Nessuno sa di noi – Simona Sparaco

2Nessuno sa di noi, scritto da Simona Sparaco e candidato al Premio Strega 2013, racconta il dolore di una gravidanza attesa, ma destinata a interrompersi prematuramente.

I personaggi principali del romanzo sono Luce, una giornalista free lance che sembra non aver mai preso realmente in mano la propria vita, Pietro, suo compagno benestante e paziente, al quale lei si affida completamente, e  Lorenzo, figlio desiderato, immaginato, sentito, che la coppia è costretta a seppellire prematuramente. Personaggi che agiscono in funzione del vero protagonista: l’aborto tardivo e il suo significato per chi lo vive dall’interno. Sullo sfondo un mondo opaco, sordo ai bisogni delle persone, feroce.

Siamo tutte qui.
Ognuna con il proprio trofeo, più o meno in evidenza, e la cartella clinica sottobraccio. Tutte ordinatamente sedute, come a scuola per un richiamo dal preside. Qualcuna sfoglia una rivista, con l’espressione vaga e compiaciuta di chi sa che la passerà liscia. Qualcun’altra, invece, se ne sta a testa bassa, con le mani serrate in un intreccio nervoso. Come se dietro quella porta color pastello ci fosse davvero la minaccia di un’espulsione.
Siamo tutte madri nell’attesa di un’ecografia.

Nessuno sa di noi

pag. 7

Displasia scheletrica. Due parole che insieme suonano così infauste. Le digito in un motore di ricerca e non per scrivere un articolo sulla malasanità, ma per la vita di mio figlio.

Nessuno sa di noi
pag. 35

«Non posso suggerirvi un’interruzione di gravidanza» prosegue il dottor Piazza, incrociando le braccia, in un gesto di chiusura definitiva. «Anche se le condizioni del feto potrebbero rivelarsi incompatibili con la vita. In Italia è consentita solo fino alla ventitreesima settimana, non oltre.»
«Che significa?» domanda ancora Pietro, e mi stringe forte la mano.
«Se rientrassimo nei limiti di legge, potrei proporvi di anticipare il parto. Alla ventitreesima settimana e in queste condizioni, il feto non ce la farebbe. Stiamo parlando di un aborto conosciuto come terapeutico o eugenetico. Ma nel vostro caso siamo ben oltre i termini consentiti.»
Parla ancora al plurale. Questa volta di sopravvivenza, di leggi e limiti. Il pronome è sbagliato, però, non c’è un noi in questa stanza. O forse sì; noi siamo io e Lorenzo.
«Mi faccia capire» lo esorta Pietro. E’ pallido, deglutisce a fatica, si muove nervoso sulla sedia, non come la madre, che mantiene la testa alta e la schiena dritta. «Queste malattie così gravi e incompatibili con la vita si possono scoprire solo quando si è arrivati così avanti con la gravidanza che non si può più interrompere?»
«Per interruzione, in questo paese, si intende la possibilità di anticipare il parto. Il limite è stabilito in base all’autonomia del feto rispetto al ventre materno. Un feto di ventitré, anche di ventiquattro settimane, non sopravvive al di fuori dell’utero e può essere quindi abortito.»
Il dottore ci guarda, forse in attesa di una reazione. Ma siamo tutti e tre ammutoliti. «A dire la verità» riprende, come se si sentisse in dovere di precisare «ci sono stati casi in cui feti abortiti sono spravvissuti ugualmente, perché le tecniche di assistenza neonatale progrediscono di anno in anno, e per legge un medico ha il dovere di metterle in pratica qualora ce ne fosse bisogno. Un feto abortito che sopravvive è però un feto con una grave patologia a cui si aggiunge una serie di problematiche legate al fatto che è nato pretermine, per dirvela in parole chiare. Ed è per questo che a livello parlamentare si sta pensando di abbassare ulteriormente il limite consentito a ventidue settimane.»
Sono travolta da flash di bambini microscopici e malati costretti al sacrificio crudele di venire al mondo, solo per esalare il loro primo e ultimo respiro. O che riescono a sopravvivere al parto, e crescono, isolati, malnutriti, dentro un’incubatrice, nient’altro che un ventre di plastica, asettico e rigido, che li accoglie invece di ripudiarli.
«Noi siamo alla ventinovesima settimana» riassume Pietro, stringendo la mia mano ancora più forte. «Abbiamo davanti ancora due mesi abbondanti. Ma lei mi sta dicendo che mio figlio potrebbe non farcela, oppure, da quello che so, andare incontro a una vita breve, dolorosa, con dei ritardi cerebrali, o peggio, un quoziente intellettivo al di sopra della norma?»
«Lo so.»
«E allora?» lo incalza Pietro. Ha gli occhi fissi sul dottore. Il panico si sta trasformando in rabbia e in sfida. Mi lascia andare la mano. Sento la sua presa salda venire meno un dito alla volta. Il bottone del pulsante che s’allenta, l’emicrania che mi spacca in due la scatola cranica. Impazzisco. Mi spengo.
«E allora» ripete il dottor Piazza inarcando le sopracciglia «sarà fatta la volontà di Dio.»

Nessuno sa di noi
pag. 54-55

Numerose sono le critiche piovute su questo libro a causa dello stile non particolarmente brillante, con personaggi abbozzati o troppo stereotipati che agiscono meccanicamente. E pure, spostandoci dal piano della pura critica letteraria a quello del solo contenuto, Nessuno sa di noi, colpisce perché si fa carico di una tematica tabu, l’aborto in fase avanzata, senza sconti emotivi, mettendoci di fronte ai dubbi e al dolore di una donna, e di una coppia, in fin dei conti fortunata rispetto alla media, perché potrà permettersi un viaggio in Inghilterra, dove sarà possibile interrompere la gravidanza oltre il termine stabilito dalla legge italiana, e avrà la possibilità di giungere, in fine, a un nuovo equilibrio di coppia e personale. In questo senso Nessuno sa di noi offre un servizio che si rende ormai urgente, inderogabile, alla nostra società, che stigmatizza e oscura il ricorso all’aborto: parlare di interruzione di gravidanza senza pregiudizi, mettendo in un angolo tutti i “se” e i “ma” con i quali si riempiono la bocca i moralisti con la vita degli altri, i ‘coscienziosi’ detrattori del diritto alla scelta. Non dà risposte, mette in campo la libertà di scelta, in un contesto, quello italiano, in cui da anni il dibattito sull’aborto è inquinato a causa di interessi politici, inciviltà e derive inquisitorie. Ma amore, coscienza e rispetto, possono esprimersi attraverso modalità inaspettate, al di sopra delle tifoserie del ‘pro’ e del ‘contro’.
E’ così che Nessuno sa di noi si trasforma in romanzo commovente e necessario.

Nessuno sa di noi
Simona Sparaco
Isbn 9788809778047
Giunti, 2013
pag. 256
€ 12,00

La sexy parodia di Blurred Lines realizzata da Mod Carousel: il rovesciamento dei generi che invita alla riflessione.

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Del video originale avevamo parlato qui.

Oggi leggiamo sull’Huffington Post:

Considerata la massiccia polemica – per non parlare del successo clamoroso – della hit dell’estate ‘Blurred Lines’ di Robin Thicke, non è sorprendente che alla fine qualcun* abbia deciso di realizzare una versione del video a ‘ruoli invertiti’. La recente parodia realizzata da Mod Carousel, è intelligente, stimolante e molto sexy!

Mod Carousel, una troupe boylesque con sede a Seattle, ha ricreato il video con Caela Bailey, Sydni Devereux e Dalisha Phillips alla voce – che assumono i ruoli che, nel video originale, erano rispettivamente di Thicke, Pharrell e TI – mentre Trojan Original, Paris Original e Luminous Pariah dei Carousel assumono qui il ruolo delle semi-vestite (o per lo più nude, a seconda della versione) modelle presenti nel video di Thicke.

Anche i testi sono un pò cambiati. “Vado a prendermi un bravo ragazzo,” Bailey canta e continua, “Sei così virile …. Tu sei il c…o più caldo qui.” […]

In proposito, i Mod Carousel affermano: “E ‘nostra opinione che la maggior parte dei tentativi di mostrare l’oggettivazione femminile nei media scambiando i ruoli di genere servano più a ridicolizzare il corpo maschile che ad evidenziare la misura in cui le donne vengono reificate, e ciò rende a tutt* un cattivo servizio. Abbiamo perciò realizzato questo video proprio per mostrare l’ampio spettro della sessualità, e presentare sia le donne che gli uomini in una luce positiva, in cui gli uomini possono essere resi oggetto e dove le donne possono essere forti e sexy, senza ripercussioni negative per entrambi.”

Ed ecco il video: che ne pensate?

 

 

Le donne, i negri, il sesso

shapeimage_2E’ ora di chiamare le cose col loro nome – lo diciamo da un pezzo. Quando ai tempi ci fu una polemica per un libro su Casapound, e ci fu un gran discutere se il libro era fascista o no, se parlare dei fascisti è fascista o no, se scrivere un libro su una realtà fascista è fascista o no, e così via, pubblicai questo post nel quale facevo semplicemente presente che il sistema per decidere se qualcosa è fascista non è difficile. Quello che è difficile è intendersi su cosa sia un comportamento politico fascista – perché a qualcuno non potrebbe fare piacere.

Un qualcuno a me viene in mente: il classico compagno sessista che quando si tratta di commentare cose che riguardano donne o altri generi diversi dal suo sa regalare perle di sessismo da incorniciare. E argomentavo che il sessismo, ovviamente, è sempre un fascismo, quando è usato pubblicamente per fini politici.

Di recente vedo oggetto del solito sciacallaggio mediatico le parole di Romano Angelo Garbin, che certamente conoscerete già. Che la sua dichiarazione sia sessista non ci sono dubbi. Che sia giusto espellerlo dal suo partito è un problema del partito – di partiti sedicenti di sinistra, che usano pesi e misure diversi per giudicare della condotta di chi è iscritto e chi no, è piena l’Italia.

L’occasione però è interessante per chiarire una cosa. Quando il maschilismo è usato per insultare pubblicamente qualcuno, è fascismo – su questo non ci piove. Chi usava il maschilismo e il “virilismo” per propagandare una certa immagine di sé e dell’avversario politico è sempre stato il fascismo, quindi il “contrappasso” immaginato da Garbin come punizione per Valandro è uno splendido esempio d’immaginario simbolico fascista. Dico simbolico anche perché sono personalmente certo che, messo nelle condizioni legali per attuare questo suo desiderio, Garbin non lo farebbe davvero mai, e principalmente perché di punire Valandro in fondo non gliene può fregare di meno. Pensando però a un avversario politico donna che ha usato un insulto sessista e razzista, la cosa più “spontanea” che ha pensato è una graziosa ritorsione a suon di Big Black Cocks. E ce lo ha fatto sapere, tutto contento, via Facebook.

Questo basta e avanza, per come la vedo io, a identificare un fascista. Fascista nella cultura, nel pensiero, nell’immaginario. La domanda che mi pongo, interessante sia dal punto di vista politico che culturale, è: perché un attivista di sinistra, molto impegnato nella politica, settantenne, riconosciuto leader di sinistra in un territorio, ha un immaginario simbolico del genere? E perché lo usa pensando che sia una cosa di nessun conto? E perché tanti la pensano come lui? Lui se ne sta bello tranquillo ad aspettare quel che succederà, tanto la considera «Na tenpèsta in te on goto de aqua…».

E magari lui, e tanti come lui, si chiedono come mai i leader di sinistra al governo non fanno mai cose di sinistra, non pensano mai cose di sinistra, sono tanto distanti da “la base”. Base che, invece, su certi argomenti sembra andare naturalmente d’accordo: guardate come sono facilmente intercambiabili certi immaginari simbolici – e certi commenti politici – di Lega e SEL. Basta trovare l’argomento giusto: le donne, i negri, il sesso.

Intervista a Maria Galindo su Evo Morales, educazione sessuale e ribellione femminile in Bolivia.

La femminista radicale boliviana Maria Galindo su Evo Morales, educazione sessuale e ribellione nell’universo femminile.

di Sheryl Green e Peter Lackowski

Articolo pubblicato da upsidedownworld Tradotto in italiano da TheHighPeak, revisionato da Feminoska, H2o e Alice89

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La Ekeka verso la libertà. Creazione di Danitza Luna

Mujeres Creando è un’organizzazione femminista radicale che  affronta la struttura patriarcale della società boliviana dagli anni ’80. Abbiamo parlato con una delle sue fondatrici, Maria Galindo, nel ristorante del loro piccolo hotel e centro culturale nella Capitale La Paz, mentre la stazione radio di Mujeres Creando, che trasmette/in onda dalla stanza a fianco, risuonava dagli altoparlanti in sottofondo.Quando Maria ci ha raggiunto era in compagnia di un altro nordamericano, Phillip Berryman, un insegnante e traduttore professionista e ci ha spiegato che poiché anche lui le aveva richiesto un’intervista avrebbe risposto alle nostre domande insieme.

Sheryl Green: La prima grande domanda è sull’amministrazione di Evo Morales: come sono state gestite le questioni specificatamente femminili? Sono stati fatti progressi? Il giornale di oggi dice che l’11% dei punti della Costituzione approvata tre anni fa è stato convertito in legge – che impatto ha questo sulle questioni femminili? Certo, l’obiezione è che tutte le questioni sono questioni femminili. Ma l’aborto ad esempio, e le altre cose che per te riguardano direttamente il benessere delle donne.

Maria Galindo: Allora, in generale il discorso su Evo Morales è molto complesso; in lui c’è stata una sorta di evoluzione. L’Evo Morales di oggi non è l’Evo Morales degli inizi. All’inizio c’erano molta speranza, molta aspettativa sociale e la relazione tra MAS [Movimiento Socialista] e il governo era davvero molto forte. In questo sesto anno invece di svilupparsi in modo positivo ha preso una brutta piega. Per esempio, Evo Morales, intendo il suo governo, dice “dobbiamo avere un grande controllo sulle organizzazioni sociali per rimanere al potere. Per sviluppare questo controllo dobbiamo comprare i capi di queste organizzazioni sociali.” E allora  adesso i/le dirigenti delle organizzazioni sociali sono controllat* dal governo. Ma non le basi. Significa che i/le dirigenti delle organizzazioni sociali hanno preso soldi dal governo e sono stati incaricati dei progetti, ma non significa che vi sia una reale aderenza delle organizzazioni sociali con le loro richieste. È una sorta di teatrino. Qui abbiamo con noi la gente, ma solo gli amici di Evo Morales e amici che ci sono perché ne traggono dei vantaggi. Il che impedisce una trasformazione sociale reale, perché non stanno lavorando sui problemi concreti di ogni parte della società, ma stanno lavorando solo per far pensare e sentire a tutti che Evo Morales sia l’unica soluzione per chiunque in Bolivia. E così abbiamo un processo di “caudillizacion.” Lui è il cambiamento, il cambiamento è lui, lui è tutto, è il difensore, e provoca un degrado nel processo politico e sociale.

SG: Quindi c’è una gerarchia…

MG: Non solo una gerarchia, ma lo dico in spagnolo: è un processo di “caudillizacion” [la creazione di un “caudillo” o leader carismatico]. La figura di Evo Morales è al centro di tutto. Ed è veramente un grosso errore. Per le donne è molto contraddittorio ed è ben mascherato. Perché? La prima legge, che era la più importante, è stato lo stanziamento di una somma di denaro, la “bono Juana Asurdo” (chiamata come un’eroina della rivoluzione contro la Spagna del diciannovesimo secolo.) È un pagamento che viene fatto a ogni donna che fa un figli* – come è stato fatto da ogni governo fascista. Non è molto: mille ottocento boliviani (261 dollari statunitensi). Non ci si fa nulla. Ma d’altra parte, “donne” significa “bambini.” Le donne più povere in Bolivia – magari loro potrebbero aver bisogno di quei soldi. Ma per ottenerli devono andare dal dottore, che ti dà un foglio che dice che avrai un bambino, e poi devi andare in banca per prendere il sussidio dallo stato. Ma le donne boliviane più povere non hanno la carta d’identità da presentare in banca. Quindi è davvero assurdo. Ed è una specie di ritratto del modo di pensare di questo governo.

Dall’altro lato, a partire dagli anni novanta, per una politica delle Nazioni Unite, c’è una sorta di quota di donne in ogni partito politico. È una politica liberale, non socialista, questa politica della “parità.” Quindi ogni partito ha una percentuale di donne, che vengono in certa parte elette come deputate e senatrici. È un processo iniziato negli anni novanta, ed è copiato ovunque in America Latina, non è originariamente boliviano. Il movimento sociale delle donne qui non ha mai chiesto di avere una rappresentazione parlamentare. È venuto dall’ONU. Dagli anni novanta, i partiti, anche di destra, hanno detto “OK, siamo gentiluomini, approveremo questa legge.”

E quindi dagli anni novanta c’è una bassa percentuale di donne in parlamento, donne che vengono elette per rappresentare il partito. Non per rappresentare la società o le donne nella società. E questa percentuale di donne non costituisce mai una voce per le donne. Loro rappresentano una voce femminile per il partito, che fa una bella differenza. È un fenomeno consueto della politica in tutta l’America Latina. Evo Morales ha preso la stessa idea dominante e l’ha messa nella sua politica. Ora c’è una percentuale più alta di donne, credo che sia intorno al 40%, non sono sicura, in realtà non ci faccio molto caso. E la stessa politica si applica ai ministri di governo e ai giudici. Ma con le stesse regole: le donne del nostro partito faranno quello che vogliamo noi. Le donne che hanno responsabilità per la sanità, per molti aspetti non fanno in realtà nulla per le donne. Perché è sufficiente essere lì e dire, “Sono qui, sono una voce per le donne.”

E quindi fanno una selezione accurata delle donne per tenere fuori quelle che sono pericolose, che alzano la voce, che pensano con la loro testa. C’è un sacco di ostilità nei confronti delle donne ribelli nei movimenti sociali oggi in Bolivia. Non è responsabilità di Evo Morales, è semplicemente come stanno le cose in questo momento.

Perciò, quello che dicevi sull’aborto – è come andare con un autobus sulla luna. Siamo molto lontan* da quel punto. Ho intervistato tutte le donne del governo [Maria conduce un programma alla radio, trasmesso da Mujeres Creando], tutte le dirigenti di movimenti per le donne che sono con Evo Morales, Bartolina Sisa (un movimento chiamato come un’eroina Aymara del 1700 che combattè contro gli spagnoli) ho intervistato tutt* quell* che fanno parte di questi movimenti. Ho chiesto loro dell’aborto. Perché l’aborto è un problema di povertà. Le giovani donne bianche, se hanno 400 dollari possono ottenere un aborto. Le indigene, giovani povere che non hanno i soldi, abortiscono con grossi rischi, e muoiono. E sono molto spaventate.

SG: Ci sono dottori nel paese che praticano un aborto sicuro per 400 dollari?

MG: È tutta una questione d’ipocrisia. Prova ad andare al grande cimitero di La Paz – mentre cammini vedrai su entrambi i lati della strada piccole cliniche. E lo sai, una stanza non può essere una clinica. E tu vedi clinica, clinica, clinica, clinica… “Se hai una domanda, vieni qua, clinica femminile”. Tutti quei posti sono per gli aborti. Lo sanno tutti, non è un segreto.

SG: E il governo non interferisce?

MG: No no, non fanno nulla. Ma per esempio, lo scorso dicembre una giovane donna a Santa Cruz ha ucciso il suo bambino – il bambino è nato e lei l’ha ucciso. È finita in prigione per omicidio. E lei ha detto, “Sono stata violentata. Questo bambino non lo volevo.” La polizia non fa nulla. I dottori fanno soldi, non tanti, ma li fanno. Ma quando una donna è così sola, così vulnerabile, come quella ragazza, allora finisce in prigione. È un caso d’ipocrisia. Ma nessuna donna di questi movimenti sociali locali è favorevole a parlare positivamente del diritto – non il mio diritto, di femminista – ma del diritto di scelta di quelle ragazze della campagna. Non sono pronte – ho chiesto a ognuna delle donne presenti in parlamento dell’aborto. Sono tutte contro. Tutte. Non ce n’è una che dica, “OK, hanno il diritto di scegliere.” Dobbiamo combattere per questo diritto, che è molto concreto.

SG: E probabilmente la maggior parte di loro ha qualcuna nella famiglia allargata o conosce qualcuna…

MG: Oh certo, certo, certo… Perché l’aborto in Bolivia è un problema di massa, non è il problema individuale di una ragazza in particolare. Perché non c’è educazione sessuale nella legge e nelle scuole. C’è una sorta di cultura maschilista nella sessualità, che significa che ogni ragazzo vuole mostrare il suo potere su una ragazza. Quindi è davvero un enorme problema di massa. E si vedono molte donne giovanissime con figli, e nessun padre. Alla nostra radio facciamo una lista di padri che non pagano per i propri figli, ed è un grande successo. Trasmettiamo il loro nome, la loro età e dove lavorano. Cinque volte il giorno, e nessuna donna deve pagare per questo [servizio]. Ed è molto interessante perché non è diretto solo a quelli che vengono nominati, ma è un messaggio per l’intera società.

SG: Mujeres Creando – legame con il governo, influenza. Hai due ruoli qui – magari correlati – sei una giornalista e sei parte di questa comunità. Qual è il legame, la relazione, il riconoscimento dell’amministrazione verso Mujeres Creando?

MG: Riconoscimento assolutamente no. Ma penso che noi, Mujeres Creando, abbiamo influito profondamente sulla società, perché alziamo molto la voce. E non ci limitiamo a parlare, facciamo anche le cose. Esercitiamo una forte influenza, lo sento ovunque, costantemente. Questo governo di Evo Morales agisce come se noi non esistessimo, come se non ci fossimo, come se non facessimo nulla. Ma non significa nulla perché non siamo fissate sull’idea che la sola politica che ha successo è la relazione con lo stato. Lo abbiamo analizzato per molti, molti anni: cosa vogliamo dallo stato? Non vogliamo nulla dallo stato. Non solo le leggi – le leggi non cambiano nulla. Molti movimenti in Bolivia hanno in mente la formula, “Otteniamo la legge, otteniamo un cambiamento della situazione.” Ma noi non chiediamo una legge, non chiediamo di essere in parlamento, non chiediamo di avere soldi dal governo, ma prendiamo posizione su ogni politica di governo.

Noi non viviamo sull’Isola che non c’è, ma non pensiamo che ci debba essere un riconoscimento da parte dello stato. Per esempio, quando il processo costituzionale era in corso quattro o cinque anni fa in Bolivia, abbiamo sviluppato un’interessante teoria sociale. Abbiamo detto, “Non vogliamo la parità tra uomini e donne, questa non è la nostra prospettiva. Vogliamo una ‘despatriarcalizacion’ della società.” Non posso tradurlo perché è una parola che abbiamo inventato noi (de-patriarcalizzazione). E ora qualsiasi documento governativo che riguardi le donne contiene la “despatriarcalizacion.” Hanno preso da noi la parola. È la prova della nostra grande influenza sul loro pensiero, ma non è una realtà perché, ad esempio, non ci chiedono mai di discutere che cosa questa “despatriarcalizacion” significhi. È una relazione complicata.

SG: È un grosso dibattito anche negli Stati Uniti in questo periodo. C’è forte movimento esterno al governo, il cui obiettivo non è lavorare per il partito, per far eleggere le persone. È un periodo eccitante: vuoi lavorare dall’esterno, o vuoi provare a inserire qualcuno all’interno? E quindi le persone stanno facendo scelte davvero interessanti. Sembra che la tua scelta sia quella di lavorare all’esterno e di influire profondamente non solo sulle donne ma sulla società nel suo complesso, stimolando idee più chiare e analisi più approfondite e aiutando le persone a considerare i loro stessi modelli sotto una luce diversa.

MG: Esatto, non è che pensiamo di dire alle persone quale sia la verità, questo è molto importante. Sei andata dritta al punto. Per noi, le donne sono “soggetti politici”, protagoniste. Quindi lavoriamo in questo senso, considerando le donne soggetti politici, non “beneficiarie,” “oggetto di vulnerabilità, ” “Oh, povere donne!” e roba così. Non ci limitiamo a parlare. Noi agiamo. Per esempio, abbiamo piccoli programmi che hanno una metodologia molto interessante, programmi che funzionano e programmi che sono fatti per le persone. Ce n’è uno davvero interessante sulla violenza contro le donne che è molto pratico, e agiamo in ogni situazione in cui ci è possibile, abbiamo un programma per le madri che riguarda il pensare al ruolo di madre in un altro modo. Entrambi influiscono profondamente sulla società, ma non raggiungiamo molte donne perché lavoriamo su piccola scala. Ma sono esempi – non siamo solo pront* a parlare, siamo pront* ad agire.

Questa è la grande differenza, perché in Bolivia trovi molt* intellettuali, alcun* migliori, altr* che non sono granché — che sono brav* per quel che riguarda il pensiero critico e parlano, anche, ma si limitano a parlare. Noi pensiamo che sia un grosso errore. Ci sono così tanti anni di pensiero politico boliviano in cui puoi trovare i minatori, puoi trovare gli indigeni, puoi trovare i giovani e mai le donne. Tutti i movimenti sociali hanno una sorta di faccia maschile, e alle donne si pensa come a un pezzo vulnerabile di società, dobbiamo proteggere le donne, dobbiamo proteggere le donne in quanto madri e quella è l’idea dello stato. E quell’idea non è cambiata. Siamo allo stesso punto di sempre.

Phillip Berryman: Capisco cosa intendi riguardo alle donne in politica. Vedi donne infrangere i ruoli tradizionali in altre aree come quella degli affari?

MG: Penso che ci sia una grande confusione al riguardo in generale, non solo in Bolivia. Ad esempio qui in Bolivia ci sono donne nell’esercito. E’ una prova di ribellione? E’ una prova di un qualche miglioramento? Possiamo festeggiare? Le donne lavorano, ma in quali condizioni?

SG: Giusto l’altro giorno c’era un sacco di polizia vicino alla capitale, e c’erano delle donne. Per caso ho guardato in basso e una poliziotta indossava stivali a punta con i tacchi alti, e ho pensato, “come può fare quello che potrebbe dover fare con i tacchi alti?” Mi ha colpita, e l’ho trovato molto ironico.

MG: Ironico, ecco la parola. In molti di questi esempi c’è tanta ambiguità. Non è una vittoria  per la società boliviana se le donne entrano nell’esercito. L’esercito ha commesso un sacco di abusi nei confronti delle reclute. Molti sono morti. Ai tempi si pensava che ci fosse la possibilità che rifiutassero il servizio militare. Così il governo ha detto, “OK, per i ragazzi è obbligatorio, non possono scegliere. Ma le donne possono entrare, e possono scegliere.” E le donne stavano in coda dalle 5 del mattino per arruolarsi nell’esercito. Avrebbero fatto qualsiasi sacrificio pur di entrare. Perché? C’è una grande contraddizione. Il neoliberalismo e il liberalismo in America Latina dicono che ne hai il diritto. Devi lottare per i tuoi diritti, ma li hai – sei uguale. Abbiamo ora, in tutto il mondo, un sacco di donne con un sacco di potere. Che cosa significa? E’ una grande domanda per noi anche come femministe, perché nessuna donna al potere, in Bolivia, Germania, o dovunque, è lì grazie al pensiero femminista. E’ lì grazie al pensiero patriarcale.

Non m’interessano molto Cristina Kirchner o Merkel, a me interessa la massa. Nella massa delle donne c’è un impulso ad occupare lo spazio degli uomini, e sono pronte a pagare lo scotto di assumere valori maschili – quali competizione, uso della forza, uso della violenza. C’è una massa di donne che la pensa così. E così qui in Bolivia ci sono donne che vogliono entrare nella polizia. Ma la più alta percentuale di violenza sulle donne nella vita privata è fatta proprio da poliziotti. E allora vedi l’ironia di cui parlavi. Loro arrivano lì, ma poi sono… le donne. A che punto siamo? Ma dall’altro lato, per rispondere alla tua domanda  si vede un sacco di ribellione sociale di massa delle donne. Per esempio, molte donne sono pronte a denunciare la violenza, e questo è un atto ribelle. Molte donne vanno all’università. Io ho insegnato all’università pubblica. Il 50% degli studenti in tutti i campi sono donne.  Non c’è un campo in cui gli uomini possano dire, “Questo è il nostro campo.” Ma nei campi delle donne non trovi uomini. Questa rivoluzione non è dal lato dell’essere uomo, dell’essere maschile.

SG: Quindi   ad esempio in educazione della prima infanzia, o in sviluppo umano o in storia delle donne, non ci sono uomini?

MG: Vi devo raccontare una cosa: la storia di Ekeko.  E’ un riflesso di quello che sta succedendo con le donne nella società boliviana ora. Questa statuina è stata creata da una giovane artista del nostro movimento. Ha vent’anni. Io ne ho quarantasette e lavoriamo insieme. Conoscete la storia di Ekeko? Ve la racconto. Ekeko è un dio andino dell’abbondanza. E’ un ometto piccolo e basso che si porta tutto sulla schiena. Cibo, macchine, apparecchiature elettriche, tutto quello che vuoi. Risale a centinaia di anni fa, almeno alla fine del Settecento. Se veneri l’immagine di Ekeko, avrai tutto quello che vuoi nella tua casa. E’ chiaramente la deificazione del padre che porta tutto quello di cui hai bisogno, ed è falso.

La statua di Ekeko si trova in un posto speciale della casa, e ogni venerdì la donna di casa deve dargli una sigaretta. Deve metterla in bocca alla statua e accenderla. Ha anche un simbolismo erotico – trovi molti Ekeko con il pene eretto. Quindi lui ti darà tutto, benessere e piacere. In molte case trovi quest’ometto nel posto migliore.

Quindi abbiamo messo una donna al suo posto. [Ci mostra una statuetta, circa venti centimetri in altezza e in lunghezza. E’ una donna con un fagotto grosso quanto lei sulle spalle, mentre dietro c’è la figura di un uomo stravaccato, che dorme con una bottiglia in mano.] Invece di lui, c’è lei. Nel fagotto che porta sulle spalle c’è il suo cuore, che non è danneggiato. E poi ha tutto il resto: una casa, e musica, cibo – tutto quello che serve. E ha le ali, perché vuole la libertà. Ha libri perché vuole imparare. Se andassi in una scuola serale, vedresti che ci sono molte donne, perché tantissime hanno dovuto lasciare la scuola, ma ora vogliono studiare. Lei ha anche una valigia, perché se ne sta andando. Questo è un altro sentimento ribelle che molte donne hanno: “Sono pronta a lasciarti.” E la valigia ha un’etichetta, lì dentro ci sono sogni, speranze, ribellione, e felicità.  Sta lasciando il piccolo dio Ekeko – ubriacone, pigro, macho. E la lettera che gli lascia dice, “L’Ekeka sono sempre stata io.”

Vendiamo queste [statuine] nel nostro banco al mercato. Venderle è un atto politico. Parliamo alle donne, e loro ridono di gusto. Ogni donna [ne] capisce [il senso]: la donna che vende il pane, la donna che lavora in ufficio, e la donna che è in parlamento.

SG: Vendono bene?

MG: Sì. Non costano poco, perché vogliamo che la ragazza che le fa ci ricavi qualche soldo. La cosa più importante è che vogliamo entrare nell’immaginario popolare, che ha un posto nel cuore delle persone.

SG: E cosa mi dici di quest’altra figura, un uomo con un* bambin* sulla schiena, una borsa della spesa in una mano e una scopa nell’altra?

MG: Quest’uomo è Evo Morales. Sta portando un* bambin* sulla schiena come una donna indigena. Nessun uomo porterebbe un* bambin* in questo modo, sarebbe contro la sua dignità. Ed è pronto per pulire la casa e andare al mercato. Questo è stato l’uomo più importante della rivoluzione boliviana (che in realtà non è stata una rivoluzione.) Queste  le abbiamo davvero vendute come il pane. Ora non più perché lui ormai non è così popolare. Una volta, quando era ancora all’apice del potere, sono andata a un grosso evento politico e gliene ho regalata una . Lui l’ha presa e l’ha lanciata a una delle sue guardie del corpo. Non l’ha presa ridendo, era ostile, disgustato dalla statuina. Quello era un segnale! Mi sono chiesta, “Perché non era disposto a riderne con noi, e dire, ‘Perché no?’ o ‘Interessante!’ o ‘Grazie mille,’ o chessò.”

Questo è lo stato attuale della ribellione delle donne. Senza capire potresti dire, “Ah, queste donne stanno dicendo che ogni uomo è un ubriacone….” Ma è molto più di così, è un simbolo.

SG: Riguarda più le donne…

MG: Sì. Prima di venire qua stavo intervistando una donna. Vuole separarsi dal suo uomo. Quando aveva quattordici anni, un membro della sua famiglia l’ha data in dono a un militare ventottenne, che aveva un figlio di cui qualcuno doveva occuparsi. E così lei è andata con il militare ed è stata con lui, ai miei occhi, come schiava. Ma agli occhi della società come una moglie. Stava piangendo al mercato e una donna le ha chiesto, “Perché piangi?” Quando lei ha spiegato il motivo, la donna le ha detto, “Vai da queste donne.” [Mujeres Creando]

SG: Quanti anni ha ora?

MG: E’ tra i cinquanta e i sessant’anni. Ha avuto quattro figli con il militare, pensando per tutta la sua vita, “Lo lascio.” Non diresti che queste storie possano essere vere ancora oggi, ma in realtà lo sono. Le nostre storie non sono tutte così. Quella non è la mia storia. Ma noi, come donne, siamo nella stessa situazione storica e sociale di quella donna. Se la consideriamo una sorella, lei era, o è, in schiavitù.

Ho lavorato parecchio con la prostituzione, e conosco davvero bene il problema, ho fatto molte cose in quell’universo. In Bolivia, ogni prostituta deve essere legalmente registrata. Significa che deve dare il suo vero nome, il suo indirizzo, il posto in cui lavora come prostituta, e poi le fanno una foto e un documento. Devi avere quel documento dal ministero della sanità per lavorare come prostituta. Inoltre, devi andare dal dottore una volta a settimana, solo per fargli controllare la  vagina. Solo quello. Se hai un problema agli occhi o qualsiasi altra cosa, non importa, ti controllano solo la  vagina. E ottieni un foglio che dice ‘autorizzata.’ Si preoccupano solo per la salute degli uomini. E questo succede ora, non cento o duecento anni fa.

Questa [indicando una foto appesa al muro] è la fotografia di una prostituta dell’inizio del 1900. La polizia faceva queste fotografie a ogni prostituta: due scatti, di fronte e di profilo. In quei giorni una donna doveva indossare un panno nero in testa per mostrare che era una prostituta. La polizia aveva quegli archivi. Dal 2000 la polizia non fa più fotografie, ora è il Ministero della Sanità che fa i controlli vaginali per dire che puoi andare con un cliente.

Ho fatto centinaia di seminari, progetti, lettere, qualsiasi cosa. Abbiamo creato un’organizzazione per lavorare con le donne. Per il nostro punto di vista tutto andrebbe fatto con la donna. Per esempio la donna in condizione di schiavitù: è lei quella a volerne  uscire. Non sono io a dire che deve farlo. E’ molto importante. Ogni donna deve dire che cosa vuole fare. Loro trovano in noi delle amiche, un gruppo politico, quello che volete, ma sono loro che devono scegliere.

PB: Vedi segnali di cambiamento negli atteggiamenti degli uomini?

MG: Non in Bolivia. Non vedo cambiamento nell’universo degli uomini. Vedo molto cambiamento in alcune parti dell’universo delle donne – perché non siamo tutte un pezzo unico, siamo complesse – ma non vedo quasi nessun cambiamento nel mondo degli uomini. L’uomo è in crisi profonda. Le donne stanno cambiando e gli uomini restano lì, non riescono a cambiare. Per esempio, qui c’è un grosso mercato della prostituzione. Chi si rivolge a quel mercato? Potrei mostrarti uomini giovanissimi e uomini vecchissimi che ne usufruiscono. Vedi minatori e professionisti che se ne servono, è solo una questione di prezzo. Puoi trovare una prostituta molto economica e una molto cara. Il mercato della prostituzione sta crescendo. Gli uomini vanno lì per comprare una donna. Non vedo alcun cambiamento in questo.

Che cosa succede agli uomini? Nel mio programma radio ho donne che parlano della violenza sulle donne. Ho aperto uno spazio per gli uomini per parlare della violenza sulle donne, ma nessun uomo vuole venire. Gli uomini vogliono parlare della rivoluzione, del prezzo della benzina o del gasolio, della rappresentanza politica, o della storia, ma non vogliono parlare di se stessi. E’ difficile chiedere loro di parlarne, come se fosse un’offesa, come una mancanza di rispetto.

PB: In Colombia ho visto un po’ di propaganda contro la violenza domestica – un cantante reggaeton o qualcosa del genere.

MG: Puoi vederlo anche in Bolivia, uomini famosi che sono pagati – non significa nulla. Il governo allestisce il suo teatrino con i soldi della cooperazione internazionale – non ci sono soldi dallo stato boliviano. Non è una cosa ben pianificata, solo una messinscena – molto facile a dirsi. Se si osserva l’uso delle donne nei mass media – mi fa schifo. Dovunque, per qualsiasi cosa, e senza limiti.

SG: Le donne in carcere – abbiamo parlato con una donna che lavora con le carcerate e abbiamo saputo che le donne possono tenere i figli con loro in prigione, che possono lavorare per guadagnare, che si autogovernano. Come vedi i programmi per le donne in prigione?

MG: Non ho una grande conoscenza delle prigioni. Ho iniziato una serie di programmi radio ogni quindici giorni da una prigione. Noi andavamo lì e le donne parlavano. Era fantastico, avevamo il permesso per dodici puntate, ma ne abbiamo fatte solo due. E’ vero, le donne possono tenere i bambini con loro in prigione. I bambini vanno a scuola e dopo tornano alla prigione. Dipende dalla loro età. Lavorano in prigione, ma non si tratta di programmi organizzati: il punto è che lo stato non ha soldi per la prigione e non vuole spenderne, vuole una prigione economica. Le donne lavorano perché, se non lo facessero, morirebbero di fame. Non potrebbero sopravvivere là dentro senza lavorare.

Il motivo per cui mi hanno tolto il permesso per fare più programmi è stato che le donne fanno il bucato, prendono nove boliviani ogni dodici pezzi. Da questi nove boliviani, la polizia prende qualcosa. Ma non avrebbe il permesso di farlo. Le donne ne hanno parlato alla radio e così tutti l’hanno saputo. Quindi hanno messo la donna che l’ha detto in isolamento, c’è stato un grosso scandalo, ed io ho perso la mia autorizzazione – basta programmi.

Potresti andarci. Se conoscessi qualcuno, potresti andare senza alcun permesso e dire che hai fissato una visita così e così e vedresti, hanno costruito una piccola società. Ma hanno due docce in centosessanta donne, e pagano per la doccia. Hanno due tipi di spazi. Uno spazio per dormire, per quello non devono pagare. Ma poi escono in un grosso spazio aperto tutto il giorno. In quello spazio hanno costruito posti per passare la giornata. Per averne uno devono pagare. Una donna che non ha un boliviano non ha un posto tutto il giorno. Tutto quello che hanno, è il prodotto della loro lotta.

Qualche consiglio musicale militante #1

The Casual Terrorist – Michel Foucault is My Favourite Skinhead

The Casual Terrorist vive in quel di Newcastle. Dice che beve troppo latte di soia al cioccolato, che è un artista a tempo perso, che gli piace leggere Foucault e che ama vedere poliziotti bruciacchiati. Qui il link per poter scaricare e/o acquistare canzoni ed album. Altre tracce consigliate: We Are Born For the Sea, This Universe Terrifies Me, Anarchists Make Better Lovers.

7 Seconds – Man Enough To Care 

http://youtu.be/gJJEHM_2BoU

Il testo parla per sé: All your life they told you, never shed a tear, cuz boys don’t crave affection / Boys ain’t got no fear / But did they ever show you how to shut those feelings on then off again / And now you gotta hide yourself, hide yourself away / Show you care and you might show the world that you’re only gay /Crying is for babies, for boys is it a sin /To be a caring, sharing, loving, human one. Altre tracce consigliate: Not Just Boys’ Fun, Racism Sucks, Young Till I Die.


Laura Jane Grace – Transgender Dysphoria Blues

Qualcun@ l’ha conosciuta in passato come Tom Gabel, il front(wo)man degli Against Me. Ora si chiama Laura Jane Grace ed è una meraviglia di donna. Altre tracce consigliate: Black Me Out (ma anche la sua produzione con gli Against Me).


Harum Scarum – Civilization’s Dying

Questa è una cover dei Zero Boys, ma preferisco la versione delle Harum Scarum.
Altre tracce consigliate: CCTV, The Fight Inside of Me, Fear.


L7 – Fast and Frighening

http://youtu.be/hCm32cE_XKo

Popping wheelies on her motorbike / Straight girls wish they were dykes / She’ll do anything on a dare / Mom and Daddy’s worst nightmare / Down at the creek smoking pot / She eats the roach so she don’t get caught / Throws her mini off in the halls / Got so much clit she don’t need no balls. Altre tracce consigliate: Pretend We’re Dead, The Masses are Asses, Bad Things.

 

Intervista ad Edmondo, professore libertario

banksyCon grande piacere vi proponiamo un’interessante intervista fatta ad Edmondo, professore libertario e autore del blog scuola libertaria, con la speranza che ciò generi dubbi su come stiamo educando i/le nostr@ bambin@ e sul ruolo reale della scuola tradizionale. Buona lettura!

1)  Cosa si intende per pedagogia libertaria? E quando e come è nata? Come la pedagogia libertaria si differenzia da quella tradizionale?

La tua prima domanda richiederebbe lo spazio di un’enciclopedia. Ogni bambino porta con sé un proprio progetto di vita, come anche proprie esigenze, proprie emozioni, proprie aspettative e desideri, una gamma di singolarità psicofisiche che lo rendono unico e irripetibile. Al contrario di quanto fanno le pedagogie autoritarie che operano opportunisticamente dall’esterno per omologare e annullare ogni individualità, la pedagogia libertaria si concentra sulle singolarità, rispetta le caratteristiche di ogni individuo, crea l’ambiente relazionale più consono affinché le attitudini possano emergere e svilupparsi. La pedagogia libertaria educa persone, non addestra sudditi. Ogni persona deve poter esprimere pienamente se stessa per diventare se stessa, e non qualcosa che altri hanno deciso. Quel progetto di vita che la natura ha fornito ad ognuno di noi deve potersi realizzare, e questa realizzazione si raggiunge soltanto attraverso un contesto libero, tra esseri umani liberi. In buona sostanza, la pedagogia libertaria educa a essere, non a dover essere.
Rispettare l’essere umano in quanto tale, nella sua totalità, di questo si occupa la pedagogia libertaria, e in questo senso la sua nascita affonda le radici nelle prime critiche all’esistente autoritario. Se ad esempio penso a un Diogene, non posso non vedere in lui uno dei primi educatori libertari. Tuttavia, il primo teorico a scagliarsi metodicamente contro l’istituzione scolastica tradizionale è stato il filosofo illuminista William Godwin. I suoi scritti -ancora oggi all’avanguardia- sono la reazione sintomatica di una malattia preesistente.

Leggi tutto “Intervista ad Edmondo, professore libertario”

La dignità dell’orango

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In Animal equality: language and liberation, Joan Dunayer afferma:

“Applicato all’essere umano, il semplice nome di un altro animale diventa insulto: ‘Tu sorcio, puzzola, serpe…’ Perché? Perché le altre specie sono ritenute inferiori.[…] Il linguaggio specista, oltre a supportare una gerarchia arbitraria che vede gli animali umani al vertice, afferma una falsa dicotomia tra animale e umano. Per quanto molte persone odino ammetterlo, SIAMO TUTT* ANIMALI. Ciononostante, l’epiteto ‘animale’ designa una persona che ha compiuto un atto particolarmente brutale (verso un’altra persona). Al contrario, proferiamo le parole ‘pienamente umano’ con un palpito di reverenza. I nostri occhi si appannano di fronte alla nostra peculiare umanità e il nostro autocompiacimento impenna. In tali momenti, dimentichiamo che la gorillità è più pacifica, la gufità più acuta visivamente, e l’apità più ecologicamente benigna. Le altre specie hanno capacità e qualità che a noi mancano, per quanto possiamo analizzare e inventare.”

Di sicuro, l’oranghità ha, tra le proprie caratteristiche peculiari, l’intelligenza e la dignità, caratteristiche che evidentemente mancano a taluni individui che, purtroppo, rappresentano vestigia di grettezza umana delle quali vorrei, con tutta me stessa, poter perdere la memoria.

Sarebbe bene però, che tutt* coloro che si sono indignat* nell’udire il termine ‘orango’ indirizzato alla Ministra Kyenge, fossero consapevoli che davvero la parte lesa è l’orango**. Sentirsi offes*, indignat*, sconvolt* dal nome di un altro animale utilizzato per designare un animale umano dimostra come, purtroppo, anche l’attenzione a talune forme di discriminazione ed oppressione, se non inquadrate in un’ottica intersezionale ed includente, non è sufficiente ad evitare di replicare, su altri piani, lo stesso ragionamento oppressivo dal quale sembra voler prendere le distanze. Il risultato è tornare a ragionare per dicotomie, opposizioni nette. Bianco/nero, bene/male, uomo/donna, umano/animale, superiore/inferiore, vincitori/vinti…ecc.ecc. L’incontro non avviene, differenza fa rima con diffidenza, le comunicazioni cessano. Lo scontro diventa – nuovamente – inevitabile.

Tutto questo può essere evitato rifiutandosi di parlare la lingua del dominio, e di alimentare continuamente quello scontro creato ad arte di (apparentemente) opposti valori.

Come affermava Virginia Woolf in Craftmanship riguardo alle parole:

“Tutto quello che possiamo dirne è che sembrano preferire le persone che pensano prima di usarle, e che sentono prima di usarle […] Detestano essere utili; detestano fare soldi; odiano le conferenze. In breve, detestano qualsiasi cosa che le fissi in un significato o che le confini ad una posa, perché è nella loro natura cambiare. Forse è questa la loro caratteristica più sorprendente – la loro necessità di cambiamento. Poiché la verità che cercano di catturare ha tanti aspetti, e la trasmettono rimanendo sfaccettate, mettendola in luce prima in un modo, poi nell’altro. Così significano una cosa per una persona, un’altra cosa per un’altra persona; sono inintelligibili a una generazione, chiare come la luce del sole alla successiva. Ed è a causa di questa complessità, questo potere di significare cose diverse per differenti persone, che sopravvivono.”

Per questo sono convinta che essere paragonat* ad un orango non sia un’offesa… ancor di più quando il termine di paragone umano che ha proferito tali parole è… quello che è.

L’orango, che è stato unanimemente – e in maniera assolutamente bipartisan –  preso a termine di paragone quale essere inferiore. Potere del linguaggio specista.

Certo, l’intento era chiaro: offendere, provocare, ecc.ecc. E sappiamo anche bene da quale retaggio profondamente razzista proviene l’accostamento (le pseudo-teorie del razzismo scientifico che consideravano i neri come stadio evolutivo intermedio tra le scimmie e gli esseri umani, partendo però, per chi non se ne fosse accort*, dal pregiudizio specista menzionato nella citazione di Joan Dunayer) … si capisce perciò anche la reazione ad una simile affermazione.

Ma se quella frase ha colto nel segno, se il termine orango è salito alla ribalta su tutte le maggiori testate come imperdonabile offesa, non è soltanto per il suo passato razzista (della parola e di chi l’ha proferita), ma soprattutto perché chiunque, in un mondo specista, riconosce il nominare una persona con il termine che designa un animale non umano tra i peggiori insulti.

** E non perché, come ha asserito l’assessore regionale alla protezione civile del Veneto, Daniele Stival, sul proprio profilo Facebook “Riteniamo vergognoso che si possa paragonare un povero animale indifeso e senza scorta a un ministro congolese”. Sembra superfluo puntualizzarlo, ma già che ci siamo preferiamo mettere i puntini sulle i, e rincarare la dose chiedendoci come sia possibile che, in questo paese, figure pubbliche possano esprimersi in tale maniera senza pagarne alcuna conseguenza.

Un lunedì qualunque

Giannini_Fronte_Uomo_Qualunque

Ci sono alcuni lunedì più pesanti di altri. Questo lo è, per via di quello che è successo nel fine settimana. Che si è sommato a tante altre cose già successe. Continuo a vedere nella cultura di questo paese il suo “grosso problema”: non perché viene prima di tutti gli altri, ma perché è il terreno sul quale crescono tutti gli altri. Finché questo terreno non lo risaneremo – e ci vorranno anni, generazioni – gli altri problemi non finiranno. E prima o poi, da qualche parte, bisognerà cominciare. Verrà, prima o poi, un lunedì migliore.

Ciao, sono un giovane scrittore che ha stampato il suo primo romanzo con un grandissimo editore di un grandissimo gruppo editoriale, ma non mi si è filato nessuno. Allora scrivo un articolo pieno di scemenze e banalità mescolando temi che fanno sempre tanto parlare – ragazzine, sesso, femminismo, moralismo – e adesso tutti sanno il mio nome. Con l’occasione lo scrivo pure su un giornale da rilanciare un po’, e siamo tutti contenti.

Ciao, sono un demente complottista che preferisce infilare i fatti negativi uno dietro l’altro tratteggiando oscuri e fantomatici disegni di gigantesche potenze mondiali piuttosto che prendermela di petto con lo stronzo del momento. Mi masturbo pensando alla mia intelligenza superiore che vede e sa cose che gli altri ignorano, così posso godere dell’altrui frustrazione chiuso nel mio piccolo mondo fatto di niente, felice di aver capito tutto e di scegliere i rapporti umani in base al tasso di complottità dei soggetti.

Ciao, sono un vecchio politico ipocrita, volgare e bollito di un partito che pochi mesi fa era al governo e adesso ha racimolato a stento il necessario per stare in Parlamento, a parte nella regione nella quale (e per la quale) è nato. Siccome serve dare un segno di vita, mi metto a dire che un nostro ministro di colore mi ricorda un orango*, così tutti tornano a parlare di me e i giornalisti prezzolati possono dire che il mio è un modo di dare voce a un sentimento diffuso.

Ciao, sono un dirigente d’azienda del ’34 che ha svolto soprattutto incarichi di risanamento per grandi gruppi in fase di crack o simili. Ho anche ricevuto incarichi direttamente dal Presidente del Consiglio. Negli ultimi tre mesi sono stato scelto dai proprietari dell’ILVA come amministratore delegato, poi mi sono dimesso perché l’azienda è stata sequestrata dai magistrati, e allora il Presidente del Consiglio (un altro, non quello di prima) mi ha fatto commissario della stessa azienda. Ho fatto subito presente che a Taranto si muore soprattutto a causa di fumo e alcool.

Ciao, siamo un gruppo di persone che ha imparato molto bene certe strategie di comunicazione politica e di politica spicciola da un politico italiano di grande successo, e ora ci campiamo alla grande spacciandoci per essere gli unici liberi di dire la verità, tutta la verità, nient’altro che la verità – quella di chiunque, ovviamente, perché per noi il pluralismo e la democrazia significano dare credito a qualunque stronzata. Purché pubblicata sul nostro giornale, nei nostri libri, sui nostri siti, democraticamente diretti.

Ciao, io sono uno stronzo che: ci sono altri problemi più importanti; le cose sono sempre andate così; il femminismo è un fondamentalismo, come tutti gli “-ismi”; le mie sono critiche costruttive; non sono fascista, sono loro i violenti, andrebbero ammazzati tutti; una volta era meglio; non ho nulla contro i gay ma l’esibizionismo è una violenza pure quella; così facciamo piangere Gesù; fuori va bene, ma dentro casa mia certe cose non le tollero.
E permetto a tutti quegli altri, sopra, di diffondere la loro cultura.

Potete continuare con esempi qualunque, se vi va, qui sotto nei commenti.

* ricordo a chi non sa cosa sia lo specismo che dare dell’orango a qualcuno non è un insulto, anche perché in Parlamento ci starebbe senz’altro meglio che una merda (cit. Feminoska, che ringrazio). Il problema è che questo serve a fare rumore mediatico. Che rumore fa una merda? Appunto.

Nel corpo. Lettera di una ex detenuta

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Diffondiamo una lettera scritta recentemente da una ex detenuta delle Vallette ripubblicata da Macerie, che racconta la sezione femminile del carcere, l’oscenità della repressione. Quella faccia della “giustizia” legale che tortura, rinchiude e punisce con ottusa crudeltà.
Negare la libertà non si può realizzare con quattro stupide mura ed ecco che li interviene l’Istituzione, creando regole, limiti, negazioni continue di tutto ciò che è essere se stesse, che è bellezza e creazione di legami sociali con individui umani e non. Di tutto ciò che è lotta.

Libere tutte!

«È nel corpo che si sente la sofferenza immediata del carcere. Vi racconto le piccole materialità che traumatizzano le membra e fanno del carcere di Torino una delle galere più invivibili (a detta di chi di galere ne ha girate molte e a lungo).
Nel femminile, diviso in 4 sezioni, sono collocate circa 200 donne, 2 in ogni cella.
Le celle sono piccole e scure, hanno dimensioni di 4 metri per 2 nello spazio abitativo che dispone di un letto a castello, un tavolino a muro, 2 sgabelli -se si è fortunati- e 4 piccoli pensili. Il bagno è di dimensioni 4 metri per 1 con water, lavandino e bidet. In cella non c’è acqua calda, che è invece fredda e terribilmente terrosa. Se lasci la moka bagnata il giorno dopo puoi scorgere la traccia grigiastra lasciata dall’acqua. Se le due concelline non sono entrambe smilze e piccoline è quasi impossibile muoversi contemporaneamente senza toccarsi e intralciarsi.
Le finestre sono piccole e basse, infossate verso l’interno e circondate da sbarre e da una grata a maglia fine (messa dopo la protesta delle lenzuola). L’aria già riciclata dall’esterno, chiusa dalle alta mura dei vari perimetri, non riesce a circolare e ad arieggiare la cella. Chi ha problemi di claustrofobia ed asma ne patisce molto.
Di conseguenza il minimo da pretendere è che le celle rimangano aperte, mentre c’è la possibilità di uscire dal proprio cubicolo solo 4 ore su 24.
Dalle 9 alle 11 della mattina c’è la possibilità di uscire all’aria, in un cortile spoglio con alte mura e nessuna fontana. Nello stesso orario è concesso fare il bucato e la doccia con l’acqua calda in un unico locale che dispone di 3 docce e un lavandino. Solo 3 persone alla volta possono recarsi a fare la doccia, in sezione si è in 50 donne.
Al pomeriggio la stessa storia. Dall’una alle tre c’è l’aria e ci sono le docce aperte. Se non si fa né l’una né l’altra si rimane chiuse.
All’aria c’è una rete di pallavolo e due porte barcollanti da calcio, ma c’è solo una palla bucata e sgonfia con cui oltre che calciarla per scaricare il nervoso non si può fare nessun gioco.
In più le guardie portachiavi riducono il tempo d’apertura. Ad un quarto aprono e a meno un quarto chiudono, mai all’orario giusto.
Riassumendo… la concomitanza degli orari dell’aria e della doccia riduce il tempo di stare all’aperto e crea l’impossibilità di fare entrambe le cose. Le docce sono poche e fanno schifo, il soffitto è giallo dall’umidità e sgocciola, l’acqua troppo dura fa squamare la pelle, lo spazio per l’aria è triste, troppo assolato e senza fonti d’acqua corrente durante l’estate, senza riparo per l’inverno. Una bella lista di ovvi motivi per lottare. I tempi e gli ambienti delle ore d’aria sono fondamentali per un minimo di sopravvivenza possibile.
Rispetto alla possibilità di fare movimento e sport… ecco non c’è nessuna possibilità.
Esiste una palestra, inagibile da oltre un anno. Hanno aperto un corso di pallavolo per 15 persone che hanno fatto richiesta e dopo mesi sono state chiamate a partecipare.
L’inattività, causata da mancanza di strutture e mezzi, facilita il corpo a sformarsi, a deprimersi di più, a non avere la stanchezza sufficiente per dormire, a trattenere il nervoso, il malessere e la mente affranta. Gli spazi ci sono e dovrebbero essere utilizzati. Ma possiamo aspettare che qualcuno ce li conceda per generosità o sarebbe ora di esigerli con forza?
Per ogni malessere non fisico il carcere propone la Terapia. La visita dallo psichiatra è quella più suggerita dalla direzione carceraria e la somministrazione di farmaci consigliata dallo psichiatra la più generosa.
La maggioranza delle detenute utilizza psicofarmaci per affrontare la sofferenza e l’insonnia. Il carrellino dell’infermeria passa tre volte al giorno per dispensare anestetici all’angoscia della carcerazione.
Per i mali fisici, per qualsiasi male, c’è il Brufen. Mal di collo, Brufen, mal di schiena, Brufen, mal di denti, Brufen… e così via.
Il personale medico non pare così professionale, a volte di fronte a non ovvi malesseri si destreggia nello sperimentare miscugli di farmaci. Al femminile ho visto donne gonfiare con il passare degli anni (io sono entrata più volte per brevi soggiorni), altre dimagrire di molti, molti, molti chili, altre mi hanno raccontato di terribili mali a causa di cure dentistiche errate e rimedi bestiali, siringhe di miscugli di antidolorifici intramuscolo. (se hai male ai denti è la fine. Il dentista in carcere fa schifo, se si sta anni dentro con qualche problema ai denti si rischia di uscire sdentate).
Ricordo che lo scorso Natale nella sezione maschile è morto un detenuto per una terapia sbagliata. Il caso è rimasto all’oscuro. Qualche suo compagno di sezione ha protestato per l’accaduto, ma come risposta ha ricevuto un immediato trasferimento in un altro carcere. I tentativi di zittire chi prende il coraggio di raccontare non devono scoraggiare. Affinché questi episodi non colpiscano più chi è costretto all’interno di un carcere, per la propria incolumità, le violenze, gli abusi e la negligenza di chi gestisce queste gabbie dovrebbero essere diffuse il più possibile e la vigilanza di chi è dentro dovrebbe essere al massimo grado, altro che psicofarmaci.
I problemi di salute derivano anche dall’alimentazione.
Il cibo che passa il vitto è abbondante, ma spesso è immangiabile e misterioso. Nei carrelli della casanza si sono visti frittate spugnose, sughi di carne e hamburger verdi, pasticci di patate acidi, riso sempre crudo e uova vecchie. Chi non ha soldi, chi vive da anni senza alcun legame con fuori o con una famiglia indigente impossibilitata ad aiutarla, oppure chi si è vista arrestare e sequestrare le proprie cose sospettate de essere i proventi dell’attività illecita commessa, si vede costretta a doversi cibare principalmente del cibo che passa il carcere. Diventa impossibile concedersi quei piccoli vizi che ti renderebbero un po’ più lieta, e allora rimandi tutto al desiderio.
L’amministrazione offre a chi non ha soldi 15 euro al mese. Con 15 euro puoi comprarti un pacco di caffè, un pacco di carta igienica, uno shampoo, un bagnoschiuma, un pacco di assorbenti, un pacco d’acqua da 6 bottiglie e un dolcino di quelli economici. E i francobolli? Le buste? Una penna? Una bottiglia d’olio per condire l’insalata? Sei poverella? Mangi insipido e sei costretta ad elemosinare i bolli.
I prezzi dei prodotti della spesa sono in continua variazione, solitamente in crescita. Si sospetta che i prezzi siano aumentati rispetto ai prezzi del supermercato, a volte la cosa risulta palese, quando il prezzo originario è ancora appiccicato sulla scatola da dove vengono distribuiti i prodotti. Dove va quel sovrapprezzo? Ad alimentare l’amministrazione carceraria che si lamenta di mancanza di fondi e di scarsità di strumenti? Secondo le normative i prezzi della spesa in carcere dovrebbero essere uguali alla prima area di commercio al di fuori. Risulta difficile capirlo visto che non esiste un elenco noto con la lista di tutti i prodotti disponibili elencati con relativo prezzo precisato. Quindi altro che mantenuto dallo Stato come suole dire la gente indifferente, il carcere è mantenuto dalle stesse detenute che inoltre lo puliscono in cambio di una paga misera e ancora più misera se hai una pena definitiva, dai soldi dello stipendio ti tolgono le spese del vitto e dell’alloggio carcerario.
Altra privazione che è degna di nota è l’impossibilità di tenere il fornellino in cella per 24 ore. Esso viene ritirato alle 9 di sera alla chiusura dei blindi e ridato alle 7 del mattino. E se qualcuna insonne volesse farsi una camomilla oppure degli spaghetti aglio, olio e peperoncino? O se qualcun’altra è mattiniera e vuole bersi il caffè alle 5? “I fornellini non rimangono nelle celle perché alcune detenute sniffano il gas” questa è la scusa che hanno utilizzato le guardie, l’ispettrice e i colleghi civili, mettendo le detenute le une contro le altre, sniffatrici di gas contro cuoche notturne. E perché non incazzarci con chi ha deciso di togliercelo? C’è chi tre volte al giorno somministra terapie stordenti, chi chiude e rinchiude con mille mandate porte che ci fanno soffocare, che portano al suicidio… si preoccupano che con del gas una si possa stordire e così giustificano il fatto che ci possono levare tutto?
Non sarebbe ora di smettere di essere trattate da scolare monelle, ma di comportarci come donne dignitose che si incazzano e si riprendono quello di cui hanno bisogno?
In carcere si sopravvive grazie agli incontri. Nonostante la storie completamente differenti si trovano donne con le stesse paure e la stessa voglia di libertà. C’è sempre una storia divertente o colma di sfighe che vale la pena di essere ascoltata. A volte nascono discussioni su vicende avvenute nel trantran quotidiano, sui fatti di cronaca con punti di vista strampalati, su sogni su fuori, su vicende del passato, su lamentele sullo schifo del carcere. Non c’è mai tempo però per parlare a lungo. Le ore d’incontro sono quelle d’aria, da far incastrare con la doccia e due ore la sera di socialità (si può stare in 4 in cella). È poco il tempo per superare la superficialità delle cose che si dicono, per iniziare a dire le cose che si pensano, non sufficiente per concluderle. Proprio impossibile invece è comunicare con le altre sezioni dello stesso braccio. Al femminile si sono solo quattro sezioni una vicina all’altra ma è come se fossero distantissime, se sei in terza non sai quasi nulla di quello che succede in prima e sono una sull’altra.
È vietato ogni tentativo di comunicare. Se urli troppo dalla finestra per parlare con una tua amica che è in un’altra sezione vieni rimproverata. Con il maschile nel 2011 esisteva ancora la posta libera, senza dover mettere i francobolli. La corrispondenza era fitta, nascevano rapporti epistolari d’amore e c’era l’opportunità di scambiarsi informazioni sulle differenti situazioni di detenzione, di far girare notizie di maltrattamenti e ingiustizie, di tirar su il morale di uno/a sconosciuto/a. Oggi le lettere interne bisogna spedirle, e il tempo di una risposta può essere anche di due settimane, perché l’attesa di una missiva che esce dal carcere ha inspiegabilmente questa durata. Riducendo al minimo l’incontro fisico con le compagne di detenzione, aumentando le distanze tra sezioni differenti, tra maschile e femminile, tra dentro e fuori i legami sono più fragili, aumenta la sensazione di isolamento, diminuisce la possibilità di far girare notizie di maltrattamenti, pestaggi o iniziative di protesta che se comunicare velocemente potrebbero avere una simultanea reazione solidale nelle altre parti del carcere e fuori.
Ma per superare le difficoltà di comunicazione, e gli ostacoli che l’amministrazione penitenziaria frappone internamente tra i detenuti e tra i detenuti e il mondo di fuori è necessaria la consapevolezza che la solidarietà e la determinazione individuale e collettiva sono gli unici strumenti che abbiamo contro le violenze, gli abusi e le umiliazioni che subiamo quotidianamente. Se ci lasciamo drogare tutti i giorni, se accettiamo passivamente le condizioni in cui ci costringono a vivere, se continuiamo ad essere isolate e indifferenti perdiamo la dignità che sola ci rende libere tra quelle mura e non costruiamo nessuna ancora di salvataggio a cui aggrapparci per resistere al mare aperto in cui siamo esiliate.
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macerie @ Luglio 8, 2013

Transgenitorialità: intervista ad Egon

 Siamo felici di potervi proporre un’interessante intervista fatta ad Egon, genitore transessuale, che ha, gentilmente, accettato di rispondere a delle domande sulla transgenitorialità, argomento di cui si parla, si legge e quindi si conosce ben poco. Buona lettura!

Happy-Families copia

1) Quando è iniziata la tua transizione?

Ufficialmente la mia transizione è iniziata nel 2011, con la presa in carico del mio caso da parte dell’ospedale Careggi di Firenze, dove, presso il reparto di endocrinologia, c’è un centro specializzato nei “disturbi di genere”.  In realtà quello è stato solo il momento in cui ho scelto di affrontare questo mio sentire, che in realtà mi ha accompagnato, in vari modi e in varie fasi, per tutta la vita. Il mio rapporto con quello che credevo fosse la mia parte oscura, ha un’immagine ben precisa: era come se dentro di me ci fosse una porta, con scritto sopra a caratteri cubitali, “non aprire”, ed io mi ero attenuto a questo divieto, girandoci solo intorno, spiando dalla serratura, finchè un giorno la porta si è spalancata, e quello che è uscito fuori non è più voluto rientrare. Il divieto che mi impediva di oltrepassare quella soglia e conoscerne il contenuto era fatto di paura, paura di essere troppo diverso, di perdere tutti gli affetti per colpa di questa diversità inconcepibile, di perdere i miei genitori, di perdere la possibilità di vivere nel mondo, nella società e di morire quindi solo e abbandonato, nella indigenza più assoluta.  Quindi evitavo di domandarmi perchè, fin da piccolissimo, avrei voluto essere un maschio, perchè nei miei giochi di fantasia io fossi esclusivamente un personaggio maschile, perchè, quando scendeva la sera, io non vedevo l’ora di andare a letto e giocare, così disteso, ad essere un ragazzo, ed inventare da fermo strane avventure. Poi venne anche la scrittura, ed anche nelle mie storie io ero sempre un eroe maschile. Alla fine cominciai a vedere, nella mia immagine riflessa allo specchio, quella di un mio doppio maschile, che mi guardava beffardo ed inarrivabile, una specie di fratello cattivo che mi tormentava con la sua bellezza…stavo lunghi momenti ad ammirarmi schiacciandomi il seno, estasiato dal mio busto piatto…  Come donna mi sentivo completamente inadeguata, disarmata, non capivo le regole e le necessità della socializzazione al femminile, e detestavo ed invidiavo al contempo le rappresentanti del mio sesso biologico che sembravano invece padroneggiarla con disinvoltura…qualche volta fingevo di essere come loro…  Mi piacevano i giochi maschili, fisici, o i giocattoli come le macchinine, mentre detestavo le bambole…quando ad 11 anni ho voluto le prime barbie, facevo finta che fossero ragazzi e creavo storie complicatissime che li vedeva protagonisti.  Ho creduto spesso di essere pazzo, schizofrenico e piangevo molto: mi chiudevo nella mia camera e piangevo per ore, inconsolabile, sentendomi assai solo. Odiavo di me anche questa necessità irrefrenabile di piangere, salvo scoprire molto più tardi che questa capacità mi ha salvato, facendo sfogare fuori tutto questo mio mondo interiore che non capivo e di cui ero profondamente spaventato ed imbarazzato.  Ho vissuto alcuni anni da lesbica bucht, sentendomi bene perché le “mie” donne mi trattavano da uomo, ma anche in questa esperienza c’era qualcosa che mi metteva a disagio, c’era qualcosa di falso, di incompleto. Oltretutto a quei tempi il mondo lesbico era assai separatista, ed io che mi dichiaravo bisessuale ( l’unica cosa di cui sono stato sempre sicuro) venivo visto come un traditore, un insicuro. I bisessuali non erano concepiti allora nel mondo omosessuale, c’era il detto “bisex now, gay later”. Poi è cominciato il tentativo di adeguarmi, di cercare di vivere secondo quello che il mondo si aspettava da me. Ho conosciuto, sul lavoro, un ragazzo più giovane di me, un ragazzo di cui avevo molta stima, bravo nella sua attività, onesto, intelligente e di un moralità assai rigida. Nonostante la nostra diversità, un giorno lui mi disse che si era innamorato di me. Mi cascò il mondo addosso: avevo raggiunto un equilibrio, in quel momento ero single ed avevo una vita sessuale abbastanza libera, il lavoro andava bene, il divertimento anche…ma a quel ragazzo così onesto, così per bene, ricco, come potevo dire di no, sottrarmi a questa fortuna? Era come un treno che passava ed io dovevo montarci per forza. Lui si stabilì nella casa che io avevo in affitto ed abbiamo avuto una storia di 9 anni: ci siamo sposati, abbiamo fatto due bambini che io desideravo, abbiamo creato un’attività insieme, ma quella persona, che per me rappresentava la stabilità che io non avevo, il punto fermo di affetto incrollabile che io cercavo non avendolo trovato nei miei genitori, era sopratutto una gabbia.  Lui ha creato intorno a me una prigione, talmente soffocante da essere, credo, il detonatore che ha aperto per sempre quella porta che fino ad allora non mi ero deciso ad affrontare. Quando ho ricominciato, a 39 anni , a vivere solo nel mio mondo di fantasia, a fare finta di essere un uomo, ho finalmente accettato di indagare quello che  stavo facendo, a volergli dare un significato.  Tra l’altro, per resistere alla quotidianità, avevo cominciato a bere. Mi rivolsi dapprima ad una terapeuta con cui ebbi il coraggio di parlare del maschio che viveva dentro di me e da lì presi la decisione di rivolgermi ad un centro specializzato.  Ero spaventatissimo, ma ero anche stanco di scappare. Così, al Careggi, ho affrontato 9 mesi di incontri con gli psichiatri; mi sono stati somministrati test lunghissimi per valutare la “disforia di genere” (questo è il termine per il transessualismo), per fare diagnosi differenziate, mi hanno dato psicofarmaci per combattere l’ansia e la depressione che avevo (che ho accettato di prendere solo per amore dei miei figli, perchè non volevo che mi vedessero più piangere disperato per ore), ed alla fine dei 9 mesi è stata “emessa” la diagnosi di transessualismo.  Così mi sono potuto rivolgere all’endocrinologo (che fa sempre parte dello staff del centro specializzato) per avere la cura mascolinizzante, a base di testosterone, che pian piano ha modificato il mio corpo: sono cresciuti i peli, i muscoli, il viso si è scavato, il grasso spostato, il clitoride è aumentato di volume, così come la libido. Dopo un anno e mezzo di ormoni (che comunque dovrò prendere per tutta la vita) e dopo un iter lunghissimo al tribunale, mi sono operato di mastectomia (rimozione del seno) all’ospedale Cattinara di Trieste.

Per “finire” il percorso, e cambiare i documenti, dovrò anche fare l’isterectomia. Contestualmente a tutto ciò è stato per me fondamentale il lavoro psicologico fatto con la psicologa del consultorio Trans Genere di Torre del Lago, che mi sostiene dall’inizio del percorso e che è una delle mie principali risorse per affrontare tutte le difficoltà di questo lungo cammino.

2) Quando hai iniziato il tuo percorso FTM eri già genitore di due figli: avevi paura della loro reazione rispetto al tuo cambiamento? E se sì come sei riuscito a superarla?

Quando ho iniziato la transizione mia figlia aveva 3 anni e mio figlio 5. Loro stati la roccia dura su cui io ho potuto appoggiare i piedi…tutto intorno a me franava e l’unica cosa certa era la loro presenza, il fatto che, così piccoli, loro avevano bisogno di me, della loro mamma, e che questa mamma funzionasse.  Non riuscivo a vedere niente del mio futuro, l’unica immagine che mi teneva a galla era quelle di me, transizionato, che crescevo i miei figli, in un posto mio, con la fatica del mio lavoro, qualsiasi fosse.  Per loro, come ho detto, ho accettato di prendere, per un periodo, antidepressivi ed ansiolitici, perchè non potevo continuare a farmi vedere da loro disperato come lo ero in quel  momento, senza la capacità di riprendermi.  Il fatto di avere avuto l’esperienza di una mamma depressa, mi è stato da memento: quando la madre soffre i bambini non possono stare bene. Inutile rimandare o non fare delle scelte per proteggere i bambini, quando poi queste cose ti schiacciano e ti impediscono di vivere serenamente il ruolo di genitore. Avevo però enormemente paura per loro, credevo che avrei potuto creargli dei danni permanenti vedendo la loro madre trasformarsi sotto i loro occhi, e le persone intorno (nonni, zie) rinforzavano questa mia paura ed alimentavano in tutti i modi i miei sensi di colpa, facendomi sentire un genitore indegno e cattivo. E’ stato solo per l’intervento della psicologa del consultorio se sono andato avanti. Lei mi ha fatto lavorare lungamente su me stesso e mi ha fatto capire che i miei figli non correvano alcun pericolo, gli unici problemi sarebbero venuti caso mai dall’esterno, dall’impatto con la società non matura per accettare certi fenomeni esistenziali. All’inizio non le credevo, ero terrorizzato per loro, fui sul punto di tornare indietro, ma il rapporto terapeutico era solidissimo e io mi sono affidato a lei ed il tempo le ha dato ragione.

3) Aldilà delle tue paure, come in effetti i tuoi figli hanno poi vissuto la tua scelta? Come hanno vissuto il tuo cambio di nome e di aspetto? Hanno avuto problemi a scuola, tra gli amici/che?

La psicologa che mi segue mi aveva dotato di semplice regole per affrontare la transizione con i miei figli: essere sinceri, non confonderli e continuare a svolgere il mio ruolo di madre, fargli sentire che la loro madre era sempre lì, che non se ne sarebbe andata via anche se cambiava aspetto.

In effetti è proprio questo di cui hanno paura i bambini piccoli: se un genitore cambia, il genitore va via.

Così vanno sempre rassicurati su questo punto, fargli sentire tutto il nostro amore per loro, fargli sentire che questo dato non  cambia, anche se la mamma non ha più le trecce ma i capelli rasati.

Un altro consiglio era quello di aspettare sempre le loro domande e poi spiegargli come stavano le cose.

Quindi i miei bambini hanno cominciato a chiedermi perchè le persone mi chiamassero con il tal nome e non più con il nome che loro avevano conosciuto sino ad allora e perchè mi dessero del maschile. Io ho spiegato tutto con tranquillità e sincerità, mettendogli a parte dei miei sentimenti. Loro adesso sanno e comprendono chiaramente che la loro madre si “sente” uomo pur essendo nata in un corpo femminile, che gli ha permesso di essere la loro madre, e che per questo suo sentire ha cambiato delle cose fisiche, come avere più muscoli e più peli ed aver tolto il seno. Benchè vedano questo chiaramente, nella percezione che hanno di me nulla è mutato, perchè per loro io sono sempre la stessa mamma, che si cura di loro, li ama e li protegge e a cui loro sono attaccatissimi.

Per adesso non hanno avuto nessun tipo di problema, né a scuola né con il resto della famiglia, ma non dubito che questo momento arriverà, cosa di cui ho una grande paura e di cui mi sento responsabile, ma ho anche imparato a non preoccuparmi delle cose prima che accadano perché spesso sono assai diverse da come ci si immagina.

4) Puoi raccontare qualcosa riguardo i cambiamenti – se ci sono stati – nel tuo linguaggio e in quello che sentivi attribuito a te dagli altri? In questo senso cos’è accaduto con le istituzioni e nelle occasioni pubbliche (riunioni tra genitori a scuola, sul luogo di lavoro, palestra/supermercato/bar…)?

Mi stupisco sempre del fatto di come mi sia venuto naturale, da subito, parlare di me al maschile dopo quasi 4 decenni di socializzazione al femminile; saranno state le ore e ore di gioco protratto fino, ed anche oltre l’adolescenza, in cui mi “immedesimavo” nella parte del maschio, cercando di modularne anche la voce ( e che gioia il fatto che adesso la mia voce sia effettivamente maschile, senza sforzo né finzione). Per le persone intorno, invece, è determinante l’aspetto fisico e l’abitudine. Quando ti cresce la barba e non hai più il seno, diventa difficile che qualcuno ti dia del femminile. Per me il passaggio definitivo, il momento in cui al di fuori il tuo aspetto non dà adito a dubbi, è coinciso con la mastectomia, la rimozione del seno. Da quel giorno, per il mondo, sono un uomo.

In famiglia invece è diverso. I miei figli continuano a chiamarmi mamma e a darmi del femminile, cosa che ritengo nel loro pieno diritto e che non mi disturba, ed anche i miei genitori hanno enormi difficoltà ad abbandonare il concetto di me come donna, come loro figlia. La mastectomia ha comunque segnato però un passaggio anche in  questo caso, con mia madre che comincia almeno ad affrontare il “problema” del mio nuovo nome e genere, mentre prima dichiarava che non avrebbe mai smesso di chiamarmi con il mio nome di battesimo e mai mi avrebbe considerato un uomo.

Nel luoghi “istituzionali”, quelli cioè in cui hai bisogno di esibire il tuo nome anagrafico, quindi tutto ciò che a che fare con la burocrazia, che sia un ufficio postale, una banca, una richiesta medica, si creano situazioni che possono avere del comico o essere tragiche per chi le subisce.

Comunque il passare da essere considerato donna a essere percepito come uomo, porta con sé dei cambiamenti che sono molto interessanti per far emergere come ancora la nostra società non sia egualitaria tra i sessi. Agli uomini ci si rivolge più volentieri, più direttamente, si scelgono come interlocutori privilegiati, e non devono subire lo sguardo indagatore degli astanti, che ti fanno sentire perennemente preda e sotto esame.

5) Credi che l’età dei figli possa giocare un ruolo importante nel modo in cui si apprende la scelta di transizione di un proprio genitore? Oppure è solo una questione di educazione/cultura, ovvero che, se questa società non fosse così transfobica (oltre a tante altre cose), la questione del possibile “trauma” non sussisterebbe?

Secondo me è impossibile ragionare di società altre rispetto a quella in cui viviamo e di cui dobbiamo subire/agire le dinamiche. Molto probabilmente se la nostra società non fosse transfobica, non ci sarebbero differenze di reazione di fronte ad un genitore transessuale dipendenti dall’età della prole.

Dal momento invece che nel “nostro” occidente, la transessualità è spesso considerata un evento imprevisto e dissacrante, non sano, non umano, non “naturale”, al di fuori di ogni convenienza e convinzione, l’età del figlio è determinante per accogliere la notizia che sua madre o sua padre sono transessuali.

Un bambino piccolo è ancora fluido, le rigide categorie della nostra normatività non sono ancora monoliti cristallizzati. Se il vissuto dell’esperienza del genitore transessuale viene raccontato ed esperito con serenità, diventa un dato del reale assolutamente tranquilizzante, come ogni altra caratteristica del genitore. Se la mamma ed il papà sono buoni genitori, se mantengono il loro ruolo di figure accudenti e di riferimento, al bambino/a non importa che forma abbiano.

Quello che al bambino interessa è che i genitori siano fonte di amore, cura e sicurezza.

Fondamentale è quindi restare vicino ai bambini nel proprio ruolo e esprimersi con i bambini con sincerità e chiarezza su quanto sta succedendo. Non bisogna imbrogliare i bambini, bisogna metterli a parte di quello che mamma o papà stanno facendo, aspettando però che siano loro a chiedere spiegazioni.

Sicuramente i problemi verranno poi da fuori, quando i bambini/e potranno essere derisi per il genitore “diverso”. Compito della famiglia credo sia allora quello di rendere i/le piccol* forti e preparat* a questa evenienza, e forse questa precoce esperienza della diversità in seno alla famiglia, anzi proprio in una figura amata, possa dare una marcia in più ai nostri figli/e.

Arriva un momento che i bambin* possono essere derisi per tutto, perchè grassi, o con il naso lungo, o troppo bassi o troppo alti, perché portano gli occhiali o l’apparecchio…avere visto come ci si confronta in modo positivo con la diversità in un mondo non troppo accogliente può rendere questi bambini/e più saggi e forti.

6) Oltre all’aiuto di esperti, cosa credi si possa fare per aiutare chi ha già dei figli e vuole transitare o chi ha già intrapreso questo percorso e desidera avere dei figli? Esiste una rete per la trasgenitorialità dove trovare info e supporto necessari?

Credo che, come in ogni altro momento della transizione, il confronto tra pari sia fondamentale. Spesso i cosiddetti “esperti” non sono affatto preparati su certi argomenti, tanto che a molti genitori transessuali dicono essere casi rari e difficili, salvo poi scoprire un grande numero di genitori transessuali  (certo una minoranza rispetto ad una norma e rispetto anche alle persone transessuali in genere). Per questo considero l’esperienza di mettersi in rete tra genitori transessuali molto interessante ed è quello che ho cercato di fare io sin da subito. Ho così conosciuto tante madri e tanti padri trans, tante esperienze da scambiarci che ci hanno aiutato a superare i momenti difficili. Infatti il mutuo aiuto può essere uno strumento validissimo, chi ha già affrontato e risolto certe situazioni con i figli/e, può mettere la sua esperienza a servizio degli altri. Non si tratta di sostituirsi a certe figure e fare terapie, ma “solo” di raccontarsi con apertura, umiltà e responsabilità e mostrare come “ce l’abbiamo fatta”. Un momento assai importante per me di questa rete è stato quanto sono stato invitato a unirmi alla “rete genitori raimbow”, associazione di volontariato presente in varie regioni d’Italia, che ha lo scopo di supportare i genitori che hanno avuto figli/e da precedenti relazioni etero.

7) In Francia una legge permetterà alle coppie gay e lesbo di sposarsi e adottare dei figli. In Italia questo non è ancora possibile ma quando se ne parla si declina il tutto rispetto all’omosessualità e il lebismo. Perché pensi che le persone trans siano escluse e come ti poni rispetto alla possibilità di allargare tali diritti anche per i/le trans?

L’immagine comune della persone trans, oltre al fatto che sia una prostituta, è quella di una persona omosessuale e che ripudia le sue caratteristiche genitali, per cui un candidato impossibile alla genitorialità. Quale donna che si sente uomo potrebbe accettare una gravidanza e quale uomo che odia il suo pene potrebbe diventare padre?

Quindi il problema della genitorialità transessuale non viene neanche minimamente in mente nelle persone “comuni”. Benchè la realtà sia ben differente, è certamente vero che per le persone transessuali la genitorialità è di fatto proibita una volta iniziato il percorso di transizione. La terapia ormonale femminilizzante, nel casi delle mtf, distrugge in pochi mesi la capacità riproduttiva e non si dà nessuna informazione alla persona che inizia, sulla possibilità di congelare i suoi gameti prima che la produzione di spermatozoi venga distrutta per sempre, cosa che avviene invece in altri paesi. Comunque, se ci fosse rimasto un dubbio, per cambiare i documenti in Italia è richiesta la sterilizzazione chirurgica. Così, anche nel caso degli ftm, le cui gonadi potrebbero “ripartire” se la terapia mascolinizzante non viene portata avanti a lungo, si richiede l’isterectomia per essere sicuri che non ci siano uomini che facciano bambini, come invece succede negli “scandalosi” Stati Uniti.

Così, il transessuale, anche se giovane, deve rinunciare all’idea di diventare genitore.

In effetti l’esperienza dei genitori transessuali, qui in Italia, è proprio quella raccolta da associazioni tipo “rete genitori raimbow”, cioè persone che sono diventate genitori prima di intraprendere il loro percorso e spesso in seno a situazioni “tradizionali” come matrimoni o comunque relazioni monogame etero.

Nel caso dell’adozione, quando una persona trans ha rettificato il sesso e i documenti, ha gli stessi diritti di una persona biologica, quindi se in coppia con una persona di sesso opposto, ha sulla carta più diritti che un single o una coppia omosessuale, ma nella realtà, il tribunale dei minori, ben si guarda da dichiarare idonea all’adozione una persona con tale trascorso.

Dal momento che è ormai palese come il ruolo genitoriale non dipenda dal sesso della persona, né dalla forma della coppia, bensì dalla capacità di assolvere la figura di accoglimento-contenimento del bambino/a, bisognerebbe sganciare la figura del genitore e del benessere del bambino/a dalla forma della famiglia triade (mamma, papà, figlio/a) che non è affatto una forma data e costituita per “essenza” della famiglia umana, ma solo una declinazione di famiglia frutto di una certa congiuntura economica e sociale. Nella storia e nei luoghi sono esistite tante altre forme di famiglie assai diverse dalla nostra mononucleare ed eterosessuale che si è imposta negli ultimi cento anni, che hanno adempiuto il loro ruolo di crescere la prole come ed in alcuni casi meglio delle nostre “sacre famiglie” tanto decantate.

Quindi mi sentirei di dire che le persone sono importanti, non la norma, e che i bambini crescono bene tra persone libere, soddisfatte ed equilibrate.

Ringraziamo Egon per la disponibilità e speriamo che la sua testimonianza sia di aiuto per tante persone!

Intanto, se ne volete sapere di più, vi riportiamo dei link/video segnalatici da Egon.