi son pieni, tanto per cominciare, i giornali, altro che quasi nessuno], biso­gna sapere che il pre­giu­di­zio miso­gino esi­ste e lavora nell’oscurità dell’animo di ognuno di noi [«senti come pompa il pippero» (cit.) e beccatevi questa condanna senz’appello, lui ha letto un sacco, ne sa di cose]. Essen­dosi tra­sfor­mato in abito men­tale e quindi, come ben sapeva il filo­sofo ame­ri­cano Peirce [che faccio, cito uno noto o uno che ce lo siamo letto in tre? Sono sul Manifesto: devo essere elitario. Quindi, cito quello che ce lo siamo letto in tre], in cre­denza non espressa ma per­fet­ta­mente in grado di eser­ci­tare il suo influsso note­vole e palese sui com­por­ta­menti concreti [oh, siete svegli? Seguite bene: esiste nell’animo di ognuno, poi è abito mentale, quindi credenza non espressa che influisce sui comportamenti. Peccato, speravo ci dicesse da quale orifizio dovrebbe uscire questa roba e anche, più utilmente, da dove nasce il pregiudizio misogino: è innato, così, per default nell’animo di ognuno? Mah. Forse devo rileggere Peirce].

Il pre­giu­di­zio più antico ma anche il più dif­fuso. Che fos­sero atei o cre­denti, pro­gres­si­sti o con­ser­va­tori, rivo­lu­zio­nari o rea­zio­nari, scien­ziati o pen­sa­tori, tutti i più grandi arte­fici della cul­tura occi­den­tale si sono ritro­vati e spal­leg­giati nella con­danna e mor­ti­fi­ca­zione dell’essere femminile [e sempre, apparentemente, per qualcosa che era nel loro DNA: ricordatevi che esiste e lavora nell’oscurità dell’animo].

Ina­de­guata a rico­prire qua­lun­que ruolo che non fosse quello di occu­parsi della casa e alle­vare figli, la donna si è vista sbar­rata per secoli ogni strada che potesse con­durla a qua­lun­que altra atti­vità che non fosse quella di essere ausi­liare (una costola) alla crea­tura prin­ci­pale, al «primo sesso»: il maschio.

Da stu­dioso di filo­so­fia ho spesso pro­vato a imma­gi­nare la delu­sione pro­fonda, il senso di sco­ra­mento, per­fino l’angoscia che potrebbe (e dovrebbe) pro­vare una gio­vane stu­den­tessa, appas­sio­nata di que­sta mate­ria, che si avvi­ci­nasse alla let­tura dei grandi classici [però, che modestia. Potrebbe anche provarla lui questa delusione profonda, e invece no. Potrebbe anche non fregargliene nulla, alla giovane studentessa, la quale potrebbe tranquillamente studiarsi anche solo filosofe donne; ma il professore di filosofia sa bene cosa lavora nell’oscurità dell’animo anche di sessi diversi dal suo].

Sco­pri­rebbe che Pita­gora, Pla­tone, Ari­sto­tele, Sant’Agostino, San Tom­maso, Mar­si­lio da Padova, Bacone, Mon­tai­gne, Locke, Kant, Hegel, il per­fido Nie­tzsche («Se vai da una donna non dimen­ti­care la frusta»)…Tutti, tutti per­fet­ta­mente con­cordi, e con argo­menti sor­pren­den­te­mente con­fluenti, nel con­fer­mare lo sta­tuto di essere mise­re­vole, disgra­ziato, infe­riore che sarebbe la donna [peccato che queste informazioni se le dovrebbe ricavare da sola leggendoli o leggendo testi di filosofe, perché i manuali di filosofia ben si guardano dal raccontarlo – questo quando lo diciamo?].

Nello stu­dio per la ste­sura del libro a cui sto lavo­rando [ah, ecco il perché di tanto zelo], dedi­cato pro­prio a que­sto argo­mento, avrei [perché il condizionale?] poi sco­perto che Chri­stine de Pizan, scrit­trice e poe­tessa italo-francese che scri­veva a cavallo tra il 1300 e il 1400, ini­ziava il suo libro («La città delle dame») pro­prio con lo sgo­mento e la pro­fonda ango­scia pro­vate dalla gio­va­nis­sima pro­ta­go­ni­sta Cri­stina. Appas­sio­nata di filo­so­fia e pro­fon­da­mente tur­bata dalla sco­perta che i suoi amati clas­sici erano tutti con­cordi nel rimar­care con argo­menti duri e vio­lenti l’inferiorità e la neces­sa­ria sot­to­mis­sione della donna [il docente di filosofia scopre ciò che è risaputo da sei secoli e ne fa un libro, di queste sue scoperte. Poi ti domandi perché esistono certi pregiudizi sui filosofi].

L’ORIGINE DI TUTTE LE DISGRAZIE

Del resto, ad essa è stato attri­buito un ruolo disgra­ziato e nefa­sto fin dalla nascita del mondo. Basta leg­gere Esiodo [che come sapete leggono tutti, vende più della Gazzetta dello Sport] per sapere che Zeus aveva creato la donna, per­so­ni­fi­cata da Pan­dora, per punire gli uomini in seguito al furto di Pro­me­teo. Pan­dora era for­nita di un vaso con­te­nente tutte quelle disgra­zie e pene di cui l’umanità era stata dispen­sata fino a quel momento. Postina o amba­scia­trice di morte, malat­tie, fati­che immani, dolori, scon­fitte, Pan­dora finì [finì, da sola, senza l’aiuto di nessuno eh, mi raccomando] con l’essere iden­ti­fi­cata con la donna in genere. Ori­gine e causa di ogni male!

Stessa situa­zione pre­sen­tata dalla Bib­bia. Dio non aveva pre­vi­sto la morte e quella valle di lacrime che è la vita ter­rena per l’uomo. Que­sto poteva esi­stere beato nel giar­dino cele­ste senza la minima preoccupazione.

Sen­non­ché ci ha pen­sato Eva, stu­pida e curiosa, a cadere nel tra­nello del ser­pente e con­vin­cere pure quel mal­lea­bile di Adamo a con­trav­ve­nire agli ordini divini.

Tutti i grandi teo­logi [maschi, ndr, cosa che al professore sembra sfuggire] si sono tro­vati con­cordi nell’attribuire alla capo­sti­pite delle donne la colpa di quel ter­ri­bile atto da cui, peral­tro, sarebbe ori­gi­nata que­sta vita ter­rena magni­fica ma segnata dal pec­cato, e quindi dalla sof­fe­renza, dalla pena e infine da quell’«ultimo nemico» (San Paolo) che è la morte.

L’unico teo­logo che la «difese», attri­buendo la colpa ad Adamo, lo fece con l’argomentazione secondo cui a ella non poteva essere rico­no­sciuta alcuna colpa, per­ché troppo stu­pida e inge­nua [e perché non fare il nome di questo teologo? Peirce, Esiodo e San Paolo sono letture frequenti e diffuse, questo teologo no?]. Adamo, da uomo, avrebbe dovuto pren­dere in mano la situa­zione e respin­gere il dia­volo ten­ta­tore. Eva non aveva gli stru­menti nep­pure per questo.

Pro­prio per sfug­gire ai dia­voli che si attac­cano ai capelli, veniva impo­sto alle donne di coprir­seli con un velo quando si avven­tu­ra­vano nello spa­zio pub­blico. Una pra­tica che, udite udite, era in vigore nell’Atene demo­cra­tica ma non, negli stessi tempi, in Per­sia o Siria, tanto per smen­tire uno dei molti luo­ghi comuni sulle ori­gini delle libertà «occidentali» [ma com’è bravo a rendersi simpatico distillando il suo sapere al momento giusto, sembra proprio Zecchi – la foto degli anni ’60 la mettono tutti senza capirci molto, ma lui è elitario, la prende alla lontana].

Né da tutto que­sto, ovvia­mente, può essere esclusa la scienza, se per esem­pio pen­siamo che il vol­gare pre­giu­di­zio dif­fuso con­tro le donne che non hanno rap­porti ses­suali da molto tempo («iste­ri­che»), non nasce dal senso comune popo­lare ma fu argo­men­tato attra­verso com­plesse ana­lisi bio­lo­gi­che nien­te­meno [dopo udite udite pensavo che rinunciasse a un po’ di retorica, invece ci tocca pure il nientemeno] che da Ippo­crate, medico antico su cui ancora oggi giu­rano tutti coloro che inten­dono eser­ci­tare la professione [io pensavo che, dopo Galileo, questo fosse solo un simbolico giuramento etico. Invece no, evidentemente: devi proprio credere a tutto quello che diceva uno di medicina 24 secoli fa, dice il docente, e immaginatevi che complesse analisi dovevano essere. La storia insegna che lo sforzo “scientifico” fu di confermare i pregiudizi popolari comodi al patriarcato vigente, e non il contrario: questo fenomeno si chiama, oggi, confirmation bias].

Curare i mali del corpo, evi­den­te­mente, non com­porta in maniera auto­ma­tica la facoltà di riu­scire a risol­vere anche quelli della mente e del pregiudizio [dàje che va bene anche un po’ di empowerment, dàje! E adesso? L’articolo potrebbe anche finire qui, con l’empatia per la studente (io dico così, scusate eh) e una tirata d’acqua al mulino dei filosofi. E invece no].

RESTATE UMANE: RESTATE DONNE [Da brividi l’accostamento Jobs/Arrigoni al femminile, eh? E ancora non avete letto il suo libro, chissà che meraviglie ci aspettano.]

Mi fermo qui [magari]. Una rico­stru­zione del pre­giu­di­zio miso­gino che tenti di essere esau­stiva e com­pleta, per di più in forma cri­tica e non com­pi­la­tiva, richie­de­rebbe ben più del libro che sto ulti­mando [sempre modesto, lui]. Figu­ria­moci se può essere esau­rita nello spa­zio di un articolo [eh, in un articolo possiamo combinare ben altro. ‘Spetta lì].

In que­sta sede mi pre­meva sol­tanto rimar­care il seco­lare potere eser­ci­tato da que­sto sor­dido pre­giu­di­zio con­tro la donna.

Il più antico, radi­cato, resi­stente che la sto­ria umana ha cono­sciuto nella sua lunga e con­tro­versa vicenda [sì, ma l’hai già detto, sta poche righe su. Ma allora è vero che i filosofi stanno sempre lì a ripetere le stesse cose! Passo a darti del tu eh, ‘sto post dura da tanto che siamo diventati amici]. Al punto da con­vin­cere per prime molte donne stesse, spesso le più zelanti e severe nel for­mu­lare un giu­di­zio di con­danna verso le pro­prie simili, o anche solo sem­pli­ce­mente nel rite­nere (e nell’affermare senza pro­blemi), che come medico, avvo­cato, pre­si­dente del con­si­glio o anche solo auti­sta di un auto­bus pre­fe­ri­scono un uomo e si sen­tono più sicure con lui [che il sessismo è trasversale ai generi lo sappiamo dagli anni Sessanta. Docente, vieni al sodo, so’ venti minuti che scrivi!].

Si tratta di un ben pre­ciso feno­meno chia­mato «auto­fo­bia» [EH? Questa parola non c’è manco nel Treccani, ma i filosofi sono tanto creativi. C’è qui, ma dice che il significato è un altro], che col­pi­sce pro­prio i com­po­nenti di quei gruppi sociali più col­piti e mor­ti­fi­cati, pri­vati a tal punto di ogni minima spe­ranza di eman­ci­pa­zione e rea­liz­za­zione del sé da rin­ne­gare la pro­pria appar­te­nenza, così da (illu­dersi di) poter pro­vare ad essere accolti e rico­no­sciuti nel gruppo di chi comanda ed elar­gi­sce le stig­mate del bene e del male [a me pare la versione “sociale” della Sindrome di Stoccolma, ma che volete che ne sappia io? Mica sono un professore di filosofia. Io mi limito a leggere Chiara Volpato, ma che volete che ne sappia pure lei].

Rin­vio al libro le con­si­de­ra­zioni più ampie e arti­co­late [e tre. Sì abbiamo capito, ce l’hai detto che stai scrivendo ‘sto libro. Quando uscirà davvero non avremo scampo]. Ma in tale dire­zione, nello spa­zio limi­tato di que­sto mio blog e in que­sto giorno di con­tro­versa cele­bra­zione della donna [non è controversa, non lo è proprio una celebrazione della donna], mi sento di auspi­care per loro (e quindi per noi tutti!) una rea­zione [aspetta: ma noi non eravamo quelli che il pre­giu­di­zio miso­gino esi­ste e lavora nell’oscurità dell’animo di ognuno di noi?] con­tro il pre­giu­di­zio e un’affermazione della pro­pria libertà e dignità non in dire­zione dell’«autofobia», bensì dell’orgoglio e della valo­riz­za­zione dell’essere donna in quanto dif­fe­rente e irriducibile [ma allora parla per te e per gli uomini, no? Che parli a fare per le donne e alle donne se auspichi anche per noi tutti quella reazione? La tua reazione quale sarebbe, scriverci un libro pieno di questa roba?].

Negare lo sta­tuto bio­lo­gico pre­ciso che con­fi­gura un indi­vi­duo come donna [notate bene: prima c’è l’individuo, poi il suo statuto biologico, infine possiamo configurare tutto ciò come donna], infatti, pre­fi­gu­rando per­fino sce­nari «post-umani» in cui gli indi­vi­dui saranno tutti ases­suati (né uomo né donna, bensì un sesso “terzo” che non è né l’una né l’altra cosa), come da pro­po­ste di un certo fem­mi­ni­smo radi­cale [EH? E quale? Nomi, riferimenti? Ah, sì, mi devo comprare il libro. Per scoprire che il docente di filosofia è l’ennesimo che ha letto male da Butler in poi, come quelli che si sono inventati la teoria del gender, che farnetica appunto di sce­nari «post-umani» in cui gli indi­vi­dui saranno tutti ases­suati], non sol­tanto si rivela un’operazione assurda e ste­rile (inac­cet­ta­bile per la mag­gior parte delle donne stesse) [no, è un’operazione INESISTENTE, ma quante volte toccherà dirlo? Quella roba non l’ha detta mai nessun*!], ma fini­sce col rap­pre­sen­tare il più grande com­pi­mento dell’opera por­tata avanti dal pre­giu­di­zio miso­gino: l’eliminazione della donna in quanto tale [a parte che è roba che hai letto solo tu, ma poi scusa, perché della donna in quanto tale? Hai scritto sopra gli individui saranno tutti asessuati e né uomo né donna! Guarda che quello dei lapsus, te lo dico io, si chiama Freud].

Si trat­te­rebbe, in fondo, della rea­zione auto­fo­bica per eccel­lenza, che para­dos­sal­mente for­ni­sce l’impressione di accet­tare tutte le con­danne maschi­li­ste tanto da arri­vare a pro­porre il sui­ci­dio della donna e l’evaporazione della spe­ci­fi­cità fem­mi­nile verso tipo­lo­gie umane in cui di fem­mi­nile non resta più nulla [non so come commentare una frase la cui insensatezza raggiunge vertici paragonabili alle canzoni di Povia, o ai deliri di Recalcati. O a entrambe le cose, a pensarci bene].

«Donne si diventa», scri­veva Simone de Beau­voir, pro­prio per sfug­gire ai ten­ta­tivi della società patriar­cale di imbri­gliare l’essere fem­mi­nile all’interno di una rigida iden­tità natu­rale, che ovvia­mente la con­fi­nava in un ruolo di subor­di­na­zione e com­ple­mento rispetto all’essere «asso­luto», il maschio [identità naturale? A ulteriore riprova che in fase di lettura c’è qualcosa che non va, questa non mi pare proprio una breve spiegazione delle parole di de Beauvoir. Lei le usa in senso contrario, dicendo ad esempio: “Donne non si nasce, lo si diventa. Nessun destino biologico, psichico, economico definisce l’aspetto che riveste in seno alla società la femmina dell’uomo; è l’insieme della storia e della civiltà a elaborare quel prodotto intermedio tra il maschio e il castrato che chiamiamo donna.”].

Le con­qui­ste che sono state otte­nute dalle donne con­fer­mano l’importanza di quella frase [citata a vanvera], il ruolo cru­ciale gio­cato anche dalla cul­tura e dall’educazione nell’impedire forme di discri­mi­na­zione odiose e inaccettabili [quali conquiste? Sul piano del diritto sono tante, ma nella pratica politica e civile sono smentite dai fatti. Il ruolo cruciale è lungi dall’essere dimostrato e/o accettato, come raccontano le tante battaglie ancora in corso, per dirne qualcuna, contro il linguaggio sessista dei media o per una educazione sessuale nelle scuole. E poi, le parole di Haraway, bell hooks, Spivak, per esempio, criticano anche l’educazione – come collocarle in uno schema così semplificato?].

Ma dimen­ti­care il dato natu­rale [eccoci qui: alla fine di tante parolone, torna il dato naturale, complimenti per la novità filosofica], rinun­ciare a costruire ed affer­mare una sog­get­ti­vità fem­mi­nile con le spe­ci­fi­cità, il valore e la diver­sità che que­sta fem­mi­ni­lità com­porta [e quali sarebbero? No, perché esistono tanti femminismi per quante definizioni vogliamo dare di queste specificità – cui vanno sommati i femminismi per i quali non esiste neanche. Che si fa, li  buttiamo via?], signi­fica cor­rere il rischio di diven­tare quello per cui hanno lavo­rato secoli di bar­ba­rie miso­gina. Ossia un qual­cosa che ha can­cel­lato e dimen­ti­cato l’unicità e la ric­chezza insite nell’essere donna [beh tu, filosofo maschio bianco occidentale, sì che puoi dirlo, in che consiste l’unicità e la ric­chezza insite nell’essere donna. Non vedo l’ora di leggere questo tuo libro].

Per­ché donne si nasce e lo si diventa [bravo, così facciamo content* tutt*]. Ed oggi è fon­da­men­tale non smet­tere di esserlo! [Così posso continuare a scrivere queste scemenze!]

Cos’abbiamo qui, dunque? Un filosofo di professione, e giornalista, che approfitta dell’otto marzo per parlare del suo prossimo libro e chiedere alle donne di non dimenticare, nel 2015, il loro dato naturale. Complimenti per la modestia e la competenza in questioni di genere.

Testi che raccolgono prove de il più antico pregiudizio ce ne sono a mucchi: ricordo, per motivi affettivi, lo splendido Sinfonia patriarcale, di Viola Angelini e Antonio Capizzi, edito da Savelli nel lontano 1976, nel quale sono catalogati dalla Bibbia a Ugo Spirito filosofi, romanzieri, scrittori vari e i loro maschilismi. In questo lavoro si ricordano altri lavori analoghi, come quello di Maria Teresa D’Antea (Antologia del delirio) e quello di Liliana Caruso e Bibi Tomasi (I padri della fallocultura), sempre degli anni ’70. Da lì in poi ce ne sono stati molti altri – il problema è sempre stato non l’esistenza di questi testi, ma l’esistenza di chi fosse abbastanza saggio da andarseli a leggere e studiare. Speriamo che, a quarant’anni di distanza da quegli esempi, Ercolani aggiunga qualcosa in più che valga la pena leggere. Da quello che se ne deduce da questo post, le mie sono proprio speranze da filosofo: utopie.

Deconstructing le gender contraddizioni

contradictionOh, finalmente anche le grandi menti prendono posizione nei confronti della fuffa. Che l’ideologia gender sia una fuffa inventata da chi teme di perdere potere, e da questi ben orchestrata lo si sa ed è stato ben dimostrato, e ci siamo divertiti anche noi spesso a farlo capire. Però è bene ricordare che ci sono giovani e valenti studiosi impegnati nel lodevole tentativo di farla esistere comunque, perché è uno spauracchio che serve alla loro, questa sì, ideologia: quella della “vita”, quella cattolica, quella della natura, insomma quella intollerante, per capirci. Questa intolleranza, per ammantarsi del ruolo di difesa eroica, quando non di vittima che resiste, deve demonizzare il suo avversario, e tratteggiarlo in maniera insieme netta ma opaca, forte ma vaga, con pochi princìpi ma tutti sbagliati. L’ideologia gender in sé non viene mai definita, non vengono citati articoli o libri, e ci mancherebbe: non esiste. Vengono solo ben nominate le sue supposte teorie, i suoi fantasiosi assunti – peccato che nessuno li abbia stabiliti se non quelli che se la sono inventata. Cioè i suoi detrattori, come questo genio qui.

Le tre contraddizioni dell’ideologia gender [oh, finalmente uno preciso: sono tre le contraddizioni di una teoria che non esiste, né più né meno]

L’ideologia gender non esisterebbe. Sarebbero tutte menzogne. Tutto terrorismo psicologico. Tutte paure messe in giro da fanatici ed incompetenti [no, i fanatici incompetenti sono quelli come te che pensano che esista: quelli che dicono che non esiste davvero, ma che è un’invenzione di fanatici incompetenti, sono fior di studiosi e studiose]. La replica più frequente a coloro che osano discutere taluni innovativi “progetti educativi” – conformemente a collaudate prassi totalitarie [le prassi totalitarie sono vietate dalle legge, e infatti non c’è stato nessun caso di persone arrestate perché predicherebbero l’ideologia gender, dato che non esiste], che riconducono qualsivoglia critica alla patologia – si sostanzia in un invito al ricovero ospedaliero [non è vero, a me e a tanti basta che stai zitto e che accetti o di non capirci niente o di essere in malafede. Non credo che tu sia matto, ma ipocrita – o venduto. Scegli pure tu, in piena autonomia]. Se si è tuttavia abbastanza forti da sopportare quest’allergia al dissenso [che eroe], risulta in realtà semplice non solo individuare il nucleo ideologico della teoria gender, ma anche le insanabili contraddizioni che la paralizzano. Per quanto riguarda il primo aspetto – il riconoscimento dell’ideologia – è sufficiente osservare come il tentativo di combattere le discriminazioni anzitutto di matrice sessista conduca sempre più spesso al voluto equivoco secondo cui, per contrastare le diseguaglianze fra uomo e donna, occorrerebbe negare alla radice le differenze fra i sessi [chi l’ha detto? Mai letto in nessun testo seriamente femminista o queer, nessuno nega le differenze tra i sessi – e notate come il nostro campione d’ignoranza inconsapevole o di calcolata ipocrisia passi dalla parola “sesso” alla parola “genere” come se fossero sinonimi – e senza dire che rapporto c’è tra loro]. Differenze che quindi, nella misura in cui fossero anche solo oggetto di semplici studio ed osservazione [lo sono storicamente proprio per i femminismi più diversi, che le studiano come il pensiero generalmente maschilista non s’è mai sognato di fare], diverrebbero potenziali alibi per trattamenti iniqui [quali? Non si sa. Come le prassi totalitarie più sopra, un nome minaccioso e altisonante che non vuole dire niente].

Si spiegano così meraviglie come la svedese Egalia, scuola materna di Stoccolma dove già anni or sono si è pianificata l’abolizione dei sessi [EH? Ma stai fuori? L’abolizione dei sessi? Questa è la loro pagina in inglese, e con Google potrete trovare molto materiale. Non c’è nessuna abolizione di niente in quella scuola, a parte dei pregiudizi tipo i tuoi] coniando persino un pronome neutro, «hen», in luogo dei vetusti – e verosimilmente ritenuti sessisti [non sono ritenuti sessisti, sono solo dei pronomi. Semplicemente, connotano qualcosa che dovrebbe essere consapevolmente scelto, cioè il genere e non il sesso. L’abolizione dei sessi è una frase senza senso, vorrebbe dire che lì evirano i bambini o cose del genere] – «hon» e «han», e prescrivendo per i piccoli il dovere di chiamarsi fra loro «amici», bandendo parole come “bambino” o “bambina”, termini da consegnare al passato insieme alla differenze sessuali [no, quelle scelte linguistiche servono a preservarli per una scelta consapevole, e per non inquadrare i/le bambini/e in ruoli stereotipati che non hanno scelto. E’ un tentativo di insegnare una libertà, per consegnare loro un migliore senso si sé, per non dargliene uno preconfezionato dai luoghi comuni sociali]. Per quanto possa apparire sorprendente e prima che in una panoramica che pure sarebbe agevole fra autori che teorizzano quanto la scuola materna di Stoccolma ha poi messo in pratica, l”inesistente” ideologia gender è tutta qui: nell’ostinata negazione delle difformità attitudinali fra i sessi [NON E’ VERO, è per questo che si chiamano STUDI DI GENERE (GENDER STUDIES), dato che sono approcci diversi e non ideologie rigide; basterebbe leggersi la bibliografia citata da Wikipedia per capirlo], da presentare al mondo come vergognose diseguaglianze di genere [ma de che], laddove il genere – qui sta un passaggio fondamentale – non include la mera possibilità d’essere uomini e donne [e invece sì, alla faccia tua, basterebbe leggere]; non solo. Una liberazione compiuta dall’oppressione impone infatti anche il superamento della prospettiva binaria maschile e femminile attraverso la forgiatura di un’identità sessuale fluida, definita solamente da una individuale e sempre riformabile percezione di sé [mescolando in allegria cose mal capite e mal riportate della teoria queer].

Al di là di comprensibili perplessità [se esponi le cose a cacchio in questo modo, e certo che ci sono, le perplessità], questa prospettiva si scontra – lo dicevamo poc’anzi – con molteplici contraddizioni. La principali sono essenzialmente tre. La prima concerne la logica definitoria che il concetto di genere vorrebbe oltrepassare e nella quale, in verità, continuamente ricade. Risulta infatti poco sensato da un lato respingere come limitante la distinzione fra maschi e femmine e poi, dall’altro, accettare che per esempio ci si debba riconoscere in una delle 70 differenti opzioni di genere che Facebook mette a disposizione dei propri utenti [il problema che non vuoi accettare è che non è una logica definitoria, ma una libertà da scoprire. Se non la vuoi sono problemi tuoi, non cercare di argomentare le contraddizioni altrui invece dei tuoi limiti di comprensione]. E se un soggetto si percepisse simultaneamente come appartenente a più generi o avvertisse come proprio un genere non contemplato da alcuna classificazione [ma se è questa la situazione alla quale i gender studies vogliono rispondere!]? Con quali argomenti, se non ricorrendo all’imposizione [ma CHI la pretende questa imposizione, chi? Ce lo dici?], si potrebbe chiedergli di definirsi? Occorre decidersi: o il genere è davvero libero, oppure è solo una volgare parodia di quella distinzione sessuale che si vorrebbe superare. Il problema è che, accettando coerentemente di non poter definire il genere, non solo si archivia il concetto di sesso [solo per i cervelli come il tuo che non possono o non vogliono accettare che genere e sesso non sono la stessa cosa] ma si pensiona anche quello d’identità [EH? E che c’entra adesso l’identità?]. Parlare di identità di genere [cosa che non hai argomentato, che salta fuori adesso come se niente fosse] rivela così tutta la sua insostenibile portata ossimorica [bei paroloni, ma per ora s’è solo vista la portata ossimorica della tua ignoranza, che pretende di formulare agli studi di genere domande sbagliate, formulate con lessici inesatti e sostenute da convinzioni erronee. Di ossimorica c’è solo la tua pretesa di averci capito qualcosa].

Una seconda contraddizione dell’ideologia gender emerge in quello che pretende di denunciare, ossia l’ingerenza ambientale nella genesi della propria identità [formulato male, ma almeno s’è vagamente capito]. Se finora è esistita una più o meno netta distinzione fra maschile e femminile [notate come cambiano i termini a seconda della convenienza: adesso sono spariti sesso e genere, adesso ci sono il maschile e il femminile: che sono, spiriti? Concetti? Idee platoniche? Eau de toilette?] – sostiene la prospettiva gender – ciò non è avvenuto in ragione di una natura maschile o femminile, che sarebbe inesistente [mai detto da nessuna gender theory, ovviamente], bensì a causa di una data cultura [no, non è affatto così. Gli studi di genere – è importante dire che sono molti e non solo la prospettiva – studiano i significati socio-culturali della sessualità e dell’identità di genere, non la natura dei sessi – quello lo fa la biologia, forse]. D’accordo, ma se le cose stanno così [e invece non stanno così], se è l’ambiente il responsabile di come ci siamo finora percepiti [no, non è così banale, devi definire bene l’ambiente, se no finiamo a parlare di scie chimiche], com’è possibile non sospettare che sia sempre l’ambiente – e precisamente la cultura occidentale nel 2014 veicolata da università, parlamenti e redazioni, il famoso “Pensiero Unico” – la vera origine della teoria gender? [Certo, è lo stesso metodo per cui la voglia di stuprare la mette la minigonna, vero? Sempre il solito giochetto di scambiare gli effetti con le cause, vero? Anche di queste frittate abbiamo già parlato.] Sulla base di quali elementi, anche senza necessariamente tornare al concetto di natura umana, possiamo con certezza affermare che le imposizioni culturali che si vogliono far uscire dalla porta non rientrino poi dalla finestra con la pedagogia gender [non so, io ho la vaga idea che se evito di dire ai bambini che potranno fare tutto nella vita ma alle bambine che possono solo fare le infermiere, le maestre, le mamme, certa merda non rientrerà dalla finestra]? Chi e come può garantire totale liberazione da coercizioni esterne [non è quello che si ripromettono i gender studies, chi te lo ha detto? E soprattutto, che cacchio vuol dire garantire totale liberazione da coercizioni esterne? Che è, ‘na scuola zen?]? Anche qui dunque urge intendersi: o le influenze esterne sono sempre negative oppure, se lo sono solo alcune, stiamo ragionando in termini etici; se è così diciamolo, evitando di sbandierare una neutralità di facciata [e quando facciamo meno gli ipocriti ed evitiamo di porre tutte le questione come “o bianco o nero”, per non ammettere di non aver capito tutte le altre sfumature di colore? Costa l’umiltà, eh?].

L’ultima, vertiginosa [in sottofondo, mi raccomando, l’ossessionante musica di Bernard Hermann] contraddizione della prospettiva gender, strettamente collegata alla precedente, riguarda il metodo scelto per la nuova educazione contro qualsivoglia discriminazione: un metodo inevitabilmente a base di cultura, conferenze, libri, incontri nelle scuole [e che vuoi farci, per la telepatia di massa la RAI ci nega i permessi. Rendetevi conto di che critica sta facendo questo tizio]. Un metodo oggi così promosso ma che domani – questo, in fondo, si augurano gli artefici della nuova educazione – sarà la stessa famiglia, o quel che ne resterà, a mettere in pratica organizzando insegnamenti [le famiglie? Organizzando insegnamenti? Ma che roba ti cali? Ma dove hai mai letto che gli studi di genere prospettano un futuro di famiglie indottrinanti? Quello è il cattolicesimo, casomai] che impediscano ai giovani di credere che esistano fondamentali, notevoli ed anche arricchenti differenze fra uomo e donna [di nuovo, ‘sta panzana non si trova in nessun testo che si occupa di questioni di genere]. Ma in questo modo si soffocherà il fondamentale principio della libertà educativa [attenzione, stiamo assistendo al rivoltamento di frittata #2: adesso i gender studies sono quelli che vanno contro la libertà educativa, certo, come no, lo dicono sempre], andando tragicamente a concretizzare, fra l’altro, quanto lo psichiatra Wilhelm Reich (1897–1957) [ma sì, tiriamo fuori la citazione e facciamo vedere che un nome grosso lo sappiamo], nel suo Psicologia di massa del fascismo [sappiamo pure er titolo, tiè], scriveva della famiglia come realtà organica all’autoritarismo, definendola «la sua fabbrica strutturale ed ideologica» [una bella citazione «che non c’entra un cazzo ma che piace ai giovani» (cit.), tanto per unire confusamente gender studies e fascismo, inventandosi un legame inesistente, tanto per fare paura]. Cosa che non era e soprattutto non è affatto, considerando la dichiarata ed odierna diffidenza di molte famiglie verso la cultura di genere [e te credo, se se la fanno spiegare da te], ma che purtroppo potrebbe diventare, dando quasi un secolo dopo fondamento ai timori di Reich e a quelli dei non entusiasti di una nuova era gender [complimenti per la sintassi, è lo specchio della chiarezza d’idee che l’ha prodotta].

Non so dire se le contraddizioni dell’ideologia gender sono tre, perché non esiste. Ma quelle dell’ignoranza e della malafede, uh!, non si contano.

Deconstructing l’ideologia totalitaria

donna_comunista2Il pezzo di cui parleremo oggi è vecchio di due anni, ma il vizio di parlare in maniera distorta e poco chiara delle “teorie” che ci sono avverse è molto diffuso e sempre attuale – ed è molto istruttivo vederlo all’opera. Quindi vi prego di prendere questo “deconstructing” come una sorta di esempio di un uso distorto della categoria di ideologia per mettere in cattiva luce quello che si pensa essere il discorso altrui – facendo in modo che non si parli della propria, di ideologia. Questo continua ad accadere.

Che la Gender Theory possa essere piena di sfaccettature diverse mi pare ovvio, e per fortuna che è così. Ovvio come il fatto che deve ancora fare molta strada prima di affermarsi come un “normale” oggetto di studio come tante altre teorie, nell’università, nella scuola, nei media e nell’opinione pubblica. Rimane il fatto che per ora, in giro si leggono molte sciocchezze sugli studi di genere. Tra queste si distinguono le parole come quelle di Tony Anatrella (non è uno pseudonimo, è proprio il suo nome e guardate un po’ che curriculum), che dalla Francia si sente di rispondere a questa escalation (?) di presenza della Gender Theory. Il pezzo del nostro Tony è dunque qui a chiarire cos’è una ideologia totalitaria. Parliamone.

La provocazione [attenzione attenzione: l’Avvenire provoca. Tutti abbiamo bisogno di clic, eh?]

E dopo Marx venne il «gender» [e già questo è un titolo da manuale]

[Avvertenza: dovete arrivare in fondo a questo primo paragrafo senza ridere. Capito? Se ridete, dovete ricominciare. Non barate: io non vi vedo, ma l’ideologia totalitaria sì.]
La teoria del genere è la nuova ideologia alla quale fanno chiaramente riferimento l’Onu e le sue varie agenzie, in particolare l’Oms, l’Unesco e la Commissione su Popolazione e Sviluppo. [L’attacco di un articolo è fondamentale. Notate come in trenta parole si sia dipinto un mondo di complotto e fantasia degno di saghe nordiche e fantascienze. La Gender Theory (da adesso uso la sigla GT) è una ideologia – parola che ormai ha solo connotati negativi, grazie al berlusconismoed è chiaramente il panorama teorico al quale fanno riferimento grandi organizzazioni internazionali potenti e irraggiungibilile eterne colpevoli di tutto da quando c’è M5S.] Essa è inoltre diventata il quadro di pensiero della Commissione di Bruxelles, del Parlamento europeo e dei vari Paesi membri dell’Unione Europea, ispirando i legislatori di quei Paesi che creano numerosissime leggi concernenti la ridefinizione della coppia, del matrimonio, della filiazione e dei rapporti tra uomini e donne segnatamente in nome del concetto di parità e degli orientamenti sessuali. [La GT ispira i legislatori che fanno numerosissime leggi: manco Vladimir Luxuria si permette dei sogni così erotici. E tutto questo male oscuro lo fanno in nome del concetto di parità e degli orientamenti sessuali – che orrore, eh? Non son cose da farci leggi, queste, vanno lasciate al ghetto, al rifiuto, all’esclusione, al non-visto, no?]

Essa succede all’ideologia marxista [succede, viene proprio dopo, in mezzo non c’è nient’altro, chiaro?], ed è al contempo più oppressiva e più perniciosa [e te pareva] poiché si presenta all’insegna della liberazione soggettiva da costrizioni ingiuste [come il marxismo e tutte le religioni], del riconoscimento della libertà di ciascuno [come il marxismo e tutte le religioni] e dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge [come il marxismo e tutte le religioni – adesso che ci penso, anche il mio essere romanista è ispirato a questi valori]. Tutti valori sui quali sarebbe difficile esprimere un disaccordo [appunto]. A questo punto si rende necessario sapere se quei termini rivestano lo stesso significato che già conosciamo o se non servano, invece, a mascherare una concezione diversa che sta per essere imposta alla popolazione senza che i cittadini siano consapevoli di ciò che rappresenta [capito il complotto? Le grandi organizzazioni internazionali mascherano i loro sordidi scopi con parole e concetti che è impossibile rifiutare. Tipo il Vaticano, insomma. Ops].

Che cosa dice la teoria del genere? Questa ideologia pretende che il sesso biologico vada dissociato dalla sua dimensione culturale [non lo pretende, perché è così], ossia dall’identità di genere, che si declina al maschile o al femminile e persino in un genere neutro [?] nel quale si fa rientrare ogni sorta di orientamento sessuale [allora non è un genere neutro, scusi eh], al fine di meglio affermare l’uguaglianza tra gli uomini e le donne [perché, non è così?] e di promuovere le diverse “identità” sessuali [promuovere? La GT non deve mica vendere niente, eh, tipo promesse dell’aldilà o perdono per ogni peccato, tanto per fare esempi. Si tratta di constatare finalmente quello che è successo da sempre]. Dunque il genere maschile o femminile non si iscriverebbe più nella continuità del sesso biologico poiché essa [essa chi? Fate vobis] non gli è intrinseca, ma sarebbe semplicemente la conseguenza di una costruzione culturale e sociale [e come potrebbe essere intrinseca? Intrinseca vorrebbe dire innata? Ancora con l’innatismo? C’abbiamo il gene dell’identità di genere? Allora, secondo Anatrella, l’omosessualità è una malattia genetica. Interessante. Ne sanno una più del diavolo – ma dopotutto l’hanno inventato loro].

In nome della bisessualità psichica, si sostiene che l’uomo e la donna hanno ciascuno una parte maschile e una femminile: il sesso biologico dunque non obbliga, né quanto allo sviluppo psicologico né per l’organizzazione della vita sociale [mi permetterei solo di dire che è un pochino più complesso di così. Ma giusto un pochino]. Al sesso maschile e a quello femminile si privilegia l’asessualità o l’unisessualità [perché si privilegia? Chi ha detto – se non tu, Anatrella – che la GT mette qualcosa avanti ad altre cose? Non mi risulta da nessuna parte che la GT dica che ci siano orientamenti sessuali “migliori” di altri]. Così un politico donna, allieva di Simone de Beauvoir, afferma che “i mestieri non hanno sesso” [e non è vero? Quali sono i mestieri che ce l’hanno? Perché non fa un esempio?], mentre altri, favorevoli all’organizzazione sociale degli orientamenti sessuali [che cosa vuol dire questa frase? Perché dare per scontato che tutti ne capiscano il senso, se ne ha uno? Cos’è l’organizzazione sociale degli orientamenti sessuali?], sostengono che “l’amore” non dipende dall’attrazione tra l’uomo e la donna poiché esistono altre forme di attrazioni sentimentali e sessuali [invece lei, Anatrella, sa da cosa dipende “l’amore”? E perché tra virgolette, cosa voleva dire? E dov’è scritto che l’esistenza di altre forme di attrazioni sentimentali e sessuali neghi l’esistenza di quella tra l’uomo e la donna (eterosessuali, immagino)?  Anatrella, perché non mette un link, un riferimento, un nome, un titolo?].

Tali sofismi appaiono evidenti [che siano tali lo dice solo lei, e se lo fa “senza addurre motivazioni plausibili” (cit.), allora il sofisma è il suo, Anatrella caro] e sono ripresi con facilità dai media che apprezzano il pensiero ridotto a cliché [uh, guardi, è tutto un parlare di GT sui media, sì sì]. Tutto viene messo sullo stesso piano: le singolarità sessuali marginali – che sono sempre esistite – devono essere riconosciute allo stesso titolo della condizione comune e generale dell’attrazione tra uomo e donna [ah no? Allora devono morì, solo perché sono quantitativamente non rilevanti, sempre secondo i suoi criteri? Interessante. C’è stato un lungo periodo nel quale i cristiani erano singolarità marginali, e contro di loro si diceva più o meno quello che dice lei adesso. C’ha fatto caso?]. Non è tollerato alcun discernimento, la psicologia maschile si confonde con quella femminile e si attribuiscono le stesse caratteristiche a tutte le forme di attrazione sentimentale mentre dal punto di vista psicologico non sono in gioco le stesse strutture psichiche [notate: tre riferimenti alla psicologia senza definire niente, senza riferirsi a nulla, senza sostanziare con qualche dato le proprie asserzioni. Tutto l’articolo è costruito così, per scienza infusa di Anatrella. Il metodo della Bibbia, insomma: io dico che è così, e basta].

In altre parole, la società non deve più organizzarsi attorno alla differenza sessuale [non ci provare Anatrella, il problema è che un genere opprime gli altri, non quanti ce ne sono], ma deve riconoscere tutti gli orientamenti sessuali come altrettante possibilità di dare diritto alla plurisessualità degli esseri umani che nel corso dei secoli è stata limitata dall’“eterosessismo” [aridàje: non è stata limitata, è stata oppressa. I non eterosessuali “normali” sono stati perseguitati sempre e ovunque]. Bisogna dunque denunciare questa ingiustizia e decostruire tutte le categorie che ci hanno portato a tale oppressione [oppressione lo devi dire all’inizio, non alla fine, che fai, ce provi?].

L’uomo e la donna non esistono [EH?], è l’essere umano a dover essere riconosciuto prima ancora della sua particolarità nel corpo sessuato [prima dove, scusi? E soprattutto quando? Una volta nato il sesso ce l’ho, i problemi vengono dopo. O è la nota tattica cattolica di far nascere i problemi dove l’uomo non può arrivare, così ci pensa diopadre? E adesso i sofismi chi li fa, Anatrella?]. Sarebbe troppo lungo descrivere le diverse origini di questa corrente di idee partita innanzitutto dai medici che seguono casi di transessualismo, dagli psicanalisti culturalisti americani e dai linguisti che hanno studiato il linguaggio (gender studies) per farne emergere le discriminazioni nei confronti del genere femminile e degli stati intersessuati, per esempio per la concordanza del plurale in cui il maschile prevale sul femminile [e certo, è tutto lì: i medici che seguono casi di transessualismo alla fine si occupano di morfologia]. Fu riciclata [uh, vedi, è ecologica] da sociologi canadesi e ripensata in Francia da diversi filosofi prima di essere recuperata [sempre dalla stessa discarica], nuovamente negli Stati Uniti, dai movimenti lesbici alle origini del femminismo intransigente [il femminismo intransigente, mica quello di certe mollaccione] e ripresa poi dai movimenti omosessuali. La teoria del Genere [che adesso ha la maiuscola, prima no] tornò in Europa così trasformata [quante cose con una bottiglia di plastica, eh?]. In realtà si tratta di una sistemazione concettuale che non ha nulla a che vedere con la scienza: è a malapena un’opinione [mica come le teorie morali del cattolicesimo eh, mica come la religione. Quelle mica sono opinioni, è la parola di diopadre, oh. Il prete che difende la scienza è sempre fonte di stupore, che in primo luogo dovrebbe prendere se stesso, ma lasciam perdere].

Questo diventa inquietante nella misura in cui la maggior parte dei responsabili politici finisce per aderirvi senza conoscerne i fondamenti e le critiche che sono autoevidenti [ah, ecco. Contro il Vaticano, il cattolicesimo e le loro assurdità morali e bassezze immorali non bastano le prove schiaccianti, mentre le critiche alla GT sono autoevidenti. Complimenti]. I rapporti tra uomini e donne vengono presentati attraverso le categorie di dominante/dominato, della società patriarcale e dell’onniviolenza dell’uomo di cui la donna deve imparare a diffidare [mamma mia che assurdità, eh? Sono cose proprio campate in aria, se lo dice uno che ha la divisa di quelli che facevano bruciare le streghe, nutrendo la cultura della “donna diabolica tentatrice dell’uomo”, responsabile di tutto ciò che è irrazionale].

Da moltissimo tempo non siamo più in una società patriarcale [no no, non vi preoccupate, è un’impressione che esista il patriarcato, è finito secoli fa, certo, come la storia della Terra che era piatta – ops] ma, come sostiene la Chiesa, dobbiamo continuare a incamminarci verso una società fondata sulla coppia formata da un uomo e una donna impegnati pubblicamente in un’alleanza [alleanza i cui termini attualmente sono: io comando e tu servi, come ben teorizzato da Costanza Miriano, per esempio], segno che devono svilupparsi in questa autenticità. Da parecchi anni questa teoria [quale? Ma possiamo ripetere il soggetto, ogni tanto? O è roba alla Joyce?] viene insegnata in Francia all’università e, a partire dall’anno scolastico 2011-2012, sarà insegnata anche al liceo nei programmi di Scienze della vita e della terra delle classi prime. In nome di quali principi il Ministero dell’Educazione nazionale ha preso questa decisione e in seguito a quale forma di consultazione? [Perché, dovevano chiedere il permesso a te? Alla Chiesa?]

Non lo sa nessuno [in realtà c’è il sito del ministero francese, ovviamente, dove si possono leggere le intenzioni della riforma scolastica e capire la realtà e non la fantascienza di Anatrella]. Succede sempre così con le ideologie totalitarie, e ora con la teoria del genere [capito? La GT fa parte delle ideologia totalitarie come il nazismo, lo stalinismo, il fascismo, la dittatura di Dionigi di Siracusa]. Viene imposta ai cittadini senza che questi se ne rendano conto [sì, vi sta dicendo che siete una massa di deficienti] e si accorgano che decisioni legislative vengono prese in nome di quest’ideologia senza che, a quanto pare, sia esplicitamente spiegato [come la religione insomma; ve l’hanno spiegato perché vi battezzano? Perché da bambini fate comunione e cresima? Queste non sono cose imposte ai cittadini senza che questi se ne rendano conto? No?]. Ciò è particolarmente significativo in una parità contabile tra uomini e donne – che non significa uguaglianza -, nel matrimonio tra persone dello stesso sesso con l’adozione di bambini in tale contesto [e te pareva che non veniva fuori il fantasma della coppia gay che alleva un bambino], e nelle misure repressive che accompagnano questa corrente di idee [avete letto bene, misure repressive, tipo che ne so: l’Inquisizione, l’Indice dei libri proibiti, cose così ] che, in nome della non-discriminazione, non può essere rimessa in discussione o in Francia si rischia si essere sanzionati giudizialmente (legge sull’omofobia) [che schifo, Anatrella, che bassezza. Né in Francia né in Italia la legge punisce l’opinione, bensì la violenza, e uno “scienziato” come lei dovrebbe vergognarsi di questi mezzucci. Fa quasi pena – ma giusto per un istante].

Ma questo vale anche per altri Paesi: è il caso della Germania, dove genitori che hanno rifiutato che i figli partecipassero a lezioni di educazione sessuale ispirate alla teoria del genere sono stati condannati a quarantacinque giorni di detenzione senza condizionale (febbraio 2011). Il falso valore della non-discriminazione impedisce di pensare, valutare, discernere ed esprimere, così come quello della trasparenza che spesso è estranea alla ricerca della verità. [Questa è la notizia, e neanche un sito schierato come Zenit ammette che la Germania ha programmi scolastici con lezioni di educazione sessuale ispirate alla teoria del genere. E’ un’altra deduzione di Anatrella. Qui una lettura un poco più completa della vicenda.]

Quanto all’egualitarismo che si allontana dal senso dell’uguaglianza, esso lascia intendere che tutte le situazioni si equivalgono [ma di cosa si parla adesso? La GT, pur nelle sue diverse sfaccettature, non dice niente del tipo tutte le situazioni si equivalgono, ma casomai che ne va riconosciuta l’esistenza], mentre se le persone sono effettivamente uguali in dignità, la loro scelta, il loro stile di vita e la loro situazione non hanno oggettivamente lo stesso valore [Certo. Quello che dice la morale cattolica ha oggettivamente un valore superiore, vero?]. Non c’è nulla di discriminatorio nel sottolineare che solo un uomo e una donna formano una coppia [e invece sì], si sposano [e invece sì], vivono insieme [e invece sì], adottano e educano dei bambini nell’interesse del bene comune e in quello del figlio [e invece sì; sono tutte discriminazioni perché di quelle capacità si sono dimostrate piene coppie di ogni tipo, e pure i singoli]. Sono più capaci di esprimere l’alterità sessuale [che è un valore relativo a una cultura, non è assoluto], la coppia generazionale [che è un valore relativo a una cultura, non è assoluto] e la famiglia [che è un valore relativo a una cultura, non è assoluto], cellula base della società [che è un valore relativo a una cultura, non è assoluto].

La ricetta è chiara: complottismo, affermazioni non comprovate, giochi di parole, “voi non ve ne rendete conto (ma io sì)”, ed ecco come ti costruisco una ideologia totalitaria. Tra l’altro, pure lo stesso ministro francese è stato chiaro, successivamente: le cose non stanno così, in gioco non c’è la GT, ma l’insegnare a essere contro tutte le discriminazioni. Chiudiamo con una edificante testimonianza, da chi ha avuto modo di conoscerlo, su chi sia Tony Anatrella “sacerdote e psicanalista”. Tanto per chiarire cos’è una ideologia totalitaria, e che conseguenze potrebbe avere nella vita di qualche malcapitato.