Il corpo nudo

Spogliarsi fa paura. Anche quando lo fai solo per te stessa è difficile scrollarsi di dosso lo sguardo esterno. Ci si sente totalmente derubate del proprio punto di vista, della propria opinione, del proprio occhio amorevole che non sminuzza ma dà forza. Riuscite voi a guardarvi, magari rappresentat* in una foto o in un video, e sentirvi compiaciut* e serenamente distaccat* da qualsiasi altro punto di vista? Quanto è forte il valore e la pressione sociale nel momento di manifestare liberamente il proprio corpo, primo strumento di socialità?

Di che ragioniamo… di relazioni, violenze, disparità se è sulla nostra stessa materia che è costruito il primo recinto di paura e repressione? I nostri corpi nudi non sono solamente reclusi, sono sottratti. La volontà di vedersi e piacersi (o no) liberamente, senza il timore di qualsiasi giudizio, per la maggioranza delle persone è un lusso irraggiungibile. I nostri occhi, all’ora di incontrare la nostra carne, si trasformano in obiettivo svuotato e riprogrammato.

Spesso ci si domanda se sia sessista che alcune femministe prendano il proprio corpo e lo trasformino in veicolo di lotte. Io vorrei che queste stesse persone che si interrogano sul tema si mettessero davanti ad uno specchio, nude, e si facessero una fotografia. Non vale tirare la pancia, abbassare le luci, o stendere meglio il collo di tre quarti. Siete voi, nude.

Di chi è lo sguardo che tiene in mano la foto?

Non ho la pretesa naif che tutte le persone si piacciano. L’autocritica può essere molto utile o necessaria a volte. Non è proprio questo il punto. Mi fa incazzare a morte che la propria imperfezione diventi vergogna, ansia, inadeguatezza o malattia, perché sappiamo solo guardarci con occhi non nostri.

Questa secondo me è una premessa necessaria per affrontare questo tema, interessantissimo tra l’altro e che reputo necessario sviscerare più e meglio di come sento fare e di come posso fare io. Questo è un discorso che merita una riflessione personale e un dibattito pubblico acceso e onesto.

Prima di qualsiasi lotta o messaggio che si voglia lanciare passiamo dalla persona, dall’attivista, dall’individuo che sceglie il proprio strumento di comunicazione. E se questo strumento diventa il corpo nudo stesso, non posso non tenere in considerazione la volontà radicale di ribaltare lo sguardo esterno imponendo il proprio.

Rappresentare e mostrare se stesse è già un prendere in mano la propria soggettività e trasformarla per l’occhio altrui. Perché abbiamo paura a riconoscere la forza che questo comporta, svilendola con l’ennesima solfa della collusione col sessismo?

E’ una forza e potenza comunicativa che riesce, appunto, cavalcando il voyeurismo e l’ipocrisia di chi impone lo sguardo unico, a veicolare messaggi altri, femministi e antiautoritari.

Imporre il corpo nudo come strumento di lotta non sminuisce ne si contrappone alla parola, all’arte, alla protesta, a tutti gli altri mezzi comunicativi o di rivendicazione “onorevolmente” accettati e stimati.

Si somma a questi e si origina proprio nello stesso contesto.

Quello che mi lascia perplessa è che per muovere una critica a questa pratica di lotta ci si appelli al femminismo degli anni Settanta: io, come la stragrande maggioranza di queste nuove femministe “discinte”, negli anni Settanta non ero neanche nata. Il femminismo l’ho scoperto parlando, leggendo, facendomi domande. E quello che io da “autodidatta” del femminismo ho trovato negli anni Settanta sono due cose: la prima è che il personale e politico e la seconda, per me diretta conseguenza, è che il corpo è al centro del nostro discorso. Ah, e l’autodeterminazione ovviamente. Autodeterminazione che, partendo da sé, dalle proprie necessità e dal proprio vissuto, rivendica libertà e diritti che sono nostri e che non devono essere semplicemente richiesti, implorati, contrattati o svenduti. Vanno scelti e conquistati spezzando catene una dopo l’altra.

Il nostro corpo, autodeterminato, corrotto, imperfetto, indecoroso, potente e nudo è una tenaglia che arriva ovunque, perché ora sappiamo come renderci visibili, e per una attivista scegliere questa lotta è già aver tolto il primo anello, quello che ci nega il nostro sguardo.

I’ll show you mine, ovvero chi ha paura della vulva?

I’ll Show You Mine è un libro realizzato da Wrenna Robertson – attivista, accademica e stripper – e dalla fotografa Katie Huisman, insieme a tutte le donne rappresentate nel libro.

Il libro è una risorsa educativa creata allo scopo di decostruire le norme artificiali e irrealistiche della società riguardo alla normalità e bellezza della vulva, aiutare le persone ad avere un’idea realistica dei diversi aspetti di una vulva, e soprattutto delle diverse percezioni che le donne stesse ne hanno. Wrenna ha deciso di realizzare questo libro provocatorio, originale e toccante allo scopo di celebrare la bellezza insita nelle diverse vulve, dopo aver notato che sempre più donne prendono in considerazione la chirurgia estetica o la labioplastica allo scopo di correggere quelle che considerano vulve ‘anormali’ o poco attraenti.

Nel libro vengono quindi rappresentate 60 donne, di etnie ed età diverse, ognuna attraverso due foto della propria vulva accompagnate dal racconto, fatto dalle stesse protagoniste, delle proprie esperienze – tragiche o celebrative, rabbiose o sensuali – in merito alla propria sessualità. Le donne rappresentate appartengono ai percorsi esistenziali più disparati, sono studentesse, dottore, artiste, accademiche, sex worker, madri, nonne, casalinghe, imprenditrici, ecc.

Nelle prossime settimane, proporremo le immagini di alcune delle protagoniste del libro, insieme alla loro storia: cominciamo oggi con Diana. Buona lettura!

Mi chiamo Diana.

Quando ero molto piccola, amavo così tanto la mia vagina. Il suo odore e il suo aspetto mi facevano sentire così bene e a mio agio, ed esprimevo in maniera molto esplicita l’orgoglio che provavo nell’essere una bambina.

Quando ero ancora abbastanza piccola e carina da essere percepita, da occhi adulti, come innocente e innocua, mi vantavo lungamente dei miei genitali, descrivendone nel dettaglio la struttura – considerandoli addirittura di molto migliori rispetto a quelli dei ragazzini che conoscevo.

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Non ricordo esattamente quando, come, o chi mi ha contagiato con la paura e la vergogna che ho sviluppato in merito alla mia vagina, ma dai 6 o 7 anni ho cominciato ad augurarmi che non esistesse. Intorno ai 10 anni, ero praticamente riuscita a nasconderla completamente, anche a me stessa. Le perdite occasionali di fluidi e il terrore mestruale erano le sole cose capaci di ricordarmi di quello spazio che avevo tra le gambe. L’arrivo delle mestruazioni mi fece sentire solamente sporca e consapevole, e cominciai a impacchettare la mia vergogna nella carta igienica e nel cotone, avvolgendo gli assorbenti usati in strati su strati di carta igienica, sperando che la mia famiglia non avrebbe mai scoperto il mio sanguinare.

Non sono cresciuta in un ambiente nel quale alle donne fosse consentito di essere orgogliose di essere donne.

Quando iniziai ad avere rapporti sessuali, avevo già collezionato oltre un decennio di vergogna sessuale. Mi ci è voluto quasi un anno per imparare a sentire, a respirare attraverso il disagio, l’imbarazzo e la colpa, ad accorgermi del fatto che potevo, davvero, sperimentare il piacere.

Ci vuole ancora un sacco di fatica e di incoraggiamento, personale e da parte di altr*, per sentirmi a mio agio nell’esprimere la gioia e la felicità che un tempo provavo per la mia vagina. Partecipare a questo progetto mi ha consentito di provare un nuovo sentimento di amore nei confronti di questa parte del mio corpo – sentire che la mia vulva è desiderata, e può essere amata, e che questo amore è meritato.

 

Il paradosso del paragone tra animalist*e pro-life: una riflessione

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Andy Warhol era un profeta.

Davvero molto interessante osservare lo tsunami di commenti che si sono avvicendati sui social, a velocità frenetica, in seguito alla mediatizzazione del caso di Caterina (la nostra riflessione in merito è qui). Quello che colpisce è la quantità di preconcetti, frasi fatte, inesattezze ripetute come mantra a qualsiasi interlocutore, possibilmente farcite di aperto disprezzo, dileggio, ostilità e violenza verbale. Mantenere toni pacati quando qualcun* ti grida in faccia di essere “estremista” – peraltro ignorando qualsiasi tuo tentativo di stabilire una connessione, un dialogo che ristabilisca la possibilità di una riflessione pacata – è davvero un’impresa ardua. Riflettere dunque è quello che cerchiamo di fare qui, e riflettere costa certo più tempo e fatica che insultare e pontificare in 150 parole, ma dal nostro punto di vista, è sicuramente più interessante e produttivo.

Da dove partire dunque? Beh, la tentazione di riprendere per filo e per segno le tante assurdità speciste lette o ascoltate in questi giorni è forte: essendo tutt* nat* e cresciut* in un milieu specista, sarebbe divertente – se non fosse tragico negli esiti per gli animali non umani – rilevare come la mente addestrata ad essere specista dall’infanzia infarcisca di giustificazioni pseudomorali, pseudoevoluzionistiche e financo pseudocreazioniste la realtà dell’uso della violenza che sottende il dominio, il potere, l’assoggettamento schiavistico e utilitaristico dei cosiddetti ‘animali’ (non umani, aggiungiamo noi). L’acriticità con cui si usano i più svariati argomenti, spesso contraddittori, allo scopo di giustificare l’uso della violenza e il mantenimento del privilegio specista è davvero aberrante, di una malafede senza fine e caratterizzato da un dogmatismo raro (un esempio per tutti, nello stesso dialogo si pone la radicale differenza tra ‘umani’ e ‘animali’ (schiacciando in un calderone informe zanzare e scimmie antropomorfe che condividono il 90% del patrimonio genetico con noi, che a questo punto dobbiamo, per mantenere le distanze, elevarci al parnaso dei semidei), per poi usare invece l’esempio dei carnivori obbligati e le attività di predazione come giustificazione dell’uso della violenza  -ah, ma allora siamo animali? – e stabilire quindi che anche se siamo così indubitabilmente divers* non lo siamo poi davvero nel momento in cui ci serve utilizzare gli animali per la sperimentazione a beneficio umano… i quali insomma, sarebbero uguali a noi quando ci fa comodo, ma diversi da noi quando gli interessi da salvaguardare sono i loro, e che passano continuamente in uno stesso discorso dallo status di simili a quello di dissimili, senza che nessun* alzi un sopracciglio).

Un vero insulto a quel carattere di intelligenza, moralità ed etica che si presuppone alla radice di tutta questa ‘differenza innata’ tra ‘noi’ e gli altri animali. A volte un sincero “sarà come dite, ma in sostanza me ne frego” sarebbe molto più dignitoso, anche perché le pseudo-giustificazioni ricordano tanto le dinamiche di potere che opprimono le donne su basi ugualmente false e arbitrarie (in bocca a quegli uomini che usano allo stesso modo il proprio potere e privilegio a proprio vantaggio, giustificandolo affermando ad esempio che le donne ‘se la sono cercata’ quando vengono stuprate, che le donne sono ‘naturalmente materne’ pertanto da ricacciare nell’ambito domestico e di cura senza se e senza ma, ecc.ecc.)

A proposito di donne, e a proposito di femministe.

Dal mio punto di vista situato – di donna e femminista antispecista – sento l’esigenza di focalizzare l’attenzione su di un aspetto particolare, nel quale sono incappata diverse volte in questi giorni, per lo più in ambito femminista: il paragone tra animalist* e pro-life, sul quale vorrei spendere qualche parola in più.

Prima di tutto, è interessante notare come le uscite inqualificabili di alcuni individui, identificati come animalist*, ma che non esiterei a definire persone psicologicamente disturbate, siano state usate a pretesto per definire in senso negativo un’intera categoria di persone (e, ancor peggio, ricacciare gli animali nel loro inferno senza ripensamenti o dubbi): una generalizzazione funzionale alla creazione del ‘mostro antispecista’, essere umano che ha voltato le spalle alla propria specie per una forma di perversione o odio di sé o masochismo, che ne fa un essere pericoloso e distruttivo, per sé e per gli altr*. Questa dinamica ha generato una fiumana di reazioni parimenti odiose o anche più estremiste da parte di specist* che però non avrebbero potuto essere messe in discussione nemmeno da un Gandhi redivivo, in virtù di un appiattimento e di una polarizzazione del discorso che ha realizzato un conflitto cieco e violento al pari di quello tipico delle curve di uno stadio alla domenica pomeriggio.

Questa dinamica ha caratterizzato gli scambi anche all’interno di contesti che avrei reputato meno inclini a facili generalizzazioni, come quello femminista, il quale, apparentemente aperto all’intersezionalità – quando parla di relazione inscindibile tra antisessismo e antirazzismo, per dirne una – spesso rinsalda il proprio muro difensivo dogmatico di fronte a qualsiasi tentativo di problematizzazione in senso antispecista, anche di fronte a persone appartenenti allo stesso contesto che, in altre situazioni, non si è esitato a definire “compagne” o “sorelle”… alla faccia della sorellanza!

La dinamica probabilmente dipende da fattori complessi, che passano anche attraverso la difficoltà di esperirsi non solo in quanto categoria oppressa ma anche oppressiva (risulta difficile farlo anche tra diversi femminismi!), dalla ancora relativa invisibilità dell’oppressione specista (un’oppressione è tanto più invisibile quanto più è considerata ‘normale’ dalla maggior parte della persone appartenenti alla categoria che detiene il privilegio), dalla paura tutta femminista di essere ricacciat* in un animalità che, da tempi immemori, è stata la cifra caratterizzante di tutto un discorso volto a dominare i corpi e le vite di donne, persone di colore, diversamente abili, comunità deboli in generale.

Il fatto che lascia perpless* però, è che invece di smascherare i meccanismi che stanno alla base dell’oppressione – ad esempio la creazione arbitraria di una supposta distinzione di valore, atta a dare ad alcuni soggetti diritto di esistenza e di qualità dell’esistenza, a scapito dell’esistenza e della qualità dell’esistenza di altri soggetti – squalificati per le proprie differenze da un ‘esemplare tipo’, di volta in volta ricalcato su chi in quel momento è il dominante (il maschio bianco eterosessuale occidentale in un caso, l’essere umano generico nell’altro) – si cerca semplicisticamente di rientrare nell’insieme privilegiato, senza andare a sradicare il sistema di dominio basato sull’imposizione del proprio potere, perlopiù coercitivo, su altri individui.

Tra le strategie che sono state utilizzate in questo senso, una merita particolare attenzione, ed è quella di paragonare l’atteggiamento animalista (o antispecista, parola che andrebbe conosciuta meglio negli ambiti di attivismo sociale e che è invece altezzosamente ignorata) a quello dei militanti pro-life: un tasto dolorosissimo e sensibile per tutte le femministe, che ha come risultato una chiusura difensiva a riccio, ma a ben vedere un paragone completamente erroneo, come cercherò di far intendere a chi ha avuto la pazienza di leggere fino a qui.

Quello che le femministe faticano a vedere è che, nei fatti, è proprio l’elevazione arbitraria della vita umana a valore insuperabile e inarrivabile tipica dello specismo,  una sacralizzazione che va a braccetto con la foga religiosa anch’essa da sempre propugnatrice di privilegi impossibili da scalfire in virtù dell’adesione ad una fede aprioristica (che stabilisce il primato di dio sull’essere umano, dell’essere umano maschile su quello femminile, dell’essere umano in generale su tutti gli altri animali – tutte categorie e ‘caste’ presenti e ricorrenti in tutto il testo biblico a cui si rifanno la maggior parte dei pro-life) a proteggere il feto e ad elevarlo persino al di sopra della donna che lo porta in grembo, che è ridotta a contenitore di ‘vita in potenza’.

Il biopotere, che penetra nelle nostre vite e nei nostri corpi, sottostà alle stesse dinamiche e non fa grosse differenze, che si tratti di animali umani o non umani: anzi, spesso i non umani sono il ‘banco di prova’ di pratiche poi inevitabilmente utilizzate anche in ambito umano.

Pattrice Jones, attivista femminista antispecista, allarga la riflessione ulteriormente, e scrive in proposito:

Esiste in merito una corrispondenza superficiale, perché entrambe le controversie si focalizzano sul disaccordo fondamentale circa le prerogative delle persone in relazione a classi specifiche di organismi. Ma le somiglianze finiscono qui.  Diciamo che “la carne è assassinio” perché il mangiatore di carne non ha giustificazioni nell’uccidere un altro essere vivente al solo scopo di provare la sensazione piacevole che può derivare dal mangiar carne. Chi sostiene il carnivorismo offre ogni sorta di giustificazione alla pratica, ma nessuno può mettere in discussione il fatto che l’animale ucciso non è la stessa entità rispetto a chi si nutre della sua carne. La discussione verte quindi sul fatto se sia o meno giustificata l’uccisione, piuttosto che sul decidere se l’animale sia o meno un’entità separata. All’opposto, coloro che si definiscono attivist* “pro-life” definiscono l’aborto omicidio, mentre chi si definisce pro-choice risponde: “i nostri corpi, le nostre vite, il nostro diritto a decidere”.  Il fulcro del conflitto risiede perciò nel considerare l’entità abortita un individuo o meno. La maggior parte delle persone concorda nell’affermare che tutt* hanno il diritto di disporre dei propri corpi, fintantoché nel farlo non si nuoccia ad altr*. Allo stesso modo, quasi tutte le persone sono d’accordo nell’affermare che nessuno ha il diritto di uccidere un’altra persona salvo la giustificazione dell’autodifesa. Il problema qui, è il disaccordo che esiste sul quando una donna incinta e il feto che si sta sviluppando diventano entità separate. Non possiamo raggiungere un consenso sull’aborto perché la gravidanza è un processo misterioso.  All’inizio del processo esiste una sola persona che ha il diritto di disporre del proprio corpo, mentre alla fine del processo le persone esistenti sono due, e ognuna ha il diritto di non subire violenze da parte di altr*. Dunque nel corso del processo, l’organismo madre-figlio è precisamente il tipo di paradosso che la cultura occidentale non può tollerare: una persona e due individui allo stesso tempo. […] Per questo non sorprende che sia difficile trovare un punto di contatto […] anche tra donne.  In questo momento di empasse, sarebbe sicuramente più produttivo se i pro-life e i pro-choice, invece di passare il tempo a dibattere sull’aborto, focalizzassero la propria attenzione su quelle pratiche che sappiamo ridurre le gravidanze indesiderate, quali la contraccezione garantita per tutt*,  fare in modo che le persone, specialmente giovani, conoscano i diecimila modi di fare buon sesso che non includono la penetrazione, problematizzare e mettere in discussione quell’idea culturale che vede l’attività sessuale penetrativa alla base di una relazione sentimentale, ponendo la parola fine allo stupro e al sesso non consensuale caratteristico di molte relazioni eterosessuali, e allo sfruttamento sessuale. Se ci concentrassimo su questi aspetti, suppongo che la necessità di aborti diventerebbe così insignificante che smetterebbe di costituire una controversia di tali proporzioni […] Siamo onest*: a nessuna piace abortire. Non è orribile come una gravidanza indesiderata portata a termine, ma non è piacevole. La vera libertà riproduttiva  passa attraverso la libertà dalle gravidanze indesiderate.  Pertanto, mentre non ritengo la controversia sull’aborto in alcun modo analoga a quella riguardante la liberazione animale, credo che la libertà riproduttiva sia un tema centrale rispetto alla liberazione animale. Che cos’è esattamente il processo di domesticazione? Riduzione in schiavitù combinata a controllo della riproduzione. Come si perpetua l’allevamento? Attraverso il controllo totale delle vite riproduttive degli animali dominati. […] Dobbiamo approfondire e chiarire la nostra comprensione del ruolo centrale che ha il controllo della riproduzione nello sfruttamento, degli animali non umani e delle donne.

Ritornando perciò al concetto di biopotere.

Ribaltando il paragone erroneo tra animalist* e pro-life, ho cercato qui di dimostrare come la difesa del feto attuata dai pro-life scaturisca proprio da quell’idea di unicità inarrivabile e distanza tra l’umano e tutto ciò che non lo è; e di converso, che la biopolitica attuata sui corpi degli animali non umani anche in merito al controllo della riproduzione, è lo specchio e l’anticamera del controllo sempre più pervasivo che viene attuato anche sui corpi umani e la loro riproduzione (in merito perciò all’aborto, alla fecondazione assistita, ma allargando il discorso anche, ad esempio, su eutanasia e fine vita). Lo stringersi delle maglie del controllo da parte del sistema passa attraverso il corpo degli animali non umani, e lo specismo, discorso fondante della nostra società, ha avallato pratiche di dominio vergognose, che in realtà possono ritorcersi contro qualsiasi essere, umano e non.

Finché non abbracceremo un’idea davvero libertaria e rivoluzionaria che sostenga ‘senza se e senza ma’ la libertà e dignità di animali umani e non, finché non la smetteremo di disprezzare nel profondo ‘gli animali che dunque siamo’, non potremo che abbracciare, consapevolmente o meno, le dinamiche di dominio e di potere del sistema che diciamo di voler abbattere il quale sceglie, arbitrariamente e di volta in volta, le categorie da privilegiare e da opprimere.

Ignorare la sofferenza degli animali non umani, in sostanza, fa il gioco di quel potere che opprime da sempre non solo i non umani, ma anche innumerevoli e incolpevoli animali umani, ovvero… noi stess*. E’ ora di aprire gli occhi e rendersene conto.

L’ultima frontiera della sperimentazione animale: strumentalizzare malat* per ottenere consenso.

 

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Se qualcosa salta all’occhio di tutto il bailamme di mosse, contromosse, proclami, interessi economici e politici, nonché di casta* che si agitano intorno alla sperimentazione animale – anche alla luce della tremenda Direttiva 2010/63/UE (qui si può avere un’idea delle torture che continueranno a subire milioni di animali non umani) – è sicuramente il fatto che la lobby che ruota intorno a certa ricerca, quella smaccatamente pro sperimentazione animale, è “scesa in campo”, in maniera aggressiva e senza esclusione di colpi, per difendere il proprio diritto a disporre dei corpi e delle vite altrui a proprio piacimento. Questo è un buon segno: quantomeno a livello politico, significa che qualcosa si sta muovendo. E’ un segnale piccolo e ancora insufficiente, ma inequivocabile: chi ha grossi interessi da perdere ha deciso di giocare qualsiasi carta possibile per riguadagnare il consenso popolare, e così ad ogni piè sospinto fa la voce grossa con il sostegno di tutti i media mainstream, golosamente alla ricerca del titolo più altisonante.

Il titolo di oggi, uno dei tanti, è  questo (ma c’è anche questo, o questo): Difende test su animali. Giovane malata riceve auguri di morte su Facebook.

Ecco, questo fa schifo, ma veramente tanto.
Usare l’immagine iconica di una ragazza malata, occhi dolci contornati dall’ingombrante e tragica presenza del respiratore, per di più vegetariana e che studia veterinaria (ma ciononostante favorevole alla sperimentazione animale) per sponsorizzare la ricerca che utilizza gli animali non umani è veramente una tra le mosse più becere di qualsiasi campagna di marketing emozionale mai inventata sinora.

Mi spiace molto per Caterina, che credo in buona fede: e non nego in alcun modo la sua sofferenza, né quello che reputa essere il proprio genuino amore per gli animali, ma immagino non si sia resa conto che la sua iniziativa sarebbe stata cavalcata per sostenere ben altri interessi, sull’onda dell’emozione (come politici vari hanno subito fatto, allo scopo di ottenere un pò di promozione gratuita).

Per inciso, è interessante notare come il punto di vista estremamente situato di una malata grave (che non è di certo neutro rispetto alla propria malattia e sofferenza) viene accolto, proprio in virtù della carica emotiva che porta con sé, in maniera totalmente acritica da migliaia di persone. Insomma, se una ragazza giovane, dolce e amante degli animali, afflitta da malattie invalidanti e orribili, pur tuttavia reputa legittima la sperimentazione animale, perché non dovrebbero farlo tutte le altre persone?

Il punto però è un altro: il punto non è la generica quanto vaga affermazione di  ‘amare gli animali’, il punto è semplicemente ammettere che possiamo fare loro quello che facciamo (dalla sperimentazione, agli allevamenti, ecc.ecc.) perché ne abbiamo la forza, e con forza intendo la forza bruta, ovvero attraverso l’uso della violenza. 

Caterina di certo soffre, come è destino di molti, se non tutti gli animali, umani e non. Caterina desidera vivere, e anche gli animali, umani e non, sottoposti ad atroci torture o sofferenze lo desidererebbero. E non è neanche importante sottolineare che gli altri animali non sono ‘solo’ topi, ma anche cani, uguali a quelli che Caterina stringe a sé e che ama, riamata, o scimmie antropomorfe, gatti, e qualsiasi essere ritenuto candidato ideale alla tortura. 

VivisectionQuello che non va, in questo ragionamento, è che non può esistere alcuna scusa ‘morale’, per usare violenza, per dominare altri esseri viventi, per imporre sofferenza fisica e psicologica intollerabile e morte. Non auguro a nessuno la morte, ancor meno la sofferenza (e quell* che lo fanno, e lo hanno fatto in questa situazione, sono persone deprecabili a cui va tutta la mia pena). Non la auguro a Caterina, ma nemmeno agli animali che la stanno subendo ora, chiusi in qualche asettico laboratorio. E non sono qui a dire che chi soffre non dovrebbe curarsi con farmaci sperimentati su animali, come potrei? Ad oggi nemmeno esistono! Ma che errore fa Caterina nell’affermare “sono viva grazie alla sperimentazione animale”.

L’errore si manifesta in due modi: primo, perché lei – come tutt* noi – non può sapere a che punto sarebbe oggi la ricerca scientifica se lo sviluppo etico fosse progredito alla velocità di quello tecnologico, e se avessimo rinunciato da tempo ad usare gli animali non umani per scoprire come combattere la malattia e l’inevitabile sofferenza. Chi può dire se oggi la scienza sarebbe più o meno progredita rispetto allo stato attuale? Inoltre vale la pena notare che al momento una persona come lei, volendosi curare – e di persone affette da svariate patologie ne esistono tante, anche tra le/gli antispecist*! – non avrebbe comunque, anche desiderandolo, altra possibilità.

Le alternative non vengono quasi mai presa seriamente in considerazione, e alla ricerca senza animali vanno sempre le briciole di quei fondi così prodigalmente raccolti da Telethon et similia.  Da quando la sperimentazione sugli animali ha preso piede, è stato l’unico paradigma considerato valido, un mantra ripetuto a generazioni di studenti, una prassi imposta che ha tarpato le ali alla possibilità di una scienza etica, che non definisca arbitrariamente quali siano i soggetti degni di essere curati e quelli che possono essere sacrificati.

La ‘scienza’ che invece conosciamo ha ritenuto possibile, citando casi nemmeno così lontani nel tempo, compiere esperimenti anche su neri, ebrei, comunità povere  (qui una efficace disamina delle intersezioni tra sperimentazione animale umana e non umana di Breeze Harper), animalizzando questi individui, reificandoli, approfittando della loro debolezza esattamente come avviene per gli animali non umani. E questo chiaramente esplicita come, fino a quando esisteranno categorie di valore tra individui (umani e non), davvero nessun* potrà essere sicur* di ricadere nell’insieme dei privilegiati.

La realtà è che viviamo in un mondo specista – oltreché razzista e sessista – fatto di distinzioni arbitrarie di valore e privilegio sostenute con l’uso della forza – anche quando è “legittimata”, è sempre forza – e della sopraffazione. L’ottica antispecista richiede invece di lasciare indietro le dicotomie degli opposti tanto care a chi sostiene la sperimentazione, e al posto di scegliere ‘tra il cane e il bambino’ è tesa a trovare il modo di salvaguardare gli interessi di entrambi. Questo è quello che andrebbe fatto, questo è quello che ci sforziamo di mettere in pratica, e la consapevolezza del fatto che ciò non è sempre possibile nella situazione attuale (o che la coerenza assoluta tra principi e prassi, per quanto auspicabile, è spesso difficilmente realizzabile) non può rendere lo sfruttamento degli altri individui una regola, anziché una eccezione.

Ed ecco svelato anche perché ‘l’icona Caterina’, trasformata in martire votata alla sperimentazione – in parte anche contro la sua volontà – ha avuto, solo sul sito di Repubblica.it,  migliaia di condivisioni, mentre le dichiarazioni di Susanna Penco, ricercatrice e biologa dell’Università di Genova contraria alla sperimentazione animale, oltreché malata di sclerosi multipla (qui un suo video di qualche tempo fa, dove con calma e precisione circostanzia, da addetta i lavori, la sua scelta e la difficoltà ad andare controcorrente pestando i piedi di chi ha grossi interessi da difendere) vengono prese blandamente in considerazione.

Le dinamiche di potere in mano alla politica e a chi ha grossi interessi economici e di prestigio in ballo, ricevono euforicamente l’appoggio della malafede specista, tanto cara a tutte le persone che volentieri tacitano le voci in disaccordo, trovando un buon motivo per continuare a dominare, sopraffare, seviziare e uccidere nell’approvazione generale. Sono d’accordo con Caterina quando dice che bisognerebbe rinunciare alla carne, rinunciare alla caccia, rinunciare alle pellicce… ma non basta, e queste sue affermazioni sono passate sicuramente inascoltate, come tutte quelle che invece di guardare al quadro globale, instaurano la teoria delle priorità (prima gli umani, poi tutti gli altri) per non cambiare di una virgola il sistema.

Non basta, dicevo, perché bisogna rinunciare anche alla sperimentazione animale: non certo per far morire gli ammalati, ma per curarli senza sporcarsi le mani del sangue e della sofferenza di altri individui. 

Si può scegliere di essere malati? Certo che no. Si può chiedere di voler essere curati senza far soffrire altr* e perciò sostenere una ricerca senza l’uso di animali? Sicuramente sì. Si deve per questo rinunciare alle cure? Io credo di no, ma anzi bisogna farsi ambasciatrici e ambasciatori, in quanto malat* e perciò persone con una conoscenza profonda della sofferenza, della necessità di una scienza finalmente senza crudeltà.

*definizione di ‘scienziati’: moderni e, a loro dire, infallibili profeti della legge divina del nuovo millennio, quella Scienza con la esse maiuscola che richiede sacrifici, umani e non umani, e la fede cieca del volgo al pari di vecchie e nuove religioni.

 


 

La legge è (in)giustizia di classe. Ma noi lo sapevamo già

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Sei  una donna vittima di violenza domestica o di un qualsiasi altro comportamento abusante, una persona immigrata, precaria, che lavora a nero, una persona trans che deve rettificare i documenti in accordo col proprio genere,  un manipolo di attiviste/i  o militanti denunciate/i per un nonnulla  o un qualsiasi altro soggetto che non ha alcun potere economico? Per te nessuna difesa. È così, punto.
Dal comunicato di Giuristi Democratici apprendiamo che: “…nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un’ulteriore dratica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l’anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente.”

Insomma, ai tempi dell’austerità non si ha diritto proprio a niente di niente: la sanità funziona uno schifo, la scuola esiste e va benissimo (rincretinire e addestrare è il suo compito e ci riesce a meraviglia), il welfare non si sa più che cosa sia,  lavoro e reddito saranno a breve oggetto di una campagna di protezione da parte del WWF; politica sociale è uno di quei termini desueti – tipo desueto, eccetera eccetera.  Hanno sempre obiettato al mio desiderio di una società anarchica con tesi del tipo ma se vivi senza stato, poi x, y, z chi te li dà? dove per x, y, z si intendevano servizi di natura varia. Oggi come oggi penso di poter rispondere: beh, non me li dà nemmeno lo stato, mi pare che  sia il caso di toglierlo di mezzo questo parassita. Via, nel cestino col capitalismo. Raccolta indifferenziata per stavolta.

Diversity management: una critica anarcofemminista e trans

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Nell’ambiente queer radicale, si problematizza il diversity management, in quanto strumentalizzazione neoliberista che opera l’assimilazione frocia nel capitalismo, simulando quindi una liberazione che di liberante ha ben poco. Tuttavia vengono individuati alcuni lati positivi, rappresentati principalmente dall’inclusione di marginalità varie, in particolare le persone trans, nel mondo del lavoro salariato (evviva).

Intendo mettere in dubbio l’efficacia di questa presunta inclusione. Mi risulta che i progetti di diversity management abbiano risultati tangibili rispetto ad un numero ridotto di persone trans. Individuo i motivi di questa inefficacia principalmente nell’estrazione di classe e nell’esperienza relativa alla propria identità di genere (le quali tuttavia si influenzano, almeno in parte, vicendevolmente) e nell’intersezione di esperienze ulteriori di cui parlerò più tardi. Questi progetti includono sì transessuali e transgender, ma soffrono di una miopia assassina. Spesso le posizioni disponibili richiedono determinati titoli di studio, di un livello indubbiamente superiore rispetto al semplice diploma di terza media, che è in qualche maniera ancora accessibile più o meno a chiunque. Non è possibile ignorare la difficoltà per una persona trans di accedere a tali titoli.

Le scuole, che oggi come oggi non sono nient’altro che diplomifici, anche se dal mio punto di vista – cioè di qualcuno che sostiene l’idea e la pratica di pedagogia libertaria – lo sono sempre state (e non sarebbe neanche l’unica critica che si potrebbe porre loro,  ma non è il punto su cui mi concentro oggi), rappresentano il ponte (neanche troppo ben fatto) nell’abisso senza fondo del mondo del lavoro. E allora, verrebbe da dire? eh.

L’omotransfobia nelle scuole, fomentata e/o attuata tramite bullismi, innocenti battutine, ragazzate che casualmente finiscono in qualche suicidio (e poi si sa che la colpa non è mai di nessuno, e che uno si suicida per i suoi problemi: mai per quelli che gli causano gli altri) è una nebbia che si taglia col coltello.

Questo ha sul/la giovane trans un effetto negativo di proporzioni maggiori all’effetto subito dal/la giovane omosessuale; non parlo di bisessuali perché anche loro subiscono un’ostracizzazione ulteriore, sia da parte degli omosessuali sia da parte degli eterosessuali, anche se è lapalissiano che non necessariamente hanno a che fare con questioni riguardanti il proprio genere. Se l’omosessuale (e in misura maggiore il/la bisessuale, le cui speranze di integrarsi nella comunità di giovani omosessuali – e di conseguenza lenire la propria solitudine – sono ridotte, per i motivi di cui sopra) si ritrova ingabbiat* dalla costrizione di dover nascondere la propria vita affettiva e sessuale, la persona trans si ritrova ingabbiat* in quella di non poter esprimere neanche sé stessa.

Non è possibile vivere e viversi serenamente dovendo occultare parti importanti della propria identità, e la mancata possibilità di poterla esprimere acuisce la sofferenza della disforia di genere in quanto tale, ma non solo. Condizioni sociali di questo tipo fanno sì che all’esperienza della disforia finiscano per sommarsi altre esperienze, quali: depressione, traumi di vario tipo, ansia e quant’altro, che inficiano in maniera notevole non solo il rendimento scolastico, ma la volontà (e la fattibilità) di proseguire il proprio percorso di studi. Possibilità ad ogni modo in partenza limitata, se non addirittura negata, dalla classe sociale della propria famiglia (nel caso, in età giovanile, di un contesto scolastico meno ostile alle diversità); e, in età adulta, dalle condizioni economiche peggiori inevitabilmente derivanti dalla discriminazione transfobica in contesti lavorativi che non necessitino particolari qualifiche. Condizioni che non permettono di proseguire gli studi, acquisire qualifiche ulteriori, ed ampliare quindi le possibilità di assunzione. Il tutto in quello che dimostra de facto di essere un loop infinito di oppressione classista e transfobica.

Esistono anche problematicità ulteriori. Una donna trans è più svantaggiata rispetto alla controparte FtM, a causa della logica sessista e transmisogina per la quale una «donna» che diventa uomo aumenta il proprio prestigio sociale, mentre un «uomo» che diventa donna squalifica sé stesso. E se entra in gioco la variabile razza? nell’attività di genderizzazione della razza operata dalla società, un uomo straniero agli occhi dei media italiani, bianchi e occidentali, è sinonimo di «ladro», «stupratore» e più genericamente «criminale» e «violento», mentre una donna straniera è una figura debole e delicata, ed è sinonimo di «badante», «prostituta» (che nella variante dell’attivismo abolizionista diventa magicamente «vittima di tratta» sempre e comunque, come se non fosse mai esistita nella storia dell’umanità tutta un’emigrazione dedita alla ricerca di lavoro, sia esso sessuale o non).

In tutto ciò, una donna trans straniera racchiude in sé ogni fonte di discriminazione possibile. La parola trans in molte persone evoca immaginari relativi alla prostituzione, ma il connubio «trans straniera» ne evoca in chiunque, tanto che si potrebbe dire che la donna trans straniera sia in qualche maniera il motivo dell’appioppamento dell’etichetta «prostituta» alla comunità MtF nel suo complesso, e la diffusione di un certo sentimento razzista e anti-prostituzione fra molte trans bianche sembrerebbe confermare. Dove cercare l’origine di questo ruolo? In molte cose, direi, ma soprattutto nella morbosità che vede nel corpo trans razzializzato una molteplicità di «stranezze» che ne potenziano la carica erotica (mi riferisco sopratutto alla «sessualità esotica ed animalesca» che viene attribuita alle straniere in generale, che viene analogamente attribuita alla figura della donna trans non operata, bianca e non) e nella mancanza totale di opportunità diverse dalla strada per il risultato dell’interazione delle di razza, genere e classe il cui funzionamento è stato già almeno parzialmente descritto.

Alla luce di quanto detto, perché non immaginare un antilavorismo trans? è assurdo che in quanto persone transessuali e transgender il nostro finto riscatto (limitato peraltro in sostanza ad una schiacciante maggioranza di  uomini trans bianchi ed eterosessuali) debba passare necessariamente tramite la miseria dell’esistente e le sue ridicole concessioni. Forse rispetto alla disoccupazione imposta parlare di rifiuto del lavoro sembra un po’ ridicolo, ma si potrebbe pensare a rivendicare qualcosa come un «reddito per l’autodeterminazione» qui ed ora, ad esempio attraverso pratiche di neomutualismo dal basso, dal momento che richiedere qualcosa allo stato è come chiedere pane ed acqua al secondino, ed è evidente l’utilizzo del welfare come strumento di controllo. Con tutte le angherie subite mi pare proprio il minimo dei risarcimenti possibili; il tutto certamente non come soluzione, ma nell’ottica di liberarsi un giorno da ogni delirio possibile del capitale. Sul tavolo di una politica radicalmente frocia, e frociamente radicale, questa mi sembra una questione importante da porre.

La costruzione sociale dei corpi commestibili e degli umani come predatori

La costruzione sociale dei corpi commestibili e degli umani come predatori

di Carol J. Adams.

Tratto da: C. Adams, «Ecofeminism and the Eating of Animals», Hypathia, No. 6, Spring 1991, pp. 134-137.

Traduzione di Marco Reggio, originariamente pubblicata su Diogene – Filosofare oggi, n°22 (marzo-maggio 2011), pp. 44-46.

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Una rappresentazione pubblicitaria che promuove l’alimentazione carnivora giocando sull’alleanza tra «natura» e «cultura»: «Il reparto surgelati: il nuovo terreno di caccia dei carnivori», locandina della ditta francese Charal.

Siamo o no predatori? Nel tentativo di considerare noi stessi come esseri naturali, alcuni sostengono che gli esseri umani sono semplicemente predatori, come alcuni altri animali. Il vegetarismo, pertanto, è considerato innaturale, mentre il carnivorismo di altri animali viene reso paradigmatico. I sostenitori dei diritti animali sono criticati «perché non capiscono che il fatto che una specie dia o riceva sostentamento da un’altra rappresenta la modalità con cui la natura mantiene la vita» (Ahlers 1990, p. 433). Le profonde differenze rispetto agli animali carnivori vengono ignorate poiché la nozione dell’umano come predatore è conforme all’idea secondo cui noi abbiamo bisogno di mangiare carne. In realtà, il carnivorismo è un dato di fatto solo per il 20% circa degli animali non umani. Possiamo davvero generalizzare a partire da questo dato e sostenere di conoscere precisamente che cosa sia la «modalità naturale», e possiamo estrapolare il ruolo degli umani conformemente a questo paradigma?

Alcune femministe hanno sostenuto che mangiare animali sia naturale perché noi non possediamo il doppio stomaco o i molari piatti tipici degli erbivori ed inoltre gli scimpanzé mangiano carne e lo considerano un cibo speciale (Kevles 1990). Questo argomento tratto dall’anatomia implica un’operazione di filtraggio selettivo. Infatti, tutti i primati sono principalmente erbivori. Sebbene alcuni scimpanzé siano stati osservati mentre mangiavano cadaveri – al massimo sei volte al mese – alcuni di essi non ne mangiano mai. La carne di cadavere costituisce meno del 4% della dieta degli scimpanzé; molti mangiano insetti, e non mangiano latticini (Barnard 1990). Vi sembra paragonabile alla dieta degli umani?

Gli scimpanzé, come la maggior parte degli animali carnivori, sono apparentemente molto più adatti a catturare animali rispetto agli umani. Noi siamo molto più lenti. Loro possiedono canini molto sporgenti per strappare la pelle; tutti gli ominidi hanno perso i lunghi canini 3,5 milioni di anni fa, apparentemente per facilitare la frantumazione necessaria ad una dieta a base di frutta, foglie, semi oleosi, germogli e legumi. Se anche noi riusciamo ad afferrare le prede, non possiamo lacerarne la pelle. È vero che gli scimpanzé si comportano come se la carne fosse un cibo speciale. Quando gli umani vivevano come raccoglitori e quando il petrolio era raro, la carne degli animali morti era una buona fonte di calorie. Può darsi che la connotazione di «cibo speciale» abbia a che fare con una capacità di riconoscere fonti di calorie concentrate. Comunque, non abbiamo più bisogno di fonti di calorie concentrate come il grasso animale, dal momento che il nostro problema non è la scarsità di grasso ma piuttosto l’eccesso di grasso.

Quando viene presentato l’argomento per cui mangiare carne sarebbe naturale, si presume che si debba continuare a consumare animali perché questo è ciò di cui abbiamo bisogno per sopravvivere: per sopravvivere conformemente ad una vita libera dai vincoli artificiali e culturali che ci privano della possibilità di esperire la nostra reale essenza. Il paradigma degli animali carnivori fornisce la rassicurazione che mangiare animali sia naturale. Ma come facciamo a sapere che cosa è naturale quando si tratta di alimentazione, sia per via della costruzione sociale della realtà, sia per via del fatto che la nostra storia indica un messaggio molto ambivalente riguardo il cibarsi di animali? Alcuni li mangiavano, ma la maggior parte no, o almeno non in grande quantità.

L’argomento riguardante che cosa sia naturale – ovvero, secondo un significato di tale termine, non culturalmente costruito, non artificiale, ma qualcosa che riporta alla nostra vera essenza – si ritrova in un contesto diverso che desta sempre dei sospetti da parte delle femministe. Viene spesso sostenuto che la subordinazione della donna all’uomo è naturale. Questo argomento cerca di negare la realtà sociale facendo appello a quella «naturale». L’argomento del predatore «naturale», analogamente, ignora la costruzione sociale. Dato che mangiamo cadaveri in modo molto diverso da qualsiasi altro animale – smembrati, non appena uccisi, non crudi, e accompagnati da altri cibi – che cosa rende naturale tale abitudine?

La carne è un costrutto culturale fatto per sembrare naturale e inevitabile. Nel momento in cui viene elaborato l’argomento dell’analogia con gli animali carnivori, l’individuo che lo elabora ha probabilmente consumato animali da prima ancora di aver imparato a parlare. Le razionalizzazioni del consumo di animali sono state probabilmente suggerite quando questo individuo, all’età di quattro o cinque anni, è rimasto sconcertato nello scoprire che la carne proviene da animali morti. Il sapore dei corpi morti viene prima delle giustificazioni razionali, ed offre una forte base per credere che tali razionalizzazioni siano vere; inoltre, i figli del boom economico hanno dovuto fare i conti con un ulteriore problema, e cioè con il fatto che durante la loro crescita carne e latticini sono stati consacrati come due dei quattro gruppi di cibi fondamentali. (Questo è accaduto negli anni Cinquanta come conseguenza di un’azione lobbystica dell’industria della carne e del latte. All’alba del nuovo secolo, ci sono invece dodici gruppi di cibi fondamentali.) Quindi gli individui non hanno semplicemente sperimentato una gratificazione a livello di gusto nel mangiare animali, ma forse credono davvero a quanto è stato loro detto incessantemente fin dall’infanzia, ossia che gli animali morti sono necessari per la sopravvivenza umana. L’idea che mangiare carne sia naturale si sviluppa in tale contesto. L’ideologia fa sembrare naturale, predestinato ciò che è artificiale. In realtà, l’ideologia stessa scompare dietro la facciata per cui si tratterebbe di una questione di «cibo».

Noi interagiamo con singoli animali quotidianamente nel momento in cui li mangiamo. Ciò nonostante, questa relazione e le sue implicazioni sono ricollocate in modo che gli animali scompaiano e che si possa dire che stiamo interagendo con una forma di cibo che è stata chiamata «carne». In The Sexual Politics of Meat, ho chiamato questo processo concettuale in cui l’animale scompare la struttura del referente assente. Gli animali di nome e di fatto vengono resi assenti in quanto animali affinché esista la carne. Se gli animali sono vivi non possono essere carne. Dunque, un corpo morto sostituisce l’animale vivo e gli animali diventano referenti assenti. Senza gli animali non ci sarebbe alcun carnivorismo, eppure sono assenti dall’atto di mangiare carne poiché sono stati trasformati in cibo.

Gli animali vengono resi assenti attraverso il linguaggio che rinomina i corpi morti prima che i consumatori condividano il fatto di cibarsene. Il referente assente ci permette di dimenticarci dell’animale in quanto entità a sé stante. L’arrosto nel piatto è smembrato a partire dal maiale o dalla scrofa che una volta era. Il referente assente ci permette inoltre di resistere ai tentativi di rendere presenti gli animali, perpetuando una gerarchia fra mezzi e fini.

Il referente assente deriva dalla prigionia ideologica e la rinforza: l’ideologia patriarcale stabilisce la posizione culturale di uomo e animale; crea dei criteri che presuppongano l’importanza della differenza di specie quando si considera chi può essere un mezzo e chi può essere un fine, e poi ci indottrina a credere che abbiamo bisogno di mangiare animali. Contemporaneamente, la struttura del referente assente mantiene gli animali assenti dalla nostra comprensione dell’ideologia patriarcale e ci rende restii a considerare gli animali come presenti.

Ciò significa che dobbiamo continuare ad interpretare gli animali dal punto di vista dei bisogni e degli interessi umani: li vediamo come utilizzabili e consumabili. Molti discorsi femministi sono partecipi di questa struttura nel momento in cui non riescono a rendere visibili gli animali.

L’ontologia riassume l’ideologia. In altri termini, l’ideologia crea ciò che appare come ontologico: se le donne sono ontologizzate come oggetti sessuali (o stuprabili, come sostengono alcune femministe), gli animali sono ontologizzati come fonti di carne. Ontologizzando donne e animali come oggetti, il nostro linguaggio elimina contemporaneamente il fatto che qualcun altro agisca come soggetto / agente / esecutore di violenza.

Sarah Lucia Hoagland dimostra come funziona tale meccanismo: «John ha picchiato Mary» diventa «Mary è stata picchiata da John», poi «Mary è stata picchiata», infine «donne picchiate», e quindi «donne maltrattate». Hoagland fa notare che «ora qualcosa che gli uomini fanno alle donne è diventato al contrario qualcosa che è parte della natura delle donne. E perdiamo completamente di vista John».

La nozione del corpo animale come commestibile si presenta in modo analogo e rimuove l’azione degli umani che comprano animali morti per consumarli: «Qualcuno uccide gli animali in modo che io possa mangiarne i corpi sotto forma di carne» diventa «gli animali vengono uccisi per essere mangiati come carne», poi «gli animali sono carne», infine «animali da carne», e quindi «carne». Qualcosa che facciamo agli animali è diventato al contrario qualcosa che è parte della natura degli animali, e perdiamo completamente di vista il nostro ruolo.

Bibliografia

Julia Ahlers, «Thinking like a mountain: Toward a sensible land ethic», Christian Century, April 25, pp. 433-34.

Neal Barnard, «The evolution of the human diet», in The power of your plate, TN: Book Publishing Co, 1990 Summertown.

Sarah Lucia Hoagland, Lesbian ethics: Toward new values, CA: Institute for Lesbian Studies, 1988 Palo Alto.

Bettyann Kevles, «Meat, morality and masculinity», The Women’s Review of Books, May 1990, pp. 11-12.

Perché, chi è perfetto?

Sulla Bahnhofstrasse di Zurigo il 2 dicembre sono comparsi, nelle vetrine di un negozio di abiti, dei manichini inusuali. Le reazioni dei passanti sono state di stupore, dato che questi manichini rompevano la serialità del modello umano idealizzato, che di norma fa mostra di sé nelle vetrine, e riproducevano corpi affetti da disabilità fisiche.

Si tratta di una campagna promossa dall’associazione ProInfirmis.

Come ripete una delle frasi più condivise di facebook: “Non siamo nati per essere perfetti ma veri.” Nessun corpo vero è seriale. Quindi, avvicinatevi!

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I manichini disabili susciteranno sguardi attoniti sulla Bahnhofstrasse di Zurigo oggi.
Tra i manichini perfetti ci saranno figure scoliotiche o con la malattia delle ossa fragili, come modelli all’ultima moda. Uno avrà gli arti corti, l’altro la spina dorsale malformata. La campagna è stata ideata per la Giornata internazionale delle persone con disabilità da Pro Infirmis, un’organizzazione per disabili. Intitolata “Perché, chi è perfetto? Avvicinati”, è stata progettata per provocare una riflessione sull’accettazione delle persone con disabilità. Il direttore, Alain Gsponer, ha documentato la campagna con un cortometraggio. I manichini sono rappresentazioni tridimensionali, a grandezza naturale, di Miss Handicap 2010, Jasmin Rechsteiner, del conduttore radiofonico e critico cinematografico Alex Oberholzer, dell’atleta Urs Kolly, della blogger Nadja Schmid e dell’attore Erwin Aljukic.
“Inseguiamo spesso degli ideali invece di accettare la vita in tutta la sua diversità. Pro ​​Infirmis si sforza soprattutto di promuovere l’accettazione della disabilità e l’inclusione delle persone con disabilità”, dice Mark Zumbühl, membro di Pro Infirmis Executive Board, descrivendo la campagna.*

*Testo a commento del video su youtube, traduzione di Serbilla.

Deconstructing “il sesso con sentimento”

pierinoQuello dell’educazione sessuale nelle scuole è un tema che in Italia non ha mai raggiunto un livello serenamente accettabile di dibattito pubblico, sia per qualità che per quantità. L’unica produzione massiccia e sistematica di comunicazione riguardo l’argomento “sesso a scuola”, in Italia, sono stati i film di Pierino. Per una seria e programmata educazione che renda gli italiani – almeno quelli del futuro – un po’ meno incoscienti e in balia di stereotipi e falsità riguardo qualunque argomento sessuale, nessun giornale o televisione s’è mai battuto molto. Questo è quello che, nel 2013, il più autorevole giornale d’Italia, secondo per tiratura solo alla Gazzetta dello Sport, pubblica in uno spazio della sua sezione “Cultura”, con l’incoraggiante titolo Come insegnare l’educazione sessuale a scuola?. Buona lettura.

Come insegnare l’educazione sessuale a scuola?

di Federica Mormando

La recente sentenza della Corte di Cassazione che nega la pedofilia in un rapporto sessuale fra un uomo di 60 anni e una bambina di 11, perché «c’era amore», mostra che di educazione sessuale ne hanno, e tanto, bisogno parecchi adulti, anche in posizioni di potere. [Su questo ultimo punto possiamo anche essere d’accordo, ma la famigerata sentenza non dice proprio così: dice che nel caso la Corte d’Appello non ha tenuto conto dell’attenuante dovuta al fatto che i due erano innamorati. Cosa gravissima lo stesso, ovviamente, ma da qualcuno che scrive sul Corriere io mi aspetto un’esattezza non ordinaria. La sentenza, in nessun modo, nega la pedofilia in quel caso.]

Invece l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stilato 85 pagine di guida all’educazione sessuale per i bambini da 0 a 16 anni, un po’ ambigua nella presentazione, visto che «…la matrice che illustra gli argomenti che deve affrontare l’educazione sessuale a seconda della fascia di età degli allievi (… ) presenta maggiori elementi per la concreta realizzazione dell’educazione sessuale olistica nella scuola, sebbene i presenti standard non vogliano essere una guida per l’attuazione dei programmi di educazione sessuale”. [E quale sarebbe l’ambiguità? Come tutti i documenti di grandi organizzazioni internazionali, essi non possono occuparsi dell’attuazione del loro oggetto: essi, appunto, parlano della realizzazione, cioè di cosa andrebbe fatto, ma non posso certo dire “come” realizzare le cose (l’attuazione), dato che le realtà di ciascun paese sono diverse. Quindi l’OMS dice ciò che secondo lei andrebbe fatto, ma non può certo dire come.]

Non risulta quindi chiarissimo lo scopo, [invece sì, dovrebbe bastare saper leggere] comunque “La richiesta di educazione sessuale anche per i più piccoli è stata supportata da un diverso modo di percepire le bambine e i bambini, ora percepiti come soggetti» ed è «concepita per offrire una panoramica degli argomenti che dovrebbero essere presentati a specifiche fasce di età» [e ti pare poco?].

E’ opportuno che i genitori ne conoscano le linee (si trova facilmente in Internet), visto che ci avranno a che fare.

Ad esempio, nella fascia da 0 a 4 anni, bisogna fra l’altro trasmettere informazioni su tutte le parti del corpo e le loro funzioni, su gioia e piacere nel toccare il proprio corpo, masturbazione infantile precoce, scoperta del proprio corpo e dei propri genitali. E sul fatto che la gioia del contatto fisico è un aspetto normale della vita di tutte le persone [sarebbe proprio ora, invece a tre anni trovi bambini già ben indottrinati a vergognarsi di cose che non hanno nulla di vergognoso].

Il programma prosegue dai 4 ai 6 anni con, fra l’altro, «relazioni con persone dello stesso sesso, amicizia e amore con persone dello stesso sesso, gioia e piacere nel toccare il proprio corpo (masturbazione precoce)» [e non ne vuoi parlare? Oppure preferiamo quei genitori sgomenti e imbarazzati davanti a un *pup* che, giustamente, si tocca?].

Eiaculazione e contraccettivi sono rimandati alla fascia 6-9 anni, mentre continua l’indottrinamento sulla masturbazione [ma che parola è indottrinamento? Detto così, sembra che l’OMS voglia insegnare a farsi le pippe e i ditalini prima dei dieci anni. Ma che linguaggio è?].

A mio avviso questo documento, più che guida, è espressione di patologie contemporanee [EH? Un documento ufficiale dell’OMS sarebbe scritto da gente con delle patologie? Federì, ma ti stai rendendo conto di quello che dici?] oltre che della presunzione che intride la società di poter riprodurre meglio che in natura la formazione delle persone, da quella motoria a quella sessuale [la presunzione di fare CHE COSA? Quindi esiste una “formazione naturale”? E quale sarebbe la formazione naturale al giorno d’oggi, a parte lo stato brado in qualche foresta pluviale? Ancora crediamo che la parola naturale voglia dire qualcosa di univoco per tutti? Ricordo a chi legge che questo testo appare nello spazio che vuole mettere a confronto genitori e insegnanti. E chi dei due avallerebbe una frase come la società (presume) di poter riprodurre meglio che in natura la formazione delle persone? Così, per curiosità].

Spaventa il probabile non rispetto dei tempi individuali [sono indicati dei margini di qualche anno, eh], e del complesso di emozioni e trepidazioni, ansie e paure, che se dette perdono magia, di cui è costituito tutto il nostro crescere. [SCUSA NON HO CAPITO. Dovrei essere contento di conservare la magia di tutto quello che non so e non capisco sul mio corpo? Per poi magari farmela spiegare dal pornazzo mainstream sul web, o dal primo maldestro che mi mette le mani addosso? Dovrei tenermi ansie e paure perché comunque è meglio la magia?Quello che c’è da opporre a un documento dell’OMS è la magia del non dire emozioni e trepidazioni? Annàmo bene.]

Fermo restando che il «mai rispondere agli estranei, e se qualcuno ti tocca urla» va ben dichiarato prima dei 4 anni (mentre l’OMS fa parlare dell’abuso dai 4 ai 6), perché voler spiegare ciò che è esperienziale, chi può sostenere che spingere a razionalizzare le sensazioni in questi casi arricchisca e non impoverisca? [E perché parlare di quelle sensazioni e inserirle in un percorso educativo significherebbe razionalizzarle? E perché razionalizzare è connotato negativamente? E perché non parliamo degli evidenti pregiudizi di chi ha scritto questo articolo?] Masturbazione, gioco del dottore, bersaglio una volta di demonizzazioni e ora di lezioni [EH? L’OMS prescrive lezioni sul gioco del dottore? E quanto è in malafede usare un’espressione come “lezioni di masturbazione”, lasciando immaginare che ci sia uno seduto sulla cattedra a menarsi il battacchio? Pensa alla quinta ora come ci arriva, poveretto], sono esperienze private, perché renderle codificate [ma che vuol dire codificate? Ci sarà una classificazione dei tipi di seghe? E perché, di nuovo, codificare qualcosa significa renderlo brutto e cattivo?] (e far pensare a chi non si masturba di aver problemi)? [MA CHI LO HA DETTO? Ma che modo di ragionare è? Ma davvero c’è chi pensa che l’educazione sessuale in classe obblighi a masturbarsi? Che sarebbero, i compiti a casa? “Uffa, per domani quella di educazione sessuale c’ha dato tre pippe con la mano sinistra. Ma a me non va per niente” “E ti dice bene, io mi devo infilare un cetriolo in culo!”] Perché doverne parlare? [E perché no? Perché chi scrive questo articolo non argomenta a sostegno della magia contro le indicazioni dell’OMS? E perché invece aspettare di arrivare in silenzio a violenze, a gravidanze indesiderate, a malattie trasmesse sessualmente? Poi che ci fai con la magia?]

Si iniziava anni fa con le «storie» narrate alla televisione [ma quando mai? Ma chi , ma dove? Quali storie? Un link, un nome…], si è proseguito con le foto su Facebook [EH? Si è proseguito cosa? L’educazione sessuale, su Facebook? Ma cos’è questo farfugliare? E’ il Corriere, oh!], si dovrà continuare con l’educazione al racconto delle sensazioni masturbatorie? [E di nuovo, perché no? E soprattutto, perché da raccontare ci sarebbero solo e soltanto le sensazioni masturbatorie? Ma chi ha deciso che l’educazione sessuale sia solo parlare della masturbazione?]

E se l’educazione sessuale invece dovesse essere tutt’altro? [E lo è, mia cara, di nuovo: dovrebbe bastare saper leggere.]

Il papà e i suoi amici che non fanno commenti sulle ragazze. Le mamme che non li permettono. I giornali che riproducono immagini rispettose. I miti che migrano dai corpi belli alle belle menti ed anime. [Vabbè, sì, ci sono anche queste cose, ma non così mescolate e così moraleggianti. E poi niente stereotipi sessisti, per favore, dato che parliamo di educazione sessuale.]

I genitori e gli adulti che parlano di amore, di sentimenti, che si rispettano e chiedono a se stessi e ai bambini cosa facciamo per renderci felici? [Amore, sentimenti? Ho un sospetto… Federica, dove vuoi andare a parare?]

E se l’educazione sessuale fosse un corollario di quella sentimentale e civile? [Buongiorno, ben arrivata, salve, tutto bene? Però quel sentimentale a me non convince molto… secondo me non è molto chiaro cosa sarebbe l’educazione sentimentale.]

Se prima, molto prima di sapere la fisiologia del sesso si vedessero papà e mamma baciarsi, non sarebbe un’ottima prefazione ai sentimenti futuri? [EH? A parte che non sta scritto da nessuna parte che la fisiologia del sesso sia da raccontare come fossero le istruzioni per montare un mobile IKEA, posso sapere che cosa c’azzeccano i baci di mamma e papà? Che è, sesso, quello? E poi i sentimenti? Solo coppie etero? Ancora stiamo a questo livello? Sul Corriere si parla così di educazione sessuale?]

E se si ricollegasse il sesso al sentimento, per maschi e femmine? [E te pareva che non finiva così. Ecco la soluzione all’italiana, per l’educazione sessuale nelle scuole: bandire il “sesso senza amore” fin da piccoli. Complimenti. Tranquilli bambini! Sarà l’amore a farvi conoscere il vostro corpo, così, per illuminazione; tranquilli ragazzi, sarà l’amore a non farvi prendere la sifilide, il papillomavirus, l’AIDS, l’epatite B o C. E a insegnarvi come fare sesso in maniera piacevole e non violenta con chi vi pare. Davvero incommentabile.]

Per qualcosa di più sensato sulla masturbazione, leggete qui. Per l’educazione sessuale nelle scuole italiane c’è ancora molto da lavorare, e come si legge, per esempio, su “l’Unità” due giorni fa, è sempre più evidente che  in ballo ci sia qualcosa di più grosso che una “semplice” riforma dei programmi scolastici. Nel frattempo, in altri paesi, con una comunicazione più efficace e libera da grotteschi moralismi si ottengono risultati importanti. Dàje.

Perché ci piace il postporno

SprinkleGoddessPerchè ci piace il postporno?
Di Lafra

“C’è vita al di là del mondo normalizzato”
Beatriz Preciado

Nella storia della lotta delle donne per la liberazione sessuale alcune problematiche hanno sempre provocato difficoltà di analisi e grandi imbarazzi. Tra queste la più controversa è indubbiamente quella sulla pornografia.

L’industria pornografica contemporanea, caratterizzata da una produzione seriale e una distribuzione su larga scala, nasce negli anni ’50 negli Stati Uniti. Nel 1953 Hugh Hefner lancia una rivista nuova, dedicata agli uomini. Nel primo numero di questa rivista compare la foto a colori di una giovane donna seminuda destinata a diventare una diva erotica del XX secolo. La ragazza è Marilyn Monroe, la rivista Playboy.

In piena guerra fredda Playboy, trasformandosi nella rivista maggiormente distribuita negli Stati Uniti (alla fine degli anni ’60 era arrivata ad avere un pubblico maschile di più di sei milioni di lettori), apportò un contributo eccezionale al cambiamento del panorama culturale e dell’immaginario sessuale maschile. Nascono con Playboy nuovi miti erotici: la ragazza della porta accanto, la coniglietta, la cameriera, la segretaria… Lo sguardo dell’uomo si insinua in una artificiosa intimità per spiare le vite surreali di donne giovanissime, chirurgicamente rimodellate e apparentemente prive di una ricerca del piacere non funzionale a quello maschile. I corpi nudi che vengono mostrati sono frutto di una ricercata architettura di genere, i canoni estetici rappresentano l’esasperazione di ciò che è considerato “femminile”: il risultato è un paradosso. Il mondo dell’immaginario pornografico è popolato di superfemmine che svolgono azioni quotidiane, come passare l’aspirapolvere o battere a macchina, e che con espressione di sorpresa e accondiscendenza soddisfano le voglie del maschio di turno.

E’ proprio questo immaginario sessuale, che ha popolato le fantasie degli uomini per decenni, ad aver contribuito alla costruzione di un modello sociale fortemente eteronormativo, ossia di imposizione della eterosessualità come norma, dove la divisione tra il maschile e il femminile era stabilita e rappresentata da corpi esasperatamente sessualizzati e da ruoli ben definiti.

Inoltre, la pornografia era, e prevalentemente rimane, un prodotto di uomini per gli uomini. La ricerca del piacere, che non sia quella del maschio, non è immaginata, tagliata fuori da ogni narrazione e rappresentazione. Sebbene l’industria pornografica si sia con gli anni allargata, cercando di aprirsi a nuovi mercati, come al pubblico omosessuale, il punto di vista che prevale è sempre quello dell’uomo. E con uomo intendo quello che è stato definito il grado zero di normalità nella società eteropatriarcale capitalista: il maschio bianco occidentale eterosessuale di classe media. Con queste premesse è comprensibile la critica mossa da molte femministe all’industria pornografica, accusata quindi di commercializzare i corpi delle donne, svilirne la sessualità e creare stereotipi e modelli lontani dalle persone reali con ripercussioni violente sulle loro vite. Meno comprensibili sono alcune scelte politiche di alcuni gruppi femministi che, soprattutto negli Stati Uniti degli anni ’80, hanno mosso una guerra alla pornografia in quanto tale.

L’oscenità della pornografia sta nel collocare al centro ciò che è considerato intimo e privato. La sessualità è infatti considerata un fatto personale. L’industria pornografica rompe questo tabù, non con l’intento di liberare la sessualità degli individui ma imponendogli un modello e arruolando un esercito di maschi addestrati a “marciare a tempo”. Il meccanismo funziona così bene che non è un caso che televisione e pubblicità ci bombardino di corpi e ammiccamenti a sfondo sessuale. L’allusione viene recepita perfettamente da sensibilità sovrastimolate e sovraeccitate. In questo panorama a dir poco inquietante, nascono nuovi progetti e nuove forme di lotta. Se la sessualità è un fatto personale allora, come ha teorizzato Kate Millet, è anche una questione politica. E altrettanto è la sua rappresentazione. Dal rifiuto alla pornografia mosso dal femminismo degli anni ’70-’80, si stanno aprendo nuovi orizzonti nella lotta alla normalizzazione sessuale agita dall’industria pornografica. Nasce il postporno nelle sue molteplici forme e pratiche. Tra le anticipatrici di questo movimento c’è indubbiamente Annie Sprinkle, che da attrice porno diventa regista e performer, con l’intento di smascherare il maschilismo della pornografia fino ad allora realizzata. A lei si deve l’inizio del Do it Yourself postporno. Iniziano a circolare lavori realizzati da donne per un pubblico femminile, si girano i primi “porno per donne”, e i video porno femministi come la più attuale raccolta di cortometraggi Dirty Diaries della svedese Mia Engberg o i film della regista Erika Lust. Progetti ancora legati al circuito commerciale ma che inseriscono comunque elementi di rottura all’interno dell’industria pornografica. Nascono laboratori di postporno creati da gruppi e collettivi queer o femministi, completamente autogestiti, dove alla riflessione teorica si affianca la pratica di produzione e sperimentazione di nuove forme di desiderio.

Il postporno non vuole togliere la rappresentazione della sessualità dalla scena pubblica, quindi dal piano politico, ma vuole intervenire per sovvertire e dare voce all’immaginario di tutti quei soggetti esclusi, marginalizzati, umiliati dalla pornografia maschilista funzionale al mercato e alla riproduzione della divisione binaria dei generi. Il postporno si rivolge alle persone e le sprona a smettere di subire i modelli sessuali imposti e diventare le proprie personali pornostar. La sua azione non è semplicemente dare voce (e gemiti) a chi non si considera il pubblico della pornografia mainstream, ma quella di inventare nuove forme condivise, collettive, visibili, aperte. Il postporno è il copyleft della sessualità che supera le barriere imposte dalla rappresentazione pornografica dominante e il consumo sessuale normalizzato. Il suo obiettivo è modificare la sensibilità e la produzione ormonale attraverso un movimento politico che costruisca in maniera liberata e partecipata ciò che è considerato privato e vergognoso. Perché ci piace? Perché scardina le dinamiche di genere, è insubordinazione, divertimento e desiderio. È la nostra rivoluzione sessuale.

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