Deconstructing MicroMega #0

rembrandt-self-1-copertina1630-890x395Questa che segue è la presentazione del numero 5 2014 di MicroMega, dedicato a Il corpo della donna tra libertà e sfruttamento. E’ passato un po’ di tempo, è vero, ma dovevamo pur leggerlo: e noi non siamo grandi intellettuali o lettori raffinati come in media ha MicroMega, quindi c’abbiamo messo parecchio a leggere e a renderci conto di cosa avevamo letto. Nei prossimi giorni faremo seguire degli appunti su ciascun articolo, ma è il caso di fermarsi anche su questa presentazione, tanto per dire qualcosa su quello che c’è in questo numero. E, soprattutto, su quello che non c’è.

Da giovedì 24 luglio in edicola e su iPad il nuovo numero di MicroMega, un monografico dedicato al “corpo della donna tra libertà e sfruttamento”. Ad aprire due dialoghi: nel primo uno dei più famosi attori porno italiani, Rocco Siffredi, e la regista Roberta Torre discutono della possibilità di un porno “al femminile” [ma avvertiamo solo noi, oltre l’impreparazione culturale dei due interlocutori, un loro vago “conflitto d’interessi”?]; nel secondo, la pornostar Valentina Nappi e la giornalista Maria Latella affrontano temi come la prostituzione, la mercificazione del corpo femminile, il rapporto tra giovani e sesso [anche in questo caso ci sfugge la correlazione tra interlocutori e argomenti: non era disponibile qualcuno delle associazioni che si occupano di prostituzione, di tratta? Qualche sociologo o studioso di questioni di genere? Un formatore, un educatore esperto di questioni sessuali? No perché, con lo stesso criterio, appena MicroMega si decide per un numero sulla fisica quantistica, noi ci candidiamo].

Un’intera sezione è dedicata alla pornografia [oh quale audacia: i signori perdono il monocolo, le signore svengono. Presto, i sali!]. La rappresentazione esplicita dell’atto sessuale continua a essere un tabù. Su queste ambiguità – e su queste ipocrisie – [quali? Ne è stata nominata a stento una] ha giocato Lars von Trier con il suo Nymphomaniac, che rappresenta l’ultimo tassello di un rapporto complicato e ambivalente del cinema con la rappresentazione del sesso, come riportato da Fabrizio Tassi. Un rapporto ambivalente perché spesso fondato su una netta separazione tra il sesso in film ‘normali’, se non addirittura d’autore, che si possono permettere solo di alludere e ammiccare [se non ricordo male – due esempi vecchi eh, tanto per dire – nè Pasolini nè Oshima ammiccavano affatto: sono registi di porno commerciale? Forse il problema è un altro, non quello che si vede e quello che no], e i film porno veri e propri, un genere a sé, la cui storia – raccontata da Pietro Adamo – è andata di pari passo con i cambiamenti tecnologici, dalle riviste a internet, passando per cinema e videocassette. Un fenomeno molto controverso, su cui intellettuali, filosofi e, soprattutto, femministe [toh, finalmente, eccole], si sono sempre divisi: il porno è uno strumento di oppressione delle donne, o un elemento di contestazione della moralità conservatrice e quindi di potenziale liberazione per le donne stesse? [Solo due ipotesi possibili? Tutto qui, MicroMega? Mentre del porno “al femminile” abbiamo fatto parlare Siffredi. Complimenti] Matthieu Lahure ricostruisce i termini della controversia.

In un iceberg su “corpo e tabù” Gloria Origgi ci ricorda che la nostra intera vita si può leggere sul proprio corpo. Un corpo che, per le donne soprattutto, ha spesso rappresentato una condanna ai ruoli stereotipati di madre o prostituta [meno male che ce lo ricorda lei, oggi non se ne parla più, vero?]. Ma persino quello che sembra l’istinto più naturale per una donna – quello materno – naturale non è affatto, come sostiene nel suo contributo Élisabeth Badinter [si sono sbagliati, il pezzo di Badinter sembra l’unico appropriato di tutto il numero. Gli è sfuggito, è evidente]. Mentre Giulia Sissa traccia la parabola dei movimenti femminili, che oggi rivendicano con orgoglio il corpo erotico come strumento di lotta [ma quindi tutti i movimenti, o solo questi ultimi?]. Eppure i tabù sono duri a morire [aridàje: quali tabù?], come dimostrano le straordinariamente variegate politiche di gestione della prostituzione descritte da Giulia Garofalo Geymonat [che lavora in Svezia: vogliamo parlare del tabù degli studi di genere in Italia? Dite che c’entra qualcosa? Ma no] e l’ostilità verso la figura dell’assistente sessuale per i disabili, tratteggiata da Alessandro Capriccioli [un giornalista, non un operatore del settore. Ma il tabù è chiamare le persone competenti?]. A chiudere la sezione un inedito dell’illustre oncologo Umberto Veronesi dal titolo “Il corpo delle donne dalla mortificazione all’emancipazione” [tema caro a ogni illustre oncologo, come certamente sapete; però, considerando che Siffredi lo sinvita a convegni medici e dice la sua sul cancro alla prostata, tutto quadra perfettamente].

Ma è compatibile la religione con l’emancipazione delle donne? [«Estiqaatsi», direbbe un grande capo indiano, ma qui siamo su MicroMega, quindi ci occupiamo di tutto il risibile con grande qualità] Carlo Augusto Viano delinea la storia del posto che le donne hanno occupato nella religione cristiana, dalle origini fino a papa Bergoglio: una presenza costante, ma sempre un gradino sotto all’uomo e non pare proprio che su questo fronte Francesco stia portando novità rilevanti [eh, meno male che ce lo dice MicroMega]. Il sacrificio del figlio e il ripudio della donna sono, secondo il giudizio di Rachid Boutayeb, due elementi essenziali di tutte le religioni monoteistiche, e dell’islam in particolare [altra novità sconcertante. Io me n’ero accorto perché le religioni monoteistiche con a capo una divinità femminile sono pochine, ma che volete che ne sappia io, mica scrivo su MicroMega].

Infine un saggio di Siri Hustvedt analizza l’idea di femminilità che pervade le tele di Picasso, Beckmann e de Kooning [prima di invocare ancora Estiqaatsi, una domanda: artiste di cui parlare non ce n’erano, vero?].

Quello che manca è una lunga lista di argomenti dal nostro punto di vista importantissimi quando si tratta del corpo delle donne. Dagli ambiti che concernono l’autodeterminazione come il diritto di scegliere la maternità o di rifiutarla, oppure al diritto alla vita che viene messo in pericolo dalla violenza domestica maschile e da quello che è a volte (troppe) l’esito di questa violenza, il femminicidio. Oppure ancora si potrebbe parlare di quello che attualmente è il dibattito sull’importanza di un’educazione a sentire il corpo, fin da piccoli, con il tocco materno, su quanto questo condizioni il nostro essere propensi alla dominanza o alla partnership. Per non parlare delle discriminazioni che il corpo delle donne subisce in quanto appartenente alle donne, fin dalle scuole materne con giochi, libri e atteggiamenti dei “grandi” tesi a far sedimentare stereotipi di genere fin dalla tenera età. Fino al terribile tema che vede il corpo di 60 milioni di bambine nel mondo essere oggetto di pedofilia da parte di “mariti” promessi che fanno buoni affari, a scapito spesso della vita di queste piccole, anche dopo la prima notte di nozze. E sono i primi esempi che ci vengono in mente.

Si potrebbe obiettare che queste discriminazioni, queste limitazioni, queste violenze e queste uccisioni coinvolgono anche il corpo maschile. A parte che non tutte queste ingiustizie sociali sono vissute dai corpi dei maschi, infinite storie e finanche infinite (ahinoi sempre poche) statistiche ci parlano di quello che invece viene agito dai corpi maschili nella stragrande maggioranza dei casi, e che solo per una minoranza di uomini possono definirsi delle circostanze in cui quelle vengono subite.

Si potrebbe anche obiettare che questi argomenti sono assenti, seppure importanti, ma che molti altri vengono invece sviscerati dalle molte testimonianze presenti nel testo. Però a questo proposito invece c’è una povertà da registrare già in partenza e dichiarata apertamente nel sommario: «un’intera sezione è dedicata alla pornografia». Contando anche le pagine iniziali in cui si interroga Siffredi e Nappi su sesso, pornografia e quant’altro, le pagine dedicate al porno – e dedicate in quel modo, di cui parleremo – sono 84 su 200. Troviamo che questo sia di un’aridità sconcertante. Anche perchè sono seguite a ruota da [numero] pagine sul sesso e [numero] pagine sulla prostituzione. Poi segue la religione, un articolo affidato a Umberto Veronesi di argomento indefinibile, e l’arte.

Non ho citato l’articolo di Giulia Sissa: è l’unico articolo che si interroga sui movimenti (udite udite!) “femminili” sul corpo della donna, ma anche qua, come vedremo, solo riguardo alle “pruderie” delle donne e non sulle conquiste importantissime che il movimento femminista in Italia e nel mondo ha compiuto.

Insomma: MicroMega fa un numero su Il corpo delle donne tra libertà e sfruttamento e le femministe, i diversi femminismi, non ci sono. Non ci sono negli argomenti, non ci sono tra i nomi degli autori. Femministe? Mai esistite. Ah, no, veramente no, saremmo ingiusti. Se ne parla sì, a proposito delle diverse prese di posizione sul porno. Complimenti a MicroMega per la considerazione e il respiro culturale dato a questo suo numero.
Stay tuned – ne parleremo ancora.

Sara Pollice & Lorenzo Gasparrini

Deconstructing Domani è un altro porno

 

Annie_Sprinkle_Neo_Sacred_ProstituteNon voglio deludere le/gli aficionad*s dei deconstructing di Lorenzo Gasparrini, di cui non mi illudo di raggiungere il livello… ma nei giorni scorsi ho letto un post sul blog di Femminile Plurale (nomen omen?) al quale non potevo rispondere che così. Buona lettura!

Domani è un altro porno

Ovvero: la dolce illusione borghese di porsi fuori della norma [Borghese? Da dove nasce questa presupposizione di appartenenza, e ancor di più, il senso dispregiativo con cui è utilizzata?] 

Questo post nasce come risposta ad una mail in cui ci veniva presentato il libro Pornoterrorismo di Diana Pornoterrorista.

Ogni iniziativa che si propone di rendere “la sessualità e il corpo come territori da decolonizzare dalla repressione patriarcale, ecclesiastica e capitalistica” suscita in noi interesse [Ottimi propositi, ma riusciranno ad essere messi in pratica? Stiamo a vedere].

Tuttavia le nostre perplessità sorgono nel momento in cui dalla problematizzazione iniziale, dalla posizione di alcune questioni che anche noi riteniamo urgenti, si passa poi al piano delle possibili soluzioni. [Soluzioni? Non mi pare Diana parli di soluzioni, al massimo  fa delle proposte. Liber* di condividerle o meno… le “soluzioni” appartengono ad un altro filone di pensiero, quello che definirei vagamente autoritario]. Lo scritto di Diana Pornoterrorista si inscrive all’interno di quel filone che si autodefinisce come femminismo pro-sex [Esatto, si autodefinisce, a pieno titolo perché non esiste, allo stato dell’arte, un patentino femminista… o sì?]. Di esso noi mettiamo in discussione non solo il presupposto fondante ma anche le conseguenze [Liberissime di non riconoscervi in questa proposta, ma forse un po’ meno di bocciarla come se si trattasse del Male incarnato. Pare che esistano molteplici femminismi…pare, perché esistono soggett* che invece non sono così possibilist* in merito a ciò che può definirsi femminismo e cosa no…ma andiamo avanti].

Il femminismo pro-sex si fonda sulla nozione superficiale [Per chi? E’ la commissione della genuinità del femminismo che ne ha decretato la fallacia?] e postmoderna secondo cui l’ uso consapevole del proprio corpo come merce/prodotto/oggetto di scambio sia espressione di libertà [Grazie per il tentativo di sintesi, fallito. Il femminismo pro-sex ha una visione un po’ più complessa di così – forse la complessità sfugge a chi guarda le cose solo dall’esterno senza mai cercare un incontro con chi è protagonista del movimento o semplicemente la pensa diversamente da sé.  Dunque, tra le altre cose, il femminismo pro-sex problematizza il tabù riservato all’uso consapevole della propria sessualità, anche – e non SOLO – come oggetto di scambio economico; e questo considerato il fatto evidente a chiunque, che tutte le altre nostre parti corporee, e anzi potremmo spingerci a dire tutte le nostre esistenze, divengono, nel sistema capitalistico, possibili merci di scambio; e che, date le condizioni attuali d’esistenza, per alcune persone l’utilizzo della propria sessualità come mezzo di sussistenza fa parte di una scelta autodeterminata e consapevole – il fatto che non sia sempre così non cancella la realtà di quest’affermazione]. In questo prospettiva per una donna è possibile accettare consapevolmente e volontariamente la prostituzione [Accettare? Scegliere!]. In egual modo il porno, come vendita di immagini a sfondo sessuale, appare come strumento che minerebbe le logiche del mercato e del capitale [Il postporno mette al centro lo sguardo e i desideri delle donne e delle soggettività non conformi:  questo è sicuramente rivoluzionario, e per il momento non entra in logiche di mercato mainstream – avete sentito vero del crowdfunding messo in piedi per il tour…non esattamente un prodotto appetibile dal vorace mercato capitalista, a quanto pare! Non si capisce inoltre perché l’unico campo di lotta anticapitalista da cui bisogna continuamente partire debba essere quello del lavoro sessuale – di fatto impedendo ad alcun* soggett*, a partire da un sentire personale nei confronti di certi aspetti della propria corporeità che non è universalmente percepito in maniera problematica, di autodeterminare la propria scelta in merito a quale parte del proprio corpo mettere a servizio di un sistema, al quale siamo asservit* tutt*, per sopravvivere. Il sistema va certamente messo in crisi, ma l’abolizionismo vede il mostro capitalista solo quando vuole impedire il lavoro sessuale, non certo nella comune, e per ora necessaria pratica, di vendere le proprie prestazioni ad altr*. Quando, anche grazie al vostro impegno profuso a piene mani, le persone avranno un reddito di esistenza che le svincoli dalla necessità di lavorare per vivere, allora sì che tutto il sistema di sfruttamento sarà rimesso in discussione; fino ad allora ad ognun* deve essere possibile fare scelte consapevoli per sé stess*, senza scelte calate dall’alto]. L’autosfruttamento sembrerebbe essere sintomo di autonomia, segno inequivocabile di libertà [L’autosfruttamento è tale per tutt* coloro che devono lavorare per vivere, e non solo per chi lavora in campo sessuale. E le badanti? E le cameriere? E i netturbini? E i contadini? E i minatori? E chi lavora in catena di montaggio? Ah, ma il loro sfruttamento si può sopportare! E in ogni caso, anche l’impiegato ‘sceglie’ obbligatoriamente di farsi sfruttare per sopravvivere, oppure muore di fame!]. All’essere sfruttati dagli altri si oppone lo sfruttarsi da sé, ponendo questa come azione anti-capitalista [Essere consapevoli di essere, volenti o nolenti, inserit* in un sistema di sfruttamento, e poter solo scegliere come e non sé essere sfruttat* a me pare di una lucidità disarmante, altro che autosfruttamento!]. Tale posizione è, al contrario, profondamente capitalista, diremmo il suo compimento finale [“Direste così” perché avete dei tabù nei confronti della sessualità; se non li aveste, o li metteste in discussione, vedreste il lavoro sessuale per quello che è: un lavoro come tanti, e tutti i lavori odierni sono inseriti in un sistema capitalista. Non si vede il motivo per il quale il lavoro sessuale sarebbe un ‘compimento finale’ rispetto a quelli citati precedentemente, che logorano e uccidono migliaia di persone ogni anno]. Essa è alla base della società consumistica in cui viviamo e del sistema economico in cui ci troviamo dove, grazie alla possibilità di disporre del proprio corpo come meglio si desidera, alcuni esseri umani in posizione di evidente svantaggio economico, di genere, sociale, etnico e geografico divengono merci ad uso e consumo di altri [Non è alla base, ma si inserisce in un sistema: o lo si mette tutto in discussione, o si evita di fare moralismi inutili]. Eterosfruttamento ed autosfruttamento appartengono allo stesso paradigma capitalistico. Per superarlo bisogna perciò guardare altrove [Sicuramente, ma in ogni direzione, non con l’ossessione monotematica di alcun* abolizionist*].

Abbiamo letto e discusso con attenzione tra di noi l’intervista a Diana Pornoterrorista e rileviamo uno slittamento tra lo scopo assolutamente legittimo di liberare i corpi dall’oppressione patriarcale, ecclesiastica e capitalista e le pratiche messe in atto per raggiungerlo. Rileviamo cioè un’evidente contraddizione tra ciò che si vuole ottenere e il metodo per ottenerlo, il quale, ci pare evidente,  genera risultati contrari a quelli desiderati [Leggere un’intervista ‘tra di voi’ non significa confrontarsi con chi si va a criticare, conoscerne in toto il pensiero, il modus operandi, la politica. Per fare questo bisogna affrontare ciò che non si conosce o non si comprende, più e più volte, scontrarsi casomai, ma in un’ottica dialogica, non monologante, altrimenti non esiste contraddittorio e perciò nemmeno crescita].

Come ogni paradigma anche quello eteronormativo si costruisce su alcune polarità che ne fissano i concetti e il senso. Muoversi all’interno di esse, non vuol dire non superarle ma, al contrario, affermarle [Dire che Diana si muove in un paradigma eteronormativo vuol dire avere una grande confusione in testa di lei, della sua politica e del suo lavoro… ovvero parlare senza conoscere, cosa che andrebbe evitata].

Tra queste polarità una centralità essenziale è quella tra il corpo e la mente/anima. Affermare la priorità dell’anima/mente è stare dentro al paradigma. Così come affermare, come fanno le pornoterroriste, l’assoluta centralità del corpo [Diana sicuramente non ha paura di usare il corpo  – anche a fini politici – ma nel contempo declama poesie e legge testi! Direi che c’è ampio spazio sia per la mente che per il corpo!]. E’ starci dentro, semplicemente rovesciandolo [Non è semplice per niente, e decostruire/riappropriarsi non è rovesciare]. Non si esce così dal paradigma, non lo si supera [Invece con la dicotomia donne perbene/donne permale lo si supera?]. Allo stesso modo, affermare la necessità della «riappropriazione del fallo», non mette in discussione l’assoluta centralità che esso riveste come simbolo fondante della cultura patriarcale [Quando si parla di fissazione fallica… a parte che un fallo finto, separato dal corpo, un fallo che diventa strumento, un fallo che esiste senza un uomo, un fallo che può essere… un vegetale, ne depotenzia l’immagine dominante, la ridicolizza, la neutralizza. In ogni caso è solo una parte di un discorso, non la sua totalità]. Non è cioè rifiutare la cultura patriarcale ma riaffermarla, perché il significato del simbolo è talmente forte e consolidato culturalmente che quello che passa in questa operazione non è il nuovo significato sovversivo, ma il simbolo in quanto tale (Questo discorso vale anche per altre parole — “puttana”, “cagna” — il cui significato e in cui la dimensione del simbolo sono così forti che una riappropriazione, lungi dall’ottenere l’effetto sovversivo sperato, rinforza il significato negativo e patriarcale di partenza. L’operazione di riappropriazione e rovesciamento non è evidente e non è efficace). [Questo continuerà a succedere fino a quando ci saranno tante donne aggrappate al loro status di donna perbene. L’uso che fanno della parola ‘puttana’ le sex worker lasciamolo decidere a loro che non sono minus habens – anche se alcun* soggett* parlano costantemente ‘su’ di loro, senza mai parlare ‘con’ loro].

Se da un lato ci troviamo in sintonia con la volontà di combattere la violenza contro quello che è fuori dalla norma, dall’altro lato ci rendiamo conto che Diana pone, a sua volta, una norma ben precisa, che emerge nel mondo in cui vengono stigmatizzate le donne che non si adeguano ad essa. Se non si scopa con il culo o non si apprezza il sado allora si è delle represse o addirittura delle bacchettone moraliste [Ma dove? Quando? Non mi pare che le performance di Diana siano obbligatorie o che si sia costrett* a portarsi il tubetto di vaselina appresso! O ad abbracciare le sue idee. Quello che vedo io qui, e che accade spesso, è che chi ha un approccio sanzionatorio – leggasi, le abolizioniste – immaginano le altrui proposte con lo stesso piglio legiferante che è l’unico che sanno immaginare loro. Direi che essere pro-postpornografia apre delle possibilità a chi le desidera, essere anti significa invece toglierle anche a chi vorrebbe averle – da parte di chi reputa di sapere dove stia il giusto e lo sbagliato per sé e per le/gli altr*. Se non è cattonazismo questo! E vale pure per chi si professa laic*! Ah, peraltro: poco prima si critica l’uso non convenzionale del simbolo fallico colpevole di non decostruire l’immaginario del potere, se usi il culo sei discriminatori* verso chi non lo fa… l’asessualità potrebbe rivelarsi a vostro giudizio  un’opzione abbastanza neutra?!]. Anche questa è esclusione. Anche questo è imporre una norma. Non solo, si impone così la stessa norma che si vorrebbe combattere. Cosa c’è di sovversivo in questo? Qui ritroviamo un’altra polarità tipica del paradigma eteronormativo, quella che ruota attorno ai due poli ‘santa’ e ‘puttana’. Focalizzarsi sull’uno opponendosi all’altro è stare dentro alla logica eteronormativa e non superarla. [Il bue diede del cornuto all’asino, ovvero essere abolizioniste è ok e non fa parte della logica eteronormativa, anche se dice ad alcune persone come devono vivere la propria esistenza; il postporno invece,  per come è descritto in queste ultime righe, appare come una milizia che obbliga a fisting anali…forse avete preso troppo alla lettera la parola terrorismo! Rassicuratevi, il tour di Diana non è lo sbarco dei mille dildo!]

Il porno appartiene in pieno all’etica eteronormativa, ne è una diretta discendenza, qualunque significato vogliamo dargli, di qualunque immagine vogliamo riempirlo. Il porno è in se’ mercato, ovvero capitalismo che si incarna nella sessualità e la sfrutta. Quello che esprimiamo non è un giudizio morale su di esso, ma una valutazione politica sulla sua funzione ‘economica’. [E’ invece un giudizio tutto morale, dal momento che non combattete con uguale fervore tutte le altre logiche di sfruttamento che sottendono al lavoro salariato, precario, ecc.ecc. E credo non abbiate mai visto postporno per dire che appartiene all’etica eteronormativa!]

E ancora: cosa c’è di sovversivo e terrorista nel proporre come modalità di “liberazione” il dolore al posto del piacere (sic) quando esso è esattamente ciò che viene già assegnato alle donne nella pornografia mainstream? [Il dolore che piacere – non al posto di – e perciò scelto consapevolmente non  è, e non può essere paragonato, al dolore inflitto contro la volontà di chi lo subisce]. Cosa c’è di liberatorio nel proclamare ancora una volta la necessità di relazioni basate sul dominio quando è esattamente questo che il patriarcato vuole per noi? [Il fatto che non si capisca o condivida come e perché le pratiche BDSM – che sono comunque performative più di quanto siano relazioni basate su una realtà di dominio, e c’è una bella differenza! –  possano essere fonte di piacere per alcun* non può diventare motivo valido per negare la realtà: per alcune persone è così, e pare siano tante, a giudicare dai siti/forum/luoghi dedicati a tali pratiche; ancora, nessuno vi costringe a pratiche non consensuali: di quello che di sé stess* scelgono di fare le/gli altr*, che ve ne importa?]. In molte parti del mondo le donne subiscono mutilazioni, violenze, matrimoni forzati, stupri. È preoccupante proporre il dolore come via di liberazione quando per la maggior parte delle donne nel mondo il dolore è la regola e non conduce di certo alla liberazione [Cosa c’entrano le pratiche citate? Suggerire di scoprire nuove possibili vie di piacere – scelte, consapevoli – non implica incitare allo stupro, trovo persino offensivo questa equazione!]

Quella che noi vorremmo è una sessualità libera e non l’imposizione di modelli di comportamento, qualunque siano questi modelli [E negando a Diana  – e a chi ne condivide il pensiero – la possibilità di vivere come desidera la propria sessualità, che chiaramente non corrisponde ai vostri modelli, fate esattamente l’opposto]. Vorremmo un paradigma dove ciascuno sia libero di esplorare la propria sessualità e scoprirne i lati nascosti, senza che ci sia nessuno che giudica quali siano quelli normali e quali anormali, quali morali e quali immorali [Ma se avete appena detto che il dolore non può essere piacevole! Migliaia o forse persino milioni di persone direbbero il contrario, ma chiaramente voi ne negate le capacità di giudizio e di scelta, o l* definite superficiali… se questa non è sovradeterminazione!]. Ma se la sessualità diventa sfruttamento economico dei corpi, allora non possiamo che dirci contrarie [Insomma, puoi sfruttare tutto di te, testa, mani, corpo, puoi farti venire il cancro, l’asbestosi, il tunnel carpale, ma la vagina – o la fica, secondo i gusti – non si tocca!]. E ciò non ha a che fare con la morale ma ha a che fare con il modello economico che ciò porta con sé. Esso è, per noi, l’esatto contrario della libertà [Ecco, quando farete un discorso realmente anticapitalista, ne riparliamo. Fino ad allora, prendersela con le sex worker, le/i performer postporno etc. è proprio quello che sembra: moralismo. Fatevene una ragione].

 

Perché ci piace il postporno

SprinkleGoddessPerchè ci piace il postporno?
Di Lafra

“C’è vita al di là del mondo normalizzato”
Beatriz Preciado

Nella storia della lotta delle donne per la liberazione sessuale alcune problematiche hanno sempre provocato difficoltà di analisi e grandi imbarazzi. Tra queste la più controversa è indubbiamente quella sulla pornografia.

L’industria pornografica contemporanea, caratterizzata da una produzione seriale e una distribuzione su larga scala, nasce negli anni ’50 negli Stati Uniti. Nel 1953 Hugh Hefner lancia una rivista nuova, dedicata agli uomini. Nel primo numero di questa rivista compare la foto a colori di una giovane donna seminuda destinata a diventare una diva erotica del XX secolo. La ragazza è Marilyn Monroe, la rivista Playboy.

In piena guerra fredda Playboy, trasformandosi nella rivista maggiormente distribuita negli Stati Uniti (alla fine degli anni ’60 era arrivata ad avere un pubblico maschile di più di sei milioni di lettori), apportò un contributo eccezionale al cambiamento del panorama culturale e dell’immaginario sessuale maschile. Nascono con Playboy nuovi miti erotici: la ragazza della porta accanto, la coniglietta, la cameriera, la segretaria… Lo sguardo dell’uomo si insinua in una artificiosa intimità per spiare le vite surreali di donne giovanissime, chirurgicamente rimodellate e apparentemente prive di una ricerca del piacere non funzionale a quello maschile. I corpi nudi che vengono mostrati sono frutto di una ricercata architettura di genere, i canoni estetici rappresentano l’esasperazione di ciò che è considerato “femminile”: il risultato è un paradosso. Il mondo dell’immaginario pornografico è popolato di superfemmine che svolgono azioni quotidiane, come passare l’aspirapolvere o battere a macchina, e che con espressione di sorpresa e accondiscendenza soddisfano le voglie del maschio di turno.

E’ proprio questo immaginario sessuale, che ha popolato le fantasie degli uomini per decenni, ad aver contribuito alla costruzione di un modello sociale fortemente eteronormativo, ossia di imposizione della eterosessualità come norma, dove la divisione tra il maschile e il femminile era stabilita e rappresentata da corpi esasperatamente sessualizzati e da ruoli ben definiti.

Inoltre, la pornografia era, e prevalentemente rimane, un prodotto di uomini per gli uomini. La ricerca del piacere, che non sia quella del maschio, non è immaginata, tagliata fuori da ogni narrazione e rappresentazione. Sebbene l’industria pornografica si sia con gli anni allargata, cercando di aprirsi a nuovi mercati, come al pubblico omosessuale, il punto di vista che prevale è sempre quello dell’uomo. E con uomo intendo quello che è stato definito il grado zero di normalità nella società eteropatriarcale capitalista: il maschio bianco occidentale eterosessuale di classe media. Con queste premesse è comprensibile la critica mossa da molte femministe all’industria pornografica, accusata quindi di commercializzare i corpi delle donne, svilirne la sessualità e creare stereotipi e modelli lontani dalle persone reali con ripercussioni violente sulle loro vite. Meno comprensibili sono alcune scelte politiche di alcuni gruppi femministi che, soprattutto negli Stati Uniti degli anni ’80, hanno mosso una guerra alla pornografia in quanto tale.

L’oscenità della pornografia sta nel collocare al centro ciò che è considerato intimo e privato. La sessualità è infatti considerata un fatto personale. L’industria pornografica rompe questo tabù, non con l’intento di liberare la sessualità degli individui ma imponendogli un modello e arruolando un esercito di maschi addestrati a “marciare a tempo”. Il meccanismo funziona così bene che non è un caso che televisione e pubblicità ci bombardino di corpi e ammiccamenti a sfondo sessuale. L’allusione viene recepita perfettamente da sensibilità sovrastimolate e sovraeccitate. In questo panorama a dir poco inquietante, nascono nuovi progetti e nuove forme di lotta. Se la sessualità è un fatto personale allora, come ha teorizzato Kate Millet, è anche una questione politica. E altrettanto è la sua rappresentazione. Dal rifiuto alla pornografia mosso dal femminismo degli anni ’70-’80, si stanno aprendo nuovi orizzonti nella lotta alla normalizzazione sessuale agita dall’industria pornografica. Nasce il postporno nelle sue molteplici forme e pratiche. Tra le anticipatrici di questo movimento c’è indubbiamente Annie Sprinkle, che da attrice porno diventa regista e performer, con l’intento di smascherare il maschilismo della pornografia fino ad allora realizzata. A lei si deve l’inizio del Do it Yourself postporno. Iniziano a circolare lavori realizzati da donne per un pubblico femminile, si girano i primi “porno per donne”, e i video porno femministi come la più attuale raccolta di cortometraggi Dirty Diaries della svedese Mia Engberg o i film della regista Erika Lust. Progetti ancora legati al circuito commerciale ma che inseriscono comunque elementi di rottura all’interno dell’industria pornografica. Nascono laboratori di postporno creati da gruppi e collettivi queer o femministi, completamente autogestiti, dove alla riflessione teorica si affianca la pratica di produzione e sperimentazione di nuove forme di desiderio.

Il postporno non vuole togliere la rappresentazione della sessualità dalla scena pubblica, quindi dal piano politico, ma vuole intervenire per sovvertire e dare voce all’immaginario di tutti quei soggetti esclusi, marginalizzati, umiliati dalla pornografia maschilista funzionale al mercato e alla riproduzione della divisione binaria dei generi. Il postporno si rivolge alle persone e le sprona a smettere di subire i modelli sessuali imposti e diventare le proprie personali pornostar. La sua azione non è semplicemente dare voce (e gemiti) a chi non si considera il pubblico della pornografia mainstream, ma quella di inventare nuove forme condivise, collettive, visibili, aperte. Il postporno è il copyleft della sessualità che supera le barriere imposte dalla rappresentazione pornografica dominante e il consumo sessuale normalizzato. Il suo obiettivo è modificare la sensibilità e la produzione ormonale attraverso un movimento politico che costruisca in maniera liberata e partecipata ciò che è considerato privato e vergognoso. Perché ci piace? Perché scardina le dinamiche di genere, è insubordinazione, divertimento e desiderio. È la nostra rivoluzione sessuale.

Per approfondimenti puoi cliccare qui.