Sesso dell’orrore – Intervista a Diana Pornoterrorista

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“Là fuori c’è una guerra”, dichiara il manifesto Pornoterrorista sottoscritto da Diana J. Torres: una guerra contro l’ordine sessuale e l’imposizione di genere, nella quale si vince solamente combattendo il nemico con la stessa violenza. La performer spagnola, oltre a dire questo e molto altro nel suo libro Pornoterrorismo, ci mette il corpo, per chi desidera vederlo e anche per chi non vuole.

di Laura Milano e Nico Hache, (traduzione di feminoska, revisione di Lafra e Serbilla. Articolo originale qui).

La donna nuda con il passamontagna in testa e la granata-dildo in mano non esita ad affermare che “quando dall’altra parte non hai nessuno con cui dialogare, ciò che resta è il terrorismo. Il pornoterrorismo attacca la violenza contro ciò che è fuori dalla norma. Cioè, mette in scena – come tutta la postpornografia – sessualità sovversive. Questo è terrorista”. Lei è Diana Pornoterrorista, un mostro sessuale meraviglioso e inquietante dalla testa ai piedi (o, per meglio dire, dagli anfibi alla cresta). Il suo lavoro come artista di performance iniziò dieci anni fa nella nativa Madrid, con il gruppo di cabaret gore-porno-trash Shock Value e oggi è uno dei punti di riferimento del postporno in Spagna. Attualmente risiede nella città di Barcellona, ​​da dove gestisce la sua centrale operativa postporno e di attivismo queer con un collettivo di artisti locali.

Diana è una guerriera esperta ai margini del genere, una donna che ama pensarsi come costruita alla periferia di quello che è il prototipo di donna (e anche di uomo). E’ un’esibizionista dichiarata, che sale sul palco per recitare le proprie poesie al ritmo di orgasmi terrificanti. Un corpo e una voce determinata a combattere per la liberazione dei corpi, la riappropriazione e il riscatto dei loro desideri più profondi.

Che ruolo ha il corpo nel pornoterrorismo?
-Ne è l’anima. Non si può ignorare il corpo nel pornoterrorismo. Questa è politica del corpo e perciò non considero nessun altro modo di fare politica. I nostri corpi non normativi dimostrano che esistono altre opzioni e stanno anche terrorizzando un pochino. Per questo preoccupano.

Perché hai scelto di lavorare attraverso la performance e la poesia?
-Sul palco mi sento al sicuro, non ho paura di nulla. E mi sembra assai preziosa la possibilità di metterci la faccia. Mi sento più insicura nello scrivere un post sul mio blog, dietro allo schermo. La stessa cosa è successa quando ho scritto il libro, Pornoterrorismo; mi è piaciuto molto farlo, ma mi sento decisamente più a mio agio quando vedo le reazioni delle persone contemporaneamente a quello che sto facendo.

Nelle tue performance sono sempre presenti elementi di S/M, fist-fucking, squirting. Perché queste pratiche sessuali sono terroriste secondo te?
-Non considero il fist-fucking sovversivo perché non è doloroso. Per quanto sia visivamente forte, non fa male. Il BDSM, invece, è terrorista, sovversivo, perché mette in gioco il dolore come piacere.

Il dolore però non è necessariamente presente nelle pratiche BDSM.
-Questo è vero, però c’è sempre una situazione di dominazione. E metterla in discussione è sovversivo. Non sono importanti in quel contesto le questioni economiche, etniche, culturali o altro. Chiunque può dominare chiunque, i rapporti di potere consolidati si trasformano. Il dolore è di solito una punizione; trasformarlo in un premio, in piacere, è sovversivo. Allo stesso modo lo squirting è terrorista, e lo uso per mostrare l’orgasmo femminile, negato dalla medicina e anche dal porno. Quello che non si vede non esiste.

IL CORPO E’ IL MESSAGGIO
Sale sul palco una persona ingessata dalla testa ai piedi, a passo molto lento. Sul suo corpo possono leggersi gli insulti che il pubblico ha scritto su richiesta della performer. Il silenzio carico di tensione che avvolge la sala è bruscamente interrotto dal suono delle furiose sculacciate ricevute da questo corpo ingessato. Grida, dà voce agli insulti stampati sul corpo, si lascia cadere a terra mentre rompe le fasce e invita il pubblico a spogliarsi. Dopo aver recitato le sue poesie, si rimuove gli aghi infilati in fronte, leccandosi il sangue che cade dalle ferite, si fa penetrare dal pugno di una collaboratora. Diana usa il proprio corpo come arma da guerra in ogni performance, non solo come mezzo ma come fine in sé.

Hai affermato di usare il piacere come cavallo di Troia per trasmettere il messaggio. Qual’è questo messaggio? Il piacere è solamente uno strumento?
-Non è solo uno strumento, il piacere è parte di quel messaggio. Quando le persone sono sedute di fronte a un palco a guardare uno spettacolo che sanno chiamarsi Pornoterrorismo, alcune sono già aperte alla proposta. Ma altre vengono solo per la parola “porno”, non per la parola “terrorismo”, capisci? E alcune persone vengono perché sanno che ci saranno tette, culo e sesso dal vivo. Quindi penso che il piacere sia come un amo di modo che, quando il pesciolino abbocca per bene, lì nel teatro può liberarsi di tutto il resto.

E che cosa è che vuoi liberare nello spettatore?
-Questa è la violenza di cui ci nutriamo ogni giorno col telegiornale, che ci circonda. Durante l’ultima performance ci sono stati alcuni momenti molto violenti, come il numero dei peccati della Chiesa, dove faccio un elenco dei suoi peccati, che potrebbero anche essere definiti crimini. E sono argomenti che la gente non manda giù facilmente. Quindi penso che arrivare con una predisposizione per l’eccitazione sessuale ti metta in uno stato di vulnerabilità. Questo l’ho capito una volta che stavamo guardando il telegiornale allo scoppiare della guerra in Iraq: era un vero massacro. E ho cominciato a pensare che non è un caso che i telegiornali vengano trasmessi proprio all’ora dei pasti, li trasmettono proprio in quel momento nel quale inghiotti tutto. Così ho pensato, “perché non utilizzare queste strategie – che sono manipolatorie – per il mio stesso messaggio?

Che impatto credi abbiano le tue performance sul pubblico?
-Spero di aiutare le persone che assistono al mio lavoro a scoprire le diverse forme della propria sessualità. Ho scelto di non lavorare otto ore al giorno per dedicare tutto il mio tempo a studiare questo. Leggo molto, penso e poi lo restituisco masticato e facile da capire. Ci sono intellettuali che lavorano in questo campo da un altro punto di vista, leggono Judith Butler e poi spiegano la teoria di genere, ma davvero poch* l* capiscono. Io cerco invece di renderla accessibile a tutti, e qui, naturalmente, ha luogo a volte una certa discriminazione intellettuale, dove il discorso accademico cerca di legittimarsi sugli altri modi di affrontare la sessualità.

Nel tuo libro affermi che “scoprire la propria sessualità è anche scoprire come il nostro sesso non ci appartiene affatto.” Chi ci ha derubato della nostra sessualità? Come possiamo riprendere il controllo dei nostri corpi e dei piaceri?
-In primo luogo, il patriarcato. Poi la Chiesa. Poi la scienza, con la medicina come strumento. E infine il capitalismo. Questa è la catena di istituzioni che hanno tentato di applicare il controllo su corpo e sessualità. E dobbiamo uscirne, dobbiamo poter scopare con il culo senza avere il prete nella stanza a dirci che è peccato. Non è facile, perché è qualcosa che abbiamo dentro di noi da quando siamo molto piccol*, dal momento che ci assegnano un genere biologico. Ma si realizza con l’attivismo, con una vita attiva basata sul lavoro sul corpo.

Nell’ambito di questo attivismo, vedi nel femminismo il percorso corretto per la liberazione del corpo e della sessualità?
-No, perché in molti casi il femminismo è reazionario ed escludente; io stessa mi sento esclusa dal femminismo, nelle sue categorie non c’è posto per me. Il femminismo è per la liberazione delle donne, ma respinge la prostituzione, il porno, il sado, considerandoli forme di violenza contro le donne. Io sono a favore della prostituzione e del sado e faccio porno. Respingo il femminismo perché lascia fuori uomini e trans. Di fronte al rifiuto del maschile, per esempio, propongo l’appropriazione del fallo, ossia di appropriarsi in maniera autodeterminata dei simboli del patriarcato piuttosto che distruggerli.

Perché ti identifichi con il transfemminismo ? Quali sfide implica l’etica transfemminista contro l’ordine sessuale normativo?
-La sessualità, il genere, le rappresentazioni del corpo, non possono essere isolate dal contesto economico globale, politico e istituzionale in cui si svolgono. E questo contesto è il capitalismo. Il transfemminismo implica coerenza con la lotta anti-capitalista. Io mi schiero contro il femminismo che proclama la liberazione delle donne, ma allo stesso tempo utilizza Windows invece di un software libero. Le lotte che si instaurano nel campo della sessualità non possono essere separate dalla lotta contro il capitalismo, la coerenza è necessaria a questo proposito. Lo stesso accade al contrario, quando l’attivismo anti- capitalista non include il lavoro sul corpo. Questo è ciò che accade con il movimento 15 -M qui in Spagna, le/gli indignat* che vogliono la rivoluzione, ma poi tornano a casa e non sanno scopare se non nella posizione del missionario. Senza una politica del corpo e del genere nessuna rivoluzione è possibile, né ha senso la sovversione sessuale staccata dalla lotta contro il capitalismo.

Quali azioni specifiche possono essere adottate per attuare una politica del corpo e di genere?
-Attraverso il transfemminismo, ad esempio, portiamo avanti la campagna STOP Transpatologización, con la quale reclamiamo la necessità di rimuovere il transessualismo dal DSM IV e dagli altri manuali internazionali di diagnosi mediche. Il transessualismo è definito come un disturbo della personalità. Recentemente abbiamo esaminato il nuovo progetto e non appare più, è stato rimosso, ma invece la sindrome premestruale è stata inclusa in quanto condizione temporanea. Pensa! Una volta al mese tutte le donne sono pazze.

In Argentina è ora in corso un dibattito sulla legge sull’identità di genere, che permetterà alle persone trans di cambiare ufficialmente il proprio nome e sesso senza spiegazioni.
-Beh, sono più avanti di noi. Qui si deve ancora passare attraverso un processo medico-psichiatrico di due anni, dopo di che l’istituzione medica decide se sì è o meno in grado di prendere questa decisione.

LA RETE POSTPORNO
Se il postporno funziona principalmente a partire dai collettivi e dall’autogestione nella produzione, il lavoro di Diana è come un filo in questa rete di volontà interessat* a creare nuove e sovversive rappresentazioni della sessualità. In questo senso la proposta Pornoterrorista trova nel postporno il proprio inquadramento e la propria rete di alleanze a partire dalla quale scagliarsi in modo transfemminista, creativo e al di fuori della logica commerciale contro il porno mainstream. Una di queste linee di azione e di lavoro collettivo trova la propria sintesi nella Muestra Marrana, un festival porno non convenzionale autogestito e organizzato da Diana, Claudia Ossandón e Lucia Egaña che ha luogo ogni estate nella città di Barcellona. Il festival è un’occasione non solo per presentare le produzioni audiovisive legate al postporno, ma anche per creare uno spazio di scambio e di dibattito sulle molteplicità sessuali sovversive e sulle pratiche che stanno ai margini del sistema eteronormativo. “La pornografia è fatta per vendere certe pratiche e certi corpi. La differenza fondamentale è che nel postporno possono comprendersi tutte le pratiche. Se ti eccita metterti una fragola nel culo o se mangiando una banana hai un orgasmo, così sia. Per la pornografia sarebbe un’aberrazione o una di quelle pratiche che si inseriscono nel genere ‘crazy and funny’. E la cosa più importante del postporno è che include le donne come produttore, registe, attore”, dice Diana. Pensando a queste ultime, la questione degli assenti è inevitabile.

Dove sono gli uomini nel postporno?
-Davvero non lo so. Li aspettiamo. Non ho alcun problema a fare dei laboratori con i ragazzi, fare postporno o qualsiasi altra cosa. Ma non vengono. C’è molta più paura nei ragazzi in generale, e il fattore problematico è dato dal fatto che le donne e gli uomini con i quali si relazionerebbero non gli piacciono, perché siamo corpi poco normativi. Sto aspettando questo momento, adesso mi piacerebbe giocare con più uomini, ma è molto difficile. L’ultima volta che ho giocato con gli uomini erano completamente impenetrabili, esseri pieni di paure e frustrazioni. In questo senso penso che la pornografia abbia fatto molto male agli uomini, danni soprattutto interiori. Molte donne non hanno mai visto porno nella loro vita, al contrario è quasi un insegnamento culturale che i ragazzi vedano i porno. E questo ti rimane dentro. Poi improvvisamente scoprono le pratiche postporno che sono diverse da ciò che vedono nel porno, che non confermano quello che era apparentemente così importante e chiaro, si sentono come nudi.

In questo senso, gli uomini hanno molto più lavoro da fare. Non che tra noi non si parli di sesso, ma lo facciamo in modo diverso.
-È vero, la pornografia e le modalità di acculturazione della sessualità maschile sono frustranti perché non sono reali. Né il tuo corpo è così, né le tue pratiche sono così, né ciò che ti piace è così. Questo dovrebbe indurre gli uomini a fare postporno, ma non succede. Temono che arrivi una tipa punk con la cresta a scoparli nel culo.

Sembra che ogni contatto con il culo dell’uomo, qualsiasi tipo di penetrazione si riferisca ad una identità omosessuale.
-Certo, si parte dal presupposto che le donne non penetrano e gli uomini non sono penetrati. Quindi, se ti penetrano e soprattutto se lo fa una donna, smetti di essere un uomo e diventi un finocchio. E’ come una regola matematica di base alla quale tutt@ hanno creduto e che è come un fantasma che informa gli ani di mezzo mondo. C’è un testo molto interessante di Beatriz Preciado chiamato Terrore Anale, che parla di queste paure dell’analità e della penetrazione.

Cosa credi manchi al postporno?
-Il postporno è considerato una forma di rappresentazione artistica della sessualità, ma non commerciale. In sintesi, è considerato come un movimento. Perché alla fine siamo come topolini che lavorano sempre ai margini. Sarebbe bello se ci fosse un riconoscimento per la gente che ha lavorato per anni su questo. Sono dieci anni che lavoro come artista e finora non ho visto alcun frutto a livello istituzionale, artistico e nemmeno di pubblico.

Questo riconoscimento di cui parli significherebbe entrare nel circuito dell’arte istituzionale. Pensi che un ampliamento del territorio di influenza del postporno significherebbe una perdita del proprio potere sovversivo?
-Mi piacerebbe vendere la mia arte ai musei, ma non credo sia possibile. Sempre che questo non implichi auto-censura, non vedo nulla di male nel raggiungere più persone e ottenere soldi dallo Stato. L’anno scorso, per esempio, abbiamo organizzato nel Museo Reina Sofia di Madrid un evento chiamato La Internacional Cuir, dove abbiamo fatto le nostre performance. Ma è un’eccezione, perché di solito non viene comprato. Il postporno e il pornoterrorismo sono periferici, marginali.

Dunque che cosa si è raggiunto finora con il postporno?
-Si è ottenuto che il femminismo sia più divertente e arrapato rispetto a prima, che sia anche più inclusivo e meno discriminatorio. Penso che sia uno dei migliori risultati del postporno: trasformare il femminismo in una cosa sexy. Anche a livello artistico è molto importante, infatti il postporno sta rimodellando il mondo dell’arte. In sintesi, i risultati sono sessualizzare il femminismo e sessualizzare il mondo dell’arte. E farlo in modo politico, etico.

Scopri il sito di Diana qui.

Finalmente anche in Italia, l’artista e performer Diana J. Torres presenterà ad Aprile, nel corso di un indimenticabile tour, il suo libro Pornoterrorismo.
Il tour di presentazione si terrà tra il 9 e il 21 di aprile 2014.
Le città che ospiteranno l’evento saranno:

9 aprile: PALERMO
10 aprile: NAPOLI
11, 12, 13 aprile: ROMA
14 aprile: BOLOGNA
15 aprile: GENOVA
16 e 17 aprile: MILANO/RHO
18 e 19 aprile: TORINO

ADOTTA UNA PORNOTERRORISTA!
Sul sito di crowdfunding Verkami puoi acquistare Pornoterrorismo in prevendita, e sostenere così il tour di Diana in Italia.
Aderisci, diffondi e PARTECIPA!
Evento Facebook qui.

Prima di tutto, l’onestà

SPOILER: questo articolo rivela inquietanti verità su Lorenzo Gasparrini. Se non volete saperle, non leggete ulteriormente!

E’ giusto, amici e amiche che mi leggete a milioni, è giusto. Siamo in un periodo turbolento per quanto riguarda il panorama politico e addirittura tragico dal punto di vista economico e sociale. E’ giusto essere onesti e trasparenti con voi, perché altrimenti tutta la fiducia che mi tributate, così numerosi, rimarrebbe solo il risultato di uno sterile esercizio di ipocrisia, da parte mia.

Devo spiegarvi come faccio a guadagnare così tanto da permettermi di scrivervi, come sapete, da un panfilo ormeggiato nel porto della mia isola, nei tropici centroamericani; come faccio a guadagnare così tanto da permettermi la casa che vedete in foto; come faccio a pagare le centinaia di informatori che mi tengono aggiornato su ciò che fanno e dicono i brutti e cattivi maschioni sessisti in giro per il mondo.

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Non crederete mica che sia tutto volontariato, no? Non penserete mica che io tolga il tempo alla mia famiglia, ai miei svaghi, al mio lavoro – quello “vero”, o presunto tale – per fare l’antisessista? Non sarete mica così ingenui da pensare che io vada nelle scuole, nelle associazioni, a fare lezioni e seminari gratis?

Ho approfittato anche troppo della vostra buona fede. E’ giusto che voi sappiate tutto, soprattutto che sappiate da dove vengano i milioni che guadagno dalla mia quotidiana lotta antisessista. Quindi, ecco qui di seguito l’organigramma completo delle strutture che coordinano il mio lavoro di antisessista, e che mi permettono di guadagnare i milioni di cui, come certamente avrete notato in questi anni, modestamente non faccio parola.

Esiste un’organizzazione internazionale, la Federazione Internazionale dei Combattenti Antisessisti (F.I.C.A.) della quale sono membro, e che coordina sia le attività logistico-territoriali della Confederazione Eversiva Paritaria Popolare Antisessista (C.E.P.P.A.) che le proposte ideologico-filosofiche dell’ente per la Distruzione Esemplare del Maschio (ente D.E.M., o D.E.M. ente, se preferite). La struttura che finanzia tutte queste attività è la Federazione Unica dei Finanziatori di Fronti Antisessisti (F.U.F.F.A.), che riceve a sua volta i rapporti incrociati sulle attività sociali dei nostri nemici maschioni di concerto dalle varie Cellule Antisessiste Zerbini (C.A.Z.) e dalle singole Volontarie Antisessiste GInocratiche Nate Eviratrici (V.A.GI.N.E.).

Ecco, in sintesi, spiegata la mia strabiliante potenza economica. Lo so, tutto ciò mi mette in una posizione troppo superiore – politicamente, economicamente, socialmente – rispetto al nemico maschione che, onesto e indefesso lavoratore, dispone di poco tempo, ancor meno soldi, e quindi si limita a produrre siti fake, chiacchiere sui forum, trollaggi vari. Sta a voi, milioni di amici e amiche lettori e lettrici, guidicare della mia condotta.

Questa è l’onestà che vi dovevo.

Il sonno del femminismo genera mostri: è ora di svegliarsi!

sleepingbeauty twins fairytale  La capacità del sistema di normalizzare le istanze radicali non è sicuramente una novità, e fa parte di quelle manovre biopolitiche volte a depotenziare e normare quelle soggettività che, perlomeno inizialmente, pongono la propria alterità come caratteristica fondante del proprio esistere e del proprio agire. Purtroppo, spesso, la fatica di trovarsi perennemente in lotta e il desiderio di potersi allontanare almeno parzialmente da quello che è per alcun* soggett* un vero campo di battaglia (che ha luogo sui propri corpi e sulle proprie vite) ha come amaro risultato che, a fronte di piccolissime concessioni dalla valenza apparentemente positiva, le istanze originarie e dunque la lotta in sé si snatura, non riconosce più il proprio obbiettivo, ed infine spesso rimane un vuoto involucro utilizzabile a mò di brand ogni volta si ambisca passare per rivoluzionarie le scelte più reazionarie che si possano immaginare. Per quanto riguarda il femminismo, avvicinandosi la ricorrenza dell’8 marzo e a seguito delle lodi sperticate al governo Renzi, definito in termini elogiativi come governo giovane e finalmente paritario, vorremmo fare una riflessione che possa restituire non solo quella che è la situazione reale, ma anche la necessità di una lotta femminista che ritrovi la sua radicalità, senza la quale anche il movimento delle donne si ritrova ad essere solo un marchio strumentalizzato a destra e a manca.

Le colpe di certo femminismo storico italiano il quale, ottenuti insperati successi oramai 40 anni fa, ha considerato la propria missione compiuta vivendo sugli allori di qualche battaglia vinta e diventando miope di fronte alle manovre del potere patriarcale, tutte volte a depotenziare quelle stesse vittorie (l’eterno braccio di ferro che si compie da 40 anni a questa parte sulla legge 194 ne è un chiaro esempio) o a dipingere, riuscendoci, il femminismo come fondamentalmente misantropo, superato, oramai relegato ad un passato remoto e appannaggio soltanto di donne brutte, indesiderabili e colme di odio per il maschio e desiderio di vendetta è cosa nota.

Negli ultimi anni poi, come se non bastasse, l’emergere di posizioni politiche femminicide propugnate da certo femminismo borghese ha dato il proprio imprimatur allo status quo, celebrando le quote rosa, l’italianità, la dignità delle donne da difendere ad ogni costo (anche calpestando l’autodeterminazione di altre donne) e il “diritto alla maternità” attraverso la conciliazione. Tutti ‘mostri’ nati dall’edulcorazione di un movimento le cui parole d’ordine erano quelle dell’autodeterminazione e della liberazione, non dell’emancipazione delle donne.

Il mostro del giorno è il governo Renzi, che, sdoganato da un discorso che preferisce di gran lunga il termine “femminile” – così moderato, così debolmente connotato, così maternamente accogliente e paziente –  a  “femminista”, è allo stato dell’arte per quanto concerne il pinkwashing, facendo bella mostra di donne che peraltro si prestano al gioco non solo adattandosi in maniera docile al loro ruolo di veline del solito uomo di potere, ma che, dalle prime dichiarazioni fatte, sono quanto e più sessiste di certi loro colleghi maschi; e il cui valore pare riassumersi in quella ‘donnità’ funzionale al riaffermare le solite politiche reazionarie che si realizzano sul corpo delle altre donne, quelle che ne fatti non rappresentano per nulla – anche se poi decidono per loro.

Giovani donne come Marianna Madia, che ricalcano visivamente e negli intenti l’immagine della ‘madonnina’ devota al Grande Padre Onnipotente, che col suo esempio – e purtroppo con le sue parole di fondamentalista cattolica che, senza alcuna vergogna, antepone con leggerezza alla laicità richiesta dal proprio ruolo istituzionale – rendono evidente che l’essere ‘donne’ in sè e per sè non presenta alcun valore aggiunto nè raggiunge alcun risultato positivo in un percorso il cui fine ultimo è quello della liberazione, non della concessione.

Mutuando un’immagine dall’attivismo antispecista: se, in quanto femministe, non desideriamo gabbie più grandi, ma gabbie vuote – e perciò donne libere e autodeterminate – non dobbiamo cadere nei tranelli che oramai sono sparsi a piene mani sul nostro cammino. E’ necessario e urgente pertanto ritrovare la radicalità del femminismo, che tuttora esiste e parla di intersezionalità, queer, non maternità, anticapitalismo, e soprattutto e sempre AUTODETERMINAZIONE.

E’ ora di svegliarsi da questo incubo dai colori pastello, rifiutare la conciliazione con questa Grande Madre e Madonna, felice e realizzata nel suo ruolo subalterno e vera propria kapò per tutte le soggettività non conformi… Altrimenti, continuando di questo passo, questo incubo diventerà il coma di un femminismo che si riconosce in tutto ciò che si ammanta di rosa.

Disegno di Sasha Foster.

Deconstructing la zappa sui piedi

zappa2Del linguaggio di Mario De Maglie mi sono già occupato in passato, qui e qui. Adesso che torno a parlare di lui, mi pare il caso di premettere delle cose che ritengo importanti.
De Maglie coordina il Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti (C.A.M.) di Firenze, e solo per questo si meriterebbe un monumento, dato che lo fa in Italia. Però nel suo blog su “Il Fatto Quotidiano” online usa spesso un linguaggio, e degli argomenti, molto discutibili, e ancor più incredibili dato il lavoro che fa. Leggere per credere.

Autoconsapevolezza maschile, tra necessità ed opportunità

Partita ed in fase costituente l’esperienza di Diversa-Mente Molteplice, Riflessioni a Passo d’Uomo, nonostante le difficoltà di coinvolgere attivamente gli uomini, sono sempre più convinto dell’utilità dei gruppi di autoconsapevolezza maschile come luoghi nei quali si possa realizzare uno spazio di confronto e ascolto reciproco in merito ai piaceri e alle criticità dell’essere uomo e del proprio rapporto con il femminile [approvo e sottoscrivo. Il post potrebbe finire qui]. Nessuno ci ha istruito in proposito, a rapportarci con il proprio e l’altrui genere (non solo maschile e femminile), sembrerebbe cosa così naturale e spontanea da essere portati a pensare che non ci sia niente da imparare, ma, se ci soffermiamo sui rapporti di potere passati ed attuali e sulle conseguenze di questi ultimi, sembra chiaro che qualcosa decisamente non vada [soprattutto non va parlarne così. Se ci soffermiamo sui rapporti di potere passati ed attuali, ci accorgiamo che questa modalità di rapportarci con il proprio e l’altrui genere non è per niente così naturale e spontanea. E’ un dato di fatto che non solo non è vero che nessuno ci ha istruito, ma che si posso facilmente fare nomi e citare sistemi culturali e sociali che hanno ben istruito al maschilismo generazioni di uomini. Ci sono fior di studi in proposito, perché non dirlo chiaramente?].

La mia impressione è che, dopo un periodo di conquiste e di rivendicazioni da parte delle donne, che forse ha avuto il suo apice con i movimenti femministi negli anni 70 [forse?], almeno in termini di consapevolezza, siamo in una fase di stallo in cui si oscilla tra l’andare  poco più avanti o poco più indietro, senza che abbiano luogo grandi cambiamenti sull’impronta di quelli passati [EH? A parte che rimane da capire cosa c’azzecca la digressione sulla storia del femminismo, come sarebbe che dagli anni ’70 siamo in una fase di stallo? Scusate l’elenco di nomi, ma tanto per dire di cose fatte e dette dopo i ’70: Adrienne Rich, Monique Wittig, Angela Davis, Andrea Dworkin, Carol Gilligan, Riane Eisler, Donna Haraway, Teresa De Lauretis, Luisa Muraro… i primi che vengono in mente a me. E attualmente il femminismo è ancora, come sempre, un ribollire di forze e di esperienze politiche diverse. E queste sarebbero donne che oscillano tra l’andare  poco più avanti o poco più indietro, senza che abbiano luogo grandi cambiamenti sull’impronta di quelli passati?]. Questo penso possa essere dovuto anche (se non soprattutto) al fatto che la capacità di autoanalisi e di autodeterminazione del femminile arrivano ad un punto morto, se poi il maschile non comincia a fare altrettanto, smettendo di fare “concessioni”, ma riequilibrando il potere in modo consapevole ed autodeterminato [cioè, per far andare avanti il pensiero femminista servono gli uomini? De Maglie, “you can’t be serious” (cit). Una cosa è dire che gli uomini devono partecipare attivamente allo smantellamento del potere patrarcale per demolirlo davvero – e ci mancherebbe che non fossi d’accordo pure io; un’altra è sostenere che nel frattempo il femminismo s’è fermato perché senza l’òmo non si va da nessuna parte: scherziamo?].

Il maschile si trova spesso arrocato in una posizione difensiva che gli è poco utile, ma questo perché ha paura e se ha paura è perché si sente in pericolo, il pericolo di perdere il proprio stabilito ruolo (quanta inconsapevole fatica starci dentro!) [si può essere d’accordo su questo – a parte lo spesso: a me pare perlopiù che al maschile, nella maggior parte dei casi, non gliene frega niente della crisi del suo ruolo, perché è ancora avvertita in troppo pochi casi limite].

Faccio un esperimento ed invito i lettori a leggere i commenti che seguiranno a questo post da parte di molti uomini. Se questi saranno i soliti, in cui a contenuti dai toni equilibrati, anche se non necessariamente condivisibili, perché la libertà di opinione non è un optional, seguiranno una serie di commenti ai confini con l’insulto, la minimizzazione, la denigrazione verso l’autore o l’autrice, avrò evidenziato le problematiche di cui parlo. Cose viste e riviste per i blogger de Il Fatto Quotidiano che parlano di violenza e questioni di genere e che diventano facile  tiro al bersaglio dei soliti ignoti. [Sul commentatore medio dei blog de IFQ mi espressi anche io, e siamo d’accordo: ma questo che tipo di esperimento è?  A cosa serve farlo? Per dimostrare una posizione difensiva di un intero gruppo sociale bastano i commenti a un blog? De Maglie, sei sicuro di agire sensatamente verso la tua stessa credibilità? Io mi sono limitato a contarle, le risposte a un post, e a dividerle per risposta: mi pare il massimo che si possa fare. Con quali strumenti se ne può invece ricavare con certezza un atteggiamento sociale di massa? Se ci sono, non sarebbe il caso di parlarne prima?]

Ovviamente il lettore può non essere d’accordo con il contenuto di un post e decidere di commentarlo, ma, a seconda di come esprime il suo disaccordo, si evidenzia se e cosa smuove in lui, non di rado una rabbia mista ad indignazione difficile da comprendere per chi mostra di possedere  una certa sensibilità verso le nostre tematiche. Questo per fare un esempio legato alla vicina realtà per la quale scriviamo, il tutto è solo uno specchio del sociale e culturale nel quale siamo immersi [De Maglie, stai proponendo analisi psicologiche dai commenti a un post. Anche questo tuo modo di fare e di parlare a vanvera è solo uno specchio del sociale e culturale nel quale siamo immersi, temo, che è sintentizzabile in: fuffa. Ma tu coordini un CAM!!!].

Ben lieto di ricredermi, se i commenti saranno di diverso stampo.

Potersi permettere tra uomini di non dover parlare necessariamente di “figa”, “sesso”, “calcio”, “lavoro”, ma anche di donne, amore, passioni e tempo libero è un lusso che i gruppi di autoconsapevolezza maschile avvierebbero a trasformare in quotidianità. [Sì, ma detto in questo modo non si capisce il problema, che non è solo di ordine psicologico. Per la stragrande maggioranza degli uomini etero in Italia le donne sono “figa”, l’amore è “sesso”, la passione è “il calcio” e il tempo libero è un “lavoro”. E ci si trovano benissimo a parlarne tra loro, senza alcun  necessariamente ma molto naturalmente. E’ in gioco un ordine culturale che proprio il femminismo, sia prima che dopo i ’70, contrasta con tutte le sue forze. Fase di stallo? Ma per favore.]

La strada è ancora lunga, me ne accorgo perché sto imparando quanto sia arduo coinvolgere gli uomini, ma si comincia. I cambiamenti epocali hanno bisogno di epoche intere per stabilizzarsi, il prezzo della conquista. [E’ lunga sì, se il coordinatore di uno dei pochi centri per uomini maltrattanti presenti nel paese si esprime in questo modo. Sigh. Questo modo di fare e di esprimersi, a mio modestissimo parere, può solo sintetizzarsi con un “darsi la zappa sui piedi”.]

Per quanto il lavoro con gli uomini maltrattanti sia importantissimo – soprattutto in assenza sia di un livello politico accettabile di consapevolezza del problema della violenza di genere sia, conseguentemente, di strutture pubbliche adeguate – e tenendo conto che non mi sogno nemmeno di contestarne l’utilità, rimane il fatto che le dinamiche legate alla supposta paura di perdere il proprio ruolo egemone non dicono tutto del sessismo vigente, e non credo siano le migliori leve per chiedere agli uomini di parlare tra loro.

Per esempio, quando leggo un pezzo come quello che segue, scritto dal redattore di un quotidiano online come risposta alla giusta indignazione di una donna per l’ennesima pubblicità sessista, mi pare ovvio che il paradigma della perdita di potere è ancora ben lontano dallo spiegare la tranquilla strafottenza con la quale un uomo si permette atteggiamenti sessisti che, scritti nero su bianco, sono da ritenere socialmente molto più violenti di qualunque cosa possa commettere un uomo maltrattante nel suo ambito privato. Questa è violenza che passa tra chiunque legge l’articolo. Le botte si fermano a una o poche più vittime. Se si vuole fare qualcosa per una massa di uomini, la chiave è la cultura comune e non la psicologia del singolo.

“Ho visto il corpo femminile divenire un santuario”

[già il titolo mette paura]
Cara Enrica, nel tuo sfogo tu proponi una serie di giuste osservazioni, eccellentemente argomentate, ma è stato il finale a farmi pensare un bel po’. Concludi dicendo Io non ci sto a far passare il mio corpo come oggetto sessuale. Non ci sto.  Giustissimo, ma rifletti su una cosa: se la foto che ti ha fatto indignare esiste, è perché qualcuno l’ha fatta, ma anche perché una donna procace se l’è fatta scattare. [La colpa del sessismo è delle donne che lo permettono. Complimenti, Luca.] E perché se l’è fatta scattare? Per soldi, perché fa la modella, perché compra il pane e il latte facendosi scattare (anche) foto di quel tipo. È una scelta, deprecabile o meno, ma una scelta. Personale e sicuramente motivata. [Notoriamente, alle donne sono permesse, consentite e agevolate tutte le forme di lavoro; fare la modella è da sempre una libera scelta di una donna procace, no?] Il corpo è il primo strumento di cui ci avvaliamo per fare qualsiasi cosa [con questa bella frase il caro Luca mette insieme il gesto strumentale e lo sfruttamento lavorativo, ma sì, sono la stessa cosa, è tutto fatto col corpo] ed alcuni di noi, una minoranza, hanno un corpo così gradevole che suscita suggestioni tali negli occhi e nelle menti altrui da poterci guadagnare qualcosa. A volte molto [e certo, è il corpo che suscita suggestioni, mica esiste una cultura che ti insegna quelle associazioni e che ti inculca a cercarle, quelle suggestioni. E’ tutta natura].

Sono d’accordo sul fatto che ormai alcune pubblicità si riducono ad un bombardamento osceno teso a far cadere il gonzo di turno nella rete della bellona procace [notate: la responsbilità della trappola è della bellona procace, è lei che guadagna, mica l’agenzia, il produttore, il cliente dell’agenzia pubblicitaria, no no, loro non c’entrano niente] che vede per quei cortissimi e lunghissimi trenta secondi di durata media di uno spot, ma non sono d’accordo sull’appiattire tutto sul subconscio che assorbe le informazioni senza filtro [il subconscio? Quella c’ha le tette di fuori, ma quale subconscio!]. Esso è solo una parte della questione. Siamo noi stessi che, consciamente e non inconsciamente, moltissime volte ci lasciamo andare all’assimilazione passiva, perché siamo pigri e svogliati [si vabbè, ma noi stessi chi? Pure la bellona procace?]. L’inconscio lavora, ma lo spirito critico e l’umanità di ognuno possono lavorare altrettanto bene per farci essere persone capaci di valutare quello che vediamo e di rispettare chi abbiamo di fronte [certo, soprattutto dopo decenni di machismo pompato da tutti i media, da tutti i coetanei, da tutti gli ambienti quotidiani. Non sai che spirito critico che viene su, in una società sessista come questa].
Sono passati poco più di due mesi da quando ho visto uscire mia figlia dal corpo della mia compagna e ti posso dire che ho visto con questi occhi il corpo femminile divenire un santuario [ecco, appunto: il corpo femminile o è un santuario o è la bellona procace, o sante o puttane, siamo sempre lì, all’ABC del maschilismo] capace nello stesso tempo di manifestare una forza sovraumana e di creare una meraviglia.
Se non tutti gli uomini capiscono il rispetto che alla donna si deve, ti prego allora di essere clemente, nell’evoluzione delle capacità intellettive vi stiamo inseguendo, ma per prendervi ci vuole ancora un bel po’ [capito, Enrica? Praticamente Luca t’ha detto di aspettare, ancora non hai sofferto abbastanza, l’uomo ancora non c’è arrivato. T’ha fatto un buono: e che vuol dire?]

Allora: cosa distingue chi dice che il femminismo è fermo dagli anni ’70 da chi dice che il corpo femminile è un santuario? Cosa distingue chi dice che nessuno ha istruito gli uomini ai rapporti tra generi da chi dice che fare la modella è una scelta e che quindi la responsabilità di pubblicità sessiste è delle donne raffigurate?
Che cosa continua a far sì che chi ha i titoli e l’esperienza necessarie per fare antisessismo e parlarne come si deve, invece continui a darsi la zappa sui piedi?

Di alcune forme di stronzaggine

1964957_10202740464326669_1264403541_n Tra le cose che produciamo come collettivo politico ci sono le “traduzioni militanti”. Fuori dell’Italia si producono cose ottime, e in grande quantità, riguardo questioni di genere e temi che in questo paese sono ancora tabù. Ci è sempre sembrato un lavoro di per sé quasi rivoluzionario prendere qualche testo e farlo conoscere nella nostra lingua, rendendone possibile l’accesso a un pubblico che altrimenti non ha e non avrà la minima speranza di leggerlo mai.

Si tratta quindi di un’operazione strettamente politica, per molti versi considerabile come sovversiva. Cerchiamo di suscitare interesse, coltivare dibattiti, aumentare la diffusione di linguaggi che trovano grandi difficoltà di circolazione a causa dei limiti culturali della nostra opinione pubblica.

Le nostre traduzioni sono “militanti”, realizzate cioé nell’urgenza della trasmissione politica, i contenuti del testo, di norma, prevalgono sugli aspetti di stile. Ciò non significa che evitiamo di porci questioni di questo genere, solo che le risolviamo più velocemente di quanto faremmo se la nostra traduzione avesse un tempo di elaborazione simile a quello che si dedica a un testo pagato.
Siamo comunque molto orgoglios@ di ciò che facciamo che resta, nel confine del suo scopo, accurato. D’altra parte ci capita di ricevere anche qualche complimento, ma soprattutto i ringraziamenti di chi a quel testo, in lingua originale, non avrebbe mai avuto accesso.

Sarebbe scontato poi puntualizzare che le nostre traduzioni non sono un testo sacro, come non lo è nessuna traduzione, e chi le legge può farci quello che vuole, tra cui anche dire e dimostrare che sono imprecise, o sicuramente perfettibili. Ma se evidentemente siamo stati lo spunto per farvi fare qualcosa – pensare, scrivere, ritradurre, interessare – quello era il nostro scopo, ed è appunto uno degli scopi politici della traduzione militante. Noi mettiamo sempre il link alla fonte originale, così che le nostre scelte di traduzione siano sempre confrontabili e affinché ciascuno/a, se vuole, possa tradurre per conto suo.

Siamo ben felici se qualcuno/a prende spunto dalla nostra traduzione per farne una sua; è prassi corretta e civile, se questa traduzione diversa è riportata in qualche sito, linkare anche noi, in modo che lo scopo principale della traduzione militante – allargare la base della discussione politica su un certo testo – sia raggiunto.

Ritradurre significa entrare in relazione con le traduzioni già esistenti e, sopratutto, non significa copiare una traduzione già fatta – che rappresenta la risposta di quel traduttore ai problemi linguistici e di mediazione culturale del testo – cambiando qualche parola per non farsi sgamare.

Se quindi, dopo averlo letto qui, tu prendi il nostro link, le nostre parole, fai una tua traduzione e non dici una parola su chi ti ha dato l’idea o dove l’hai presa, sei semplicemente ed evidentemente un/a stronzo/a.

Ovviamente non c’entrano nulla questioni di “diritti d’autore”, plagio, o cose del genere. Comportarsi in quel modo significa stroncare la possibilità di un dibattito politico, perché noi non sapremo mai cos’hai fatto né avremo la possibilità di confrontarci sul testo. Quindi lo scopo politico di tutta l’operazione sparisce nel tuo (finto) originale tentativo, per il quale raccogli complimenti magari meritati – per la traduzione tua –  ma rubati – per l’idea del testo, che hai preso da noi. Proprio un modo di fare da stronzo/a, che è un attributo personale e non politico.

Se togli lo scopo politico a tutta l’operazione, rimane solo una vanagloria raccolta per mero narcisismo personale. Dovrebbe essere eticamente conseguente accennare a chi ti ha fatto venire in mente l’argomento, il testo da tradurre, le critiche a noi che pubblichi da te; invece la tua etica non ti ha suggerito nulla del genere. E non l’ha fatto perché è l’etica di uno/a stronzo/a.

Lorenzo Gasparrini per il collettivo Intersezioni.

Cerchiamo di capirci: sex worker e vittime di tratta non sono la stessa cosa

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Nel giorno precedente il Super Bowl di quest’anno, articoli circolati sulla Rete segnalavano il massiccio aumento di traffico sessuale che si verifica in occasione dei grandi eventi sportivi. Che questa tendenza sia o meno reale, la tratta è un problema serio. Quarantacinque persone sono state arrestate a New York durante il Super Bowl per aver costretto più di una dozzina di ragazze alla schiavitù sessuale. Seppure queste ragazze sono state vittime di sfruttamento sessuale, alcune agenzie di stampa hanno distorto la realtà riferendosi a loro come “sex worker” e “prostitute minorenni”. In un altro recente articolo su di una vittima di tratta di circa 15 anni, l’emittente CBC Canada ha definito la ragazza “una sex worker adolescente.”
Queste scelte lessicali sono fuorvianti, e sebbene sia convinta che spesso le persone danno troppa importanza alle etichette, la distinzione tra una persona adulta che sceglie di vendere sesso per denaro e un’altra il cui corpo è sfruttato contro la propria volontà è fondamentale quando si discute di prostituzione, schiavitù, e libertà. La capacità di fare scelte e decidere del proprio destino è sempre più accettata, e i media distorcono il valore della scelta quando usano “sex worker” in modo intercambiabile con “vittima di tratta”.
Pertanto è ovvio che la tratta sia una pratica spaventosa. I trafficanti infliggono danni terribili alle proprie vittime – molte delle quali sono incredibilmente giovani e già patiscono la mancanza di sostegno familiare – nei loro anni di formazione e le sottopongono ad abusi, costringendole a correre rischi gravi per la propria salute, e derubandole di qualsiasi autostima al di fuori del valore monetario che hanno per i propri “padroni”.
E’ giusto provare repulsione per i pericoli e le brutalità del traffico di esseri umani. Ma è la rinuncia forzata al proprio libero arbitrio di persone ad essere forse l’aspetto più ripugnante della schiavitù sessuale – anzi, di ogni schiavitù.
Anche alcuni gruppi anti-prostituzione confondono o ignorano la distinzione tra lavoratrici volontarie e vittime di coercizione. Considerano il lavoro sessuale come intrinsecamente foriero di sfruttamento, poiché lo reputano una professione degradante che richiede alle persone di mercificare il proprio corpo e che le sottopone a maggiori rischi per la salute. La decisione di vendere sesso non sarebbe mai, quindi, una scelta informata per queste persone, ma imposta loro da circostanze finanziarie restrittive o come reazione auto-distruttiva a seguito di trauma infantili.
Prima di tutto, se davvero le donne decidono di diventare sex worker per l’assenza di altre opzioni, togliere loro quell’unica opzione come potrebbe essere un beneficio? Se le/gli attivist* anti-prostituzione fossero davvero preoccupat* delle scelte limitate che si offrono alle sex worker, dovrebbero a quel punto combattere le leggi oppressive che impediscono alle persone di perseguire altri percorsi imprenditoriali.
A quel punto, se nuove opzioni divenissero disponibili e alcune persone scegliessero ancora di lavorare nell’industria del sesso, non si potrebbe più affermare che il lavoro sessuale è una professione illegittima scelta per disperazione. E, a proposito, dovremmo davvero dubitare di qualsiasi gruppo che affermi di promuovere l’indipendenza delle donne e contemporaneamente sostenga che alcune donne sono incapaci di fare scelte informate.
 
Sì; molte delle decisioni che prendiamo sono influenzate dal nostro passato e a volte vanno a nostro discapito, ma non siamo vittime delle nostre scelte. Ed è una contraddizione affermare che una persona che vende sesso non è un agente morale perché sta reagendo ad un trauma emotivo, mentre una persona che compra sesso è un agente morale e la sua è intrinsecamente una scelta di sfruttamento, sia che derivi da un trauma emotivo o meno.
Il lavoro sessuale richiede la mercificazione del proprio corpo e l’accettare un aumento delle possibilità di rischi fisici, ma lo stesso avviene ad un giocatore di football professionista. A differenza delle sex worker, non trattiamo i giocatori di football come vittime, anche quando la scelta di diventare un atleta è stata la conseguenza dell’avere poche altre competenze spendibili sul mercato.
La distinzione tra la scelta di vendere sesso e la scelta di vendere abbonamenti stagionali si basa su una visione puritana del sesso come qualcosa di sporco. Anche se le/i lavorator* di entrambe le professioni mercificano il proprio corpo per il divertimento altrui, la società approva la decisione di vendersi in campo sportivo, ma denuncia la decisione di vendersi per sesso e chiama questa scelta degradante, francamente una definizione davvero offensiva. Nessuna scelta fatta da una persona per sostenere se stess* o la propria famiglia, senza danneggiare altr*, è degradante.
Le vittime di tratta, a differenza delle sex worker o dei giocatori di football, non hanno scelto di mercificare il proprio corpo e correre perciò gli eventuali rischi; i loro aguzzini hanno scelto per loro. La mancanza di scelta da parte della vittima, non la natura dell’industria del sesso, è ciò che le rende vittime e necessita di intervento. Queste persone non sono “sex worker” perché il sesso senza il consenso è stupro e il lavoro senza consenso è schiavitù. Chiamare le vittime di tratta sex worker o prostitute mina la gravità della violazione nei loro confronti, così come mina l’autodeterminazione delle persone, uomini e donne, che lavorano volontariamente nell’industria del sesso.
(Articolo originale di tradotto da feminoska)

Intervista ad Angela Davis

Angela-Davis

Questa intervista, di qualche anno fa, è ancora molto attuale per quanto attiene le questioni discusse, ovvero la depenalizzazione del sex work e le questioni relative all’attivismo e alla complessità degli scenari attuali di lotta. Traduzione di feminoska, revisione di Claudia.

Siobhan Brooks : Come descriveresti la tua esperienza durante il periodo d’incarcerazione con le sex worker? Come venivano trattate?

Angela Davis : Una delle cose che ricordo molto chiaramente della mia incarcerazione a New York, 27 anni fa, era il gran numero di sex worker continuamente arrestate. Durante le sei settimane della mia incarcerazione presso il carcere femminile di New York, mi ha colpito il fatto che i giudici erano molto più propensi a rilasciare le prostitute bianche, sulla base di garanzie personali, di quelle Nere o portoricane. Quasi il novanta per cento delle prigioniere di questo carcere – alcune delle quali in attesa di processo come me e altre che già scontavano pene – erano donne di colore. Le donne parlavano molto dei vari modi in cui il razzismo si manifestava nel sistema di giustizia penale. Parlavano di come la razza determinasse chi finiva in galera, chi restava in galera e chi no. Durante il breve tempo in cui sono stata lì, ho visto un numero significativo di donne bianche entrarvi con l’accusa di prostituzione. La maggior parte delle volte venivano rilasciate nel giro di poche ore. A causa dei problemi che molte donne si trovavano ad affrontare nel tentativo di ottenere i soldi per la cauzione, abbiamo deciso di lavorare con donne del ‘mondo libero’, che stavano organizzando una raccolta fondi per le cauzioni delle donne. Le donne all’esterno organizzarono la struttura e raccolsero il denaro e noi organizzammo le donne all’interno. Coloro che aderirono alla campagna convennero di continuare a lavorare con il fondo per le cauzioni anche una volta fuori, quando la propria cauzione venne pagata dai fondi raccolti dall’organizzazione. Molte sex worker si unirono a questa campagna.

SB : A quali abusi hai assistito nei confronti delle sex worker di colore?

AD : Non ricordo discriminazioni specifiche verso le sex worker, ma ho assistito a una grande quantità di abusi verbali diretti a tutte le prigioniere. I prigionieri, in particolare le donne detenute, erano e sono ancora trattat* come se non avessero diritti. Vengono infantilizzat* – per esempio, sono chiamate “ragazze”. Non solo nella mia esperienza personale in Dancing as a prisoner, ma anche nel lavoro che ho svolto come insegnante nel carcere della contea di San Francisco – dove Rhodessa Jones realizza rappresentazioni teatrali corali – ho assistito a una grande quantità di abusi verbali diretti alle donne prigioniere. Spesso le guardie e il personale della prigione sono del tutto inconsapevol* di inferiorizzare i/le prigionier*.

SB : In uno dei tuoi saggi, Donne, Razza e Classe, hai menzionato alcune prostitute che cercarono di formare un sindacato nella prima parte del secolo. So che sostieni il tentativo de* sex worker di organizzare il proprio ambiente di lavoro. Volevo sentire con parole tue quale sia la tua opinione generale in merito all’industria del sesso.

AD: Comincio dicendo che penso che l’industria del sesso dovrebbe essere depenalizzata. In paesi come l’Olanda, dove l’industria del sesso è stata depenalizzata ci sono, in conseguenza, meno pressioni sul sistema della giustizia penale per quanto concerne le donne. La criminalizzazione continua dell’industria del sesso è in parte responsabile dei numeri crescenti di donne che transitano in carceri e prigioni. Questo fenomeno di espansione esponenziale delle popolazioni carcerarie è parte del complesso industriale carcerario emergente. Non solo le popolazioni di carceri e prigioni stanno aumentando ad una velocità incredibile, le società capitaliste hanno ora una maggiore partecipazione nel settore punitivo. Nuove carceri sono in costruzione, sempre più aziende utilizzano il lavoro carcerario, più prigioni sono state privatizzate. Allo stesso tempo, più donne stanno andando in prigione, più spazi vengono creati per le donne e, di conseguenza, un numero sempre maggiore di donne andranno in prigione in futuro. A mio parere, la continua criminalizzazione della prostituzione e dell’industria del sesso in generale, alimenterà l’ulteriore sviluppo di questo complesso industriale carcerario. Lo smantellamento del sistema del welfare nell’ambito della cosiddetta legge di riforma del welfare porterà probabilmente ad una ulteriore espansione dell’industria del sesso, così come l’economia sommersa della droga. La criminalizzazione dell’industria del sesso contribuirà pertanto a attirare sempre più donne nel complesso industriale carcerario. C’è una dimensione razzista in questo processo dal momento che un numero spropositato di queste donne saranno donne di colore.

SB : Pensi che nel prossimo futuro la prostituzione sarà depenalizzata nel nostro paese?

AD : E’ qualcosa per cui dobbiamo combattere. Nell’era dell’HIV e AIDS, non ha senso continuare a costruire circostanze sociali che mettono le donne sempre più a rischio. Il lavoro che C.O.Y.O.T.E. ha fatto nel corso degli anni è stato estremamente importante. A questo proposito, Margo St. James è una pioniera. Ho letto del lavoro che avete fatto al Lusty Lady nell’organizzarvi con il SEIU, Local 790. Se tutto va bene, il lavoro che state facendo si trasformerà in una tendenza a livello statale e nazionale. Certamente se sindacati come il vostro continueranno ad organizzarsi e se il movimento delle donne e altri movimenti progressisti si occuperanno della lotta per la depenalizzazione, ci sarà qualche speranza.

SB : Ti ricordi quali erano i discorsi in merito alle sex worker nel periodo del movimento femminista degli anni ’70?

AD: Durante il primo periodo del movimento di liberazione delle donne, i problemi più drammatici erano la violenza sessuale e i diritti riproduttivi – in altre parole, lo stupro e l’aborto. Le questioni relative all’industria del sesso venivano sollevate nel contesto delle discussioni sulla violenza sessuale. Ad esempio, c’era il dibattito sullo statuto di Minneapolis che vietava la pornografia, che tendeva a dividere molte femministe in campi opposti, pro e contro la pornografia. Quella polarizzazione fu uno sviluppo piuttosto sfortunato. Ma allo stesso tempo queste discussioni ci hanno messo di fronte ad interrogativi molto interessanti su ciò che si definisce come pornografia, che hanno aperto nuovi modi di pensare e di parlare di sesso e pratiche erotiche. La definizione di pornografia come aggressiva, oggettivante e come violazione dell’autonomia e autodeterminazione delle donne era importante da un punto di vista strategico, perché ha permesso di distinguere tra ciò che era sfruttamento e violazione, da un lato, e quello che era un’espressione di autorappresentazione dall’altro. Queste discussioni hanno preparato il terreno per spostare il discorso femminista sull’industria del sesso al di fuori del quadro tormentato della moralità.

SB : Come pensi che le tue opinioni femministe siano cambiate nel corso degli anni?

AD: Penso che siano cambiate molto. Per esempio, non mi consideravo davvero una “femminista” durante gli anni sessanta e settanta, anche se ero molto coinvolta nell’attivismo che si occupava di questioni femminili. Con l’emergere del movimento di liberazione delle donne verso la fine degli anni Sessanta, molte donne di colore, me compresa, tendevano a tenersi a distanza dalle femministe bianche borghesi. Molte di noi si sentivano come se ci venisse chiesto di scegliere tra razza o genere mentre noi volevamo affrontare entrambi allo stesso tempo. Ci siamo sentite marginalizzate nei nostri movimenti per l’uguaglianza razziale e allo stesso modo marginalizzate nei movimenti per l’uguaglianza di genere. Se i movimenti femministi bianchi e borghesi tendevano ad essere razzisti, molti sforzi anti-razzisti tendevano ad essere maschilisti. Sono giunta alla conclusione che il femminismo non è un movimento o modo di pensare monolitico. Esistono diversi femminismi e spetta alle donne e gli uomini che si definiscono femminist* chiarire la propria particolare politica femminista. Io ho scelto di definire il femminismo in una cornice politica socialista e radicale, che collega lotte contro il dominio maschile alle pratiche anti–razziste e anti-omofobiche. Ciò significa che possiamo anche pensare al nostro passato in modi diversi. Quando ho scritto il libro Donne, Razza e Classe, non mi consideravo una femminista. Ma ora mi rendo conto che in questo libro stavo tentando di esplorare le tradizioni storiche delle femministe nere. Il mio ultimo libro, Eredità Blues e Femminismo Nero, continua quella ricerca di tradizioni femministe della classe operaia nell’opera delle cantanti blues di colore. Osservando Gertrude “Ma” Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday, ho scoperto che uno dei più importanti temi femministi del loro lavoro è stato la sessualità. Le canzoni blues – così come la trasformazione di canti popolari, attraverso il blues e il jazz, di Billie Holiday – evocano il sesso in modi molto interessanti e spesso usano metafore sessuali precise. I borghesi neri storicamente si sono spesso dissociati dal blues proprio a causa del modo in cui parla di sesso.
In Eredità Blues, affermo che la sessualità era particolarmente importante per le persone di colore appena emerse dall’esperienza della schiavitù. All’indomani della schiavitù, i neri emancipati non erano veramente liberi. Anche se la schiavitù era stata abolita, non c’era libertà economica né libertà politica. Ma i neri potevano esercitare autodeterminazione e autonomia nel campo sessuale. Potevano prendere le proprie decisioni riguardo ai propri partner sessuali. Potevano decidere con chi fare sesso sulla base del proprio desiderio – e non in base alle esigenze dei padroni di riprodurre la popolazione schiava. Questa è stata una delle espressioni più tangibili della libertà per un popolo che non era ancora libero. Nel mio libro leggo le canzoni blues delle donne in un modo che mi permette di collegare la sessualità con la liberazione.

SB : E’ davvero un grande progetto perché in generale il femminismo nero non è riconosciuto nel modo in cui dovrebbe. Come vedi l’attivismo politico e il femminismo tra i/le giovani?

AD : Non parto dal presupposto, come molte persone della mia generazione, che i giovani oggi siano politicamente apatici. I giovani sono coinvolti in molte importanti forme di attivismo di base. Sono coinvolti in forti campagne contro lo smantellamento delle azioni positive, stanno sfidando il complesso industriale carcerario, sono coinvolti nel movimento contro l’AIDS e stanno organizzandosi in maniera innovativa, come nel caso del tuo lavoro in qualità di organizzatrice sindacale nell’industria del sesso. Il problema principale, a mio avviso, è la mancanza di visibilità di questo lavoro e la mancanza di reti nazionali. Ne risulta che molte persone ritengono che tale sforzo non esista. Cerco di mettere in guardia contro i confronti dei giovani di oggi con i loro antenati del movimento, per così dire, e contro la nostalgia che definisce gli anni Sessanta come l’epoca rivoluzionaria e gli anni novanta come un’epoca di passività politica. Le circostanze che affrontiamo oggi sono molto più complicate di quanto lo fossero 30 anni fa. Io davvero non invidio il/la giovane attivista che oggi non può concentrarsi su una questione nel modo in cui, negli anni Sessanta, l’ attivismo era incentrato sulla razza o sul sesso o sulla classe. I giovani di oggi devono imparare a tenere tutte queste cose in tensione dinamica e a riconoscere l’intersezionalità. Durante gli anni sessanta, se diventavi un’attivista anti-razzista, tutto quello che dovevi fare era capire come sfidare il razzismo. Sapevi chi fosse il nemico. Ora, naturalmente, ci rendiamo conto che il nemico non è così chiaramente definibile. Dal momento che abbiamo imparato a politicizzare la violenza domestica, possiamo dire che l’attivista maschio che picchia la sua compagna sta contemporaneamente su entrambi i lati della battaglia. Queste sono alcune delle relazioni complicate che i/le giovani devono comprendere oggi. Io rispetto profondamente il lavoro del/la giovane attivista e cerco di incoraggiare i giovani a cercare tra di loro i propri modelli invece di supporre di poterli trovare nel passato. Mi capita spesso di dire che il rispetto per gli anziani è buona cosa, ma bisogna saper combinare la giusta quantità di rispetto con un pò di mancanza di rispetto, per distanziarsi dal passato storico. Una parte importante del lavoro di creazione di nuove forme di lotta risiede nel mettere in discussione le forme precedenti. Le persone della mia generazione hanno contestato gli anziani – i Martin Luther King, per esempio – per ritagliarsi nuovi percorsi. Questo, credo, è ciò che deve accadere oggi.

SB : Come immaginavi il futuro politico degli anni ’80 e ’90 dopo essere stata liberata dal carcere?

AD: C’era molta repressione negli anni ’70 quando sono finita in prigione e quando i prigionieri politici del Black Panther Party e di altre organizzazioni abbondavano nelle carceri e prigioni. L’FBI e le forze di polizia locali hanno tentato di annientare organizzazioni come la BPP. Gli studenti sono stati i bersagli della repressione – alla Kent State, per esempio. Gli anni ’70 sono stati un periodo durante il quale lo Stato era determinato a spazzare via la resistenza radicale. E ha avuto successo in certa misura. Ma d’altra parte, c’era chi continuava a fare attivismo. Anche durante l’era Reagan, c’erano dimostrazioni importanti e massicce di resistenza politica. Forse il presente è sempre il più difficile da comprendere, ma questo sembra il momento più difficile di tutti. Ora che un numero crescente di donne e di persone di colore sono in posizioni di potere, dobbiamo riconoscere che non possiamo più supporre che le persone nere o Latine o le donne di qualsiasi provenienza razziale siano progressiste in virtù della propria razza o genere. Infatti molt*, come Clarence Thomas e Ward Connerly qui in California, sono diventat* portavoce delle posizioni politicamente più arretrate e conservatrici.
Questo significa che abbiamo bisogno di pensare diversamente le nostre strategie politiche. Non possiamo lottare per il tipo di unità su cui le persone tendevano a fare affidamento in passato. Dobbiamo rinunciare alle vecchie idee di unità dei neri o delle donne. Il tipo di unità cui abbiamo bisogno, credo, è l’unità forgiata attorno a progetti politici in contrapposizione all’unità basata semplicisticamente sulla razza o sul genere. La mia speranza per il futuro non è una speranza astratta, ma si fonda sull’idea che dobbiamo affrontare i compiti che ci si parano davanti. Se non lo faremo dovremo affrontare un futuro molto più tremendo e pericoloso di quello attuale.

SB: E’ un futuro davvero spaventoso. Ciò che trovo interessante in quello che alcune persone chiamano il movimento de* sex worker è che comprende gruppi di persone di diverse razze, classi e generi. Penso che sia un buon modello su come possiamo allearci con l’attivismo di sinistra per creare qualcosa di più ampio.

Angela Y. Davis è professora di Storia della Coscienza presso l’Università della California, Santa Cruz. Nel 1994, è stata nominata alla Presidenza in Studi Afro Americani e Femministi dell’Università della California. E’ autora di numerosi articoli e saggi, e di cinque libri, tra cui Donne, Razza e Classe. Il suo ultimo libro, Eredità Blues e Femminismo Nero, si concentra sulla nascente coscienza femminista nelle opere delle prime donne del blues. Nel 1972 venne assolta dalla falsa accusa di omicidio, sequestro di persona e cospirazione, e cominciò a distinguersi come studiosa e attivista per i diritti umani. In questa intervista racconta la propria esperienza in carcere con le sex worker, e le proprie opinioni sul femminismo e l’attivismo tra i giovani.

Siobhan Brooks è stata sindacalista al Lusty Lady Theater, che era parte del Service employees International Union, Local 790. E’ ricercatrice in sociologia presso la New School for Social Research, e membro del Consiglio dell’EDA. I suoi scritti sono apparsi su Z Magazine (gennaio 1997), Whores and Other Feminists (a cura di Jill Nagle. Routledge , 1997), Sex and the Single Girl (a cura di Lee Damsky. Seal Press , 200), e Feminism and Anti-Racism (a cura di France Winddance Twine e Kathleen Blee. NYU Press 2001).

Questa intervista ad Angela Davis è stata originariamente pubblicata nel vol. 10. n. 1 1999 del Hastings Women’s Law Journal, ed è parte del libro ancora inedito (al tempo dell’intervista, n.d.T) di Siobhan Dancing Shadows: Interviews with Men and Women Sex Workers of Color.

Costruendo un discorso antimaterno

Il femminismo tende a ignorare la natura compulsiva della maternità, l’importanza del suo ruolo nella comprensione della discriminazione strutturale e ideologica delle donne e a perpetuare il tabù verso qualsiasi discorso contrario.

Señora Milton

L’altro giorno, nella penombra di una riunione notturna, parlando di quelle cose che non si suole menzionare alla luce del giorno, finimmo col parlare di maternità tra amiche, con grande sincerità. E dopo le chiacchiere, fummo in molte a concordare che al femminismo resta molto da dire sulla maternità, anche quando si potrebbe pensare che in merito abbia già detto tutto; in fin dei conti, la maternità è uno dei suoi temi da sempre. Possiamo constatare che, a dispetto del fatto che la maternità è stata studiata, analizzata e messa in questione, e che la rivendicazione dei diritti riproduttivi è una costante all’interno del femminismo, non esiste all’interno di esso una discorso chiaramente antimaterno.

Sebbene la maternità apparentemente sembri essere molto cambiata, abbiamo il diritto di domandarci se questo mutamento sia stato qualcosa di più di una semplice modernizzazione per continuare ad essere, nel profondo, un discorso prescrittivo che pretende di continuare a mantenere pienamente operativo il binomio donna-madre, nonostante oggi si tratti di una donna moderna e anche di una madre moderna. Il femminismo, a mio parere, tende a ignorare la natura compulsiva della maternità e a sottovalutare il suo ruolo nella comprensione della discriminazione strutturale e ideologica delle donne. Il tabù che incombe su qualsiasi discorso antimaterno all’interno del femminismo evidenzia il carattere conflittuale di una questione che non riguarda solamente la configurazione dell’identità delle donne, ma il mantenimento stesso dell’ordine sociale nel suo complesso.

Durante la maggior parte della sua storia moderna, il principale obbiettivo del femminismo è stato da un lato difendere una condizione materna compatibile con la vita (nel senso più letterale), o, nei paesi ricchi, difendere una gestione della maternità che permettesse di essere madri rimanendo sé stesse. E pur essendo queste due preoccupazioni logiche e giuste, non significa che si debbano soffocare altri modi di pensare la maternità. In generale, salvo eccezioni, sono poche le voci che hanno formulato dei discorsi contrari a una questione che, semplicemente, si assume come normale, naturale, inevitabile, indiscutibile, ecc.  Quasi tutte le posizioni femministe attorno alla maternità partono, in ogni caso, dalla posizione che dà per acquisito e indiscutibile, politicamente ed esistenzialmente, che la maggioranza delle donne del pianeta voglia essere madre e che, in ogni caso, essere madre sia qualcosa di buono.

Non si tratta qui di giudicare se la maternità sia buona o cattiva, ma semplicemente di richiamare l’attenzione sul fatto che ci troviamo di fronte a una istituzione talmente radicata nella nostra organizzazione sociale e nella nostra soggettività che non ammette nemmeno un solo discorso contrario, anche qualora fosse minoritario. Non è possibile che in merito ad un’esperienza umana con una capacità tanto potente di cambiare la vita di qualsiasi donna, non esistano discorsi negativi, anche soltanto per il fatto che la pluralità dei punti di vista è sempre desiderabile di fronte a qualsiasi questione complessa. E tuttavia, sulla questione non esistono diversi punti di vista, o i punti di vista negativi non sono visibili. La verità è che non esiste nessun’altra istituzione sociale che goda di questo stesso grado di accettazione e assenza di critica; e questo deve far pensare.  E’ vero che quando parliamo del diritto all’aborto o dei diritti riproduttivi, presupponiamo che questo includa il diritto a non avere figl*, ma si tratta di qualcosa che resta implicito, supposto, non di un diritto che si esplicita e ancor meno che si rende culturalmente visibile non solo allo stesso modo, ma anche con qualche tratto positivo, come discorso alternativo ai discorsi materni egemonici.

Perché la questione è: si può davvero scegliere qualcosa quando una delle due opzioni è praticamente un tabù sociale, scientifico, politico, eccetera? La verità è che le donne fanno le proprie scelte di maternità in un contesto coercitivo rispetto non solo al non avere figl*, ma specialmente all’avere accesso ai vantaggi o alla felicità che può consentire il non averne. Qualsiasi posizione, politica o personale, contraria al discorso maternalista deve affrontare una sanzione sociale, economica o psicologica brutale. E’ in questa sensazione di mancanza di alternative che il discorso pro-maternità è totalitario.

L’unico discorso negativo ammesso sulla maternità è quello della cattiva madre, la madre perversa, quella che non ama le/i propr* figl*, quella che l* maltratta. Il discorso sulla cattiva madre non serve ad altro che a rinforzare e prescrivere un tipo di maternità, esattamente quella contraria, quella praticata dalla buona madre. Perché la cattiva madre è la peggiore immagine che tutte le culture riservano ad alcune donne, quelle pessime; nessuna vuole ricoprire questo ruolo. Attraverso il femminismo una donna può accettare, e persino difendere trasgressivamente, di essere una cattiva moglie, una cattiva compagna, una cattiva figlia, una cattiva amante, una cattiva lavoratrice, una cattiva donna, una cattiva in generale (Le brave ragazze vanno in paradiso, le cattive vanno dappertutto), ma… una cattiva madre? Che questa idea ci risulti tanto devastante a livello personale è il sintomo di quanto sia assolutamente rigido il controllo sulla maternità e, pertanto, sulle donne. Essere una cattiva madre è forse la cosa peggiore che una donna possa essere.

Non essere madre è una scelta personale alla portata di pochissime donne nel mondo e che si persegue con discrezione, quasi in solitudine, e sulla quale continuano a gravare le sanzioni sociali. La non-madre passerà la vita giustificandosi di fronte a domande che danno per scontato che la normalità sia scegliere di essere madre. Ma nonostante questo margine di scelta sia molto limitato, c’è un’altra questione ancora più proibita: quella di essere madre e di pentirsene. Esistono molteplici barriere psicologiche e sociali che impediscono di esprimere cose del genere, anche a sé stesse. Colei che si pente di essere diventata madre, non lo confesserà mai. Riconoscersi pentita della maternità è come riconoscere che non si amano le/i figl*, o che non l* si ama abbastanza e così, nuovamente, si ricade nella categoria della cattiva madre. E tuttavia, la maternità è un’esperienza tanto determinante nella vita di ogni donna che, di certo, è possibile anche pentirsi o pensare che avendo avuto la possibilità di sapere prima ciò che davvero significava essere madre, si sarebbe scelto di non esserlo. E questo lo si può pensare anche amando le/i propr* figl*, o amandoli molto, non è contraddittorio.

Per di più, per quale motivo è obbligatorio amare le/i figl*? Esiste una quantità minima di amore obbligatorio? La maternità esige che l* si ami sempre sopra ogni cosa: al di sopra di sé stesse soprattutto; l’amore materno si suppone sempre e in ogni caso incondizionato, questa è una delle sue principali caratteristiche. In realtà, questo è ciò che definisce la maternità. Invece, l’amore del padre si suppone molto meno incondizionato; di fatto, non esiste l’amore paterno come categoria. I padri di solito amano le/i propr* figl*, sì, ma senza che questo amore sia categorizzato come assoluto, come estremamente generoso o incondizionato. Piuttosto sembra che ogni padre ami le/i propr* figl* come può o come vuole. L’amore materno, al contrario, non ammette sfumature.

E possiamo spingerci anche più in là: si può non amare le/i propr* figl* e non essere un mostro. Le/I figl* si fanno nella completa ignoranza; nessuno sa come sarà quando arriveranno e invaderanno la vita per sempre, nonostante intorno sia pieno di immagini positive, quasi celestiali, della condizione materna. E tuttavia, la disillusione, o la scoperta di sentimenti che non ci si aspettava non è così infrequente come si potrebbe supporre: come le depressioni di cui soffrono le madri in maggiore misura rispetto alle altre donne, e che gli uomini interpretano come un sintomo di qualcosa di inespresso e inesprimibile. E’ risaputo che, di contro a ciò che il mito della maternità sostiene, ci sono molte madri che hanno bisogno di tempo per amare le/i propr* bambin* e per adeguarsi alla nuova vita alla quale nessun* ci ha preparato. Per altre ragioni, è perfettamente possibile che una si separi emotivamente dalle/i propr* figl* quando quest* diventano adult*. Non si amano le/i figl* per istinto, una cosa del genere non esiste. Si è solite amare le/i figl*, sì, ma a volte non così velocemente come ci raccontano; a volte non tanto come credevamo; a volte, poi, l’amore cambia e si affievolisce con il tempo e, infine, a volte, anche amandol* molto, è possibile pensare che la vita sarebbe stata migliore se avessimo preso la decisione di non averl*; se qualcuno ci avesse spiegato davvero ciò che significano, se avessimo avuto accesso a una pluralità di discorsi e non a uno solo. E tutti questi sentimenti, assolutamente umani e così normali come quelli opposti, non trasformano queste donne in cattive persone, né in subumane. Ma non troveremo nessun discorso, nessun personaggio, nessuna storia, che non offra immagini non già positive, ma anche neutre di una donna del genere.

Di contro, sappiamo bene che esistono molteplici discorsi e condizionamenti che esaltano la maternità e sappiamo che questi discorsi pro-maternità si danno in tutti gli ambiti ideologici, non soltanto negli  ambiti conservatori. Oltre ai discorsi pro-maternità propri del sessismo, la verità è che periodicamente, dagli ambiti ideologici femministi, si manifestano discorsi pro-maternità che offrono, apparentemente, nuove visioni della maternità che finiscono con l’essere quella di sempre: visioni mistiche e volontaristiche nelle quali si vorrebbe spogliare la maternità dei suoi antichi significati semplicemente perché lo si desidera. Di fatto, è possibile che attualmente il discorso maggioritario all’interno del femminismo sia quello di una neomaternità romanticizzata, che in realtà non è mai esistita prima, ma che si presenta come un recupero dell’antico e del naturale.

Molte femministe ora scoprono il piacere della maternità e lo fanno come se fosse una novità, come se non ci portassimo addosso centinaia di migliaia di anni da madri. Tutto si vende con la freschezza e il profumo della novità: il parto naturale, l’allattamento e i piaceri della maternità intensiva riappaiono in tutti gli ambienti e lo fanno con la forza della conversione. Inoltre, si presentano nuove situazioni – come la maternità delle lesbiche o la maternità mediante tecniche di inseminazione – quasi fossero atti di ribellione contro il patriarcato, ignorandone il significato di partecipazione consumistica di derivazione capitalista, oltre a confermare, più che dissentire, dal ruolo materno tradizionale.

Qualsiasi discorso sotterraneo ha qualche aspetto che vale la pena rivelare; in questo caso è capire perché non si (rap)presenti la non-maternità come una alternativa di uguale ricchezza rispetto all’altra. Per questo sono convinta che dobbiamo riflettere di più sull’istituzione materna inscritta oggi nel consumismo di massa e nell’essenzialismo naturalista; dobbiamo reclamare, almeno, uno spazio di riflessione sull’antimaternità. E ancor di più dal momento che attualmente il discorso dominante si sta sforzando di ridefinire la maternità attraverso discorsi che sembrano meno patriarcali, ma che non mettono in questione l’aspetto fondamentale: il fatto che la donna possa avere figl* non spiega né giustifica che voglia averne; né che averne sia la scelta giusta, migliore o anche solo più desiderabile.

Costruendo un discorso antimaterno [Construyendo un discurso antimaternal]
di , tradotto e adattato da Serbilla Serpente e revisionato da feminoska. Articolo originale apparso qui su pikaramagazine.com.

Verso la fine delle politiche della rispettabilità

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Una donna sessualmente attiva che parla in maniera aperta e non morbosa di questo aspetto della sua vita viene prontamente etichettata come non-donna dalle altre (“quella non è una donna, è una femmina” è una frase che credo di aver sentito un miliardo di volte), una che rovina la categoria, perché non aderisce al ruolo di genere che le hanno confezionato su misura. Spesso persone LGBT si affrettano a denigrare il pride e la visibilità – le stesse cose che gli consentono, rispetto a qualche secolo fa, un’esistenza meno nascosta. Una persona trans è spinta ad adeguarsi a modelli di mascolinità e femminilità più irraggiungibili di quelli riservati a una persona cis, perché deve “provare” il suo genere (ma per molt* cis, il pensiero di fondo è che questo non sia valido a prescindere, con o senza prove, ammesso che esistano – beato cissessismo). Qual è stata la prima donna nera a non cedere il suo posto, protestando contro la segregazione razziale sugli autobus? Rosa Parks. Sbagliato. Si chiama Claudette Colvin. Se ne restò fermamente seduta ben nove mesi prima, ma era quindicenne, troppo scura di pelle, la sua famiglia viveva nella parte più povera di Montgomery e rimase incinta poco dopo, senza sposarsi. Una figura poco sponsorizzabile per il Civil Rights’ Movement (o qualsiasi altro movimento sociale).

Quello che hanno in comune tutti questi esempi sono le politiche della rispettabilità. Le politiche della rispettabilità  sono quelle politiche che lavorano per modificare l’immagine di un gruppo sociale oppresso facendogli assumere i connotati che sono considerati accettabili dal gruppo sociale oppressore (dalla cultura dominante).  L’approccio emerge quasi naturalmente: quando ti etichettano come altro, la tua prima idea è di rispondere che sei uguale. E allora chi hai di fronte ti risponde: ok, dimostramelo. È un tentativo di asserire la propria dignità d’esistenza, ma non per questo meno fallace. Perché?

Una comunità che finisse per rispondere in quella maniera, non necessariamente farebbe la cosa giusta, poiché nel farlo potrebbe appoggiare valori orribili – anche, e soprattutto, quelli alla base della propria oppressione (che non è per forza una soltanto).  Cosa che non andrebbe confusa con una qualunque attività di rinforzo della normatività esistente da parte di un gruppo dominante – perdio, un oppressore si chiama così perché opprime – e non si può fare un calderone gigante in cui infilare le responsabilità e renderle tutte uguali. Non lo sono: per chi è oppress*  si tratta di una forma (anche inefficace, anche controproducente) di difesa, mentre il dominio attacca e basta.

Se le politiche della rispettabilità nascono come regole/linee guida sociali, culturali, lavorative, sessuali, artistiche, ecc. da seguire per divenire umani, allora è automatica l’implicazione che chi fa questa richiesta non appartenga all’umanità, e che debba in qualche maniera meritarsela, come se non fosse già sua e gli fosse invece negata da altri. È proprio questa l’idea che va combattuta: che si debba audizionare per farsi riconoscere la capacità ad essere sé stessi, ad agire in una maniera ritenuta non-standard. Nessuno dovrebbe essere accettato o approvato, men che meno come modello da seguire per tutt* coloro con cui quel soggetto condivide delle caratteristiche. Ad un essere umano bianco, maschio, abile, eterosessuale e cisgender si riconosce il diritto all’unicità, ad essere individuo. Il resto del mondo è obbligato ad essere in qualche modo rappresentativo della sua categoria. Un comportamento atipico può diventare un’emarginazione ulteriore, stavolta dai propri simili, se ritenuto vergognoso per la comunità tutta.

Tali politiche – diffuse, ma non per questo meno elitarie – alienano il target di soggetti che vorrebbero liberare dal resto della società, rendendolo cattivo e irresponsabile in una maniera che con altri gruppi non ha luogo; in più, si prefigurano irrealisticamente di raggiungere uno status che non verrà mai autenticamente raggiunto, fintanto che sarà concesso, in quanto i  termini di una concessione li decide chi concede. In questa maniera, nessun obiettivo potrà mai essere portato a termine, perché il gruppo dominante continuerebbe perennemente ad alzare l’asticella rendendo impossibile arrivare a superarla.  Come oppress* e militanti per una società di eguali è necessario mettere da parte strategie come questa, perché non saranno mai rivoluzionarie: il loro scopo è privare i soggetti della loro capacità destabilizzante, di poter minacciare l’esistente, e sono esse stesse oppressive, perché li privano di autonomia e autodeterminazione nel nome della pubblica immagine.

 

 

Deconstructing quello (il giornalista) che ci prova

Formaggio provolone
Formaggio provolone

 Premessa: chiariamo bene che cos’è “La Nuova Sardegna”.

La Nuova Sardegna è il più diffuso quotidiano del nord Sardegna, fondato nel 1891 a Sassari da Giuseppe Castiglia ed Enrico Berlinguer, nonno dell’omonimo ex segretario del PCI.
Oltre che a Sassari ha redazioni a Cagliari, Nuoro, Olbia e Oristano e uffici di corrispondenza ad Alghero e Tempio Pausania.
Dal 1980 fa parte del Gruppo Editoriale L’Espresso.

Così Wikipedia. Quindi: parliamo di un giornale che esiste da più di un secolo e con i suoi bei nomi nella storia da mettere in vetrina. Non proprio carta straccia.
Poi dice che sono io che ce l’ho con i giornalisti. E’ vero, ma è molto riduttivo: perché se esce un articolo come questo sul sito di un quotidiano come La Nuova Sardegna, vuol dire non solo che il giornalista, ma anche il suo caposervizio, il caporedattore, il vice e il direttore non hanno idea di cosa sia il linguaggio sessista, di cosa vuol dire una cultura sessista, di cosa sia il minimo rispetto per le questioni di genere. E neanche chi si occupa – ammesso che lo faccia qualcuno – di mettere questi articoli nel loro sito. Sentite qua che meraviglia.

Ci prova con l’amica: condannato per violenza

[Ci prova con l’amica a me fa incazzare anche se solo sentito, figuriamoci come titolo di giornale. Ci prova è l’esatta espressione di un sessismo ormai abitudinario, arrivato a considerare le persone, specialmente le donne, attrezzi, strumenti, aggeggi da testare per vedere se fanno al caso nostro.]
A un cinquantenne di Ossi inflitti un anno e 4 mesi e 8mila euro di provvisionale. Aveva cercato di baciare la donna, prendendole una mano e portandosela alle parti intime [complimenti per la logica: provi a farti baciare da qualcuna forzandola a toccarti il pacco? Non c’è qualcosa che non va in questo sottotitolo? Non manca qualcosa? Ricordate anche questo, per ora: nel sottotitolo lei è la donna]

di Luigi Soriga [abbiamo il nome, casomai servisse un altro articolo del genere sappiamo a chi chiederlo]

SASSARI. Ci ha provato, gli è andata male [complimenti: le prime sette parole sono un giudizio sulla vicenda. Lui è stato sfortunato. Gli hanno dato galera e multa per sfortuna. Poverino, “ritenta, sarai più fortunato”], e ora si è beccato [si è beccato; ambisce al Pulitzer, il Soriga] un anno e quattro mesi di reclusione e una provvisionale di 8mila 500 euro. Mai si sarebbe aspettato di pagare uno scontrino [uno scontrino? Ma che linguaggio è?] così salato per le avance nei confronti di una sua parente [e chi se lo aspetterebbe? Normalmente per le avance nei confronti di una parente c’è un premio, no? Intanto, da donna è diventata parente]. Certo, il suo approccio non era stato dei più romantici [AH AH AH, che ridere]. Prima ha tentato un bacio, e lei ha girato la faccia dall’altra parte. Poi ha afferrato la mano della donna [è tornata donna] e l’ha portata sui suoi pantaloni, all’altezza delle parti intime. Lei si è divincolata, lo ha respinto, ha urlato. Al macho maldestro [notate, maldestro: se ne sottolinea la scarsa perizia, non la violenza o lo spregio totale della considerazione per l’altra persona, no: è maldestro, è buffo, fa ridere] non è rimasto che andare via con la coda tra le gambe. Forse sul momento non ha realizzato, ma quell’approccio sconsiderato per la legge si configura a tutti gli effetti come un reato sessuale [ma guarda un po’ cosa capita ai maldestri!]. La storia accade a Ossi, è il ferragosto del 2010. Lui è un autista di bus, sulla cinquantina. Lei è molto più giovane [e tanto vi deve bastare, lei non lavora, non è nulla, è solo molto più giovane]. I due sono cugini di secondo grado, tra loro c’è confidenza, tanto che la donna, in crisi con il marito, chiama l’amico per raccontare i suoi problemi coniugali. Parlano a lungo, lui le dice che il marito non la merita, che dovrebbe lasciarlo, e tra i due scatta un abbraccio affettuoso. A quel punto nella testa dell’uomo si accende la scintilla sbagliata [ricordatevi, è sempre la scintilla, lo scatto, il clic. Non c’è una cultura patriarcale, sessista, no no, è che tutti i maschi girano con una bomba nel cervello. Sono tutti bravi ragazzi]. Forse è convinto che la donna provi attrazione nei suoi confronti [notate: lui si convince che lei abbia qualcosa, lui continua a essere normale anche se ha la scintilla sbagliata], e ci prova con decisione. Si becca un due di picche clamoroso [“bella rigà, se vedemio àaa redazzione, c’ho da scrive de un due de picche clamoroso, anàca”] e viene cacciato di casa. Però si rende conto che la sua amica [già donna, poi parente, adesso è la sua amica] è molto scossa, e visto che il marito stava per rientrare in casa, lui gli va incontro e lo invita a bere qualcosa al bar. Quando poi rientra a casa la moglie si è calmata, e lui non si rende conto di nulla [notate: la mano sul pacco è causata da la scintilla sbagliata, ma l’acume e la premeditazione necessarie per l’accorta condotta, a evitare che il marito sappia subito tutto, non viene sottolineata. La scintilla dello stronzo non esiste]. La denuncia ai carabinieri non viene presentata subito. Solo che poi l’episodio non scivola sulla donna come se niente fosse. Lei ha un carattere fragile [il giornalista è anche perito psichiatra, e sentenzia che lei denuncia perchè è fragile, mica perché quel gesto è da denuncia, no no], comincia ad accusare un disagio psicofisico, stati d’ansia, insonnia. Un’altra donna magari avrebbe liquidato l’episodio con uno schiaffone e una valanga di insulti [le donne con le palle, vero Soriga? Invece questa ha un carattere fragile, sono quelle così che denunciano, poverette, basterebbe uno schiaffone, no? Soriga le sa tutte, facciamolo ministro per le Pari Opportunità]. Lei invece tiene dentro per un po’, dopodiché esplode. Prima si confida con una zia, poi con un po’ di titubanza, racconta tutto anche al marito. Lui la convince a presentare subito denuncia [lui la convince, che eroe, lei è così fragile]. E il 6 settembre la donna si presenta dai carabinieri di Ossi. I problemi psicologici vanno avanti nei mesi successivi, e lei si rivolge al proprio medico di base. Lui certifica, testuale: «Affetta da tentata violenza sessuale». Comincia anche il processo in tribunale e ieri il pm Giovanni Porcheddu è partito dalla pena di due anni, l’ha ammorbidita con le attenuanti generiche e la minor gravità per non aver consumato l’atto [devo commentare? No, vero?], e ha chiesto 1 anno e 4 mesi. L’avvocato di parte civile, Maria Francesca Lorusso, nella sua arringa ha ripercorso tutta la vicenda e ha chiesto la condanna dell’imputato. Il legale della difesa, Caterina Mureddu, invece ha chiesto la piena assoluzione perché il fatto non sussiste [qui il nostro giornalista non se la sente di dire la sua. E’ psichiatra, è giovanile, conosce donne che avrebbero dato sberle, ma su il fatto non sussiste non ha nulla da dire. Ancora complimenti]. Alla fine il giudice Marina Capitta, che presiede il collegio, ha deciso di confermare le richieste del pm. La tentata violenza sessuale [su donna giovane e fragile, mi raccomando] si paga cara: 1 anno e 4 mesi (con la condizionale perché incensurato), 8mila e 500 euro da corrispondere subito più l’ulteriore risarcimento da stabilire in sede civile.

Qui, per come la vedo io quello che ci prova è il giornalista. Prova a minimizzare, prova a scusare il colpevole, prova a far apparire lei come una mezza deficiente, prova a ridere di tutto. Ma no, non è vero, sono io che ho un problema, sono io che vedo (e leggo) una cultura sessista.