Nuovo requiem per un camion di maiali

pigGuardo i loro volti agonizzanti sull’asfalto, la bocca aperta per un ultimo, ansimante respiro. In altre immagini, i corpi ormai immobili sono caricati su di un camion con un argano, issati per i piedi, materia senza più vita. Parole di crudeltà mi feriscono nel profondo: “merce”, “carico”. Le vittime contabilizzate sono molte più di quelle dichiarate sui giornali, loro però non fanno parte del computo del lutto, perché non ne sono degni: del resto erano nati per morire. Ed è inspiegabile la tristezza, e la stanchezza. Dover spiegare ogni volta perché quelle vite SONO degne di lutto. Doversi giustificare, trovare motivazioni filosofiche, sociologiche, energetiche, ecologiche, per vedersi riconosciuto il diritto alla compassione, ad una vita il più possibile gentile, il meno possibile crudele. Perché siamo diventat* quello che siamo? Interrogo quel poco che so, ma fatico a trovare una risposta.

E non ho più voglia, davvero nessuna, di dover argomentare attraverso lunghe digressioni quello che sento essere l’unico modo giusto, o perlomeno il più giusto per me, di stare al mondo. Si può fare? Sì. E allora si deve fare. Perché se davvero essere “umani” significa qualcosa – io non lo credo, ma va tanto di moda, da qualche secolo a questa parte, appellarsi all’eccezionalità della nostra supposta umanità  – dovrebbe aver a che fare con l’essere compassionevoli, quando in verità a me pare che l’umanità sia, in realtà, l’esatto opposto.

L’essere umano è, per la maggior parte del tempo, assai crudele.

Animale umano di sesso femminile catapultato in questo mondo non per mia volontà,  non mi ci è voluto molto a capire che, per quanti privilegi potessi avere (perché sono bianca, perché sono cisgender, perché sono di classe più o meno media, perché ho potuto studiare, perché non ho disabilità *troppo* evidenti) erano altrettante le oppressioni che avrei dovuto affrontare su base quotidiana. E così è stato, e contro quelle oppressioni lotto tuttora, ogni giorno.

Ma ancora prima di tutto questo, ancor prima di sentirmi – e pertanto dichiararmi –  femminista, ho sentito in maniera inequivocabile dentro di me uno sdegno intollerabile per quello che viene fatto agli altri animali. E’ stato più semplice e più immediato, perché – ora ne sono certa – non ho mai perso contatto con l’animale che dunque sono. E quell’animale, mai disprezzato, a volte stupito e confuso, non ha mai smesso di com-patire, di sentire e farsi attraversare dall’altr*.

Come si può ridere della sofferenza altrui? Come si può agire con crudeltà, come si può restare indifferenti? Cosa vedono gli occhi distaccati e freddi, quando altri occhi li fissano vitrei ma ancora mobili, ancora in cerca di un altro sguardo a cui aggrapparsi, perché questo è quello che qualunque vivente fa quando sta per morire?

Dove sta nascosta la tanto millantata umanità in quei momenti? E qual’è quel momento in cui, da splendidi bruchi pieni di stupore per la vita crescendo diventiamo farfalle orrende, velenose e assassine? Per quale motivo ci assoggettiamo ad una “realtà” cucitaci addosso con brutalità, invece di lottare, ribellarci e rivendicare la nostra libertà, il nostro desiderio, la nostra felicità? Un cavallo, un’orca, persino un esile merlo hanno più coraggio di noi, e tutti sono disposti a pagare, persino con la vita, quel bene che sanno supremo e non vogliono perdere.

Siamo i più addomesticati tra gli animali, più delle tanto vituperate pecore, delle galline tanto ingiustamente tacciate di stupidità. Siamo codardi e feroci e conformist*. A guardarci con onestà, a fissarci nudi, di fronte ad uno specchio, facciamo davvero paura.

Questo non voglio per me, e spero che nessun* lo desideri. Mi voglio strappare di dosso questa pelle non mia, questa pelle che han cercato di cucirmi addosso e che soffoca l’animale che è in me, in ognun* di noi, rendendolo noncurante e insensibile. Fa molto male, indubbiamente, ed espone ad un continuo e rinnovato dolore. Quella che resta è una pelle sensibile, porosa, che non riesce a proteggere, o almeno non del tutto, dal dolore che permea il mondo e di cui noi, così “umani”, siamo tanta parte. Parrebbe quasi un esercizio masochistico, non fosse che l’alternativa è ancora più agghiacciante, ed è non riconoscere l’altr*, non sentirne le gioie e i tormenti, e in questa distanza invisibile ma incolmabile perdere se stess*, diventare comparse inutili in un copione scritto da altr*.

“No! I am not Prince Hamlet, nor was meant to be;
Am an attendant lord, one that will do
To swell a progress, start a scene or two,
Advise the prince; no doubt, an easy tool,
Deferential, glad to be of use,
Politic, cautious, and meticulous;
Full of high sentence, but a bit obtuse;
At times, indeed, almost ridiculous—
Almost, at times, the Fool.”

E’ questo il motivo, e quasi riguarda più me di loro: perché non voglio perdermi, e voglio poter chiudere gli occhi ogni giorno con il cuore, se non altro, un pò meno pesante.

Ed è perché, assieme al dolore, si ricomincia ad essere attraversat* anche dalla felicità degli animali, che sono capace di soffrire per un camion di maiali.

Ps: Questo era il primo requiem.

Siate come i maiali

Riceviamo, e volentieri condividiamo, questo post di Sara Romagnoli. Buona lettura!

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In questi giorni, centinaia di allevatori si sono radunati in piazza, davanti a Montecitorio.

Lo hanno fatto con alcuni maiali, che inconsapevoli, insieme a loro, protestavano perché non riconosciuti come maiali italiani da forchette, coltelli e più in generale signori palati e compagne papille.

Chiusi in un recinto, sdraiati su giacigli di paglia nel vano tentativo di dormire, cuccioli di maiale si stringevano forte gli uni sugli altri, un unico roseo corpo. Tra gli esponenti della Coldiretti qualcuno li accarezzava – i cuccioli fan sempre un certo effetto, nonostante tutto – e nel fragore di clacson, fischietti, megafoni e microfoni giornalistici si sbraitava, si accusava, si denunciava e soprattutto si pretendeva di argomentare facendo uso di termini come “materia prima”, accomunando quegli stessi cuccioli alle spighe di mais i cui chicchi macinati al mulino diventano farina, ed in seguito filoni di pane.

Svolgendo quell’equazione matematica frutto di sociopatia per la quale i maiali stanno al Parmacotto come le conifere della Russia stanno all’Ikea, il teatrino svoltosi in piazza a Roma costringe l’antispecismo teorico ad inventare nuove teorie e ad affinare quelle già discusse, perché con la protesta di oggi (e a dire il vero con proteste simili già svoltesi anni addietro), ha chiamato in causa qualcosa di peggiore del fatidico “referente assente”, giacché il referente era presente eccome, in carne ed ossa – è proprio il caso di dirlo – al centro del dibattito, spalleggiato da parenti più o meno stretti sotto forma di cosce affumicate.

Nella recriminazione di una folla arrabbiata che rivendica diritti per se stessa, in quanto categoria lavoratrice, nessuno pare cogliere l’irrazionalità di un comportamento quasi bipolare che dispensa carezze al suo protetto ed al tempo stesso esige il rispetto ed il riconoscimento per la sua futura carriera di cotechino.

Inutile sottolineare in questa sede, quanto al danno si aggiunga la beffa per coloro che, volenti o nolenti, si ritrovano a contribuire ANCHE di tasca propria a questa forma di follia istituzionalizzata, giacché le sovvenzioni agli allevatori incarnano talmente bene lo spirito democratico del Paese che non fanno distinzioni ed attingono in egual misura da animalisti, vegetariani, vegani, antispecisti, che diciamolo chiaramente, spenderebbero più di buon grado quegli stessi soldi in cubetti di ghiaccio in Antartide.

E mentre nella capitale della politica italiana va in scena la mistificazione distillata della felice storia di tutte le Peppa Pig del mondo, nella capitale della Cina italiana (Prato), il palco è impegnato con la citazione delle tre scimmiette: Io non vedo, Io non parlo, Io non sento.

Complice la crisi, l’assenza di questi ulteriori referenti dagli occhi a mandorla è diventata man mano sempre più accentuata, ma si tratta di un accento che si limita a farsi (non)sentire solo sul piano nominale.

Che piccole mani orientali tessano, cuciano, incollino, taglino, sferruzzino e tanto altro ancora 24h su 24 è risaputo da tutti ormai, ma i cinesi ci rendono le cose molto più semplici: si rendono “assenti” senza che ci sia bisogno che qualcun altro lo faccia per loro; si fanno piccoli, più piccoli di quanto già non siano, e si calano talmente bene nell’occidentalissimo ruolo di “risorse umane” (quanto fa schifo questo termine? Diciamo anche questo suvvia), da diventare schiavi.

Schiavi che stipati, pigiati, pressati e sfruttati lavorano in silenzio per meno di 3€ l’ora senza lamentarsi, senza denunciare, senza quasi scomporsi. Limitandosi a tentare di salvarsi la vita quando proprio sono al limite e quando arriva il fuoco a lambire gli scatoloni ove a conti fatti dormono, mangiano e lavorano.

Le analisi di premesse e dinamiche che permettono che cose come queste avvengano sono complesse e meriterebbero interi saggi.

A quei cinesi qui possiamo solo limitarci a dire di essere come i maiali. I maiali da vivi, ben inteso.

Avete mai provato a forzare un maiale? A costringerlo a fare qualcosa che capisce esser male per lui, o anche semplicemente a fargli fare qualcosa che non vuole, che non gli piace?

Il maiale strepita, si dibatte, si agita, si impunta, si dispera, urla, piange. Il maiale si ribella.

E a dispetto dello specismo che lo prende a prestito per indurre la vergogna ed indicare perversione e lordura, il maiale è un animale nobile che sconta l’esser divenuto l’incarnazione del concetto di risorsa al massimo livello.

Perché del maiale non si butta via niente dice l’antico adagio.

Niente esclusa la vita. Aggiungiamo noi.

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