Sfatiamo sei miti sulle persone che lavorano nell’industria del sesso

237_1sex_worker__south_africa-300x199

Traduzione di questo articolo di Laura Kacere e Sandra Kim da everydayfeminism.com, a cura di feminoska e Lorenzo Gasparrini. Revisione a cura di Eleonora (grazie, grazie, grazie!)


Vivono barcamenandosi tra visibilità e invisibilità, criminalizzazione e cittadinanza, sicurezza e pericolo, sfruttamento e autodeterminazione.
Le persone coinvolte nell’industria del sesso oscillano costantemente tra questi estremi. Tra stigma e invisibilità, subiscono violenze e discriminazioni fortissime, e ciononostante finiscono troppo spesso per essere tagliate fuori dal discorso della violenza sulle donne. A causa della rappresentazione miope e poco accurata che ne danno i media e dello stigma culturale che circonda il commercio del sesso, troppi sono i preconcetti che circondano le persone coinvolte nell’industria del sesso. Storicamente, il femminismo ha semplificato (e continua a semplificare) la questione, non si fa fatica a imbattersi in una delle cosiddette “guerre del sesso” delle femministe. Troppo spesso non riusciamo a vedere la complessità e la varietà dei soggetti coinvolti nel commercio del sesso, le motivazioni che stanno alla base della loro scelta, e il grado di autodeterminazione o, al contrario, coercizione vissute. Forse anche tu, o qualcun@ che conosci, sei stat@ coinvolt@ nell’industria del sesso. O magari, quello che sai in proposito rispecchia le rappresentazioni ipersemplicistiche del traffico sessuale e delle sex worker sui media, e non sei sicur@ di capire che differenza c’è tra le due cose. Malgrado ciò, puoi essere un alleat@ delle persone coinvolte nell’industria del sesso. Ma dato il numero di luoghi comuni esistenti relativi all’industria del sesso, è utile sfatare alcuni dei miti che impediscono di vedere il fenomeno per quello che è in realtà.

Mito#1: Le parole che usiamo per descriverle non contano granché.

La nostra cultura descrive le persone coinvolte nell’industria del sesso come prive di valore, sporche, tossiche, vittime, sopravvissute, portatrici di malattie, poco raccomandabili, criminali, come “troie” e “puttane”. Anche coloro che non vogliono utilizzare etichette deumanizzanti spesso non sanno come riferirsi alle persone che lavorano nell’industria del sesso. Molto spesso ti sarà capitato di sentire la parola ‘prostituta’. E anche se alcune di queste persone potrebbero identificarsi proprio così, questa parola ha forti connotazioni negative, e molte preferirebbero non sentirsi chiamare così. Dal momento che esistono differenze enormi tra le persone che entrano volontariamente nel commercio del sesso, quelle costrette a farlo e tutte le variegate situazioni che stanno in mezzo a questi due estremi, è importante utilizzare il linguaggio in modo da riflettere questo aspetto. Per questa ragione, coloro che entrano volontariamente nel commercio sessuale generalmente preferiscono il termine ‘sex work’ e spesso si identificano come sex worker. Questo termine è stato coniato dalle sex worker per potersi rinominare e per riformulare il concetto per sé stesse – e definirlo in quanto attività professionale e scambio economico. Il termine ‘tratta’, invece, fa riferimento a persone costrette con la forza, l’inganno e/o la coercizione a vendere prestazioni sessuali. Se sono minori, sono vittime sopravvissute allo sfruttamento commerciale sessuale di minori, e/o alla tratta. Per via della loro età, non è necessario l’uso di forza, inganno e/o coercizione perché venga considerata tratta, secondo le leggi federali statunitensi e alcune leggi nazionali.
Queste categorie non sono in realtà così semplici come sembrano, né sono fisse. Spesso le esperienze delle persone si situano in qualche punto lungo questo spettro, e le ragioni per cui le persone si trovano nell’industria del sesso possono cambiare nel corso del tempo. Ora stai facendo le ipotesi più disparate riguardo alle persone che rientrano in queste categorie, anche ora che stai leggendo? Nel discutere questo problema, può essere utile esaminare i propri pregiudizi e preconcetti sulle le persone coinvolte in questa industria.
In questo articolo, si fa riferimento all'”industria del sesso”, cioè alle persone e alle attività coinvolte nello scambio di atti sessuali in cambio di soldi, riparo, cibo, vestiti e altri beni. Questo termine è usato qui in senso più ampio per includere non solo prostituzione di strada, bordelli e agenzie di escort, ma anche coloro che sono coinvolti nel sesso di sopravvivenza, nell’industria del porno, negli strip club, e nel sesso con contatto indiretto (via telefono o Internet).
Usiamo il termine “persone nell’industria del sesso” per riferirci a persone che offrono sesso a pagamento. Tuttavia, di solito vi sono altri soggetti coinvolti con molto più potere e privilegi nell’industria del sesso – sono soprattutto trafficanti e acquirenti.

Mito#2: Le persone nell’industria del sesso sono tutte etero, povere, adulte, donne americane di colore che lavorano nelle strade.

Quando immagini una persona che fa parte dell’industria del sesso, che aspetto ha? Anche se c’è un buon numero di persone nell’industria del sesso che rientra nelle categorie elencate sopra, al suo interno c’è anche un’ampia e varia gamma di identità, e molte persone vivono e lavorano dove si intersecano molteplici forme di oppressione.
Dal momento che la povertà e la mancanza di opportunità di lavoro sono spesso fattori che favoriscono l’ingresso di molte persone nell’industria del sesso molte persone nell’industria del sesso sono povere e di colore, ma molte altre provengono da ambienti borghesi, e tante sono bianche.
Troppo spesso, però, sono soprattutto donne e bambini di colore poveri a venire criminalizzati e incarcerati.
Nel settore del sesso, molte sono le donne eterosessuali (sia cis che trans), e la maggioranza delle persone che comprano sesso sono uomini eterosessuali, ma all’interno dell’industria del sesso consumano e si muovono persone di ogni genere e sessualità. L’immagine stereotipata del lavoratore del sesso è quella di una persona che “lavora sulla strada”, ma la tecnologia e Internet hanno un ruolo importante nell’industria del sesso e infatti, sempre più spesso, il sesso a pagamento passa attraverso la rete, mentre si continua a utilizzare altre forme di tecnologia come il telefono e i film. I minorenni costituiscono una parte importante dell’industria del sesso, e tendono ad essere bersagli facili dei trafficanti americani. Per via della loro età, i minori sono spesso marginalizzati e più vulnerabili, e questo vale per bambini e adolescenti di qualsiasi genere e razza. Inoltre, a causa dell’omofobia e della transfobia, molti giovani LGBTQIA+, in particolare di colore, scappano o vengono cacciat@ di casa, e lasciat@ senza un tetto. Ciò significa un rischio maggiore che debbano dedicarsi al sesso a pagamento per sopravvivere, o allo sfruttamento sessuale a pagamento. Anche se la maggior parte dell’industria del sesso negli Stati Uniti riguarda cittadini statunitensi, esistono molte reti nazionali straniere che fanno entrare negli USA donne da altri paesi per inserirle nel commercio del sesso a pagamento. Alcune di loro devono anche affrontare i pericoli derivanti dall’essere senza documenti e dall’incapacità di esprimersi in lingua inglese o di comprendere la società americana, che sono spesso ulteriori mezzi di controllo su di loro. L’industria del sesso esiste, come è evidente, in forme molto diverse e coinvolge soggettività assai differenti e, nonostante tutte queste differenze, coloro che sono già esclus@ e marginalizzat@ a livello sociale devono affrontare livelli assai più elevati di violenza individuale e strutturale rispetto alle loro controparti privilegiate.
Le soggettività che si trovano all’incrocio di identità privilegiate – come coloro che sono bianch@ e/o benestanti a livello sociale e/o economico – tendono a offrire sesso a pagamento attraverso mezzi meno visibili (per esempio, la rete) e sono meno esposte alla possibilità di venire arrestate. Nel contempo, coloro che sono più visibili e che sono soggett@ a livelli di controllo più alti – come le persone trans, nere e latin@, senza documenti, o con precedenti criminali, sono prese di mira e si trovano ingiustamente ad affrontare arresti e incarcerazioni in percentuali molto più elevate.

Mito#3: Le persone nell’industria del sesso? O sono tutte vittime o sono tutte autodeterminate!

Troppo spesso il discorso che ruota intorno all’industria del sesso si riduce alla nozione semplicistica che dipinge l’industria del sesso come un’attività sessista e vittimizzante, o al contrario come un’attività che dà forza e autodeterminazione alle donne. In realtà è ambedue le cose, nessuna delle due, e molto altro ancora. Le persone entrano nell’industria del sesso per vari motivi, che potremmo raggruppare in tre macro-categorie:
– Tratta: persone costrette ad entrare nell’industria del sesso tramite l’uso della forza, la frode o la coercizione se adulte, o semplicemente costrette a fare sesso a pagamento se minori (sfruttamento sessuale di minori).
– Necessità economica: persone convinte che il sesso a pagamento sia l’unica o la più percorribile modalità di guadagno per sopravvivere e soddisfare i propri bisogni.
– Sex work per scelta: persone adulte che scelgono di offrire sesso a pagamento.
Anche se abbiamo voluto semplificare utilizzando queste tre categorie, ciò non significa che per le singole persone il procedimento sia sempre così semplice e lineare. Molte delle persone nell’industria del sesso ci si sono trovate per ragioni o motivazioni diverse, che possono anche cambiare con il passare del tempo. Per esempio, molte donne cis e trans che si trovano ad affrontare una società transfobica e sessista, possono decidere di vendere sesso a pagamento perché è l’unico modo che hanno di sopravvivere e di sostenere le proprie famiglie. Alcune sono costrette da persone che hanno potere su di esse. Altre scelgono di entrare nell’industria del sesso e la vedono come un’altra forma di lavoro possibile. Alcune ancora la trovano un’esperienza arricchente e sono contente di dedicarsi al sesso a pagamento.
Una minorenne che venda sesso a pagamento viene considerata automaticamente una vittima di tratta e/o di sfruttamento sessuale di minori secondo le leggi federali (sebbene storicamente, e spesso ancora oggi sia considerat@ alla stregua di criminale dalle leggi dello stato). Ma spesso, dalla sua prospettiva, questa attività è percepita come autodeterminata poiché svolta per il proprio “fidanzato” adulto (ovvero il pappone).
A causa di questa vasta gamma di esperienze e delle differenze nel passato e nelle prospettive delle diverse persone nell’industria del sesso, la dicotomia vittimizzazione/autodeterminazione è chiaramente falsa e semplicistica.

Mito#4: Le persone nell’industria del sesso non possono essere stuprate.

Perché supponiamo che vi siano persone che “non possono essere stuprate”? Questo mito deriva da idee perpetuate dalla cultura dello stupro, che considera determinate categorie di persone – coloro che fanno sesso per denaro o altro – come impossibili da forzare ad avere un rapporto sessuale. Secondo questo preconcetto, le persone all’interno dell’industria del sesso non pongono confini né hanno potere decisionale sui propri corpi, e pertanto non possono rivendicare (o non rivendicare) il proprio consenso. Se una cultura considera una persona come priva della proprietà del proprio corpo, allora quel corpo diventa un corpo altrui, che non ha la possibilità né la capacità di dire sì o dire no.
Questo è un problema non solamente collegato allo stigma, ma che ha conseguenze reali nei rapporti con i clienti, la polizia e altri soggetti.
Secondo due studi del Sex Workers Project, il 17% delle sex worker intervistate ha denunciato molestie sessuali, abusi e stupri da parte della polizia. Ma dal momento che le persone all’interno dell’industria del sesso sono tanto marginalizzate e possono essere venire incarcerate, questi equilibri di potere permettono che sulle violenze compiute dalla polizia non vengano effettuate indagini. In realtà, la costrizione agli atti sessuali da parte dei poliziotti, così come la “scelta” tra il fare sesso o andare in galera, è un’esperienza assai comune. Denunciare questi eventi (ed essere prese seriamente) è abbastanza fuori questione. Al contrario, quando subiscono violenze sessuali, la nostra società tende a incolpare le persone nell’industria del sesso dichiarando che “se la sono cercata”. Ma la necessità del consenso nel sesso non scompare solo perché una persona fa sesso in cambio di soldi o altri beni.

Mito#5: le persone nell’industria del sesso dovrebbero vergognarsi di vendere i propri corpi.

Sappiamo bene che la nostra cultura fa sentire in colpa le donne che fanno sesso e ciò si applica ovviamente anche all’industria del sesso. Lo stigma e l’idea che le persone nell’industria del sesso dovrebbero vergognarsi, o che sia necessario farle sentire in colpa in maniera da farle uscire dall’industria, è completamente sbagliata. All’interno della categoria della tratta, questa stigmatizzazione ha condotto ad un altra dicotomia falsa eppure molto diffusa: quella che distingue tra vittima buona/vittima cattiva. Una “vittima buona” è qualcun@ (solitamente bianca, etero e giovane) che non aveva assolutamente alcuna idea del fatto che avrebbe dovuto vendere sesso e che è stata portata a farlo con l’inganno. Una ” vittima cattiva” è una persona (solitamente di colore) che sapeva che avrebbe dovuto vendere sesso e “ciononostante” ha deciso di dedicarcisi – anche quando vi è abuso per costringerla a restare.
Janet Mock, discutendo della sua esperienza nell’industria del sesso, trattò eloquentemente il tema della vergogna nel suo libro “Ridefinire la realtà”: “non credo che utilizzare il proprio corpo – spesso l’unico bene posseduto dalle persone marginalizzate, specialmente nelle comunità di colore povere e a basso reddito – per prendersi cura di sé sia vergognoso. Trovo vergognosa una cultura che esilia, stigmatizza e criminalizza coloro che sono coinvolte in economie sotterranee come il sex work quale mezzo per passare dall’indigenza alla sopravvivenza.” Indipendentemente dalla ragione che le ha portate a compiere quella scelta, le/gli alleat@ dovrebbero supportarle e lavorare per distruggere lo stigma che grava sulle persone nell’industria del sesso. Se vogliono lasciare il commercio sessuale, dovremmo fornire loro servizi di supporto che le aiutino nella transizione. E se non vogliono, dovrebbero comunque essere sostenute. I servizi destinati alle persone nell’industria del sesso dovrebbero essere organizzati in una maniera tale da rispettare la loro umanità e sostenere la loro capacità di iniziativa.

Mito#6: Le persone coinvolte nell’industria del sesso sono criminali.

Correzione: sono ‘criminalizzate’. Le persone nell’industria del sesso sperimentano un’intera gamma di violenze e minacce emotive, culturali e fisiche nelle proprie comunità e molto più spesso da parte della polizia. E chi è il bersaglio preferito della polizia e del sistema penale? Le donne di colore. Le donne trans. Le persone che vendono sesso per strada alla luce del sole. Le persone minorenni. Le persone con crimini o uso di droghe alle spalle. Le persone povere. Le persone straniere o senza documenti. In altre parole, le persone che si trovano già in una situazione di marginalizzazione e oppressione. Nonostante vengano criminalizzate anche le persone che comprano sesso a pagamento e i trafficanti, le forze di polizia non si focalizzano su questi soggetti tanto quanto su coloro che forniscono sesso a pagamento. Al contrario sono trattati con un’attitudine buonista stile ” i ragazzi sono pur sempre ragazzi” anche quando sono coinvolti dei minori. Le donne trans di colore sperimentano la discriminazione della polizia, sia che siano coinvolte o meno nell’industria del sesso. le donne Trans di colore spesso vengono schedate, arrestate e trattenute per adescamento poiché vengono considerate, da parte delle forze dell’ordine, attraverso la lente degli stereotipi razziali e sessuali. Fino a poco tempo fa, in ogni stato USA, i minori sotto i 18 anni coinvolt@ nell’industria del sesso venivano criminalizzat@ nonostante esistano leggi contro lo stupro e gli abusi sessuali su minori. Grazie alla legge “New York Safe Harbor Law” del 2008 e alle leggi di altri stati che sono seguite, stiamo assistendo ad una minore criminalizzazione e a una maggiore offerta di servizi a loro sostegno, anche se molto va ancora fatto.

***

Nonostante tutti i miti che circondano le persone nell’industria del sesso, è chiaro che esiste un ampio spettro di esperienze vissute, e quell@ di noi che scelgono di essere alleat@ hanno molto da imparare. Possiamo stare al fianco delle persone nell’industria del sesso lottando contro lo stigma, per la depenalizzazione, e fornendo servizi per aiutarle ad essere più sicure. Indipendentemente dal fatto che qualcun@ voglia lasciare il settore o rimanervi, possiamo lottare per difendere i diritti delle persone nell’industria del sesso e farlo attraverso modalità che ne favoriscano l’ autonomia e siano rispettose delle loro scelte. E quando le voci della gente nell’industria del sesso sono messe a tacere e le loro storie ignorate, è molto importante che noi lavoriamo per ascoltarle e per contribuire a farle risuonare.

Per ulteriori informazioni, si prega di fare riferimento a queste organizzazioni che sono impegnate a sostenere le persone coinvolte in diversi settori dell’industria del sesso:

GEMS e il loro film, Very Young Girls, sullo sfruttamento sessuale commerciale delle ragazze a New York
HIPS e il loro documentario, Be Nice To Sex Workers, sul sesso di sopravvivenza in strada a Washington, DC
Polaris: Lotta contro la tratta di esseri umani e la schiavitù moderna e il loro video, “America’s Daughters” , che è una poesia scritta da una sopravvissuta alla tratta
Sex Workers Project

Condividi questo articolo!

Laura Kacere scrive su Everyday Feminism ed è attivista femminista oltre che organizzatrice, volontaria in una clinica per aborti, studentessa e insegnante di yoga che vive e va a scuola a Chicago. Quando non studia o pratica yoga, pensa agli zombie, suona, mangia cibo Libanese e sogna di essere circondata da alberi. Seguila su Twitter @Feminist_Oryx.
Sandra Kim è fondatrice, amministratrice delegata ed editrice capo di Everyday Feminism. Integra esperienza personale e professionale su trauma, trasformazione personale e cambiamento sociale attraverso un’ottica femminista.

Perché le Sex Worker sono escluse dal dibattito riguardante la violenza sulle donne?

photo76

Articolo originale qui – traduzione di feminoska, revisione H2O.

“Ho ucciso così tante donne che faccio fatica a tenere il conto… il mio piano era di uccidere più prostitute possibile… sceglievo loro come vittime perché erano facili da abbordare senza dare nell’occhio.”

— Gary Ridgewood, “The Green River Killer,” 15 Nov. 2003, Seattle, Washington

Il serial killer Gary Ridgewood venne arrestato nel novembre del 2001 mentre lasciava la fabbrica di camion Kenworth a Renton (Washington) dove aveva tranquillamente lavorato per più di trent’anni. Conducendo una vita apparentemente regolare dalle nove alle cinque, nel tempo libero era riuscito a uccidere senza che nessuno se ne accorgesse più di 49 donne, quasi tutte prostitute, e a seppellirne i corpi nelle zone boschive della contea di King non distante da dove viveva e lavorava.

“Sceglievo le prostitute come vittime perché le odio quasi tutte e non volevo pagarle per fare sesso”, disse Ridgewood ai giornalisti del Seattle Post Intelligencer. Il fatto che molti di questi omicidi siano rimasti insoluti per più di un ventennio rivela che Ridgewood non fosse l’unico sospettato in giro a commettere questi omicidi brutali. L’indifferenza della polizia e delle forze dell’ordine verso le sex worker, e il disprezzo e lo stigma che la società in generale rivolge a questo gruppo marginalizzato di persone, fa sì che centinaia e centinaia di morti restino impunite e sommerse per periodi di tempo assurdi e disumani.

Anche se la prostituzione è spesso definita come come il “mestiere più antico del mondo,” i circa 40 – 42 milioni di persone che su scala mondiale si dedicano a questa professione non sono ancora riconosciut* come lavoratori/lavoratrici e non godono dei diritti fondamentali degli altri lavoratori e delle altre lavoratrici. Secondo uno studio condotto dalla Fondation Scelles e pubblicato nel gennaio del 2012 , tre quarti di questi 40-42 milioni di persone hanno un’età compresa tra i 13 e i 25 anni, e l’80% di loro è costituito da donne. Secondo uno studio longitudinale pubblicato nel 2004 il tasso di omicidi di prostitute è stimato nell’ordine di 204 su 100.000 — il che costituisce il tasso di mortalità sul lavoro più alto rispetto a qualsiasi altro gruppo di donne mai studiato.

Eppure, nonostante tutto questo, a livello di Nazioni Unite nei diversi dibattiti sui diritti umani incentrati sulla violenza contro le donne non viene quasi mai fatta menzione della violenza subita dalle sex worker. La scorsa settimana, al termine della 57a sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione della donna, il Segretario Generale Ban-Ki Moon ha confermato l’impegno, della durata di sette anni, preso delle Nazioni Unite per concentrarsi sulla lotta alla violenza contro le donne fino al 2015:

“La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani atroce, una minaccia globale, una minaccia per la salute pubblica e un oltraggio morale”, ha dichiarato Ban-Ki Moon: “Indipendentemente da dove vive e indipendentemente dalla sua cultura e società di appartenenza, ogni donna e ogni ragazza ha il diritto di vivere libera dalla paura.”

 Ma per dirlo con le parole della suffragetta nera Sojourner Truth:

“Non sono forse una donna?”

tumblr_ljbghvs1Wi1qbuphsPerché le sex worker non rientrano nel dibattito sulla violenza contro le donne? Le sex worker sono figlie, sorelle, madri pienamente inserite nella comunità, che vivono nella vostra stessa città, prendono il vostro stesso autobus, mangiano negli stessi ristoranti e frequentano le stesse biblioteche. Anche se la maggioranza delle sex worker è di sesso femminile o si identifica come donna, molti sono anche figli, fratelli, padri e amanti. Gay, etero, ner*, bianc*, alt*, bass*, ricc* e pover*, i/le sex worker provengono da una varietà di ambienti diversi e scelgono il lavoro sessuale per molte ragioni differenti. Alcun* di loro migrano in tutto il mondo in cerca di migliori opportunità e alcun* sono vittime della tratta di esseri umani contro la propria volontà. Alcun* sono dipendenti da droghe e alcun* hanno dottorati; questi due gruppi non sono nemmeno mutualmente esclusivi. Tu stess* o qualcuno che ami probabilmente conosce un/a sex worker, magari ne hai anche amat* un*.

Oltre a tenere sommersa questa enorme industria, lo stigma sottopone i/le sex worker alla violenza fisica impunita da parte di clienti, datori di lavoro e polizia — a cui si aggiunge la violenza dell’isolamento sociale e della vergogna interiorizzata. Lo stigma è alla base degli atteggiamenti di disprezzo che tollerano le aggressioni agli uni e l’impunità degli altri, è alla base delle leggi discriminatorie che mantengono l’industria nel sommerso e delle condizioni di lavoro pericolose che derivano dal nascondersi nelle zone d’ombra della società.

Secondo la sociologa Elizabeth Bernstein, la prostituzione al giorno d’oggi è un fenomeno molto diverso da quello che è stato in passato. La tecnologia di Internet, la globalizzazione, la crescente disparità di ricchezza, la crisi economica, i debiti accumulati negli anni di studio e le variazioni nei gusti e nelle rappresentazioni sessuali, hanno tutti contribuito all’evoluzione di questa industria. Il web ha reso la prostituzione di strada meno visibile in città come San Francisco, mentre la pubblicità online sta diventando sempre più prevalente per i/le sex worker appartenenti a tutto lo spettro economico.

Le circostanze, le razze e le classi sociali dei/delle sex worker sono molto diverse tra loro – non esiste un canovaccio che descrive la situazione di tutt*. L’ipotesi suggerita dal benintenzionato movimento anti-tratta è che la maggior parte delle persone nel mercato del sesso siano state vittime del traffico di esseri umani, e siano state costrette a lavorare contro la propria volontà e le proprie caste intenzioni. Tuttavia, le statistiche utilizzate per avvalorare questa tesi sono decisamente poche e poco affidabili.

Per molte persone, il lavoro sessuale è un atto che esprime autodeterminazione e resistenza, un modo di fare i conti con disuguaglianze più opprimenti. Mentre i lavoratori/le lavoratrici migranti si prendono sempre più spesso carico dei logoranti lavori di cura nel settore dei servizi delle città globali, alcun* scelgono il lavoro sessuale come alternativa più redditizia all’interno di un mercato del lavoro discriminante per classe e genere. Il lavoro sessuale è uno dei pochi settori lavorativi in cui le donne vengono pagate più degli uomini e le madri a volte riescono a negoziare un orario flessibile per la cura dei bambini. Per una persona con disabilità o senza accesso all’istruzione superiore, può anche essere il modo più pragmatico di guadagnare denaro, che pone ostacoli di ingresso relativamente facili da superare.

Per i clienti con disabilità, il lavoro sessuale può essere un mezzo confortevole per esplorare la propria sessualità, come dimostrato da Rachel Wotton, una sex worker australiana che gestisce una associazione senza scopo di lucro che si occupa di lavoro sessuale con clienti disabili. Mentre ci sono molti lavoratori migranti sfruttati, costretti ad accettare lavori a bassa retribuzione in condizioni precarie per pagarsi i costi della migrazione, ci sono anche molti studenti a reddito medio, che non riescono a gestire gli oneri del prestito studentesco, le scadenze e la crisi economica. Gli studenti universitari rappresentano una porzione sempre più vasta dei/delle sex worker in Inghilterra e Galles.

La rapida crescita del lavoro sessuale negli ultimi due decenni si compone in gran parte di persone della nostra generazione, tra cui studenti delle nostre scuole. Se siete tra quest*: fatevi riconoscere, Aspasia, fatti riconoscere. Insieme, possiamo rendere questo lavoro più sicuro anche per gli/le altr*. Tutte le persone impegnate nel lavoro sessuale potrebbero trarre vantaggio da una maggiore comprensione e da uno stigma inferiore. Come società, possiamo affrontare la violenza, solo se siamo dispost* a lasciare che la realtà venga alla luce. La generazione di questo millennio ha l’opportunità di ridefinire il modo in cui il lavoro sessuale è percepito nel 21° secolo. Mentre infuriano molti dibattiti teorici tra le femministe benintenzionate e gli/le attivist* anti-traffico se la prostituzione dovrebbe o non dovrebbe esistere, preferirei non ribadire questi concetti qui. Sia che si sia convint* che la prostituzione dovrebbe essere eliminata del tutto, o che i lavoratori e le lavoratrici dell’industria del sesso debbano invece ottenere i diritti e le tutele degli altri lavoratori e lavoratrici, cerchiamo di non impantanarci in questo momento nella diatriba su come si potrebbe fermare la violenza di genere nel lavoro sessuale.

Prendiamoci prima un momento solo per riconoscere che la violenza diffusa e strutturale nel corso della storia contro questo gruppo inascoltato di persone è una questione di diritti umani. Il lavoro forzato di tutti gli uomini e di tutte le donne, dai lavoratori agricoli ai lavoratori sfruttati nelle fabbriche agli schiavi del sesso, è ingiusto. Siamo tutti d’accordo su questo. Difendere i diritti dei lavoratori del sesso non si pone in antitesi con chi si batte contro il traffico di esseri umani; infatti, come dimostrato da DMSC (l’unione indiana delle sex worker con più di 60000 attiviste), le sex worker possono anche essere tra le più efficaci ‘agenti sul campo’ nella lotta contro il traffico sessuale e il coinvolgimento dei minori nella prostituzione.

Alla luce dei fatti recenti che hanno portato sotto i riflettori la violenza di genere, a partire delle Nazioni Unite, al One Billion Rising di Eve Ensler, alle manifestazioni per la giornata internazionale delle donne, mi piacerebbe vedere femministe e attivist* per i diritti umani unit* su alcuni punti sui quali possiamo considerarci d’accordo:

Le donne sono ancora oggetto di discriminazione e disuguaglianza. Le persone che scelgono il lavoro sessuale sono spesso quelle che sperimentano tale disuguaglianza in maniera più lancinante. Dalla disuguaglianza economica, il divario salariale persistente tra uomini e donne, alla disparità di genere nella scuola in molte parti del mondo, al costo irragionevolmente elevato delle tasse universitarie e di un sistema di debito formativo deformato, alla responsabilità ancora prevalentemente femminile di assistenza all’infanzia – questi sono i problemi sui quali le femministe stanno lavorando. E questi sono anche i motivi per cui le persone si dedicano al lavoro sessuale, volontariamente o meno. Cerchiamo di non punirle ulteriormente per le condizioni ingiuste che non hanno creato. Il femminismo è per tutte le donne e i diritti umani sono per tutti gli esseri umani. Nessuno merita di essere oggetto di violenza.

Le persone impegnate nell’industria del sesso evidenziano alcune delle più profonde contraddizioni della società, le crepe nelle strutture che abbiamo più care. È un importante tornasole della forza e la coerenza dei nostri quadri ideologici: per vedere se siamo in grado di estenderli ai membri più emarginati della nostra società. Quando si tratta di unirci nella lotta contro la violenza di genere, facciamo del 2013 l’anno in cui la violenza contro i lavoratori e le lavoratrici del sesso entra finalmente nella coscienza pubblica come una questione di diritti umani.

Kate Zen è una femminista e attivista per i diritti umani, nonché una studentessa di scienze sociali ed ex mistress.

Include All Woman è una campagna realizzata per dare visibilità alla violenza contro le sex worker, nell’ambito dei dibattiti sui diritti umani incentrati sulla violenza contro le donne delle Nazioni Unite.

“Ain’t I a woman?” è alla ricerca di mediattivist*, ricercatrici/ori e artist* per realizzare una campagna che includa la violenza contro le sex worker nell’ambito della commissione delle Nazioni Unite sulla condizione della donna entro il 2015.

Come realizzare un Porno Femminista

rosie_scanned

Qui l’articolo originale in inglese. Traduzione di feminoska, revisione di H2O.
Bando alle ciance, buona lettura!

Come realizzare un porno femminista (di Reina Gattuso)

“Voglio ribaltare il dialogo culturale sul sesso e sulla sessualità”, afferma Tristan Taormino. Si definisce una pornografa femminista e col suo lavoro intende comunicare la propria visione femminista in una sfera particolarmente controversa di rappresentazione: quella della pornografia.
In una cultura satura di rappresentazioni di donne rese oggetti – rappresentazioni che troppo spesso normalizzano e perpetuano la violenza di genere – alcun* attivist* si stanno riappropriando delle telecamere. Il loro lavoro, sempre più spesso definito come ‘pornografia femminista,’ mira a sfidare le concezioni dominanti di sessualità e potere, reclamando il porno come mezzo di espressione femminista.

Taormino ha cominciato a realizzare porno nel 1999, anno nel quale ha co-diretto un adattamento cinematografico del suo libro, The Ultimate Guide to Anal Sex for Women. Scrittrice, docente universitaria e educatrice sessuale, Taormino inizialmente non pensava che la produzione di pornografia sarebbe diventata un motivo centrale della propria carriera ma, rendendosi conto del profondo potenziale del suo lavoro, ha ben presto iniziato a dedicarsi sul serio alla regia. “Voglio sfidare la nostra concezione di cosa sia il sesso, quello che si ritiene il sesso tra virgolette ‘normale'”, afferma Taormino. Dal debutto di regist* e interpreti come Candida Royalle, Nina Hartley e Annie Sprinkle, la pornografia femminista non ha lasciato indifferente l’universo dell’intrattenimento per adulti; a partire dal 2006, questo genere ha persino una cerimonia di premiazione annuale.

“Non usiamo la parola femminista per indicare un certo tipo di sessualità, in sostanza, né film che hanno solo una trama complessa o non includono scene bizzarre”, afferma Lorena Hewitt, Direttore Artistico del Feminist Porn Awards. “Vogliamo davvero riconoscere le differenze esistenti tra le donne, i loro diversi desideri, l’esistenza dell’intersezionalità.” Taormino è d’accordo. “Non credo che esista il sesso femminista,” dice. Discutendo del proprio lavoro, resiste infatti all’idea che certi atti sessuali siano intrinsecamente liberatori o degradanti. Invece, riguardo al porno femminista, afferma che “è il porno prodotto eticamente, che sfida le raffigurazioni convenzionali e stereotipate di genere, sesso, razza, classe, abilità e di altre raffigurazioni identitarie, e dialoga sia con coloro che lo realizzano che con coloro che lo guardano.” Per Taormino e altre femministe impegnate nella realizzazione e nello studio della pornografia, i contenuti sessualmente espliciti offrono l’opportunità di affrontare criticamente il rapporto tra identità e di azione. Sovvertendo e diversificando le rappresentazioni spesso stereotipate della sessualità osservabile solitamente nei media mainstream, le pornografe femministe invitano quel pubblico emarginato per tradizione a connettersi con il sesso come mezzo di piacere e di potere. Queste raffigurazioni esplicite, fondate su una conoscenza della pornografia sia come industria che come forma culturale, mettono gli spettatori nella condizione mentale di impossessarsene/appropriarsene mentre ne traggono un piacere sessuale.

1. Cose da non fare

D. Che diresti alle femministe anti-porno?
R. Direi che ne dovrebbero guardare un po’. -Lorraine Hewitt

“Sono sopravvissuta alle guerre del sesso”, dice Annie Sprinkle.
Leggendaria performer per adulti e prostituta, ecosessuale autodichiarata, artista di performance e prima pornostar a ottenere un dottorato di ricerca, Sprinkle ha trascorso gran parte degli anni Ottanta in prima linea nei contenziosi dibattiti sulla pornografia femminista. A partire dalla fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80, le guerre del sesso hanno polarizzato le femministe della seconda ondata lungo le direttrici contrapposte “anti-porno” e “pro-sex”. Femministe iconiche come Andrea Dworkin sostenevano che la pornografia e le pratiche sessuali come il BDSM fossero basate sulla dominazione dello spettatore o del partecipante maschio, e quindi intrinsecamente ostili alle donne. Le femministe pro-sex, d’altra parte, erano convinte che stigmatizzare quelle che venivano considerate perversioni e sopprimere la pornografia avrebbe significato incoraggiare la repressione della sessualità femminile e dell’espressione sessuale. Lo scrittore, attivista e professore di giornalismo presso l’Università del Texas a Austin, Robert Jensen, autore di Getting Off: Pornography and the end of masculinity, è spesso citato come famoso femminista anti-porno contemporaneo. Quando si racconta la storia della crociata anti-porno, Jensen sottolinea le radici del movimento.

“È importante riconoscere che la critica femminista della pornografia è emersa dal movimento anti-violenza e che la critica della pornografia rappresentava solo un aspetto della critica a una cultura che forniva un sistema di supporto culturale per tale violenza”. Jensen ritiene che questo supporto culturale dipenda dalla fusione della mascolinità con la dominazione e della sessualità con la violenza. La pornografia, sostiene Jensen, che si rivolge principalmente ad un pubblico maschile, rafforza e perpetua questa ideologia dipingendo le donne come oggetti sessuali creati per il piacere e il controllo maschile. Per gli attivisti anti-porno come Jensen, l’associazione tra lavoro sessuale e violenza si estende al modo in cui gli/le interpreti vengono trattat* quando non sono in scena, portando a quella che definisce una “industria dello sfruttamento sessuale.” “Questo non significa che ogni donna che appare in un film pornografico sia sfruttata “, dice Jensen. “Ovviamente, ci sono molte differenze a seconda del livello nel quale ogni donna lavora … ma stiamo parlando di migliaia di donne. E credo [che in base a] i dati sulle loro esperienze, anche se non sono uniformi, si possa parlare di tendenze precise. ” Jensen sostiene inoltre che molte interpreti femminili siano particolarmente vulnerabili a pratiche di sfruttamento del lavoro a causa della loro mancanza di alternative. “Quando entrano ad Harvard, pensando al proprio futuro professionale, quante giovani donne pensano seriamente al porno, alla prostituzione o allo spogliarello come a una professione per la vita?” domanda, spostando l’attenzione sulle situazioni avverse che motivano alcune donne a intraprendere una carriera nel porno.

Sprinkle si arrabbia all’insinuazione che nella sua decisione di lavorare nell’industria del porno vi sia stata una scarsa possibilità di scelta consapevole. “Ho avuto un sacco di possibilità – avrei potuto scegliere e fare ogni genere di cose – ma ho scelto quel lavoro”, afferma. Anche se molte femministe coinvolte nella pornografia riconoscono che lo stigma sociale e l’oppressione possono avere come conseguenza condizioni di lavoro poco sicure, sostengono altresì che la risposta a questo problema non è quello di vietare il lavoro sessuale, ma di legalizzarlo e regolamentarlo. “L’idea che non ci possa essere una scelta consapevole significa anche che non ci possano essere diritti, che non ci possano essere ambienti di lavoro sicuri, che le persone non possano avere voce in capitolo rispetto a quello che fanno”, sostiene Taormino. “Per me sostenere le persone che lavorano nel sesso e cercare di cambiare l’ambiente dall’interno è un atto incredibilmente femminista.” Quando si parla di pornografia, tuttavia, Jensen non crede a chi sostiene il cambiamento dal di dentro. “Perché supponiamo di avere sempre bisogno di nuovi contenuti? Perché come cultura sentiamo il dovere di avere immagini sempre più esplicite sessualmente, indipendentemente dalla natura ideologica, siano esse patriarcali o femministe? ” domanda. E continua: “Quando la cosiddetta soluzione a un problema comincia a sembrare molto simile al prodotto della cultura dominante, allora inizio a nutrire molti dubbi rispetto agli effetti che avrà.”

2. Rappresentazione

Quando Hollywood riscrive e rimodella le nostre esperienze, e le scuole ignorano le nostre storie e la nostra educazione sessuale, la pornografia queer è uno dei pochi mezzi capaci di raccontare in maniera esplicita le nostre storie. –Jiz Lee, Femminista, Performer Porno (da The Feminist Porn Book)

Le pornografe femministe sostengono che i contenuti sessualmente espliciti che loro stesse producono, rendono loro possibile la rappresentazione di se stesse e del proprio corpo in un settore – e una cultura – saturi di un immaginario alienante. “In generale, credo che l’auto-rappresentazione sia fondamentale per le comunità o che le tue storie vengano affidate a coloro che sono essenzialmente ai margini”, afferma Shine Louise Houston, pornografa. “In un certo senso è così che ci si rimpossessa del potere delle narrazioni visive.” Una femminista queer nera, Houston è spesso acclamata come una delle registe e produttrici il cui lavoro, tra cui la pluripremiata serie “Crash Pad”, ha in sé il potenziale di trasformare un’industria vietata ai minori e dominata dai desideri dei maschi bianchi etero. Anche Sinnamon Love, che si autodefinisce una performer nera femminista e regista, usa il proprio lavoro per combattere gli stereotipi sessuali e razziali spesso presenti nella pornografia. Questi stereotipi variano, sostiene, da rappresentazioni “ghettizzate” dei neri a “immagini assimilative di donne nere”, che delineano un mercato che privilegia le donne di pelle chiara dai corpi sottili e dalle “fattezze europee.” “Produttori e registi giocano con questi stereotipi per attirare i propri acquirenti “, afferma Love, notando che i produttori spesso adattano i propri prodotti pensando agli uomini bianchi visto che rispetto ai neri sono più propensi ad acquistare film porno invece che che affittarli. “È una cosa della quale, personalmente, a questa età e in questa fase della mia vita, io non voglio essere parte”.

Come Love, che si sforza di realizzare un‘immagine più fedele delle donne nere nella sua pornografia, Dylan Ryan, una performer queer, trova importante produrre contenuti sessuali che siano inclusivi della sua comunità. “Stavo cercando di creare un senso autentico del mio … senso della sessualità, della mia intenzionalità , della mia disinvoltura sessuale e della mia raffigurazione fisica,” dice. “Avevo visto molti lavori inautentici rispetto a me e alle mie esperienze, quindi mi sono sentita davvero ispirata nel mostrarmi e nel rappresentare la mia esperienza.” E quando gli interpreti si sentono fedelmente rappresentati, il pubblico risponde. “Siamo diventat* una sorta di modello per le persone giovani che si interrogano circa il proprio orientamento o la propria identità di genere”, dice l’attrice femminista Jiz Lee, che si identifica come genderqueer. “Siamo qui perché non ci sono altre voci nei media mainstream.”
Tuttavia, gli attivisti di entrambe le posizioni sottolineano che il porno fatto da registe donne non risulta automaticamente femminista. “Alcune donne hanno realizzato porno davvero misogini” afferma Sprinkle. “Il porno femminista può essere fatto da chiunque, non per forza da una donna.”

3. Metti in discussione il potere, dai dignità al lavoro

Il porno femminista è un genere che è anche un movimento sociale, che sta tentando di prendere un tipo di film e metterlo assieme alla politica in questo modo davvero importante e complicato. -Dylan Ryan

Tema comune di molti film porno femministi è il riconoscimento e la negoziazione del consenso reso visibile, attraverso la collaborazione tra interpreti e registi in merito ai contenuti dei film. Nei propri film, Taormino include interviste in stile confessionale agli interpreti, allo scopo di fornire agli spettatori un’idea dei desideri e delle discussioni che hanno avuto luogo con i performer. Questa tattica, dice Taormino, “afferma il consenso in modo davvero molto esplicito e stabilisce anche il livello di proattività sessuale degli/lle interpreti nella scena”, cosa che permette agli spettatori di “lasciarsi andare alla fantasia” in modo rilassato. Secondo Taormino, la trattativa riportata sulla pellicola diventa particolarmente importante per quelle scene che raffigurano fantasie palesemente basate su dinamiche di potere, come quelle BDSM, o altre pratiche sessuali storicamente controverse. “Dominazione maschile e sottomissione femminile di per sé non sono automaticamente misogine o anti-femministe, specialmente se le persone coinvolte sono consenzienti rispetto a quello che stanno facendo”, sostiene. Le femministe anti-porno, tuttavia, sostengono che il consenso del/della interprete non obliterano i potenziali effetti psicologici legati alla visione di contenuti sessualmente aggressivi. “Non credo che sia sano a livello sociale presentare il sesso come costantemente legato al binomio dominazione-subordinazione”, dice Jensen. Anche quando una scena pornografica è “girata con persone che la hanno compresa, concordata e vi hanno acconsentito,” continua Jensen: “Qual è l’effetto del continuo rinforzo della fusione tra sesso e dominio?” Eppure per Taormino, rispettare la volontà delle proprie interpreti significa privilegiare il loro benessere e desideri al di là delle sue convinzioni personali di ciò che comportano quei desideri. “Trovo piuttosto prevaricatorio chiedere a qualcun* di far valere la propria opinione e i propri desideri per poi negarli o trovarli in qualche modo inadeguati, perché la mia idea è differente o perché ho una diversa nozione preconcetta su come le cose dovrebbero avvenire”, afferma.

4. Azione / Attivismo

“Il lavoro è sempre stata una questione femminista. Il lavoro sessuale è una questione femminista. È davvero tempo di dare seguito a tali [ideali ] nell’ambito della pornografia, che è una forma di lavoro sessuale.”
-Tristan Taormino
“La nostra cultura svaluta il lavoro sessuale e il sesso”, sostiene Taormino. “Denigriamo e stigmatizziamo le persone che fanno porno e contemporaneamente consumiamo voracemente il prodotto che deriva da tale lavoro.” In risposta a ciò che molti percepiscono come un atteggiamento disinvolto dell’industria del porno in merito alle condizioni di lavoro, diverse femministe impegnate nella pornografia sono diventate convinte attiviste a sostegno dei diritti dei lavoratori e delle lavoratrici del sesso. Sprinkle, che è attiva nel movimento dal 1974, osserva che i molteplici problemi affrontati dalle prostitute sono spesso il risultato degli sforzi compiuti per far rispettare leggi che criminalizzano la prostituzione. “C’è una guerra in corso sulle puttane, da lungo tempo”, dice Sprinkle. “Donne che non possono rivolgersi alla polizia per denunciare di essere state stuprate o derubate mentre si dedicavano al lavoro sessuale, perché hanno paura di essere arrestate.” Ryan, che sostiene la causa delle prostitute come assistente sociale, nota che lo stigma contro i/le sex worker esiste anche tra le persone che lavorano nel porno. Afferma di non essere sorpresa di vedere spesso in gioco differenze di classe, in grado di riaffermare una “gerarchia all’interno del lavoro sessuale.” “Quando parlo del valore del lavoro sessuale di strada, come di qualcosa che dovrebbe essere … socialmente sostenuto e reso più sicuro, penso sia quello il momento in cui mi caccio maggiormente nei guai – a causa di tutt* quell* che si dedicano al porno e insorgono dicendo che “beh, io non sono un/a prostituta”. Per Ryan, questa mancanza di solidarietà è a dir poco miope. “Una lavoratrice del sesso è una lavoratrice del sesso è una lavoratrice del sesso”. “Criminalizzare uno degli aspetti nel quale viene praticato tale lavoro in ultima analisi avrà delle conseguenze a cascata su tutti gli altri, in termini di come vengono percepite, sulle condizioni di lavoro, sui diritti e le possibilità disponibili per le donne che ci lavorano, cose così.” Ryan afferma che a livello personale, la sua identità di attrice porno che ha scelto e ama il suo lavoro le permette di abbattere alcuni stereotipi negativi sulle sex worker. “È sempre emozionante e divertente parlare con qualcuno, una persona impegnata nel sociale e raccontarle del lavoro sessuale, o accennare qualcosa al riguardo durante una conversazione”, dice. “È tutta una questione di scardinare gli stereotipi.”

5. Critica

La mia tattica è sovvertire dall’interno. Sii il cambiamento. -Shine Louise Houston

Mentre il porno femminista ha senza dubbio tante definizioni quanti sono i suoi spettatori, un principio guida che si può utilizzare per delineare il genere è la convinzione che la rappresentazione esplicita della sessualità abbia la capacità di interrogare in modo critico la cultura riguardante genere, potere e identità e, in ultima analisi, di cambiarla.
Considerata la storica controversia dell’impegno femminista verso la pornografia, la designazione di un approccio specifico al porno che si possa intendere “femminista” è qualcosa che molt* ancora mettono in discussione. Eppure è innegabile l’empowerment di coloro che sono stat* storicamente oggetto di uno sguardo sessualizzato – donne, queer, persone di colore – nel momento in cui diventano protagoniste del proprio desiderio. In una cultura inondata di contenuti che travisano più di quanto non divulghino, non c’è forse mezzo più appropriato dello schermo per mettere in atto questo intervento. Per molte delle femministe che si cimentano con il genere, la politica della pornografia riguarda molto più che la semplice realizzazione di immagini nelle quali gli spettatori possano identificarsi. Piuttosto, la pornografia femminista rappresenta un quadro di riferimento utile a concettualizzare l’identità, il potere e il desiderio, una lente attraverso la quale interrogare e criticare una cultura. Taormino, per esempio, è convinta del potere trasformativo della pornografia. Come scrive in The Feminist Porn book, un’antologia che ha co-curato sul genere, il porno può avere un ruolo molto più importante della funzione di procurare piacere: “Penso che il sesso possa cambiare il mondo.”