La miseria del sovversivismo

 

Fonte dell'immagine:  http://bit.ly/1Bspv1F
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Si creano spesso polemiche su quali scelte siano rivoluzionarie, o quantomeno le più sovversive da farsi, e viceversa. Credo che questo dibattito non abbia niente di politicamente produttivo e abbia tutto di alienante per ogni parte coinvolta. La “sovversività” di qualcosa dipende dal contesto in cui quel qualcosa viene agito – e perciò si può attribuire ad un azione o un discorso un carattere sovversivo soltanto in una contigenza ben precisa, poiché questi sono un prodotto storico e culturale di determinante circostanze; queste stesse circostanze ne determinano il significato e, ne consegue, l’eventuale divergenza dallo stato di cose presenti e dall’egemonia culturale attuale.

Adottare uno sguardo intersezionale mette in luce l’inconsistenza di questa idea, dal momento che ne smaschera la pretesa di universalità. Come si può dire ad esempio cosa è sovversivo per una donna fare se già soltanto tenendo in considerazione la diversità tra donne bianche e quelle che non lo sono l’esperienza cambia profondamente e con lei anche l’ipotetico da farsi rivoluzionario? Per le bianche è stato sovversivo uscire dalle mura di casa e farsi strada nel sociale, nel pubblico; per le non bianche si può dire altrettanto, quando la schiavitù coloniale andava a colpirle proprio recidendo ogni tipo di legame familiare?

L’idea di una scelta sovversiva mi richiama alla mente, nella sua ingenua socialdemocraticità, un’altra idea, che è anche una pratica: quella del consumismo etico. Entrambe postulano prima di ogni cosa che sia possibile scegliere e che dal momento che è possibile scegliere, la scelta da fare è quella che viene posizionata come eticamente (e quindi politicamente) auspicabile.  Ci sono buoni motivi per dubitare che questa possibilità di scelta esista e ce ne sono altrettanti per sconfessare l’imprescindibilità di certe scelte, e cito quella che mi sembra più significativa: il rischio ahimè piuttosto concreto di una critica che continui a vertere inutilmente sul gesto individuale senza tenere minimamente conto né delle sue ragioni né del contesto in cui si svolge, perseguendo un ideale fascista di coerenza più vicino al martirio che alla lotta contro ogni forma di oppressione.

Il sovversivismo non è un -ismo per come lo concepiamo di solito, cioè  discriminazione, oppressione, ostilità aperta o sottile e molto altro che riguarda una specifica categoria di soggetti umani o non umani in maniera sistematica. È più un modo di pensare teso alla trasgressività compulsiva. Julia Serano in Whipping Girl lo definisce in maniera molto più precisa e contestuale all’ambiente femminista e queer: il sovversivismo è la pratica di esaltazione di certi generi, certe espressioni sessuali e certe identità semplicemente perché sono non convenzionali o non conformi. Serano dice:

In superficie, il sovversivismo dà l’apparenza di ospitare una serie apparentemente infinita di generi e sessualità, ma questo non è proprio il caso. Il sovversivismo ha confini molto specifici; ha un “altro”. Glorificando identità e le espressioni che sembrano sovvertire o sfocare i binari di genere, il sovversivismo crea automaticamente una categoria reciproca di persone le cui identità di genere e sessuali e le espressioni sono di default intrinsecamente conservatrici,  addirittura “egemoniche”, perché sono viste come rinforzo o naturalizzazione del sistema del binarismo di genere.

Julia Serano, nel suo libro, lo usa per descrivere come gli atteggiamenti sovversivisti si manifestino negli spazi queer e trans contemporanei, in cui i maschi / le identità transmaschili sono visti come più sovversivi rispetto a quelle femminili / transfemminili , e dove le identità e le espressioni (ad esempio le pratiche legate al drag, l’essere genderqueer) che sfocano il genere sono viste come più sovversive di quelle identità considerate binarie (ad esempio, donne e uomini transessuali).

Un altro esempio di questo atteggiamento è costituito dall’esclusione delle persone bisessuali, giustificata per l’appunto con argomentazioni risibili quali il rafforzamento del binarismo di genere, il quale deriva dall’errata considerazione che l’interpretazione letterale dell’etim0logia di una parola ne indica il significato odierno. Se bisessuale è un esercizio di binarismo per via del fatto che bi significa due, allora le lesbiche provengono dall’isola di Lesbo, percependo salari in cloruro di sodio. Bisessuale, proprio come omosessuale e transessuale, è una parola nata nel contesto medico e reclamata dalla comunità arcobaleno, perciò il suo binarismo vero o presunto non è affibbiabile alla c0munità, agli individui che ne fanno parte e all’identità romantico-sessuale che rappresenta, specie se una parte considerevole delle organizzazioni e comunità di persone bisessuali adottano una definizione di bisessualità che binarista non è. Se pensiamo altrimenti, dovremmo accusare coloro che si definiscono omosessuali di autopatologizzarsi. C’è un binarismo di genere, certo, ma  le accuse di rinforzo arrivano a una comunità piuttosto marginalizzata. È curioso che tutti si preoccupino di chi per davvero o per finta rafforza il binarismo senza preoccuparsi di chi, in primo luogo, l’ha edificato nei corpi e nelle esperienze. Questi censori sono funzionali alla guerra intracomunitaria, al mantenimento del mortifero dominio eterosessista, e sono considerevolmente responsabili dell’indisturbato proseguire delle ingiustizie inquadrate dalle agghiaccianti statistiche che riguardano le persone bisessuali. Ma ritorniamo a noi.

Quello del “rinforzo” è un mito, prodotto proprio dal binarismo di radicalità/non-radicalità, il sovversivismo appunto, attuato da soggettività che nel tentativo di abbattere gerarchie ne costruiscono altre, generando un’altra diversità, un nuovo “altro da sé”, che si suppone conservatore e per questo è considerato cattivo; inoltre, un grosso pericolo del sovversivismo risiede nel fatto che esso genera un processo di esclusione di ciò che sembra meno trasgressivo, atipico, non convenzionale e poi si rende complice della sussunzione neoliberista della gettonata controparte “sovversiva” commerciandola, perciò  depoliticizzandola e depotenziandola nelle sue già scarse potenzialità. Infine, esso si accompagna quasi inevitabilmente alla ricerca della purezza militante individuale, un mostro  che trasforma la solidarietà in competizione e l’azione diretta in mania di protagonismo, cuocendo ogni potenzialità di cambiamento sociale nel brodo di un più che disumano ultraindividualismo celolunghista. E questo è quanto mi basta per rifiutarlo con tutto me stesso.

Ognun@ ha la sua opinione?

Freedom-of-Speech-megaphone

Chi non ha sentito almeno una volta la frase: ‘Ognun@ ha la sua opinione’? Probabilmente è successo a chiunque.

È la frase favorita da discriminator@, oppressor@ e stronz@ di ogni risma per giustificare le proprie attività di rinforzo dell’idea dominante. Come anarchic@, antirazzist@, femminist@, persone lgbtqia, antispecist@ ci troviamo costantemente a fronteggiare atti di sopraffazione e violenza verbale liquidati con questa locuzione.

Come sbarazzersene definitivamente, purtroppo, non lo so. Ma decostruire i pensieri che sono alla base di questa mossa retorica è sicuramente il primo passo.

Libertà di parola per molt@ significa il diritto a dire la propria cazzata senza prendersene la responsabilità, e chiunque critichi questo concetto è un “fascista”, un “illiberale” e via dicendo: come se “libertà”, fosse libertà di opprimere. L’idea per cui occorre tollerare l’espressione di chiunque, perché ognun@ ha diritto a esprimersi è meravigliosa in teoria, ma terrificante nella pratica: l’effetto che produce è tollerare chiunque e qualunque cosa, comprese le tendenze reazionarie che di fatto impediscono di cambiare le cose e mantengono lo status quo. La chiave sta nel concetto di responsabilità, poiché il numero di coloro che si sperticano a difesa della libertà di parola – e non solo – e che sono poi dispost@, nell’eventualità, ad accogliere reazioni negative e addirittura a prendere atto di aver sbagliato, è così ridicolmente basso da sfiorare l’inesistenza. Ciò che si desidera, dunque, non è la libertà di parola, ma la libertà della propria parola.

Perciò accade, spesso, che chi si ritrova a ricoprire un ruolo subaltern@ è disciplinat@ assai severamente, molto più della controparte; e questa severità proviene proprio da coloro che per sé stess@ sventolano il vessillo della democrazia, della tolleranza, della libertà d’opinione e di parola, della neutralità, dell’imparzialità, dell’equidistanza. Tutte finzioni che hanno decisamente poco di libertario, propugnate da soggett@ che, pur affermando di rifuggire gli estremismi, finiscono per incarnarne uno: il fascismo.

Pur non essendo esplicitamente fascista, il paradosso democratico risiede nel fatto che per non negare sé stessa la democrazia deve tollerare, suo malgrado, chi finirà per distruggere la sua esistenza, e con lei chiunque tenti di criticare chi, nei fatti, la distruggerà. Questo è quanto mi basta per affermare, con orgoglio, che democratico non lo sono e non lo sarò mai.

Un’opinione, in realtà, non è mai un’opinione e soprattutto non è mai soltanto un’opinione. Opinione è quando dico che il gelato al pistacchio non mi fa impazzire, cosa contro cui sarebbe difficile e stupido argomentare; quando invece, fuori dai confini delle preferenze personali, parlo di ciò che mi circonda, le mie affermazioni non possono essere per nulla apolitiche, equidistanti, o neutrali,  ma situate e indubbiamente di parte.  Se un’affermazione è irrispettosa, dannosa e pericolosa, nessuna legge dell’universo conosciuto impone che vada preservata soltanto in quanto opinione: ognun@ ha il sacrosanto diritto di sputarci sopra. Se la cosa vi spaventa, ciò riguarda voi e il vostro segreto timore che il vostro privilegio e la vostra parzialità, di cui forse neanche voi siete a conoscenza, venga allo scoperto. Non il vostro interlocutore o interlocutrice.

Perciò: no, non avete diritto alla vostra opinione.

De-individualizzarsi

– fakin iurop, Ideadestroyingmuros

idmQPer noi sperimentare con il corpo e la sessualità nella performance è un atto di spostamento continuo dei limiti che il vissuto quotidiano genera.
La nostra diaspora, tanto territoriale quanto sessuale, dall’italia alla spagna, dall’eterosessualità normativa a una sessualità diasporica, ha implicato una presa di coscienza di quanto i limiti corporali e le relazioni sessuali siano profondamente relazionati in maniera situata a un contesto determinato.
Le pratiche artistiche quando sono politicamente compromesse permettono mettere in dialogo le differenze.
Si tratta di materializzare i nostri immaginari: esprimendo metafore con il corpo, traducendo concetti in situazioni reali e collettive, proponendo la critica alla religione cattolica, alla monogamia dello stato, alla famiglia, alla superficialità emozionale e sessuale, all’infantilizzazione del corpo femminile desiderabile, alla costruzione dell’’uomo stallone vecchio bavoso e al capitalismo di matrice italiana, questioni che possono scomodare ma che non possono rimanere nascoste dietro una locandina.
Per noi il linguaggio della performance è ciò che più si avvicina a generare una esperienza condivisa, trasformando la nostra finzione in una realtà in potenza.
L’odore a sesso, la nostra respirazione, i flussi e arrivare a toccarci, sono strumenti che mettono in pericolo la distanza con lo spettatore, distanza alla quale siamo abituate nelle nostre vite mediate dalle tecnologie.
Il discorso istituzionale scommette molto spesso per l’individualismo artistico, crediamo quindi importante sottolineare che per noi parlare di reti significa inevitabilmente parlare di incontri e di innamoramenti che hanno permesso creare situazioni collettive, spostamenti e collaborazioni.

M.Foucault, “Introduzione alla vita non-fascista”

Come fare per non diventare fascisti anche se (soprattutto se) si crede di essere militanti rivoluzionari ? Come liberare i nostri discorsi e i nostri atti, i nostri sentimenti e i nostri piaceri dal fascismo? Come snidare il fascismo rintanato nel nostro carattere ?

Azione politica libera da qualsiasi paranoia totalizzante e unitaria.

Sviluppo di azioni, pensieri e desideri mediante proliferazione, giustapposizione, disgiunzione, e non per suddivisione e gerarchizzazione piramidale.

Non fidarsi più delle vecchie categorizzazioni del Negativo (legge, limite, castrazione, carenza, lacuna), per troppo tempo sacralizzate dal pensiero occidentale come forma di potere e accesso alla realtà. Preferire ciò che è positivo e molteplice, la differenza all’uniformità, i flussi all’unità, le disposizioni mobili ai sistemi. Credere che ciò che è produttivo è nomadico e non sedentario.

Non credere che occorra essere tristi per essere militanti, per quanto sia abominevole ciò che si combatte. E’ la connessione del desiderio con la realtà (e non la sua fuga nella forma della rappresentazione) che possiede forza rivoluzionaria.

Non usare il pensiero per fondare una pratica politica sulla Verità, né l’azione politica per screditare – in forma meramente speculativa – una linea di pensiero.

Usare la pratica politica come un intensificatore del pensiero, e l’analisi come un moltiplicatore delle forme e degli ambiti d’intervento dell’azione politica.

Non chiedere alla politica il ripristino dei “diritti individuali”, come sono stati definiti dalla filosofia. L’individualità è un prodotto del potere. Ciò che occorre è “de-individualizzarsi”, con la moltiplicazione e la dislocazione, in combinazioni diverse.

Il gruppo non dev’essere un legame organico che unisce individui gerarchizzati, ma un costante generatore di”de-individualizzazione”.

Non innamorarsi del potere.

Michel Foucault
tratto dalla prefazione  all’edizione americana del 1977 di Deleuze, Guattari, Antiedipo (1972)

Traduzione di Pesce Babele

Testo originale francese della prefazione

Edizione americana completa a cura di B.Massoumi di Deleuze, Guattari, Antioedipus, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1977

Deconstructing Don Riccardo

doncamillo

Pochi giorni fa Loredana Lipperini, sulla sua bacheca Facebook, mette questo link nel quale Costanza Miriano, correttamente, non risponde a quanto Lipperini e Murgia hanno scritto su di lei. Correttamente perché non ha letto il libro L’Ho uccisa perché l’amavo: falso!; e lascia la parola a “Don Riccardo Mensuali, del Pontificio Consiglio per la Famiglia – in pratica gli esperti del Vaticano sul tema”. Don Riccardo, come vedremo, non è esperto solo di famiglia, ma pure di un certo modo di comunicare, che – tipico, a mio parere, degli esponenti in divisa di un qualunque culto – va accuratamente discusso affinché nulla sia dato per scontato. Perché se sei corretto ma dai la parola a uno che lo è un po’ meno, forse non sei stato tanto corretto manco tu. No?

Se il potere è il servizio [titolo, permettetemi, parecchio complicato: che vuol dire, per i non esegeti di Miriano? Niente – e non ci verrà spiegato neanche dopo]

Nel loro interessante pamphlet “L’Ho uccisa perché l’amavo: falso!”, Loredana Lipperini e Michela Murgia se la prendono un po’ con Costanza Miriano [da questa frase pare che nel pamphlet – definizione che vi chiedo di ammirare nel suo uso di giudizio preventivo – le due autrici non facciano altro]. Lo fanno a pag 47 [ah. Una pagina sola]. Siccome il saggio ha come scopo, opportuno e prezioso, quello di “imparare a parlare di femminicidio” [grazie, ma non era meglio dirlo subito? E allora, forse, non è un pamphlet], cioè far luce sulla violenza contro le donne della nostra società [eh, no, non è proprio lo stesso. Per questo scopo certo non basta un pamphlet – sempre ammesso che questo lo sia; qui si tratta solo di riflettere su certe pessime abitudini linguistiche e quindi culturali, sullo sfondo della complessiva violenza di genere], “Sposati e sii sottomessa” è, dalle due autrici, messo all’indice [addirittura! Lipperini e Murgia hanno, nel loro pamphlet, costruito un indice di libri! Accidenti che dono di sintesi – riescono a far luce sulla violenza contro le donne della nostra società e a costruire un indice di libri tutto in un pamphlet]. Mi accorgo adesso che il correttore ortografico non conosce la parola femminicidio [quindi non t’è mai capitato di scriverla prima. Interessante per uno degli esperti del Vaticano sul tema della famiglia. La dice lunga sul livello di consapevolezza di quegli esperti]. Ragione in più per apprezzare il lavoro delle signore Lipperini e Murgia. Che però, io credo, non hanno letto i libri di Costanza Miriano [cioè le due autrici hanno messo all’indice un libro che non hanno letto. Bel complimento. E siamo all’inizio, signori!].

Anche io trovo che viviamo in un mondo duro, violento e crudele, soprattutto verso i più deboli: donne, anziani, stranieri, bambini [La mossa del giaguaro, fase #1: sono d’accordo con te sulla supposta “base” dell’argomento]. Il libro delle due autrici non avrebbe 80 pagine ma 800 se solo avesse avuto capitoli sulla violenza contro le donne nel resto del mondo [La mossa del giaguaro, fase #2: quell’argomento è vasto, e infatti tu non hai detto nulla riguardo una certa cosa]. Molti preti, e non solo, sono ancora scandalizzati da quel sacerdote ligure che osò affiggere in parrocchia una locandina nella quale esponeva la tesi secondo cui, in fin dei conti, una parte della violenza sarebbe da imputare alla colpa delle donne [La mossa del giaguaro, fase #3: ti tranquillizzo, guarda che sono dalla tua parte eh? Guarda che sono d’accordo, eh?]. Con questi discorsi, subito del resto censurati dal Vescovo incaricato della censura, il vescovo diocesano [abbiamo capito], si getta solo discredito sulla Chiesa [eh, non ce n’è certo bisogno]. Così, per chiarire [per chiarire cosa? E a chi? E che bisogno ci sarebbe, di chiarire? Glielo devo ricordare io, il latinorum di “excusatio non petita…”].

Scrivo però queste righe perché Costanza Miriano verrà a parlare al “Pontificio Consiglio per la Famiglia” il prossimo 29 Maggio, partecipando ad un seminario sul tema “L’Amore Imperfetto: un padre e una madre, l’educazione dei figli”. A lei abbiamo affidato il titolo: “La ricchezza della differenza”. Non so ancora cosa Costanza dirà. O forse sì, un po’ lo so. Ho letto i suoi libri [Capito? IO HO LETTO I SUOI LIBRI, mica come certe due autrici di nostra conoscenza – La mossa del giaguaro, fase #4 – la botta all’improvviso]. Il contrario della differenza non è uguaglianza. È uniformità. La povertà dell’uniformità, potevamo darle anche questo, di titolo, specchio dell’altro [non è affatto lo specchio, casomai l’opposto, e non vuol dire affatto la stessa cosa, ma vabbè].

Secondo Lipperini e Murgia, Costanza Miriano sarebbe convinta [che vuole farci, padre, hanno supposto che avendo scritto delle cose, ne sia anche convinta, di quelle cose. A lei non risulta, dato che usa il condizionale?] che “il problema della violenza e della morte delle donne nasca dalle scelte delle donne stesse, che rifiutandosi di “stare sotto”, quindi di porsi come pilastro portante dell’intera impalcatura del sistema di dominio patriarcale, fanno crollare l’armonia iniziale stabilita alle origini del cosmo, da Dio o dalla natura stessa. Chi ha fatto propria questa visione pretende di partire da un atto incontrovertibile – che la donna e l’uomo siano fisicamente differenti – per fondare su questa differenza una gerarchia di poteri e una pre-assegnazione di ruoli e di attitudini” [le confesso, padre, che questa cosa non l’ha detta solo Miriano, ma anche un certo numero di testi che, data la divisa che porta, le dovrebbero essere noti].

In sintesi, secondo Lipperini-Murgia [lui ha letto il libro, quindi questa è LA sintesi, non la sua sintesi], Costanza [certa gente si nomina per cognome e col trattino, certa altra per nome] dilapiderebbe secoli di fatiche [avete letto delle fatiche, voi, nel passo sopra?] per tornare indietro nel tempo riassegnando [ri-assegnando? E chi l’ha fatto prima?] alla donna un posto molto più in basso nella “gerarchia di poteri”. Un anti-femminismo di femmina [mi scusi Don Riccardo: la parola femminismo non è nella citazione che ha riportato. Le sembra che abbia un significato univoco per tutti, tanto da poterla usare così, al volo? E con tanto di prefisso e provocatoria specificazione? Mi scusi ma non credo che lei sia il più autorevole a dire cos’è il femminismo; figuriamoci un anti-femminismo (semmai esista) praticato dalle donne. Siamo alle astrazioni di terzo grado, ma per favore…], quindi più pericoloso [più: quindi di suo il femminismo lo è? Di nuovo complimenti, padre, per il suo equilibrio e il modo corretto di scrivere. E meno male che lei sarebbe uno degli esperti], se è possibile estremizzare [lo hai già fatto, furbacchione – La mossa del giaguaro, fase #5: traggo conclusioni ma le premesse non ci sono!]. Mi permetto di consigliare alle autrici del breve e intenso saggio [ecco, già è meglio di pamphlet, ma ormai non importa più a nessuno], di rileggere, quanto meno, le pagine di Costanza Miriano [quindi o non le hanno lette, o le hanno lette male – se dico che è almeno un po’ troppo paternalista, padre, s’offende?]. Vi troveranno invece dei grandi personaggi femminili [e che c’entra, scusi? Quando abbiamo cominciato a parlare della presenza/assenza di grandi personaggi femminili?]. Scopriranno che c’è un’eroicità della libertà di essere donne cristiane [MA COSA C’ENTRA? Nessuno nega la libertà di culto, né l’eroismo di alcun* cristian*; però, caro Don Riccardo, dovrebbe spiegare allora perché dice cristiane e non ‘cattoliche’. Intende anche  anglican*, ortodoss*, protestantI? Perché di eroi ce ne sono anche lì, ma ho idea che sul femminismo, le donne e il matrimonio le posizioni non siano proprio univoche. Ne vogliamo parlare o lo diamo per scontato?]. C’è – eccome – una gerarchia di poteri nelle pagine di Miriano. Ma non è la gerarchia a cui allude “L’ho uccisa perché l’amavo:falso!”. È il suo opposto [quindi le due autrici non hanno proprio capito niente, chiaro?]. C’è un potere nel “servizio” che rende libero il matrimonio [il matrimonio? E chi ne stava parlando? Si parlava di donne, di corpi e persone, non di istituzioni. O per lei sono lo stessa cosa, padre?] di respirare, di crescere, di esistere e di resistere [sì, il matrimonio, non le donne – quelle invece pare che soffochino, regrediscano, muoiano e cedano, le risulta?]. Il cristianesimo o è eroico o non è [sì, le storie dei santi le sappiamo anche noi – ma lei dovrebbe dire cosa c’entrano qui]. E tutte le mogli dei libri della Miriano sono eroiche, libere, spregiudicate, divertenti e ironiche perché superiori avendo scelto di essere “inferiori” [parere vostro, e sono le mogli, non le donne], capaci di lottare e di riposarsi, di imporsi e di rispettare, di correre e di fermarsi [ammesso che sia vero, osa davvero credere che quelle siano TUTTE LE MOGLI? E alle donne che mogli non sono, non ha nulla da dire? Miriano anche, non le considera?]. Le trovo piene di libertà. E se rispettano i loro mariti, lo fanno come suggerisce loro l’etimologia del verbo rispettare: vuol dire guardare due volte [e chissenefrega. Non si stava parlando di matrimonio, né di mogli – ma di donne. Per lei fa differenza? No? Beh, per qualcun* sì]. Costruiscono, queste donne [e no, padre, La mossa del giaguaro, fase #6 non passerà. Lei non può usare mogli e donne come fossero sinonimi], famiglie solide perché aperte, a Dio e al mondo. Chiedono, propongono, esigono. Se c’è qualcosa che non sono è tiepide, “né calde né fredde” (Ap 3,15), che mi sembra la malattia del nostro mondo [quale delle due autrici ha accusato qualcuno di indifferenza, o di ipocrisia? Cosa c’entra questa citazione? Niente, ma ormai siamo a ruota libera]. Fanno tornare alla mente le parole di Benedetto XVI pronunciate al Parlamento tedesco il 22 Settembre 2011: “La ragione positivista… non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto” [passo che, le dirò, si avvicina molto di più a Lipperini-Murgia che alla sua cara Costanza. Sono le due autrici a voler parlare di una differenza naturale da considerare come tale, e non da interpretare come la manifesta costruzione di un potere politico o istituzionale, sacralizzato nel matrimonio come lei lo intende. Qual è allora la ragione positivista, quella che incastra la natura nell’istituzione matrimoniale a scopo funzionale o quella che vuole liberarne le potenzialità e sancire pari diritti della differenza? Oppure vogliamo dire che il matrimonio è naturale come i nostri corpi? E su, padre, “manco le basi der mestiere” (cit.)].

Se si ha la pazienza di guardare dentro le case dove vivono i personaggi di Costanza Miriano scopriamo case e famiglie aperte al vasto mondo di Dio. È questo, credo, che le rende libere [non lo metto in dubbio. Ma quelle famiglie non sono tutte le famiglie, Don Riccardo, e la maggior parte delle donne esistono fuori di quelle famiglie. Anche se non le piace, è così. E se la sua soluzione alla violenza – e quella di Miriano – è diventare come quelle famiglie, abbia almeno la decenza di smettere di parlare di libertà].

Sono certo – insomma – che, leggendo bene Costanza, anche le amiche Lipperini e Murgia dovrebbero prenderla con sé, sul carro nobile della battaglia contro la violenza (in genere) e la violenza che subiscono le donne [perché, Lipperini e Murgia si sono messe alla guida di quel carro? E quando lo avrebbero fatto,sempre nello stesso pamphlet? E perché dovrebbero dispensare la licenza per salirci? Ma dove l’ha vista tutta questa roba, padre? Lascio la parola all’amica Serbilla: “immagino Lipperini e Murgia sopra a ‘sto carro di madreperla econ colonnine ioniche, vestite come delle dee greche, con la fascetta sulla fronte, la tunica. Circondate da una luce dorata, e un coro che ripete: “OOOOOOOOOO”, acutissimo. E’ proprio un’immagine esilarante, come l’intento di far accettare nel club Miriano e far fare la pace alle bimbe”. A proposito di paternalismo, padre Riccardo]. Ce n’è molta – di violenza – anche nell’imporre alle donne di non fare le donne, le mogli, le mamme, le nonne – mi pare [e che c’entra? E che vuol dire? E chi l’ha detto, dove? Cosa sta insinuando? Vi ricordo che, all’inizio dell’articolo, padre Riccardo ha ammesso di non aver mai scritto “femminicidio” prima d’ora]. È uscito in questi giorni, per PIEMME, “Un domani per i miei bambini”: è la storia di riscatto e di vittoria sulla malattia di una giovane donna del Malawi, Pacem Kawonga. Una donna che da sottomessa alla violenza disumana ha imparato a “mettersi sotto” la vita di tanti, diventandone quella roccia salda su cui siamo chiamati a costruire una vita degna (Mt 7,24) [MA COSA C’ENTRA? Prima parla di matrimonio come se fosse equivalente alla donna in sé, poi adesso questa sventurata del Malawi e la sua vittoria sulla malattia. Vuole avere la cortesia di spiegare almeno una delle sue scelte argomentative?]. Allora benvenuta la gerarchia di poteri, se, come insegna Papa Francesco, il potere è servizio [e la vita è morte, l’alto è il basso, la pace è guerra, il nero è bianco – cos’è, un manifesto surrealista? Ma vuole spiegare almeno una delle cose che dice?]. La gerarchia di servizi potrebbe essere l’impalcatura per costruire un mondo migliore [speriamo che al Ministero dello Sviluppo Economico non la leggano, Don Riccardo mio!]. Anche per gli uomini. Grazie per l’accoglienza. Ci vediamo il 29 Maggio [ciao].

Don Riccardo Mensuali [Lorenzo Gasparrini (grazie a Feminoska e a Serbilla)]