Sono bisessuale, e orgoglioso di esserlo!

 

Sono bisessuale. Non mi piacciono uomini e donne, mi piacciono più generi.

Sono bisessuale. Gli eterosessuali pensano di potermi normalizzare, gli omosessuali credono che io sia un gay velato che non vuole fare coming out. In ogni caso, pare che chiunque ne sappia sempre più di me sul mio orientamento.

Sono bisessuale. È considerato accettabile dire che sono confuso, indeciso e che la mia è solo una fase; affermazione che, se rivolta ad una persona esclusivamente omosessuale, è accolta – giustamente – con orrore.

Sono bisessuale. Il mondo è abituato a vedere monosessualità ovunque, e la percezione del mio orientamento avviene sulla base di chi frequento, e quindi sono invisibilizzato. E se prendo per mano un ragazzo, allora sono ‘finalmente gay dichiarato’,  e se sto con lei, per magia divento un omosessuale che finge di essere etero.

Sono bisessuale. Con scherno, si dice che una persona bisessuale è contenta a prescindere da quello che trova negli altrui pantaloni. Avrete mica paura della liberazione dei generi e dell’accettazione di più di due set predefiniti di corpi sessuati?

Sono bisessuale. Se guardo un film qualunque e c’è un personaggio bisessuale, posso essere sicuro che nella quasi totalità dei casi sarà un personaggio palesemente instabile e con problemi di salute mentale. Se non sarà così, allora sarà descritto/a come gay o lesbica.

Sono bisessuale. Quando lo affermo, automaticamente si dà per scontato che mi piaccia chiunque e che questo sia in qualche maniera un segnale di consenso da parte mia nei confronti di avances di vario tipo.

Sono bisessuale. Se fossi monogamo, mi direbbero che non sono un vero bisessuale e il/la mi@ partner non si fiderebbe di me perché potrei lasciarl@ per una persona del mio o di altri generi. Ma siccome sono poliamoroso, mi dicono che rinforzo stereotipi.  In ogni caso non va bene: rovino l’immagine del gay zitto e buono che si sposa, si ingozza di torta nuziale, è felice così e chissene importa se intanto il tasso dei suicidi lgbtqia+ sale in maniera preoccupante.

Sono bisessuale. Ed ogni personaggio storico con una relazione con una persona del suo stesso sesso è considerato automaticamente omosessuale, a prescindere da quello che effettivamente provava nei confronti degli altri generi.

Sono bisessuale. Conosco molte associazioni omosessuali e poche associazioni transessuali. E di associazioni bisessuali? Soltanto due.

Sono bisessuale. Non dò per scontato che il mondo sia binario, eppure mi sento dire da mille persone che non-si-etichettano o che utilizzano qualche etichetta-ultra-super-inclusiva frasi come no, preferisco dirmi pansessuale e quando chiedo loro perché, mi rispondono che identificarsi come bisessuale implicherebbe affermare l’esistenza di due soli generi e sarebbe transfobico nei confronti delle persone con un’identità di genere nonbinaria. Subito dopo, affermano che a loro piacciono uomini, donne e trans. Come se considerare quel ‘trans’ un mondo a sè stante non fosse transfobico, e soprattutto ignorando che io stesso sono un uomo trans, e sono bisessuale. Tuttavia, se mi identificassi come pansessuale, non esisterei lo stesso perché sarebbe considerata una nuova e inutile etichetta da hipster.

Sono bisessuale. Non ho scelto di esserlo, ma dal momento che lo sono scelgo di vivere la mia vita in maniera favolosa, splendente, liberatoria e rivoluzionaria e piena di rabbia, gioia, solidarietà, orgoglio.  E lotto per la mia liberazione e quella di tutte le persone bisessuali!

 

Nel corpo. Lettera di una ex detenuta

presas

Diffondiamo una lettera scritta recentemente da una ex detenuta delle Vallette ripubblicata da Macerie, che racconta la sezione femminile del carcere, l’oscenità della repressione. Quella faccia della “giustizia” legale che tortura, rinchiude e punisce con ottusa crudeltà.
Negare la libertà non si può realizzare con quattro stupide mura ed ecco che li interviene l’Istituzione, creando regole, limiti, negazioni continue di tutto ciò che è essere se stesse, che è bellezza e creazione di legami sociali con individui umani e non. Di tutto ciò che è lotta.

Libere tutte!

«È nel corpo che si sente la sofferenza immediata del carcere. Vi racconto le piccole materialità che traumatizzano le membra e fanno del carcere di Torino una delle galere più invivibili (a detta di chi di galere ne ha girate molte e a lungo).
Nel femminile, diviso in 4 sezioni, sono collocate circa 200 donne, 2 in ogni cella.
Le celle sono piccole e scure, hanno dimensioni di 4 metri per 2 nello spazio abitativo che dispone di un letto a castello, un tavolino a muro, 2 sgabelli -se si è fortunati- e 4 piccoli pensili. Il bagno è di dimensioni 4 metri per 1 con water, lavandino e bidet. In cella non c’è acqua calda, che è invece fredda e terribilmente terrosa. Se lasci la moka bagnata il giorno dopo puoi scorgere la traccia grigiastra lasciata dall’acqua. Se le due concelline non sono entrambe smilze e piccoline è quasi impossibile muoversi contemporaneamente senza toccarsi e intralciarsi.
Le finestre sono piccole e basse, infossate verso l’interno e circondate da sbarre e da una grata a maglia fine (messa dopo la protesta delle lenzuola). L’aria già riciclata dall’esterno, chiusa dalle alta mura dei vari perimetri, non riesce a circolare e ad arieggiare la cella. Chi ha problemi di claustrofobia ed asma ne patisce molto.
Di conseguenza il minimo da pretendere è che le celle rimangano aperte, mentre c’è la possibilità di uscire dal proprio cubicolo solo 4 ore su 24.
Dalle 9 alle 11 della mattina c’è la possibilità di uscire all’aria, in un cortile spoglio con alte mura e nessuna fontana. Nello stesso orario è concesso fare il bucato e la doccia con l’acqua calda in un unico locale che dispone di 3 docce e un lavandino. Solo 3 persone alla volta possono recarsi a fare la doccia, in sezione si è in 50 donne.
Al pomeriggio la stessa storia. Dall’una alle tre c’è l’aria e ci sono le docce aperte. Se non si fa né l’una né l’altra si rimane chiuse.
All’aria c’è una rete di pallavolo e due porte barcollanti da calcio, ma c’è solo una palla bucata e sgonfia con cui oltre che calciarla per scaricare il nervoso non si può fare nessun gioco.
In più le guardie portachiavi riducono il tempo d’apertura. Ad un quarto aprono e a meno un quarto chiudono, mai all’orario giusto.
Riassumendo… la concomitanza degli orari dell’aria e della doccia riduce il tempo di stare all’aperto e crea l’impossibilità di fare entrambe le cose. Le docce sono poche e fanno schifo, il soffitto è giallo dall’umidità e sgocciola, l’acqua troppo dura fa squamare la pelle, lo spazio per l’aria è triste, troppo assolato e senza fonti d’acqua corrente durante l’estate, senza riparo per l’inverno. Una bella lista di ovvi motivi per lottare. I tempi e gli ambienti delle ore d’aria sono fondamentali per un minimo di sopravvivenza possibile.
Rispetto alla possibilità di fare movimento e sport… ecco non c’è nessuna possibilità.
Esiste una palestra, inagibile da oltre un anno. Hanno aperto un corso di pallavolo per 15 persone che hanno fatto richiesta e dopo mesi sono state chiamate a partecipare.
L’inattività, causata da mancanza di strutture e mezzi, facilita il corpo a sformarsi, a deprimersi di più, a non avere la stanchezza sufficiente per dormire, a trattenere il nervoso, il malessere e la mente affranta. Gli spazi ci sono e dovrebbero essere utilizzati. Ma possiamo aspettare che qualcuno ce li conceda per generosità o sarebbe ora di esigerli con forza?
Per ogni malessere non fisico il carcere propone la Terapia. La visita dallo psichiatra è quella più suggerita dalla direzione carceraria e la somministrazione di farmaci consigliata dallo psichiatra la più generosa.
La maggioranza delle detenute utilizza psicofarmaci per affrontare la sofferenza e l’insonnia. Il carrellino dell’infermeria passa tre volte al giorno per dispensare anestetici all’angoscia della carcerazione.
Per i mali fisici, per qualsiasi male, c’è il Brufen. Mal di collo, Brufen, mal di schiena, Brufen, mal di denti, Brufen… e così via.
Il personale medico non pare così professionale, a volte di fronte a non ovvi malesseri si destreggia nello sperimentare miscugli di farmaci. Al femminile ho visto donne gonfiare con il passare degli anni (io sono entrata più volte per brevi soggiorni), altre dimagrire di molti, molti, molti chili, altre mi hanno raccontato di terribili mali a causa di cure dentistiche errate e rimedi bestiali, siringhe di miscugli di antidolorifici intramuscolo. (se hai male ai denti è la fine. Il dentista in carcere fa schifo, se si sta anni dentro con qualche problema ai denti si rischia di uscire sdentate).
Ricordo che lo scorso Natale nella sezione maschile è morto un detenuto per una terapia sbagliata. Il caso è rimasto all’oscuro. Qualche suo compagno di sezione ha protestato per l’accaduto, ma come risposta ha ricevuto un immediato trasferimento in un altro carcere. I tentativi di zittire chi prende il coraggio di raccontare non devono scoraggiare. Affinché questi episodi non colpiscano più chi è costretto all’interno di un carcere, per la propria incolumità, le violenze, gli abusi e la negligenza di chi gestisce queste gabbie dovrebbero essere diffuse il più possibile e la vigilanza di chi è dentro dovrebbe essere al massimo grado, altro che psicofarmaci.
I problemi di salute derivano anche dall’alimentazione.
Il cibo che passa il vitto è abbondante, ma spesso è immangiabile e misterioso. Nei carrelli della casanza si sono visti frittate spugnose, sughi di carne e hamburger verdi, pasticci di patate acidi, riso sempre crudo e uova vecchie. Chi non ha soldi, chi vive da anni senza alcun legame con fuori o con una famiglia indigente impossibilitata ad aiutarla, oppure chi si è vista arrestare e sequestrare le proprie cose sospettate de essere i proventi dell’attività illecita commessa, si vede costretta a doversi cibare principalmente del cibo che passa il carcere. Diventa impossibile concedersi quei piccoli vizi che ti renderebbero un po’ più lieta, e allora rimandi tutto al desiderio.
L’amministrazione offre a chi non ha soldi 15 euro al mese. Con 15 euro puoi comprarti un pacco di caffè, un pacco di carta igienica, uno shampoo, un bagnoschiuma, un pacco di assorbenti, un pacco d’acqua da 6 bottiglie e un dolcino di quelli economici. E i francobolli? Le buste? Una penna? Una bottiglia d’olio per condire l’insalata? Sei poverella? Mangi insipido e sei costretta ad elemosinare i bolli.
I prezzi dei prodotti della spesa sono in continua variazione, solitamente in crescita. Si sospetta che i prezzi siano aumentati rispetto ai prezzi del supermercato, a volte la cosa risulta palese, quando il prezzo originario è ancora appiccicato sulla scatola da dove vengono distribuiti i prodotti. Dove va quel sovrapprezzo? Ad alimentare l’amministrazione carceraria che si lamenta di mancanza di fondi e di scarsità di strumenti? Secondo le normative i prezzi della spesa in carcere dovrebbero essere uguali alla prima area di commercio al di fuori. Risulta difficile capirlo visto che non esiste un elenco noto con la lista di tutti i prodotti disponibili elencati con relativo prezzo precisato. Quindi altro che mantenuto dallo Stato come suole dire la gente indifferente, il carcere è mantenuto dalle stesse detenute che inoltre lo puliscono in cambio di una paga misera e ancora più misera se hai una pena definitiva, dai soldi dello stipendio ti tolgono le spese del vitto e dell’alloggio carcerario.
Altra privazione che è degna di nota è l’impossibilità di tenere il fornellino in cella per 24 ore. Esso viene ritirato alle 9 di sera alla chiusura dei blindi e ridato alle 7 del mattino. E se qualcuna insonne volesse farsi una camomilla oppure degli spaghetti aglio, olio e peperoncino? O se qualcun’altra è mattiniera e vuole bersi il caffè alle 5? “I fornellini non rimangono nelle celle perché alcune detenute sniffano il gas” questa è la scusa che hanno utilizzato le guardie, l’ispettrice e i colleghi civili, mettendo le detenute le une contro le altre, sniffatrici di gas contro cuoche notturne. E perché non incazzarci con chi ha deciso di togliercelo? C’è chi tre volte al giorno somministra terapie stordenti, chi chiude e rinchiude con mille mandate porte che ci fanno soffocare, che portano al suicidio… si preoccupano che con del gas una si possa stordire e così giustificano il fatto che ci possono levare tutto?
Non sarebbe ora di smettere di essere trattate da scolare monelle, ma di comportarci come donne dignitose che si incazzano e si riprendono quello di cui hanno bisogno?
In carcere si sopravvive grazie agli incontri. Nonostante la storie completamente differenti si trovano donne con le stesse paure e la stessa voglia di libertà. C’è sempre una storia divertente o colma di sfighe che vale la pena di essere ascoltata. A volte nascono discussioni su vicende avvenute nel trantran quotidiano, sui fatti di cronaca con punti di vista strampalati, su sogni su fuori, su vicende del passato, su lamentele sullo schifo del carcere. Non c’è mai tempo però per parlare a lungo. Le ore d’incontro sono quelle d’aria, da far incastrare con la doccia e due ore la sera di socialità (si può stare in 4 in cella). È poco il tempo per superare la superficialità delle cose che si dicono, per iniziare a dire le cose che si pensano, non sufficiente per concluderle. Proprio impossibile invece è comunicare con le altre sezioni dello stesso braccio. Al femminile si sono solo quattro sezioni una vicina all’altra ma è come se fossero distantissime, se sei in terza non sai quasi nulla di quello che succede in prima e sono una sull’altra.
È vietato ogni tentativo di comunicare. Se urli troppo dalla finestra per parlare con una tua amica che è in un’altra sezione vieni rimproverata. Con il maschile nel 2011 esisteva ancora la posta libera, senza dover mettere i francobolli. La corrispondenza era fitta, nascevano rapporti epistolari d’amore e c’era l’opportunità di scambiarsi informazioni sulle differenti situazioni di detenzione, di far girare notizie di maltrattamenti e ingiustizie, di tirar su il morale di uno/a sconosciuto/a. Oggi le lettere interne bisogna spedirle, e il tempo di una risposta può essere anche di due settimane, perché l’attesa di una missiva che esce dal carcere ha inspiegabilmente questa durata. Riducendo al minimo l’incontro fisico con le compagne di detenzione, aumentando le distanze tra sezioni differenti, tra maschile e femminile, tra dentro e fuori i legami sono più fragili, aumenta la sensazione di isolamento, diminuisce la possibilità di far girare notizie di maltrattamenti, pestaggi o iniziative di protesta che se comunicare velocemente potrebbero avere una simultanea reazione solidale nelle altre parti del carcere e fuori.
Ma per superare le difficoltà di comunicazione, e gli ostacoli che l’amministrazione penitenziaria frappone internamente tra i detenuti e tra i detenuti e il mondo di fuori è necessaria la consapevolezza che la solidarietà e la determinazione individuale e collettiva sono gli unici strumenti che abbiamo contro le violenze, gli abusi e le umiliazioni che subiamo quotidianamente. Se ci lasciamo drogare tutti i giorni, se accettiamo passivamente le condizioni in cui ci costringono a vivere, se continuiamo ad essere isolate e indifferenti perdiamo la dignità che sola ci rende libere tra quelle mura e non costruiamo nessuna ancora di salvataggio a cui aggrapparci per resistere al mare aperto in cui siamo esiliate.
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macerie @ Luglio 8, 2013

“La scuola di Venere” il manuale sessuale dell’Inghilterra del XVII secolo

Se una costante della maggiore letteratura medioevale e moderna è stata la misoginia, non mancano testimonianze positive del desiderio femminile (benché etero), riportato in testi che circolavano in Europa tradotti in più lingue.
Uno di questi è l’innovativo “L’escole des filles ou La philosophie des dames : divisée en deux dialogues”, tradotto in inglese con il titolo “La scuola di Venere”. In esso si fa descrizione delle parti anatomiche delle donne, dei benefici di una vita sessuale variegata e della relazione tra libertà sessuale e politica.
L’articolo che segue è una traduzione dallo spagnolo, buona lettura!

“La scuola di Venere” il manuale sessuale dell’Inghilterra del XVII secolo

L’Inghilterra del XVII secolo non era tanto puritana come si potrebbe pensare: manuali di questo tipo circolarono nelle librerie pubbliche e convissero con messali e sermonari, per gli amanti avventurosi.

Un secolo prima che il divin Marchese de Sade publicasse opere che ancora fanno arrossire le signorine, e quesi due secoli prima di Apollinaire e Pierre Lourys, fu pubblicato nel 1680 in Inghilterra la traduzione di un’opera francese chiamata  L’École des filles (“Scuola delle signorine”) con il titolo The School of Venus, or the Ladies Delight Reduced into Rules of Practice (“La scuola di Venere o del piacere delle dame ridotto in regole e pratiche”); si tratta di un’opera letteraria in forma di dialogo e con molte illustrazioni che sorprende per la propria modernità.

Dove si discutono i nomi popolari della vagina e del pene.

Vi sono due personaggi femminili che tengono una divertente chiacchierata sulle proprie abitudini sessuali: Katherine, “una vergine di mirabile bellezza” e sua cugina Frances, che è sposata ma è anche un po’ più liberale. Il suo dialogo ci mostra che la sessualità nel secolo XVII non era tanto puritana come si potrebbe credere in un primo momento, nonché la consapevolezza dell’autore (anonimo, certamente)  della relazione tra sesso e politica.

Dove Katy apprende che ci sono piaceri incomparabili e necessari, così lontani dalla sua immaginazione che sono come comparare acqua e vino.

Le cugine parlano dei benefici derivanti dall’avere più partner sessuali e di come non è necessario sposarsi con qualcuno per godere dei piaceri carnali; congetturano anche su cosa accadrebbe “se le donne governeranno il mondo e la Chiesa, come fanno gli uomini”, mescolando riferimenti all’orgasmo multiplo e all’esistenza della clitoride, alla quale si riferiscono come “la cima della Fica” che “sporge”.

Termini e concetti normali oggigiorno (come “amici con benefici”) vengono insinuati nella ricerca di uno “scopamico” con il quale si può “rompere il ghiaccio”, oltre a essere pieno di idee affinché le coppie del XVII secolo espandessero i propri orizzonti sessuali dunque, a dispetto dei pregiudizi contro il puritanesimo, non tutto era alla missionaria a quel tempo:

certe volte mio marito si mette sopra di me, e a volte io mi metto sopra di lui, a volte lo facciamo di fianco, a volte in ginocchio, a volte di lato, a volte da dietro… con una gamba sulle sue spalle, a volte lo facciamo sui nostri piedi …

A seguire una serie di illustrazioni provenienti dall’ultima sezione del manuale. Il libro si può consultare on line qui.

Traduzione e adattamento di Serbilla.

Articolo originale qui

Pride: piume sì, piume no?

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Frequenze Lesbiche è un giovanissimo blog (siamo quasi coetanee) nato in seno ad ArciLesbica con “l’obiettivo di creare uno spazio di condivisione politica, sociale e culturale dove possano dibattere tra loro voci diverse sui temi della comunità LGBTIQ”.

Riportiamo alcune interessanti riflessioni sul pride di una delle voci di questo blog, Carlotta, sul ricorrente dibattito sulla rappresentazione che questo evento deve dare della comunità LGBTIQ.

Buona lettura!

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PIUME O CRAVATTE? ECCO A VOI IL PRIDE

Tempo di Pride, tempo di polemiche. Come tutti gli anni inizia la solita sterile manfrina: piume sì, piume no, meglio la cravatta, la rispettabilità, la famiglia o meglio i lustrini, il divertimento e la poliaffettività?
Meglio l’autodeterminazione.

 

È frustrante leggere accorati appelli a un Pride sobrio, per una normalizzazione della parata, come questo (interessante il passaggio su noi e loro, come specie antropologiche differenti) e questo.
Sulla pulciosa diatriba estiva pre-Pride si gioca ogni anno una sorta di dibattito attinente alla meritocrazia dei diritti: ai froci buoni, integrati, che ambiscono al matrimonio e ai figli i diritti (e la dolce Euchessina)…e a quelli cattivi, che vanno in giro con le paillettes? Che spingano, avrebbe detto Marcello Marchesi.

Sarcasmo a parte, cosa permea questi discorsi?
Intanto, la presunzione di conoscere a fondo chi è il soggetto LGBTIQ normale, come se ci fosse un ben definito tipo LGBTIQ, di lombrosiana memoria, con la differenza che al soggetto LGBTIQ matur* si attribuiscono caratteristiche quali il desiderio di famiglia e figliolanza, mentre la radicalità, il gioco con il corpo ed il sesso sono proprietà del soggetto immaturo e imbrattato di rossetto. Poco importa se poi esistano soggetti che appartengono a entrambe o nessuna di queste categorie.

Beninteso, non ho nulla contro il mettere su famiglia e sposarsi, penso anzi che sia un diritto che deve essere riconosciuto, nella sua pienezza, anche alle persone LGBTIQ che lo vogliano per sé, per le loro vite, ma non credo che tutt* abbiano questi desideri: penso che ci siano modelli relazionali differenti, affettività non riassorbibili unicamente nel concetto di coppia, famiglie di scelta che si discostano dalla famiglia tradizionale mononucleare, identità più ampie che quelle comprese nella narrazione dominante.
Penso che ci siano tante storie differenti e tracciati di vita diversi, che hanno uguale diritto di essere.
Quest’impianto teorico, dicotomico, mi rimanda invece al concetto di morale vigente, di cosa sia considerato perbene e cosa permale.
Il punto è, quindi, da un lato la cristallizzazione che esce da questa dicotomia: o sei padre/madre di famiglia, a modo, con la cravatta (o la t-shirt), un lavoro rispettabile e buon*, oppure sei cattiv*, indecente, vestit* da checca o da puttana, con le macchie di leopardo e il rossetto sbavato; dall’altro è la normalizzazione, cioè l’impossibilità di autodefinirsi secondo altri parametri che non siano quelli identificati come giusti e decenti, di fatto arrivando a bandire la radicalità, la possibilità di critica e di dissacrazione.
In questo modo si costruisce anche un immaginario povero, in cui la libertà di azione di ognun* è minima e in cui la differenza spaventa meno, perché viene ricompresa, ridotta a qualcosa di noto e meno destabilizzante.
Dove finisce allora la mia possibilità di scelta, la mia libertà di azione, nel momento in cui posso essere soltanto in un certo modo?

In seconda battuta, trovo che sia puro marketing -e nemmeno troppo efficace- quello di far sfilare la “normalità”. La normalità ha a che fare più con il concetto di normazione che con il concetto di realtà. Chi è normale? Il soggetto che in una valutazione di frequenze sta al centro di una curva gaussiana, o poco distante, con un massimo di due deviazioni standard dalla media? Chi rimane tagliato fuori da questo discorso che tutto disciplina? Chi è la coda esclusa? Chi sono, in altre parole, i soggetti fuoriusciti, diventati un discorso marginale? Quali relazioni sono promosse e quali punite?
Penso che sia marketing perché si parte dall’assunzione che, in una società dove l’educazione alle differenze è ancora difficile, mostrarci come simili, come uguali, contribuisca a renderci più accettabili, venda bene il prodotto, truccato ad hoc per il pubblico che lo apprezzerà facilmente (fosse poi vero). Con una definizione della normalità edulcorata, tutta sorrisi e famiglie felici, come se quella fosse la rappresentazione più veritiera e desiderabile della società attuale. Come se quella, per giunta, fosse la fotografia della famiglia eterosessuale a cui essere simili, che, a ben vedere, è comunque molto più sfaccettata di così.
Via libera allora al «panettiere, che ogni giorno ci regala un sorriso al bancone, o l’insegnante di nostro figlio, che stimiamo per la sua cultura», ma che ne sarà della vicina di casa lesbica ma antipatica e avvezza a intrattenere numerosi rapporti sessuali con più e differenti partners? Chi si ricorderà della transgender brasiliana, che si prostituisce per mantenersi (e questo non è per il facile e sbagliato accostamento transgenderismo/prostituzione, ma per calcare la mano su chi si prenderà cura dei soggetti non conformi)?

Nella retorica delle narrazioni, credo che il discorso sulla rispettabilità e la decenza sia pericoloso, perché nega che il diritto di esistenza e di relazione sia universale e debba essere garantito a priori a qualunque essere umano- in quanto fa parte dei diritti umani poter esprimere liberamente il proprio orientamento, la propria identità ed espressione di genere- ma fa del diritto una concessione dall’alto, esclusiva del soggetto conforme alla società e socialità.
Introducendo implicitamente la meritocrazia del diritto: i diritti come appannaggio di chi se li merita.
Nell’invocare sobrietà e cravatte ai Pride, leggo tra le righe il desiderio -che è ben più ampio del Pride stesso- di disciplinare corpi e sanzionare comportamenti: sorvegliare e punire, in un meccanismo di controllo sociale, reciproco, che spacca la stessa comunità che rivendica il proprio diritto ad esistere.
In una riduzione asfittica dell’agibilità politica e della possibilità di contrattazione.

Reuters/Jim Urquhart, dal sito www.charismanews.com

L’assimilazionismo e l’omofilia hanno attraversato la storia del movimento omosessuale di rivendicazione: negli anni ’50 il movimento omofilo guardava con sospetto, nel più benevolo dei casi, e con sdegno e livore più di frequente, alla liberazione e al culto del corpo, ai locali di intrattenimento, al divertimento, opponendo a questo tipo di subcultura che stava prendendo piede un netto rifiuto in nome della rispettabilità. Secondo il movimento omofilo era infatti colpa dell’ostentazione se c’era una stigmatizzazione e un accanimento così forte nei confronti della popolazione LGBTIQ. Poi vennero il Gay Liberation Front, l’epoca della liberazione, il ’68, momento dal quale, si sperava, non si sarebbe tornat* indietro.
Corsi e ricorsi.

Penso però che si possa superare un ragionamento di così vecchio stampo, al grido di Pride libera tutt*, rinfrescando la memoria, come primo atto dovuto di quella che di fatto si chiama Marcia di Christopher Street.
Cos’era Stonewall, il 28 giugno 1969?
Era un moto di insurrezione, un momento di insubordinazione e lotta, era il grido ora basta, una bottiglia lanciata, con rabbia e con esasperazione, da Sylvia Rivera, una transgender, contro un poliziotto, dopo l’ennesima retata nel bar Stonewall Inn, in Christopher Street, a New York.
Erano scontri di migliaia di gay, lesbiche e transessuali contro le forze dell’ordine in assetto antisommossa, in un’intifada di bottiglie e pietre. Ma era anche la provocazione irridente di dire:

«Siamo le ragazze dello Stonewall
abbiamo i capelli a boccoli
non indossiamo mutande
mostriamo il pelo pubico
e portiamo i nostri jeans
sopra i nostri ginocchi da checche!»

[coro di drag-queen in fila contro i poliziotti, riportato in PIONTEK, T., 2006. Queering Gay and Lesbian studies. Champaign: University of Illinois Press. Pag. 7]

Il Pride si è arricchito successivamente, di altri significati.
Oltre alla marcia per i diritti, si porta così in strada, in una festa collettiva, alla luce del sole e ben visibile, una cultura variegata, che tiene dentro molti contenuti e soggettività diverse: la cultura LGBTIQ. Che non è certo univoca e unitaria, ma frammentaria, come si addice a una comunità molteplice come quella LGBTIQ, accomunata dalla volontà di liberazione, ma spesso differente nella sua composizione per ceto, provenienza, etnia, istruzione, genere ed identità di genere, orientamento sessuale.

Dunque, come scendere in piazza?
Come si vuole, ognun* con la propria identità, storia ed individualità. Con i propri desideri e il proprio corpo, con gli abiti che ci stanno meglio o peggio addosso, con le relazioni che abbiamo, se le abbiamo. Con le cravatte e le sciarpe, con i boa di struzzo e i capezzoli in nastro adesivo nero.
Con le famiglie e le figlie, ma anche con le amiche e sorelle o da sole.
E in due, e in tre. Con i mariti, le mogli, le compagne, le amanti.
Marciando e gridando slogan ma anche ballando, cantando, spogliandoci e celebrando la bellezza dei nostri corpi.
Favolosamente.
Con la sola regola di sentirci a nostro agio, perché il Pride è un momento in cui essere orgoglios* di ciò che siamo e l’orgoglio porta con sé tanta felicità.

Leggi anche:

Dubbi sul queer: alcune risposte

imagesRiportiamo con piacere la risposta di Mina a questo articolo che pone dei dubbi sul queer. Invitiamo, chi lo desidera, a dirci cosa ne pensa. Buona lettura!

Nota: le frasi presenti in parentesi quadre sono da attribuirsi a Mina e non all’autrice dell’articolo in questione

Cara Anacronista,
volevo controbattere ad alcuni punti del tuo articolo. Tipo a tutti, ora che ci penso.
Parto col dire che mi auto-colloco nella sfera queer e con questo non significa che sono uguale ad altre persone che si definiscono queer, con cui magari arriviamo a conclusioni anche abbastanza diverse. Questo, perché, il movimento queer è ben lungi dall’essere un modello in quanto, nonostante alcuni punti di partenza comuni, non offre un prototipo identitario o comportamentale o un’universalità di precetti, ma include tutte le forme che sfuggono o si pongono in maniera problematica verso le forme di essere e di relazionarsi “permesse” dalla società. Di seguito risponderò punto per punto alle tue osservazioni:

Allo Sfamily Day, si paventava – in modo piuttosto accennato e sfuggente – la possibilità di un legame tra la precarietà del lavoro e quella delle relazioni.

E’ un’ipotesi, si può argomentare, condividere o meno (io personalmente riconosco questa correlazione)

Leggi tutto “Dubbi sul queer: alcune risposte”

Queeresima: proiezione del documentario “Difficult Love” di Zanele Muholi al Macomer

Condividiamo con piacere il programma dell’iniziativa che si terrà al Centro Servizi Culturali Macomer venerdì 21 giugno alle ore 21;30 durante la quale verrà proiettato il documentario “Difficult Love” di Zanele Muholi. La proiezione si inserisce nella Queeresima, un percorso di quaranta giorni ricco di riflessioni, incontri, approfondimenti volti a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dei diritti LGBT e che si concluderà con il Sardegna Pride del 29 Giugno a Cagliari. Buona lettura!

996854_399130436867320_1219850231_nFotografa lesbica nera sudafricana, Zanele Muholi coniuga la produzione artistica con l’impegno politico, dando vita a quello che lei stessa definisce “attivismo visuale”: le sue fotografie danno visibilità ai corpi e ai volti delle lesbiche nere e costruiscono un archivio della comunità LGBTQI sudafricana attraverso tracce visuali di una storia collettiva delle soggettività lesbiche, gay e trans, cancellate dalla storia ufficiale.

Leggi tutto “Queeresima: proiezione del documentario “Difficult Love” di Zanele Muholi al Macomer”

FAMoLo PRIDE sessualità e famiglie come meglio crediamo!!

famolonano

Condividiamo l’appuntamento di domani pomeriggio a Torino (e condividiamo in tutto e per tutto le questioni poste dall’appello!)
A domani!

FAMoLo PRIDE

Sessualità e famiglie come meglio crediamo!!

“Essere legittimati/e dallo Stato significa entrare a far parte dei termini della legittimazione offerta e scoprire che la percezione di sé in quanto persona, pubblica e riconoscibile, dipende essenzialmente dal lessico di tale legittimazione”.
”Interrogarsi su chi desidera lo Stato, chi può desiderare ciò che lo Stato desidera e perché”
Judith Butler

Il Torino Pride del 2013, che si svolgerà sabato 8 giugno, ha come focus il tema delle famiglie: www.torinopride.it/index.php/documento-politico
Ma cos’è realmente una famiglia?
Se osservata nel tempo e nello spazio, chi la studia ci dice quanto sia difficile darne una definizione precisa: più semplice appare certamente l’analisi di come si faccia famiglia, piuttosto di quella sul cosa essa sia. A fronte di alcune caratteristiche più o meno indispensabili  -solidarietà, aiuto reciproco, sodalizio economico, affetto  (non sempre) sesso, ecc. -, le declinazioni appaiono molto varie: storicamente, geograficamente, culturalmente e socialmente definite.

Il movimento “gay” negli anni ’70 si rivelava quanto meno avverso alla famiglia, se non il suo ideale distruttore; oggi quello lgbttqi chiede forse un po’ troppo insistentemente di partecipare ad una visione specifica e normativa della stessa, “omologata” e “omologante”? La richiesta è forse quella di entrare a far parte di quei “privilegi” che una determinata forma affettivo/relazione ben definita (che parte dal duale, dalla coppia adulta), permette di raggiungere, rispetto alle altre?

L’insistenza della richiesta è certamente comprensibile alla luce di alcuni effetti pratici non facilmente negabili e tanto meno banalizzabili- spesso legati alla vita quotidiana- che un tale riconoscimento permetterebbe di raggiungere, ben espressi nel documento politico del Torino Pride 2013 e un po’ in tutte le piattaforme del movimento lgbttqi degli ultimi anni: riconoscimento bimbi/e per @ genitor@ non biologico, possibilità di adozioni, questioni ereditarie, diritto alla cura e vicinanza al/la partner, ecc.

Inoltre, come sostiene Anthony Giddens in merito all’analisi delle “relazione pura”, pensiamo che le coppie/famiglie non eterosessuali siano spesso portatrici i aspetti innovativi e di “democratizzazione” rispetto alla classica concezione patriarcale, ipocrita, illiberale e repressiva della famiglia d’ispirazione borghese: rispetto alla strutturazione dei ruoli in generale e di genere in particolare, del “riconoscimento” reciproco dei/lle componenti il nucleo, degli aspetti (auto)riflessivi, della comunicazione interna, della contrattazione (continua), della gratificazione relazionale, dell’educazione della prole, ecc.

E proprio a proposito di prole, segnaliamo come spesso l’opposizione “da destra” al matrimonio nasconda fobie legate alla filiazione e alle adozioni: preoccupazioni economiche legate al controllo della trasmissione dei patrimoni per via ereditaria, paura di mettere i discussione modelli di riproduzione ed educazione della “specie”, funzionali al mantenimento di prestabiliti ruoli di genere, ma anche della purezza di una “razza” e di una cultura.

Ma, pur in presenza di aspetti positivi inerenti il riconoscimento delle famiglie lgbttqi, restano certamente alcuni dubbi:

l’inclusione lgbttqi nell’istituzione del matrimonio traccia immediatamente una linea di esclusione di tutt@ coloro, lgbttqi e non, che invece non vogliono sposarsi, e di quelle pratiche sessuali che non vogliono farsi istituzionalizzare: cosa comporta questo per la comunità de@ non coniugat@, de@ single, dei divorziat@, di coloro che non sono interessat@ al matrimonio, di coloro che non sono monogam@? Che riduzione subirà la leggibilità della sfera sessuale una volta che il matrimonio venga considerato la norma?

quanto c’è di “conservatore” nell’accettare che certe garanzie di welfare passino solo attraverso il matrimonio?

In periodi di crisi e in assenza di politiche di welfare ad ampio raggio, infatti, la “famiglia” diviene l’ancora di salvezza e il sostituto delle mancanze “istituzionali”, della sottrazione di risorse economiche alle politiche di “solidarietà sociale”, su cui lo Stato fa strumentalmente appoggio. E, parallelamente, tali momenti difficili accrescono il bisogno di riconoscimento di ciò che non viene considerato famiglia, per “spartirsi” quel poco che rimane dei privilegi economici spettanti alle famiglie “normate”.

A noi interessa porre invece l’accento su un concetto allargato e non normativo di famiglia: pensiamo siano le relazioni umane ad ampio raggio a crearle (e non quelle più o meno definibili “di sangue”). Sottolineiamo l’importanza delle varie modalità che le persone si costruiscono per “stare in famiglia/e” (amicizie ed altre reti di relazione, ad esempio) e delle diverse forme di solidarietà che esulano dal concetto normativo di famiglia, e vorremmo valorizzare l’aspetto “familiare” che la modalità di “comunità”, in specie lgbttqi, in qualche modo sottende.

Fai come Dolce Remì

Unisciti alla nostra “comunità familiare” de@ “senza famiglia”

Famolo insieme, famolo strano, famolo pride!

Promuovono l’appello:

C.S.O.A. Gabrio
Federazione Anarchica Torinese
Laboratorio Sguardi sui Generis
Maurice lgbtq
Samba Band Torino
Collettivo Altereva
Network Antagonista Torinese
Rete Genitori Rainbow

Riflessioni sul matrimonio gay

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Lo sappiamo ormai tutt@: l’assemblea nazionale francese ha dato il via libera alla legge sui matrimoni e sull’adozione di bambin@ da parte di coppie dello stesso sesso. Tutt@ a festeggiare, tutt@ a dichiarare la Francia come il paese da imitare quando, a mio avviso, ci sono delle cose sulle quali sarebbe bene riflettere.

E’ evidente che questa legge sia accolta come di importanza capitale da chi crede nel matrimonio come valore e vuole vederselo riconosciuto dallo Stato, o anche semplicemente da chi vuole accedere ai diritti che sono, in questo momento, esclusivi delle unioni fra etero sposati (perché altrimenti non si ha comunque alcun diritto), non mettendo in discussione l’esistenza stessa di tale dispositivo. Il matrimonio, se ci pensiamo bene, è in fin dei conti un contratto che in quanto tale offre molte agevolazioni, vantaggi che diventano ancora più preziosi in un momento di crisi come il nostro. L’aspetto romantico non è da prendersi in considerazione, dato che l’amore, in qualunque forma lo concepiate, non ha nulla a che vedere con diritti, firme, riti e simili … glieli abbiamo attribuiti noi, e sempre a noi tocca liberarlo.

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Alla maniera sarda

moju manuli
Opera della street artist sarda Moju Manuli

All’interno del nuovo numero di A. Rivista anarchica compare una interessante intervista realizzata da Laura Gargiulo a Su Colletivu S’Ata Areste (“La gatta selvatica”), collettivo femminista e lesbico posizionato nel centro della Sardegna: A Sa SardA: “Alla maniera sarda”. Vita in comune, ecosostenibilità e legame con il territorio: la storia di un piccolo collettivo dell’entroterra sardo.

Qui potete leggere un estratto. Vi consiglio di sfogliare la rivista che trovate online per leggere l’intervista completa: Laura, attraverso le sue domande, ricostruisce  il percorso di questo collettivo che, a partire dall’esperienza migrante, ha sviluppato un progetto di lotta politica femminista con una ottica che unisce antisessismo e anticolonialismo.

Segnaliamo inoltre la nascita del progetto Arkivi@:

Stiamo raccogliendo testi politici, documenti, romanzi, saggi, opuscoli, riviste e fanzine, fumetti, film, manifesti, adesivi, cartoline etc. relativi a lesbismo e lesbofemminismo, anarcofemminismo, femminismo, movimenti lgbtiq, tematiche di genere, arte, ecologismo e antispecismo, anarchia e movimento anarchico, movimenti in Sardegna e a livello internazionale…
Ci appoggiamo in una casa ma cerchiamo una sede!
Chi volesse contribuire alla crescita di questa neonata Arkivi@ con donazioni di ogni genere può scriverci qua: mojumanuli@autoproduzioni.net

Buona lettura!

Avete scritto un documento dal titolo “Dalla Sardegna un’alternativa lesbica e femminista” in cui parlate del vostro progetto: potete spiegarci come nasce e con quali obiettivi?
«Il progetto è partito dall’esigenza, come emigrate, di rientrare in Sardegna, si è legato a tanti discorsi a noi cari e mano a mano ha preso forma, evolvendosi. Abbiamo messo insieme l’idea di vivere in una piccola comunità tra lesbiche e persone che avessero voglia di lavorare a un sistema sostenibile, di solidarietà, scambio e rispetto. Siamo partite da presupposti anticolonialisti, antisessisti, antifascisti, antirazzisti, da un’idea di socialità differente, da un’idea di società diversa da quella eterosessista e patriarcale in cui viviamo, abbiamo pensato a forme di gestione orizzontale.
Inizialmente eravamo un gruppetto più numeroso, poi per una serie di cause siamo partite in tre, circa due anni fa. Abbiamo scritto la lettera/documento perché ci siamo rese conto che parlarne non bastava o non soddisfava né noi né le persone con cui avevamo un confronto.
Come abbiamo scritto, il progetto è rivolto a lesbiche, compagne/i, altre persone sarde emigrate, artiste/i, ecosardi… Abbiamo sempre cercato di parlare della cosa persona per persona, scambiando a piccoli passi».
Nel documento parlate di una prospettiva anticolonialista: ci potete spiegare cosa intendete e perché è per voi punto di partenza?
«Quando parliamo di prospettiva anticolonialista ricollochiamo il discorso sardo in un contesto più ampio, internazionale, ma ne analizziamo e riconosciamo la specificità.
Contestualizzando quindi il nostro progetto nella realtà isolana non possiamo prescindere da quelli che sono i problemi della Sardegna, non avrebbe senso teorizzare in maniera astratta senza riconoscere le caratteristiche, anche negative, della realtà in cui viviamo. Parliamo di colonizzazione (l’ultima da parte dello stato italiano) e di resistenza, della deculturazione forzata che abbiamo subito, della conseguente folklorizzazione della cultura, della perdita dell’autostima come popolo e come individue/i, del tentativo di estirpazione e cancellazione della nostra lingua, delle nostre identità, della mancanza di riconoscimento di percorsi politici anche da parte di compagne/i “continentali” e di altri parti del mondo, dell’alcolismo, dei suicidi, della costruzione di fabbriche come cattedrali nel deserto e dell’avvelenamento della terra, della militarizzazione a tappeto del territorio (sulla nostra isola è presente più del 60 per cento del territorio militarizzato appartenente allo stato italiano, siamo soffocati da caserme, carceri, radar, è un avamposto nel Mediterraneo, un territorio in prestito per il collaudo e la sperimentazione di nuove armi e proiettili a livello internazionale e per le esercitazioni di guerra)…e potremmo continuare…
Nel momento in cui cerchiamo di costruire qualcosa di concreto, di positivo, di “altro” non possiamo non tenere in conto tutto questo, dobbiamo riconoscere il problema se vogliamo cercare di risolverlo, ed è importante trovarsi con chi si muove in questo senso sul territorio per modificare lo stato di cose esistente».
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Quando mi chiedono di reagire

tumblr_mjty18znzU1qkx16go1_500Mi sveglio, sono a casa. Sono le 8, non è tardi ma è meglio se mi sbrigo. Mi lavo, vesto, riempio la borsa delle cose che mi serviranno e via, di corsa verso il treno. Ho la gonna, fa caldo, il sole mi riscalda appena. Amo la primavera. Passo davanti alla banca, la guardia mi squadra, faccio finta di nulla. Procedo. Passo davanti ad una salumeria, sento un fischio, mi dà sui nervi, ma procedo. Gli anziani che sono in fila chissà da quanto alla posta mi guardano, alcuni sorridono, altri parlano piano, procedo. Mi sento osservata, la gonna sarà pure corta ma a voi che importa? Non le avete mai viste due cosce da fuori? Vorrei urlarglielo, ma taccio e procedo. Arrivo al treno, un biglietto prego. Pago, non posso non farlo, maledetti controlli. Il biglietto è aumentato ma il servizio fa più schifo di prima. Il treno arriva, provo ad entrare, siamo già uno sull’altr@ e mancano 10 fermate, saliranno altre persone, la sola idea mi fa star male. Il contatto non mi dispiace, amo sentire i corpi ma non in treno, non in questo modo, non ho scelta, devo starti addosso e tu starai addosso a me e “scusatemi tanto signorina, stiamo stretti” non basta se mi hai sfiorato il culo. Voglio urlare, ma taccio perché sono le 10 di mattina e vorrei solo arrivare tranquilla all’università, dove sicuramente perderò la pazienza. Arriva la mia fermata, tutt@ scendono, sono libera.

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