Quello della prostituzione è un argomento sempre vivo e sempre dibattuto sia nel web che sui media generalisti, anche se molto più (e meglio) nel primo che nei secondi. Ed è un bene che sia così, perché almeno significa che ancora in molti non lo considerano un fenomeno tranquillizzante, a cui fare l’abitudine. Rimane però il fatto che gran parte delle parole spese sul fenomeno della prostituzione sono del tutto inutili a fare qualche passo avanti verso una visione della prostituzione senza moralismi e luoghi comuni. Se c’è un argomento nel quale la retorica del “o con me o contro di me” fa male a tutti i partecipanti, è questo.
Lasciando stare vari* criptonazist*, fautori delle strade pulite e del decoro urbano, che ne scrivono non come qualcosa i cui attori sono esseri umani ma come una specie di malattia purulenta e fetente, da eliminare prima possibile dal corpo “sano” della società, rimane il fatto che gran parte del dibattito e delle discussioni accese dai commenti alle varie prese di posizione si polarizzano facilmente nella dualità “pro” e “contro” la prostituzione.
Io credo che dichiararsi pro o contro la prostituzione e basta non significhi assolutamente niente. Parole vuote, fuffa, aria fritta; innanzi tutto perché la parola “prostituzione” la si continua a usare tranquillamente come se il suo significato fosse unanimemente chiaro e accettato, e come se l’ordine di grandezza di questo fenomeno sociale fosse chiara a tutti. Basta prendere dei comuni esempi di ciò che normalmente viene chiamato prostituzione per capire che le cose non sono tanto facili.
Prostituzione si usa per indicare la vita di una ragazza nigeriana costretta a vivere sulla strada e a pagare un debito verso i suoi aguzzini, che in realtà è un inganno, perché l’hanno convinta che con il voodoo la sua famiglia d’origine andrà incontro a una brutta fine, se lei non paga. E loro non hanno alcuna intenzione di lasciarla esaurire il suo debito, mentre fa la bellissima vita della strada.
Prostituzione si usa per indicare una studentessa universitaria fuori sede che con la sua attività indipendente si paga la casa, la vita sociale e gli studi che vuole.
Prostituzione si usa per indicare un “ragazzo di vita”, che tanto piace a una stampa pruriginosa e a nostalgici intellettuali.
Prostituzione si usa per indicare l’attività economica sostanzialmente indispensabile a una persona in transizione per pagarsi burocrazia, medicine, esami, operazioni, dato che viene sistematicamente rifiutata da qualunque altro luogo di lavoro per il suo aspetto e le sue abitudini.
Prostituzione è anche quella minorile, è anche quella legata al turismo sessuale che parte da questo paese.
Casi ed esempi estremamente diversi, perché la parola “prostituzione” è troppo spesso usata solo come un facile contenitore per il proprio livore, o per indirizzare a un bersaglio facile un progetto politico, o per fare distinguo moralistici. Il fenomeno è sociale, e andrebbe affrontato a tutti i vari livelli nei quali si presenta: è facile capire che serve un’azione di supporto psicologico, di formazione delle forze dell’ordine, di contrasto all’economia sommersa legata alla prostituzione e alla tratta, di diffusione culturale di conoscenza del fenomeno, di organizzazione sociale per l’alto numero di persone coinvolte. Invece si leggono molto spesso volontà proibitive o legalizzanti come se la bacchetta magica del proibizionismo o della regolarizzazione potesse bastare in tutti i casi. E’ invece evidente che esprimersi a favore o contro una soluzione “univoca” serve solo a farsi facili amici, a raccogliere consensi poco pensati, e a non inquadrare il fenomeno della prostituzione nella sua vastità sociale e nelle sue ambiguità tanto fastidiose ai più – ma da affrontare lo stesso, anche se non piacciono.
Poi, rimanendo molti e diversi i fenomeni etichettati con quella parola, rimane da cercare una soluzione per la vita delle persone coinvolte. Sono d’accordo che ci sia da agire sulla “domanda” di prostituzione, sui clienti, sugli uomini che comandano, gestiscono e usano la prostituzione; che vendere e/o affittare il corpo sarebbe ovviamente una pratica da evitare/impedire se c’è sfruttamento, e che quindi c’è da lavorare sul concetto di autodeterminazione; però i cambiamenti culturali non hanno quasi mai i tempi giusti per agire sulle emergenze sociali. Vorrei leggere proposte su come salvare la ragazza nigeriana prima che intraprenda odissee sola in un paese straniero e venga braccata da chi la vuole morta; su come, e soprattutto perché, convincere la studentessa indipendente a rinunciare a una facile “bella vita” come la vuole lei; su come agire nella prostituzione maschile gay; su quali soluzioni alternative proporre a chi vede nella prostituzione l’unica possibilità di guadagnare i soldi necessari a diventare quello che si è – o semplicemente a pagare le bollette; su come bloccare l’adulto che compra il sesso di un bambino sfruttando la sua superiorità di classe economica, il suo potere. Sarebbe molto meglio che leggere bordate di critiche tra sostenitori e denigratori della regolarizzazione, tutti intenti a dimostrare il torto altrui senza raccontare con quale criterio sviluppare la propria soluzione al problema sociale, senza raccontare una soluzione articolata per tutto il problema “prostituzione”, senza l’umiltà e la lucidità di dire che stanno forse solo parlando di una piccola parte delle cose in gioco.
Io una soluzione non ce l’ho, so solo che non è possibile che ne basti una. Quindi cerco di capire meglio come stanno le cose, prima di sparare a zero sulle idee altrui. Magari, imparando a parlarne decentemente, cominceremo a fare qualcosa di utile per le persone che di questo fenomeno fanno la loro vita, più o meno volontariamente. Perché nel frattempo abbiamo i media generalisti come vampiri strombazzanti sui fatti di cronaca di cui non gl’importa sapere, in realtà, nulla di più di quello che basta ad alimentare le loro retoriche pruriginose. E allora dàje col concitismo dilagante, tutto tette che crescono, papà assenti e giocattoli abbandonati precocemente; dàje con la versione progressista a tutti i costi, che vede comunque una storia “ricca di sbalzi in avanti (il modo in cui le ragazze vivono se stesse)”; dàje con la filosofa che dice che manca tanto l’amore.
Luoghi, momenti e persone da ascoltare ce ne sono – ecco un esempio. Le associazioni ci sono, le esperienze da diffondere e imparare pure. Invece si preferisce giocare ai proibizionisti contro gli autodeterministi (nuova versione di guardie e ladri), si preferisce riempire di moralismo d’accatto ogni stream grande e piccolo; pur di non fare analisi serie, pur di non parlare di uomini, di clienti, dei padri che sono clienti e pure “gestori” del fenomeno, si arriva a credere a nuove forme di innatismo, senza distinguere tra colpa e responsabilità, senza distinguere tra morale ed etica.
Lavorare seriamente su questi argomenti costa personalmente molto: bisogna prima cosa, come sempre quando si parla di sessismo a vario titolo, guardarsi ben bene dentro ed essere disposti a riconoscere il proprio moralismo, i propri pregiudizi, i propri limiti. E dialogare onestamente con quelli, attraverso quelli, oltre quelli. Il personale è politico, ma agli imbrattacarte e ai guardiani della morale non gli andrà mai di accettare questo dialogo – prima di tutto con se stessi.