Deconstructing la bomba a orologeria – Micromega #6

analogue_time_bomb2Eccoci ad affrontare un altro capitolo del numero di Micromega sul corpo della donna. Brevemente diciamo la nostra sull’articolo, di Giulia Garofalo Geymonat su “La prostituzione tra abolizionismo, proibizionismo e legalizzazione”, che non esamineremo. Il suo è un discorso analitico sui modelli legislativi e le strategie applicati nei vari stati dell’Unione Europea confrontandoli continuamente con quanto accade in Italia soprattutto rispetto al dibattito sulla riforma/abolizione della legge Merlin. Tutto sommato non ci discostiamo dall’analisi di Geymonat, che si sforza di mettere in luce una complessità spesso abbandonata a favore della solita falsa divisione tra moralisti e liberali. L’unica cosa che ci preme sottolineare è l’ennesima scelta editoriale inadeguata al tema di Micromega: affinchè una panoramica di questo tipo possa divenire uno strumento interpretativo e trasformativo della realtà (chiaro obiettivo delle riviste di approfondimento) era necessario secondo noi coinvolgere le soggettività direttamente nella scrittura e non affidarla a ricercatori/ricercatrici che per quanto bravi e e puntuali quella realtà, non la vivono direttamente: avremmo forse perso nella visione globale della faccenda ma ne avremmo guadagnato certamente in autenticità.

L’articolo successivo è invece figlio di quella logica che Geymonat, dicevamo, giustamente rifugge ed è così tipica invece, di chi o non ha molto da dire oppure non riesce a tirare fuori la complessità di una questione, oppure ancora sostiene tesi insostenibili pur di apparire su una rivista importante. Si tratta dell’articolo “L’assistente sessuale per i disabili: una scelta di civiltà”, di Alessandro Capriccioli. In sè già il tema non ci richiama proprio a delle urgenze nel dibattito complesso sul corpo della donna, bensì temi diversi e anche più generali; comunque leggiamo con curiosità.

Nell’introduzione si afferma, come poi più avanti nel testo innumerevoli volte, che la figura dell’assistente sessuale è legale in paesi più evoluti del nostro, dove un discorso moralista legato alla religione cattolica che condanna il sesso, fa sì che non sia riconosciuta l’innegabile utilità dell’assistente sessuale. Ma il problema di fondo in questo articolo lo si intuisce da queste poche parole:

Un disabile che non si può esprimere sessualmente diventa una bomba a orologeria.

EH? In che senso una bomba a orologeria? Proviamo a farcelo dire.

Si apre subito uno scenario molto confuso: lo scopo [è] di aiutare le persone con disabilità fisico-motoria o psichico-cognitiva [è quantomeno controverso parlare di una disabilità psichico-cognitiva senza specifiche importanti, secondo noi] a vivere un’esperienza erotica, sensuale e sessuale [che sono tre cose profondamente diverse; e poi, come si fa ad assistere una persona nel vivere un’esperienza erotica? Sensuale? Quali competenze dovrà mai avere, non andrebbero discusse prima? Poi, soprattutto, non si chiama assistente “sessuale”?]

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Ci viene chiarito di nuovo da una citazione che l’assistente sessuale è fondamentale, al di là delle nostre convinzioni moraliste. A proposito, fuori da questo ritornello ipnotico: qual è il nesso con il titolo della rivista? Il corpo della donna tra libertà e sfruttamento si collega alle assistenti sessuali oppure alle disabili? Finora a nessuna delle due in modo specifico. Per esempio:

Del resto il rapporto con il desiderio sessuale e la sua realizzazione concreta è uno dei problemi più spigolosi e angoscianti che le famiglie dei disabili si trovano a dover fronteggiare nel delicatissimo (e spesso altrettanto trascurato) momento del passaggio all’età adulta: il più delle volte senza disporre degli strumenti e del sostegno per riconoscerlo, accettarlo per quello che è, collocarlo nella giusta prospettiva e preoccuparsi di dargli una risposta soddisfacente. E perciò, per lo più, negandone l’esistenza, allontanandolo e facendo finta di non vederlo.

Possiamo anche essere d’accordo ma: “il corpo delle donne tra libertà e sfruttamento” che c’entra?

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Da un lato, quindi, la questione svela fatalmente una serie di tabù che la nostra società ha in qualche modo metabolizzato e nascosto [non l’avessimo capito dopo n-volte, lo ripetiamo], ma che attraverso il dibattito sull’assistenza sessuale tornano a mostrarsi in tutta la loro virulenza; dall’altro lascia intravedere il pericolo che i destinatari delle prestazioni, specie quelli con disabilità mentali, non siano in grado di gestirne l’impatto senza sviluppare forme di dipendenza potenzialmente pericolosissime.

Ma infatti, come si fa a parlare allo stesso modo di sessualità e disabili, senza specificare un minimo il grado di disabilità? Lo spettro di possibilità è enorme, e non ha senso rivolgersi a tutte le situazioni nello stesso modo.

E comunque: “il corpo delle donne tra libertà e sfruttamento” che c’entra?

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Un’altra cosa poco chiara di questo articolo è che non si dice mai chiaramente se si  sta parlando di una assistenza o di una terapia. Cosa fanno gli assistenti sessuali?

Insegnano alle persone a masturbarsi e provvedono a fornire loro un aiuto materiale, fino a occuparsene fisicamente al loro posto, qualora non siano in grado di farlo, si prestano direttamente a rapporti sessuali, limitandosi alla fellatio o al cunnilingus oppure spingendosi fino alla penetrazione, per chi è considerato poco desiderabile a causa della propria disabilità e quindi ha difficoltà a trovare un partner; aiutano fattivamente le coppie che vogliono avere un rapporto sessuale soddisfacente a porlo in essere, partecipando al rapporto stesso e diventandone, in un modo o nell’altro, parte integrante.

Bene. E allora perchè Capriccioli si dispera? Perchè è lontano il giorno in cui

tale figura professionale, così come le altre figure a sostegno della disabilità, non sia riconosciuta come attività regolarmente esercitabile a pagamento, ma venga inserita fra i servizi assicurati dai livelli essenziali di assistenza, e quindi fornita gratuitamente dal Servizio sanitario nazionale.

Sostanzialmente d’accordo con Nappi, in questo stesso numero di Micromega, Capriccioli confonde quindi il benessere con la salute e ne condivide il teorema per cui se l’uomo non eiacula diventa violento – ricordiamoci che la bomba a orologeria è lui. Eppure basta Wikipedia per venire a sapere – se uno se lo fosse scordato – che l’organismo maschile ci pensa da solo a smaltire lo sperma in eccesso, non c’è bisogno di alcuna assistenza. E la confusione è tale per cui si parla spesso, nell’articolo, della necessità di una preparazione professionale, se ne testimonia la difficoltà, ma non si specifica mai di cosa si tratta, e in ogni caso non si parla mai di una preparazione medica. 

E comunque: “il corpo delle donne tra libertà e sfruttamento” che c’entra?

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Quello che non viene mai chiaramente detto da Capriccioli è che se il problema è una vita sessuale appagante, allora non serve il “terapista” ma l’assistente, che spiega e insegna come attuarla a seconda delle disabilità. Se invece il problema è eiaculare o avere un orgasmo ogni tanto, questo non è un problema medico, perché a non avere un orgasmo certamente si vive male, ma di astinenza non è mai morto nessuno. E’ un problema culturale, di un ambiente sociale che misura la felicità col numero di orgasmi a settimana e che quindi condiziona anche il disabile, che vive in quella cultura. Dunque compito di chi divulga alcune informazioni non sarebbe quello di avallare questa tendenza, ma di combatterla per trasformare la realtà a vantaggio della verità e del benessere (qui sì, vero) reale e spirituale delle persone.

E comunque: “il corpo delle donne tra libertà e sfruttamento” che c’entra?

Tanto per cominciare, non sarebbe una scelta di civiltà scrivere le cose in maniera chiara e competente?

Sara Pollice & Lorenzo Gasparrini

Sfatiamo sei miti sulle persone che lavorano nell’industria del sesso

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Traduzione di questo articolo di Laura Kacere e Sandra Kim da everydayfeminism.com, a cura di feminoska e Lorenzo Gasparrini. Revisione a cura di Eleonora (grazie, grazie, grazie!)


Vivono barcamenandosi tra visibilità e invisibilità, criminalizzazione e cittadinanza, sicurezza e pericolo, sfruttamento e autodeterminazione.
Le persone coinvolte nell’industria del sesso oscillano costantemente tra questi estremi. Tra stigma e invisibilità, subiscono violenze e discriminazioni fortissime, e ciononostante finiscono troppo spesso per essere tagliate fuori dal discorso della violenza sulle donne. A causa della rappresentazione miope e poco accurata che ne danno i media e dello stigma culturale che circonda il commercio del sesso, troppi sono i preconcetti che circondano le persone coinvolte nell’industria del sesso. Storicamente, il femminismo ha semplificato (e continua a semplificare) la questione, non si fa fatica a imbattersi in una delle cosiddette “guerre del sesso” delle femministe. Troppo spesso non riusciamo a vedere la complessità e la varietà dei soggetti coinvolti nel commercio del sesso, le motivazioni che stanno alla base della loro scelta, e il grado di autodeterminazione o, al contrario, coercizione vissute. Forse anche tu, o qualcun@ che conosci, sei stat@ coinvolt@ nell’industria del sesso. O magari, quello che sai in proposito rispecchia le rappresentazioni ipersemplicistiche del traffico sessuale e delle sex worker sui media, e non sei sicur@ di capire che differenza c’è tra le due cose. Malgrado ciò, puoi essere un alleat@ delle persone coinvolte nell’industria del sesso. Ma dato il numero di luoghi comuni esistenti relativi all’industria del sesso, è utile sfatare alcuni dei miti che impediscono di vedere il fenomeno per quello che è in realtà.

Mito#1: Le parole che usiamo per descriverle non contano granché.

La nostra cultura descrive le persone coinvolte nell’industria del sesso come prive di valore, sporche, tossiche, vittime, sopravvissute, portatrici di malattie, poco raccomandabili, criminali, come “troie” e “puttane”. Anche coloro che non vogliono utilizzare etichette deumanizzanti spesso non sanno come riferirsi alle persone che lavorano nell’industria del sesso. Molto spesso ti sarà capitato di sentire la parola ‘prostituta’. E anche se alcune di queste persone potrebbero identificarsi proprio così, questa parola ha forti connotazioni negative, e molte preferirebbero non sentirsi chiamare così. Dal momento che esistono differenze enormi tra le persone che entrano volontariamente nel commercio del sesso, quelle costrette a farlo e tutte le variegate situazioni che stanno in mezzo a questi due estremi, è importante utilizzare il linguaggio in modo da riflettere questo aspetto. Per questa ragione, coloro che entrano volontariamente nel commercio sessuale generalmente preferiscono il termine ‘sex work’ e spesso si identificano come sex worker. Questo termine è stato coniato dalle sex worker per potersi rinominare e per riformulare il concetto per sé stesse – e definirlo in quanto attività professionale e scambio economico. Il termine ‘tratta’, invece, fa riferimento a persone costrette con la forza, l’inganno e/o la coercizione a vendere prestazioni sessuali. Se sono minori, sono vittime sopravvissute allo sfruttamento commerciale sessuale di minori, e/o alla tratta. Per via della loro età, non è necessario l’uso di forza, inganno e/o coercizione perché venga considerata tratta, secondo le leggi federali statunitensi e alcune leggi nazionali.
Queste categorie non sono in realtà così semplici come sembrano, né sono fisse. Spesso le esperienze delle persone si situano in qualche punto lungo questo spettro, e le ragioni per cui le persone si trovano nell’industria del sesso possono cambiare nel corso del tempo. Ora stai facendo le ipotesi più disparate riguardo alle persone che rientrano in queste categorie, anche ora che stai leggendo? Nel discutere questo problema, può essere utile esaminare i propri pregiudizi e preconcetti sulle le persone coinvolte in questa industria.
In questo articolo, si fa riferimento all'”industria del sesso”, cioè alle persone e alle attività coinvolte nello scambio di atti sessuali in cambio di soldi, riparo, cibo, vestiti e altri beni. Questo termine è usato qui in senso più ampio per includere non solo prostituzione di strada, bordelli e agenzie di escort, ma anche coloro che sono coinvolti nel sesso di sopravvivenza, nell’industria del porno, negli strip club, e nel sesso con contatto indiretto (via telefono o Internet).
Usiamo il termine “persone nell’industria del sesso” per riferirci a persone che offrono sesso a pagamento. Tuttavia, di solito vi sono altri soggetti coinvolti con molto più potere e privilegi nell’industria del sesso – sono soprattutto trafficanti e acquirenti.

Mito#2: Le persone nell’industria del sesso sono tutte etero, povere, adulte, donne americane di colore che lavorano nelle strade.

Quando immagini una persona che fa parte dell’industria del sesso, che aspetto ha? Anche se c’è un buon numero di persone nell’industria del sesso che rientra nelle categorie elencate sopra, al suo interno c’è anche un’ampia e varia gamma di identità, e molte persone vivono e lavorano dove si intersecano molteplici forme di oppressione.
Dal momento che la povertà e la mancanza di opportunità di lavoro sono spesso fattori che favoriscono l’ingresso di molte persone nell’industria del sesso molte persone nell’industria del sesso sono povere e di colore, ma molte altre provengono da ambienti borghesi, e tante sono bianche.
Troppo spesso, però, sono soprattutto donne e bambini di colore poveri a venire criminalizzati e incarcerati.
Nel settore del sesso, molte sono le donne eterosessuali (sia cis che trans), e la maggioranza delle persone che comprano sesso sono uomini eterosessuali, ma all’interno dell’industria del sesso consumano e si muovono persone di ogni genere e sessualità. L’immagine stereotipata del lavoratore del sesso è quella di una persona che “lavora sulla strada”, ma la tecnologia e Internet hanno un ruolo importante nell’industria del sesso e infatti, sempre più spesso, il sesso a pagamento passa attraverso la rete, mentre si continua a utilizzare altre forme di tecnologia come il telefono e i film. I minorenni costituiscono una parte importante dell’industria del sesso, e tendono ad essere bersagli facili dei trafficanti americani. Per via della loro età, i minori sono spesso marginalizzati e più vulnerabili, e questo vale per bambini e adolescenti di qualsiasi genere e razza. Inoltre, a causa dell’omofobia e della transfobia, molti giovani LGBTQIA+, in particolare di colore, scappano o vengono cacciat@ di casa, e lasciat@ senza un tetto. Ciò significa un rischio maggiore che debbano dedicarsi al sesso a pagamento per sopravvivere, o allo sfruttamento sessuale a pagamento. Anche se la maggior parte dell’industria del sesso negli Stati Uniti riguarda cittadini statunitensi, esistono molte reti nazionali straniere che fanno entrare negli USA donne da altri paesi per inserirle nel commercio del sesso a pagamento. Alcune di loro devono anche affrontare i pericoli derivanti dall’essere senza documenti e dall’incapacità di esprimersi in lingua inglese o di comprendere la società americana, che sono spesso ulteriori mezzi di controllo su di loro. L’industria del sesso esiste, come è evidente, in forme molto diverse e coinvolge soggettività assai differenti e, nonostante tutte queste differenze, coloro che sono già esclus@ e marginalizzat@ a livello sociale devono affrontare livelli assai più elevati di violenza individuale e strutturale rispetto alle loro controparti privilegiate.
Le soggettività che si trovano all’incrocio di identità privilegiate – come coloro che sono bianch@ e/o benestanti a livello sociale e/o economico – tendono a offrire sesso a pagamento attraverso mezzi meno visibili (per esempio, la rete) e sono meno esposte alla possibilità di venire arrestate. Nel contempo, coloro che sono più visibili e che sono soggett@ a livelli di controllo più alti – come le persone trans, nere e latin@, senza documenti, o con precedenti criminali, sono prese di mira e si trovano ingiustamente ad affrontare arresti e incarcerazioni in percentuali molto più elevate.

Mito#3: Le persone nell’industria del sesso? O sono tutte vittime o sono tutte autodeterminate!

Troppo spesso il discorso che ruota intorno all’industria del sesso si riduce alla nozione semplicistica che dipinge l’industria del sesso come un’attività sessista e vittimizzante, o al contrario come un’attività che dà forza e autodeterminazione alle donne. In realtà è ambedue le cose, nessuna delle due, e molto altro ancora. Le persone entrano nell’industria del sesso per vari motivi, che potremmo raggruppare in tre macro-categorie:
– Tratta: persone costrette ad entrare nell’industria del sesso tramite l’uso della forza, la frode o la coercizione se adulte, o semplicemente costrette a fare sesso a pagamento se minori (sfruttamento sessuale di minori).
– Necessità economica: persone convinte che il sesso a pagamento sia l’unica o la più percorribile modalità di guadagno per sopravvivere e soddisfare i propri bisogni.
– Sex work per scelta: persone adulte che scelgono di offrire sesso a pagamento.
Anche se abbiamo voluto semplificare utilizzando queste tre categorie, ciò non significa che per le singole persone il procedimento sia sempre così semplice e lineare. Molte delle persone nell’industria del sesso ci si sono trovate per ragioni o motivazioni diverse, che possono anche cambiare con il passare del tempo. Per esempio, molte donne cis e trans che si trovano ad affrontare una società transfobica e sessista, possono decidere di vendere sesso a pagamento perché è l’unico modo che hanno di sopravvivere e di sostenere le proprie famiglie. Alcune sono costrette da persone che hanno potere su di esse. Altre scelgono di entrare nell’industria del sesso e la vedono come un’altra forma di lavoro possibile. Alcune ancora la trovano un’esperienza arricchente e sono contente di dedicarsi al sesso a pagamento.
Una minorenne che venda sesso a pagamento viene considerata automaticamente una vittima di tratta e/o di sfruttamento sessuale di minori secondo le leggi federali (sebbene storicamente, e spesso ancora oggi sia considerat@ alla stregua di criminale dalle leggi dello stato). Ma spesso, dalla sua prospettiva, questa attività è percepita come autodeterminata poiché svolta per il proprio “fidanzato” adulto (ovvero il pappone).
A causa di questa vasta gamma di esperienze e delle differenze nel passato e nelle prospettive delle diverse persone nell’industria del sesso, la dicotomia vittimizzazione/autodeterminazione è chiaramente falsa e semplicistica.

Mito#4: Le persone nell’industria del sesso non possono essere stuprate.

Perché supponiamo che vi siano persone che “non possono essere stuprate”? Questo mito deriva da idee perpetuate dalla cultura dello stupro, che considera determinate categorie di persone – coloro che fanno sesso per denaro o altro – come impossibili da forzare ad avere un rapporto sessuale. Secondo questo preconcetto, le persone all’interno dell’industria del sesso non pongono confini né hanno potere decisionale sui propri corpi, e pertanto non possono rivendicare (o non rivendicare) il proprio consenso. Se una cultura considera una persona come priva della proprietà del proprio corpo, allora quel corpo diventa un corpo altrui, che non ha la possibilità né la capacità di dire sì o dire no.
Questo è un problema non solamente collegato allo stigma, ma che ha conseguenze reali nei rapporti con i clienti, la polizia e altri soggetti.
Secondo due studi del Sex Workers Project, il 17% delle sex worker intervistate ha denunciato molestie sessuali, abusi e stupri da parte della polizia. Ma dal momento che le persone all’interno dell’industria del sesso sono tanto marginalizzate e possono essere venire incarcerate, questi equilibri di potere permettono che sulle violenze compiute dalla polizia non vengano effettuate indagini. In realtà, la costrizione agli atti sessuali da parte dei poliziotti, così come la “scelta” tra il fare sesso o andare in galera, è un’esperienza assai comune. Denunciare questi eventi (ed essere prese seriamente) è abbastanza fuori questione. Al contrario, quando subiscono violenze sessuali, la nostra società tende a incolpare le persone nell’industria del sesso dichiarando che “se la sono cercata”. Ma la necessità del consenso nel sesso non scompare solo perché una persona fa sesso in cambio di soldi o altri beni.

Mito#5: le persone nell’industria del sesso dovrebbero vergognarsi di vendere i propri corpi.

Sappiamo bene che la nostra cultura fa sentire in colpa le donne che fanno sesso e ciò si applica ovviamente anche all’industria del sesso. Lo stigma e l’idea che le persone nell’industria del sesso dovrebbero vergognarsi, o che sia necessario farle sentire in colpa in maniera da farle uscire dall’industria, è completamente sbagliata. All’interno della categoria della tratta, questa stigmatizzazione ha condotto ad un altra dicotomia falsa eppure molto diffusa: quella che distingue tra vittima buona/vittima cattiva. Una “vittima buona” è qualcun@ (solitamente bianca, etero e giovane) che non aveva assolutamente alcuna idea del fatto che avrebbe dovuto vendere sesso e che è stata portata a farlo con l’inganno. Una ” vittima cattiva” è una persona (solitamente di colore) che sapeva che avrebbe dovuto vendere sesso e “ciononostante” ha deciso di dedicarcisi – anche quando vi è abuso per costringerla a restare.
Janet Mock, discutendo della sua esperienza nell’industria del sesso, trattò eloquentemente il tema della vergogna nel suo libro “Ridefinire la realtà”: “non credo che utilizzare il proprio corpo – spesso l’unico bene posseduto dalle persone marginalizzate, specialmente nelle comunità di colore povere e a basso reddito – per prendersi cura di sé sia vergognoso. Trovo vergognosa una cultura che esilia, stigmatizza e criminalizza coloro che sono coinvolte in economie sotterranee come il sex work quale mezzo per passare dall’indigenza alla sopravvivenza.” Indipendentemente dalla ragione che le ha portate a compiere quella scelta, le/gli alleat@ dovrebbero supportarle e lavorare per distruggere lo stigma che grava sulle persone nell’industria del sesso. Se vogliono lasciare il commercio sessuale, dovremmo fornire loro servizi di supporto che le aiutino nella transizione. E se non vogliono, dovrebbero comunque essere sostenute. I servizi destinati alle persone nell’industria del sesso dovrebbero essere organizzati in una maniera tale da rispettare la loro umanità e sostenere la loro capacità di iniziativa.

Mito#6: Le persone coinvolte nell’industria del sesso sono criminali.

Correzione: sono ‘criminalizzate’. Le persone nell’industria del sesso sperimentano un’intera gamma di violenze e minacce emotive, culturali e fisiche nelle proprie comunità e molto più spesso da parte della polizia. E chi è il bersaglio preferito della polizia e del sistema penale? Le donne di colore. Le donne trans. Le persone che vendono sesso per strada alla luce del sole. Le persone minorenni. Le persone con crimini o uso di droghe alle spalle. Le persone povere. Le persone straniere o senza documenti. In altre parole, le persone che si trovano già in una situazione di marginalizzazione e oppressione. Nonostante vengano criminalizzate anche le persone che comprano sesso a pagamento e i trafficanti, le forze di polizia non si focalizzano su questi soggetti tanto quanto su coloro che forniscono sesso a pagamento. Al contrario sono trattati con un’attitudine buonista stile ” i ragazzi sono pur sempre ragazzi” anche quando sono coinvolti dei minori. Le donne trans di colore sperimentano la discriminazione della polizia, sia che siano coinvolte o meno nell’industria del sesso. le donne Trans di colore spesso vengono schedate, arrestate e trattenute per adescamento poiché vengono considerate, da parte delle forze dell’ordine, attraverso la lente degli stereotipi razziali e sessuali. Fino a poco tempo fa, in ogni stato USA, i minori sotto i 18 anni coinvolt@ nell’industria del sesso venivano criminalizzat@ nonostante esistano leggi contro lo stupro e gli abusi sessuali su minori. Grazie alla legge “New York Safe Harbor Law” del 2008 e alle leggi di altri stati che sono seguite, stiamo assistendo ad una minore criminalizzazione e a una maggiore offerta di servizi a loro sostegno, anche se molto va ancora fatto.

***

Nonostante tutti i miti che circondano le persone nell’industria del sesso, è chiaro che esiste un ampio spettro di esperienze vissute, e quell@ di noi che scelgono di essere alleat@ hanno molto da imparare. Possiamo stare al fianco delle persone nell’industria del sesso lottando contro lo stigma, per la depenalizzazione, e fornendo servizi per aiutarle ad essere più sicure. Indipendentemente dal fatto che qualcun@ voglia lasciare il settore o rimanervi, possiamo lottare per difendere i diritti delle persone nell’industria del sesso e farlo attraverso modalità che ne favoriscano l’ autonomia e siano rispettose delle loro scelte. E quando le voci della gente nell’industria del sesso sono messe a tacere e le loro storie ignorate, è molto importante che noi lavoriamo per ascoltarle e per contribuire a farle risuonare.

Per ulteriori informazioni, si prega di fare riferimento a queste organizzazioni che sono impegnate a sostenere le persone coinvolte in diversi settori dell’industria del sesso:

GEMS e il loro film, Very Young Girls, sullo sfruttamento sessuale commerciale delle ragazze a New York
HIPS e il loro documentario, Be Nice To Sex Workers, sul sesso di sopravvivenza in strada a Washington, DC
Polaris: Lotta contro la tratta di esseri umani e la schiavitù moderna e il loro video, “America’s Daughters” , che è una poesia scritta da una sopravvissuta alla tratta
Sex Workers Project

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Laura Kacere scrive su Everyday Feminism ed è attivista femminista oltre che organizzatrice, volontaria in una clinica per aborti, studentessa e insegnante di yoga che vive e va a scuola a Chicago. Quando non studia o pratica yoga, pensa agli zombie, suona, mangia cibo Libanese e sogna di essere circondata da alberi. Seguila su Twitter @Feminist_Oryx.
Sandra Kim è fondatrice, amministratrice delegata ed editrice capo di Everyday Feminism. Integra esperienza personale e professionale su trauma, trasformazione personale e cambiamento sociale attraverso un’ottica femminista.

La miseria del sovversivismo

 

Fonte dell'immagine:  http://bit.ly/1Bspv1F
Fonte dell’immagine: http://bit.ly/1Bspv1F

Si creano spesso polemiche su quali scelte siano rivoluzionarie, o quantomeno le più sovversive da farsi, e viceversa. Credo che questo dibattito non abbia niente di politicamente produttivo e abbia tutto di alienante per ogni parte coinvolta. La “sovversività” di qualcosa dipende dal contesto in cui quel qualcosa viene agito – e perciò si può attribuire ad un azione o un discorso un carattere sovversivo soltanto in una contigenza ben precisa, poiché questi sono un prodotto storico e culturale di determinante circostanze; queste stesse circostanze ne determinano il significato e, ne consegue, l’eventuale divergenza dallo stato di cose presenti e dall’egemonia culturale attuale.

Adottare uno sguardo intersezionale mette in luce l’inconsistenza di questa idea, dal momento che ne smaschera la pretesa di universalità. Come si può dire ad esempio cosa è sovversivo per una donna fare se già soltanto tenendo in considerazione la diversità tra donne bianche e quelle che non lo sono l’esperienza cambia profondamente e con lei anche l’ipotetico da farsi rivoluzionario? Per le bianche è stato sovversivo uscire dalle mura di casa e farsi strada nel sociale, nel pubblico; per le non bianche si può dire altrettanto, quando la schiavitù coloniale andava a colpirle proprio recidendo ogni tipo di legame familiare?

L’idea di una scelta sovversiva mi richiama alla mente, nella sua ingenua socialdemocraticità, un’altra idea, che è anche una pratica: quella del consumismo etico. Entrambe postulano prima di ogni cosa che sia possibile scegliere e che dal momento che è possibile scegliere, la scelta da fare è quella che viene posizionata come eticamente (e quindi politicamente) auspicabile.  Ci sono buoni motivi per dubitare che questa possibilità di scelta esista e ce ne sono altrettanti per sconfessare l’imprescindibilità di certe scelte, e cito quella che mi sembra più significativa: il rischio ahimè piuttosto concreto di una critica che continui a vertere inutilmente sul gesto individuale senza tenere minimamente conto né delle sue ragioni né del contesto in cui si svolge, perseguendo un ideale fascista di coerenza più vicino al martirio che alla lotta contro ogni forma di oppressione.

Il sovversivismo non è un -ismo per come lo concepiamo di solito, cioè  discriminazione, oppressione, ostilità aperta o sottile e molto altro che riguarda una specifica categoria di soggetti umani o non umani in maniera sistematica. È più un modo di pensare teso alla trasgressività compulsiva. Julia Serano in Whipping Girl lo definisce in maniera molto più precisa e contestuale all’ambiente femminista e queer: il sovversivismo è la pratica di esaltazione di certi generi, certe espressioni sessuali e certe identità semplicemente perché sono non convenzionali o non conformi. Serano dice:

In superficie, il sovversivismo dà l’apparenza di ospitare una serie apparentemente infinita di generi e sessualità, ma questo non è proprio il caso. Il sovversivismo ha confini molto specifici; ha un “altro”. Glorificando identità e le espressioni che sembrano sovvertire o sfocare i binari di genere, il sovversivismo crea automaticamente una categoria reciproca di persone le cui identità di genere e sessuali e le espressioni sono di default intrinsecamente conservatrici,  addirittura “egemoniche”, perché sono viste come rinforzo o naturalizzazione del sistema del binarismo di genere.

Julia Serano, nel suo libro, lo usa per descrivere come gli atteggiamenti sovversivisti si manifestino negli spazi queer e trans contemporanei, in cui i maschi / le identità transmaschili sono visti come più sovversivi rispetto a quelle femminili / transfemminili , e dove le identità e le espressioni (ad esempio le pratiche legate al drag, l’essere genderqueer) che sfocano il genere sono viste come più sovversive di quelle identità considerate binarie (ad esempio, donne e uomini transessuali).

Un altro esempio di questo atteggiamento è costituito dall’esclusione delle persone bisessuali, giustificata per l’appunto con argomentazioni risibili quali il rafforzamento del binarismo di genere, il quale deriva dall’errata considerazione che l’interpretazione letterale dell’etim0logia di una parola ne indica il significato odierno. Se bisessuale è un esercizio di binarismo per via del fatto che bi significa due, allora le lesbiche provengono dall’isola di Lesbo, percependo salari in cloruro di sodio. Bisessuale, proprio come omosessuale e transessuale, è una parola nata nel contesto medico e reclamata dalla comunità arcobaleno, perciò il suo binarismo vero o presunto non è affibbiabile alla c0munità, agli individui che ne fanno parte e all’identità romantico-sessuale che rappresenta, specie se una parte considerevole delle organizzazioni e comunità di persone bisessuali adottano una definizione di bisessualità che binarista non è. Se pensiamo altrimenti, dovremmo accusare coloro che si definiscono omosessuali di autopatologizzarsi. C’è un binarismo di genere, certo, ma  le accuse di rinforzo arrivano a una comunità piuttosto marginalizzata. È curioso che tutti si preoccupino di chi per davvero o per finta rafforza il binarismo senza preoccuparsi di chi, in primo luogo, l’ha edificato nei corpi e nelle esperienze. Questi censori sono funzionali alla guerra intracomunitaria, al mantenimento del mortifero dominio eterosessista, e sono considerevolmente responsabili dell’indisturbato proseguire delle ingiustizie inquadrate dalle agghiaccianti statistiche che riguardano le persone bisessuali. Ma ritorniamo a noi.

Quello del “rinforzo” è un mito, prodotto proprio dal binarismo di radicalità/non-radicalità, il sovversivismo appunto, attuato da soggettività che nel tentativo di abbattere gerarchie ne costruiscono altre, generando un’altra diversità, un nuovo “altro da sé”, che si suppone conservatore e per questo è considerato cattivo; inoltre, un grosso pericolo del sovversivismo risiede nel fatto che esso genera un processo di esclusione di ciò che sembra meno trasgressivo, atipico, non convenzionale e poi si rende complice della sussunzione neoliberista della gettonata controparte “sovversiva” commerciandola, perciò  depoliticizzandola e depotenziandola nelle sue già scarse potenzialità. Infine, esso si accompagna quasi inevitabilmente alla ricerca della purezza militante individuale, un mostro  che trasforma la solidarietà in competizione e l’azione diretta in mania di protagonismo, cuocendo ogni potenzialità di cambiamento sociale nel brodo di un più che disumano ultraindividualismo celolunghista. E questo è quanto mi basta per rifiutarlo con tutto me stesso.

Prima froci, ora anche vegan: Satana è fra noi?

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Articolo originariamente apparso su Liberazioni e Antispecismo, ripubblicato per gentil concessione di Grazia Didio.

La pubblicazione in Italia del Manifesto Queer Vegan di Rasmus Rahbek Simonsen rappresenta, credo, un piccolo sforzo utile ad avviare riflessioni con ripercussioni sia teoriche che a livello di attivismo politico. Ma l’aspetto più sintomatico del fatto che Simonsen qualche cosa di significativo l’abbia effettivamente detto è rappresentato, paradossalmente, da una recensione firmata da tale Lupo Glori, alias Rodolfo De Mattei (un vero anti-identitario!), pubblicata di recente su un sito di ispirazione cattolica tradizionalista, diretto nientepopodimeno che da un ex vice-Presidente del CNR, Roberto De Mattei.

Lupo Glori sembra sinceramente spaventato dalla pubblicazione di questo librettino rosa. In effetti, l’”ideologia del gender” è già abbastanza destabilizzante di per sè per chi parla di famiglia “naturale”; l’antispecismo è già di per sè una “delirante visione”, “finalizzata a mettere sullo stesso piano gli uomini e le bestie” (sic). Figuriamoci se provano a dialogare fra loro…

“Cosa hanno in comune la teoria queer e l’animalismo vegano”? chiede Lupo. Molto semplice rispondere: sono entrambi fumo negli occhi per l’ortodossia cattolica. Ma se fosse solo questo non sarebbe molto interessante accostare le due parole, queer e vegan, in un saggio, come fa Simonsen. Per fortuna, qualche idea in più su cosa abbiano in comune questi due termini, Simonsen sembra averla.

De Mattei mostra di aver compreso bene quali siano questi elementi sottolineati dall’autore del Manifesto. Veganismo e femminismo queer condividono un’“orgogliosa rivendicazione della devianza, intesa come comportamento antisociale e antinormativo”, una critica radicale all’identitarismo, una “resistenza metaforica e materiale all’ordine sociale dominante”. Entrambi attaccano le istanze essenzializzanti condensate nell’idea di “contronatura”, un’idea non a caso applicata sia all’omosessualità che al veganismo. Entrambi sono oggetti di pratiche di discriminazione (De Mattei denuncia – pardon, cita – l’omofobia e la vegefobia).

Insomma, Satana è fra noi… vegetariano e frocio. Un vero finocchio.

E non poteva certo lasciare indifferente un giornale diretto da un vice-Presidente del CNR contestato perchè ha detto che il terremoto in Giappone è stato un segno della bontà di Dio o che la caduta dell’Impero Romano è stata causata dagli omosessuali.

A dare retta a gente come Simonsen, dice Glori, non si sa dove si va a finire. Si comincia con la dissoluzione della famiglia tradizionale, per arrivare alla morte della società e della specie umana, passando per un’allegra orgia interspecifica. Eh sì, perchè alla fine della sua invettiva, il Nostro evoca lo spettro della zoorastia: umani che sodomizzano animali e – orrore ancor più grande – animali che sodomizzano umani. In effetti, su un sito di De Mattei (Roberto…) l’allarme era già stato lanciato da tempo: i rapporti sessuali con animali dilagano ed è “davvero sorprendente la faccia tosta degli animalisti che anziché sdegnarsi per il fatto in sé rivendicano ancora una volta i pseudo diritti degli animali e ne denunciano la violazione”.

Insomma, Glori-De Mattei-Lupo-Rodolfo è davvero terrorizzato. Anche se, a leggere la sua fedele descrizione degli spunti di Simonsen, il suo appassionato riassunto dei temi più originali del libro, la sua padronanza delle tesi più ardite di Lee Edelman, sembra quasi che ne sia affascinato. Forse, questo “queer vegan” sotto sotto attrae anche gente insospettabile…

 

Grazia Didio

10 modi per essere un femminista migliore

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Articolo di Aaminah Khan, apparso originariamente sul suo blog. Traduzione di feminoska, revisione di Eleonora.

Chi dice che sono sempre negativa? Lasciando perdere quello che scrivo sul blog, le dichiarazioni furibonde su Twitter e le arrabbiature quando la mia squadra di calcio non sta vincendo, vi assicuro che sono in grado di essere ragionevole, costruttiva e anche – assicuratevi di essere sedut@ per quello che sto per dirvi – piacevole.

Potreste avere l’impressione che odi gli uomini. Non è così. Gli uomini mi piacciono! (Alcuni uomini mi piacciono davvero tanto, se capite cosa intendo – e sono sicura che abbiate capito, perché la mia frase aveva la delicatezza di un ubriaco ad una serata di gala [ndt: abbiamo evitato l’uso dell’espressione elefante nella cristalleria in quanto ritenuto specista, così abbiamo coniato una nuovo modo di dire]). Quello che mi fa impazzire è la misoginia. Quello che mi fa schiumare di rabbia è l’appropriazione del movimento femminista da parte di uomini che o non sanno cosa stanno facendo o stanno deliberatamente cercando di trarne profitto.
Diciamo che sei un esemplare del primo tipo – ben intenzionato, ma non abbastanza consapevole su cosa comporti essere un femminista. Sei nel posto giusto! Ho intenzione di smettere di urlare per un tempo sufficiente a dirti dieci cose che puoi fare per essere un femminista migliore, un alleato migliore e – diciamocelo – una persona migliore.

1.Lascia perdere i tuoi preconcetti
So che hai un sacco di preconcetti su che cos’è il femminismo e su quale possa essere il tuo ruolo nel grande schema delle cose. È perfettamente normale – tutt@ noi abbiamo dei preconcetti sulla vita basati sulle nostre esperienze precedenti. Ma è necessario lasciarli perdere tutti quando si entra in uno spazio femminista. Il femminismo è un movimento che si basa in gran parte su esperienze vissute dalle donne. Se non sei una donna, puoi provare empatia, ma naturalmente non puoi dire che sai cosa abbiamo passato. E non c’è nulla di male! Sostengo molte cause anche se non mi riguardano o toccano in prima persona. Nessun@ sta dicendo che non puoi essere femminista. Quello che stiamo dicendo è che devi seguirci nel farlo, perché questo movimento riguarda il modo in cui le strutture di potere influenzano la nostra vita in modi che potresti non riuscire nemmeno a percepire dalla tua posizione. Vieni a mente aperta e sii pronto a imparare, e non solo ti troverai di fronte a un mondo completamente nuovo, ma sarai molto più in grado di comprendere ed elaborare quello che vedrai e sentirai.

2. Preparati ad ascoltare. A lungo
Probabilmente hai molte tue idee che desideri condividere. Vuoi dirci perché gli uomini agiscono così come fanno, e come pensi che si possa cambiare questo comportamento. E c’è spazio per fare questo nel contesto femminista… fino a un certo punto. Ma per la maggior parte del tempo, abbiamo bisogno che gli uomini ascoltino. Voglio che pensi a tutte le donne che si vedono negata la possibilità di parlare da uomini di tutto il mondo – donne a cui è impedito di ottenere un’istruzione, donne che subiscono mutilazioni genitali, donne a cui non viene permesso di lavorare, donne vittime di abusi sessuali, donne di colore, trans e queer, lavoratrici del sesso. Non meritano la possibilità di essere ascoltate? Non ti piacerebbe essere la persona che dà loro questa possibilità? Sembra una sciocchezza, ma è davvero, davvero importante. Se vuoi essere un alleato si tratta soprattutto di essere pronto ad ascoltare le nostre storie – e ne abbiamo tante. Così tante. Potresti tirare fuori un bloc-notes e iniziare a prendere appunti. Potrebbe esserci una verifica oppure no, dopo. Ci hanno messo a tacere per così tanto tempo. Lasciaci parlare. Per favore.

3. Non aspettarti un’accoglienza automatica
Sei un uomo di parola, giusto? Eccoti, pronto a rimboccarti le maniche e a sporcarti le mani combattendo per una buona causa. Se solo ci fossero più uomini come te! Il fatto è – non prenderla sul personale – che abbiamo visto un sacco di tipi come te, che parlavano come te, erano entusiasti quanto te… che ci hanno prevaricato nelle discussioni, ci hanno zittite, avvilite e hanno usato il nostro movimento per trarne profitto. Ci vuoi far pesare di essere un po’ preoccupate? Ci vuoi far pesare di essere sospettose quando gli uomini cercano di entrare nei nostri spazi, non importa quanto apparentemente buone siano le loro intenzioni? Sotto le mentite spoglie del “femminismo”, gli uomini hanno molestato sessualmente e violentato donne di cui avevano guadagnato la fiducia, hanno usato le loro posizioni di influenza per intimidire e mettere a tacere le donne (Hugo Schwyzer, ve lo ricordate?) e farla franca addirittura in caso di omicidio. No, probabilmente tu non fai nessuna di queste cose – ma non possiamo esserne sicur@. Quindi preparati a ricevere un po’ di ostilità. Abbiamo dovuto imparare a nostre spese ad essere diffidenti con gli sconosciuti che portano doni. Se lavorerai duro e ti comporterai bene con noi, ti accetteremo col tempo.

4. Non aspettarti un trattamento speciale
Questa è una cosa che molti uomini faticano ad accettare, e a ragione – arrivano da una posizione di privilegio totale, nella quale le loro idee e opinioni hanno automaticamente un peso maggiore in virtù del loro genere. Potresti anche non rendertene conto, ma la tua mascolinità ti dà enormi vantaggi là fuori nel vasto mondo. Se vuoi essere un femminista, devi essere pronto a rinunciarci. È difficile. So quanto è difficile, perché ci sono stati momenti in cui ho dovuto farlo anche io. A volte ti sentirai offeso o maltrattato. Ti troverai a chiederti perché ti stai mettendo in discussione, se le persone non riconoscono i tuoi sforzi. È la tua posizione di privilegiato che parla, e devi imparare a mettere tutto questo da parte se vuoi fare le cose per bene. Benvenuto in un nuovo mondo, amico. Goditi l’uguaglianza!

5. Non parlarci addosso
Un sacco di uomini si offendono per questo, ma devi imparare a morderti la lingua. Questo è il nostro movimento. Siamo liete che tu sia qui al nostro fianco, ma devi accettare che non sarai mai al centro della scena. Quello spazio è riservato alle donne con reali esperienze vissute da condividere. Se ti viene voglia di parlare mentre una donna condivide la sua storia… non farlo. Non c’è modo più semplice di far arrabbiare una femminista che cercare di raccontare la sua storia per lei, o presumere di conoscerla meglio di lei. Ti assicuro che, non importa quale sia la situazione, non ne saresti in grado. Non hai vissuto la sua vita, non hai visto quello che ha visto o sentito quello che ha sentito, e non è possibile che tu, un uomo, possa capire al 100% cosa vuol dire essere una donna. Non sto dicendo che non ti è permesso di parlare. Sto dicendo che devi aspettare il tuo turno. Negli spazi femministi, l’esperienza vissuta di una donna ha la precedenza sulle tue idee di uomo. Siamo naturalmente esperte nel campo, sai? Lasciaci parlare.

6. Non restare in silenzio di fronte al sessismo
I tuoi amici scherzano sullo stupro. Ti fanno sentire a disagio, ma non dici nulla, perché non vuoi essere ”quel tipo d’uomo” – quello che non ha senso dell’umorismo, che fa il censore tutto il tempo. Sorridi goffamente quando il tuo migliore amico dice alle donne di andare in cucina, anche se pensi che non sia poi così divertente, e ti lasci trascinare in discussioni che disprezzano le donne, anche se non era tua intenzione. Ecco, questa cosa deve finire. Se vuoi fare qualcosa di concreto – e immagino tu lo voglia fare – questo è il modo migliore per iniziare. Combattere il sessismo quando lo vedi. Dì ai tuoi amici che quegli scherzi sullo stupro non sono divertenti. Alza gli occhi al cielo alle battute del tuo amico sulla cucina e digli che sta facendo lo stronzo. Quando vedi delle molestie per strada, fatti avanti e dì qualcosa. Sii l’uomo che non lascia che altri parlino male delle donne alle loro spalle. Sii l’uomo che non accetta il “se l’è cercata”. Non riesco a sottolineare abbastanza quanto tutto questo sia importante. Le tue intenzioni non significano nulla se non le sostieni coi fatti. Aiutaci, amico. Usa la tua voce per qualcosa di buono.

7. Non proporci mai, mai, la “spiegazione virile”
Stai parlando ad una sex worker, che ti sta raccontando la sua versione di come sia la sua attività professionale nel posto in cui vive. Ti sembra che vi siano alcuni dettagli sbagliati – forse hai capito una certa legge in maniera differente da lei, o fatichi a credere che la polizia sia così ostile. Le dici che non pensi che le cose stiano così, e procedi a spiegarle la realtà nel modo in cui la vedi tu. Questo è un esempio di “spiegazione virile”, e non dovrebbe sorprenderti se in tale occasione la reazione della sex worker sarà più che irritata. So che alcuni di voi lo fanno involontariamente, ma è necessario che vi accorgiate quando lo state per fare e che vi fermiate. La “spiegazione virile” fa deragliare le discussioni, banalizza le esperienze vissute delle donne ed è semplicemente maleducata. Pensi davvero di saperne di più sulla realtà del lavoro sessuale della donna che te ne stava parlando? Lei lo vive. Tu hai solo visto un documentario in TV. Non ha bisogno che le spieghi com’è la sua vita realmente.

8. Non dirci che dobbiamo calmarci
Penso di aver mantenuto un tono abbastanza pacato finora, ma il più delle volte, se sto parlando di giustizia sociale, sono abbastanza incazzata. Questa è la risposta naturale all’essere stata discriminata in quanto donna nel corso di tutta la mia vita. So che la rabbia può essere molto dura da affrontare e un po’ scoraggiante, ma ha le sue ragioni, ovvero che a) la realtà dell’esistenza in quanto donna nella nostra società è piuttosto dura, e b) essere messi di fronte a verità spiacevoli e brutali è molto scoraggiante per forza. Potresti essere tentato di dire qualcosa come ad esempio che indorare la pillola aiuta ad ingerirla. Il fatto è che non stiamo cercando di farti ingerire alcuna pillola. Stiamo cercando di cambiare il mondo, e non si cambia il mondo con la dolcezza (credimi, anche Gandhi era un vecchio stronzo manipolatore – nessun attivista è mai pacifico quanto può sembrare). Come mio padre amava dire: la persona ragionevole si adatta al mondo, la persona irragionevole adatta il mondo a sé; quindi, ogni progresso dipende dalla persona irragionevole. Siamo donne irragionevoli, e stiamo adattando il mondo a noi stesse, perché è così che si ottengono le cose. Chi ci dice di calmarci si comporta da ‘censore dei toni’, e se desideri una spiegazione del perché questa sia una cosa terribile da fare, clicca su questo link e preparati a sentirti come se venissi schiaffeggiato ripetutamente da diverse donne arrabbiate contemporaneamente. Oppure prendi per buona la mia parola e lasciaci essere arrabbiate quando abbiamo bisogno di esserlo. Fidati di me, è meglio così.

9. Amplifica, empatizza
Se su un blog trovi un bel post sui diritti delle sex worker in India, condividilo con i tuoi amici. Se qualcuno che conosci sta condividendo le proprie esperienze in quanto donna trans che affronta il sistema medico, ritwitta senza pietà e incoraggia le persone a seguirla. Se, per esempio, una giovane donna musulmana coraggiosa che conosci scrive sul suo blog un post meraviglioso che trovi davvero utile, diffondilo a tutte le persone che pensi possano trovarlo interessante. Gli alleati sono grandi amplificatori – contribuiscono a diffondere il nostro messaggio in modo che raggiunga il pubblico che potremmo non essere in grado di raggiungere in altro modo. È qualcosa di molto prezioso. E anche se potresti non essere in grado di capire quello che abbiamo passato e che cosa vuol dire essere quelle che siamo, quando condividiamo le nostre esperienze ascoltale empaticamente. Significa molto sapere che, anche se probabilmente non sai come ci sentiamo, ti interessa sapere che abbiamo sofferto e persino ti addolora. Sii lì per noi. Marcia con noi. Ascoltaci parlare. Vieni ai nostri seminari e dì a tutti i tuoi amici di venire. Partecipa alla creazione di spazi sicuri per noi perché ti interessano veramente la nostra sicurezza e il nostro benessere. Sii la grande persona che sono sicura sei in grado di essere. Questo è quello che fanno gli alleati.

10. Non mollare quando il gioco si fa duro
Non se: quando. Perché sarà duro, te lo posso assicurare. Sarai costretto a rivalutare quasi tutto quello che hai sempre creduto di sapere sulle donne e sul femminismo. Imparerai a conoscere esperienze che ti sono totalmente estranee. Probabilmente ti sarà chiesto di abbassare la cresta qualche volta quando farai qualche casino. (Non preoccuparti, siamo tutt@ incasinat@, ma dobbiamo ingoiare il boccone amaro. Per fortuna, Internet ha una memoria molto corta). E una volta che avrai cominciato non potrai smettere, perché anche se lo vorrai non potrai più chiudere gli occhi di fronte alla realtà, dal momento che li avrai aperti. Questa è una guerra che molte di noi non avrebbero voluto intraprendere. Non posso dirti quanto sia faticoso per me combattere per i miei diritti umani fondamentali giorno dopo giorno dopo giorno. È stremante e faticoso e, ad essere oneste, dannatamente demoralizzante a volte. Non sperimenterai sulla tua pelle tutto questo, ma potrai sperimentare abbastanza da farti chiedere perché ti ci sei buttato, in primo luogo. Ecco perché: perché l’uguaglianza conta. Questa roba non è una sorta di astratto dibattito accademico. Questa roba riguarda il modo in cui circa il 50% del mondo è costretto a vivere a causa di un sistema che ci considera cittadine di seconda classe. Non è sbagliato? Non è odioso? Non dovrebbe cambiare? E non vorresti essere una delle persone che realizzano il cambiamento?

Il femminismo è un compito di importanza vitale. E’ difficile, è incasinato e spesso ingrato, ma è anche molto, molto necessario. È necessario per tutti i motivi che ho detto e ridetto su questo blog decine di volte. È necessario, perché quando non ci dedichiamo a questo compito, le persone non solo soffrono – ma muoiono a causa della nostra inerzia. E non sono solo le donne a venirne colpite – ma ogni uomo criticato per aver scelto di stare a casa con i suoi figli, ogni uomo che ama i lavori artigianali più dello sport, ogni uomo che abbia mai pianto in pubblico, ogni uomo che non è arrogante e sicuro di sé abbastanza da spianare la propria strada nella vita come se fosse il padrone di tutto ciò che vede. Potresti essere uno di quegli uomini.
Se lo sei, tutto questo non riguarda solo noi, riguarda anche te. Riguarda un mondo in cui tutt@ possiamo essere liber@ di esprimere i nostri generi come vogliamo, senza affrontare il giudizio o la discriminazione per essere semplicemente quello che siamo. Voglio vivere per vedere quel mondo. Sono sicura che anche tu lo vuoi. Quindi benvenuto a bordo, amico. Sono contenta che tu abbia deciso di unirti a noi. Insieme salveremo il mondo.

Aaminah Khan opera a supporto dei rifugiati, è scrittrice e appena può attivista per i diritti umani. Vive nel Queensland settentrionale. 
Segui Aaminah Khan su Twitter: www.twitter.com/jaythenerdkid

Cosa significa essere produttiv*?

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In quanto individuo che ha a che fare con la fatica perpetua datami dall’ansia, una delle punizioni verbali più creative e dannose che mi sono solertemente rivolto finora, è quella di non essere abbastanza produttivo – sentendomi di conseguenza travolto dai sensi di colpa. Questa convinzione possiede una discreta popolarità presso moltissime altre persone, in particolare coloro che hanno a che fare con il disagio psichico, o persone con disabilità. Lasciatemi dire che si tratta di un concetto ad alto tasso di balordaggine.

La nozione della produttività è radicata nelle idee capitaliste ed abiliste sul valore di un individuo. È assolutamente importante che si sia produttiv*, e non solo al lavoro, ma ogni maledetto istante. E cosa significa essere produttiv*? Quando siamo sever* con noi stess* per non essere produttiv* abbastanza, che significa? Possiamo provare a definire cosa significa la produttività per noi su un livello individuale, ma qualunque sia tale definizione mi riesce difficile separarla dalle già citate idee oppressive.  Penso che questa sia una delle maniere più subdole, comuni e incontrastate di internalizzare l’ideologia borghese e perpetuarla verso noi e gli altri.

Definire cosa significa produttività potrebbe essere un attimino più semplice se guardiamo a cosa non è. Stare online tutto il giorno, videogiocare, guardare un film, dormire, rilassarsi, compiere qualsiasi azione considerata passiva; sono tutte cose frequentemente bollate come non produttive, quando vediamo della gente autocriticarsi per come usano il proprio tempo non-lavorativo, non strutturato. Cose che non hanno un obiettivo predefinito. Sembra che non avere una lista delle cose da fare, cosa che peraltro io ho e aggiorno pedissequamente per via di una mia certa tendenza ossessiva alla pianificazione, sia una specie di crimine contro l’umanità nel peggiore dei casi e una imperdonabile perdita di tempo nel migliore.

Produttività, per alcun*, potrebbe significare impegnarsi in uno o molteplici interessi e passatempi, fare delle commissioni. Potrebbe significare lavorare senza sosta per quattro lavori diversi, ognuno con meno garanzie e più sfruttamento dell’altro; potrebbe significare fare ricerca, o avere moltissimi progetti in corso, organizzare e partecipare a manifestazioni, condurre un workshop dopo l’altro, scrivere articoli, mettere a posto l’armadio. Essere produttiv*, però, non include mai quella serie di gesti, azioni e comportamenti legati alla cura di sé.  Vedo molte, moltissime persone (creative in particolare) essere particolarmente dure nei loro confronti per non produrre abbastanza, specie se la ragione per cui ciò accade ha a che fare con le lotte che loro stesse ingaggiano per mantenere una buona salute fisica e mentale. Come fossimo catene di montaggio in miniatura, che subconsciamente si paragonano a fabbriche per la produzione di massa, che però non riusciremo mai a replicare per via delle ovvie, intrinseche limitazioni dell’essere un singolo individuo.

Il capitale è così profondamente immerso negli ingranaggi delle nostre vite che non capiamo nemmeno cosa diciamo davvero quando diciamo di volerci costringere a essere più produttiv*, o quando ci vergogniamo per non esserlo stat* abbastanza. Ci dimentichiamo di prendere tutto il tempo che ci serve per rilassarci e farci del bene perché siamo occupat* a raggiungere la quota immaginaria di produttività giornaliera. Perché i rituali quotidiani di cura di sé sono in opposizione ai nostri ideali di quella che è la produttività? Perché non è produttivo badare alle nostre necessità di animali umani?

Basta spingerci oltre ogni nostro limite, basta con la nozione della produttività e basta con l’idea che il nostro valore stia in ciò che riusciamo ad aver terminato a fine giornata. Il rispetto per noi stess* non è a cottimo. Cominciamo a lavorare sull’amarci quando ci diamo respiro.

Tanti fuochi, un giorno, dovranno pure ardere all’unisono

shutterstock_224210650Vorrei che il 2015 portasse via la precarietà, sarebbe bello se bastasse davvero un desiderio, un rintocco di lancette per spalare via tutta questa merda ma non è così, nessun cambiamento è mai arrivato in modo semplice ed indolore.

Alla fine dell’estate scorsa ho perso il lavoro. Non ne andavo fiera. Lavoravo a nero e con uno stipendio che sfiora l’assurdo, ma l’ho accettato perché non potevo dire di no. Essere indipendenti, ma rettificherei scrivendo “provandoci ad esserlo”, non è facile se attorno a te non trovi che sfruttatori/trici che fanno leva sul tuo bisogno per proporti lavori ad orari e stipendi assurdi. Quando ho provato a parlare della mia condizione c’è stato chi mi ha capito, chi si è mostrat@ solidale e chi, invece, mi ha detto che era colpa mia, che, infondo, me lo meritavo perché, accettando, avevo alimentato il mercato del lavoro a nero. Credo che si tratti delle stesse persone che, se vieni stuprata, ti dicono che te la sei cercata, come quando il poliziotto che ti ha spaccato il muso e rotto la testa ti dice che “se stavi a casa tua questo non succedeva”. E’ sempre colpa della vittima, lo abbiamo capito.

Da quando ho perso il lavoro ho provato a mantenere la calma e fare mente locale su tutte le possibilità che avevo a disposizione. E’ iniziata così la ricerca estenuante di un lavoro. Ho risposto a non so quanti annunci, messo non so quanti volantini per strada, ma ben poche sono state le chiamate ricevute.

Mi hanno chiamata per dare ripetizioni a due bambini per 50 euro al mese ciascuno, ma, almeno in questo caso, la famiglia era davvero con le pezze al culo quindi il prezzo era tale per impossibilità. Poi è stato il turno di una donna che pretendeva la stessa cosa nonostante non fosse per nulla indigente. Ho rifiutato entrambe le “proposte”, ma, non mi vergogno a dirlo, solo per la prima ho provato dispiacere.

I mesi passano e i pochi soldi che avevo risparmiato iniziano a decimarsi. Ero così al verde che ho dovuto chiedere al mio compagno, con cui ho una storia a distanza, di accettare il fatto che, per alcuni mesi, fosse solo lui a venire a Napoli a trovarmi perché non potevo più neanche permettermi il regionale per raggiungerlo.

Leggi tutto “Tanti fuochi, un giorno, dovranno pure ardere all’unisono”

Deconstructing il faccipensiero

lammillyPSono sicuro che Filippo Facci vi è già noto per la sua amabile e fine retorica, che dispensa soprattutto da quel giornale dal titolo profondamente ironico che è “Libero”. Se non lo conoscete, qui ci sono alcune notizie fondamentali. Ci apprestiamo a commentare una sua ultima perla,  come si conviene a cotanto illuminato pensatore.

Facci: ci mancava la Barbie coi brufoli e le smagliature [il titolo è già tutto un programma, ma Facci è così: non nasconde nulla di sé, è molto generoso]

La Barbie coi brufoli no. La Barbie cessa, struccata e con le smagliature (si attaccano tipo cerottini) però no, vi prego. E invece sì, la vendono, qualche femminista invita a regalarla per Natale: si chiama Lammily – la bambola – e sembra una bulgara sfondata da dodici gravidanze [non ho voluto interrompere il climax d’immagini sessiste varie, concluso con un notevole virtuosismo: in bulgara sfondata da dodici gravidanze, per un totale di cinque parole, ci sono un razzismo e due sessismi]. Per 6 dollari c’è un pacchetto aggiuntivo con cellulite, tatuaggi, cicatrici, lentiggini, occhiali, bende, contusioni, graffi e punture di zanzara. È struccata, non sorride e ha i capelli castani anziché biondi come la Barbie, questa reazionaria, questa mogliettina col sorriso da emiparesi e che cammina sempre in punta di piedi per poter mettere i tacchi: Lammily invece ha i fettoni piantati a terra e ci puoi appiccicare calli e duroni. I piedi non puzzano ancora, ma in futuro chissà. Mancano anche peluria e baffi. Le misure complessive sarebbero quelle medie delle ragazze di 19 anni: ma forse quelle americane, o del casertano, sta di fatto che nel complesso il modello è quello di – si diceva ai miei tempi – un roito, insomma una brutta [riassumendo, Barbie è imbecille e segregata a un ruolo subalterno, ma almeno bòna, Lammilly è brutta e tanto basta. Per dire questo – che non ha alcun interesse al di fuori della sua scatola cranica – Facci ha usato altri sessismi e razzismi: mogliettina, peluria e baffi, quelle del casertano, roito. Ok, ma c’è un punto da dire? O è un campionario di lessico adolescenziale?].

Che dire? in passato avevamo intravisto la Barbie vecchia e la Barbie paraplegica (in sedia a rotelle) e la Barbie calva (radioterapia) ma erano provocazioni, campagne shock che avevano una ragion d’essere ed erano il contrario del politicamente corretto [attenzione alla strategia del faccipensiero: distraendovi con le campagne shock ha detto che Lammilly è un esempio di politicamente corretto. Cosa che sta solo nella sua testa, ma essendo la base della sua argomentazione, il furbacchione la da’ per scontata invece di metterla in discussione, un po’ come fanno certi fanatici religiosi con la propria fede]: mica le vendevano davvero, erano l’immagine di una buona causa. Le Barbie nere e mulatte invece le vendevano già negli Anni Settanta, era una questione di mercato prima di altro [il faccipensiero si complica: nera sì ma “casertana” no, il razzismo lo comanda il mercato. Sempre più interessante]. Una coi piedi piatti – apprendo su internet – uscì nel 1971, ma vendette pochissimo [è informato, lui]. Ken – il marito o fidanzato col sorriso da coglione – lo fecero più o meno muscoloso e addirittura stereotipato [ah, il faccipensiero lo stereotipo lo riserva a Ken, a Barbie no. Il marrone ha mille sfumature] coi pesi da palestra, poi biondo, hawaiano, africano, di tutto. Ma, appunto, era una questione di mercato, non di pedagogie d’accatto [altra definizione “en passant”: una bambola non stereotipata è pedagogia d’accatto, e quando ne discutiamo? Mai]. La domanda è: sino a che punto si spingerà il politically correct? [E chi ha detto che lo sia? Chi ha scritto che una bambola con fattezze “normali” ha un significato di condotta politically correct? E chi sarebbe qualche femminista che invita a comprarla? Link, nomi… niente, il faccipensiero non ha bisogno di riscontri.] Le concessioni al sogno cederanno ai timori di un modello troppo anoressico? Imbruttiremo anche le principesse delle fiabe? La dittatura della verità [dittatura? Verità? Ma se è sul mercato, nessuno ha imposto nulla, seguirà le leggi del mercato. Perché il faccipensiero vi vede una imposizione? Qualche legge ha obbligato a usare Lammilly nelle scuole, o ne ha obbligato l’acquisto per Natale?] imporrà la Barbie morta o chiusa nel polmone d’acciaio? [Ci fosse pure un produttore tanto scemo, a te che te frega? Cosa ti turba in Lammilly, Facci, dillo apertamente. Paure ancestrali? Ricordi d’infanzia?]

Giulia Siviero, una simpatica ragazza che scrive per il manifesto e lavora al Post, non ha tutti i torti a sottolineare che esiste un sessismo anche nel mondo dei giocattoli [niente contro Siviero eh, ma so’ decenni che questo problema è noto]. Ed è un sessismo che risente delle latitudini: le femmine, nelle pubblicità o in un catalogo di giocattoli italiano, sono sempre circondate dal rosa e poi da bambole, carrozzine, lettini, piccoli ferri da stiro, fornellini, finti make-up, collanine e dolcettini. Nei negozi la corsia «bambine» sembra un negozio di casalinghi. Mentre i maschi, viceversa, ormai oscurate le armi giocattolo per scorrettezza politica [ah, io pensavo che ci si sparasse già abbastanza nella realtà per cui non servisse insegnarlo, invece è scorrettezza politica], sono comunque rappresentati mentre scimmiottano i mestieri dei grandi o s’industriano con treni e macchinine e costruzioni. Forse si esagera, perché bambini e bambine sono molto più elastici di noi [certo, lo si vede da adolescenti, la famosa età nella quale nessuno ha problemi con il proprio ruolo di genere, no no]: ma i cataloghi di giocattoli svedesi o danesi – che Giulia Siviero ha mostrato sul suo blog – forse ecco, esagerano in senso inverso [e te pareva. E perché mai, Facci caro? Spiegacelo]. Si vede un bambino che fa il bagnetto a una bambola: mi fa un po’ ridere [e chissenefrega, non ce l’hai messo? A te fa ridere, ma magari al bambino si mette in testa che se e quando sarà padre, sarà capace di farlo invece di scappare impaurito dal corpo di suo figlio. So’ problemi sociali, Facci, informati]. Si vede una bambina che gioca con un pipistrello e i soldatini. Nessuno vieta di farlo in ogni caso [invece sì: chi lo vieta si chiama “cultura patriarcale”, ed è l’acqua del tuo acquario, Facci, è normale che tu non te ne accorga. O che tu lo dica apposta], ma più di tanto io non lo vedo il problema di una «precoce e stereotipata separazione dei ruoli» [la sua spiegazione è io non lo vedo, una nota prassi scientifica], qualcosa cioè che possa impedire a una femmina di diventare un tipico maschiaccio, se crede: non siamo solo un sottoprodotto ambientale [tu non hai la minima preparazione in questioni di genere, quindi la tua opinione conta davvero poco. Però è interessante notare come tu non veda nulla di male se la femmina diventa un tipico maschiaccio, mentre il bambino che fa il bagnetto alla bambola ti fa ridere. Di nuovo, Facci: di che hai paura? Tutto bene? Rilassati…].

E comunque il mondo cambia, ma ha i suoi tempi. Noi siamo sempre un po’ in ritardo per le solite ragioni storiche e religiose eccetera, ma insomma, per farla breve: la barbie coi brufoli no [l’hai già detto, Facci, il problema è che l’articolo sta per finire e non hai ancora detto un civile perché]. Qualche concessione al sogno e all’irreale lasciatelo almeno ai bambini [ah, scusa: la Barbie che tu stesso hai descritto come mogliettina col sorriso da emiparesi e che cammina sempre in punta di piedi per poter mettere i tacchi sarebbe la concessione al sogno per i bambini e le bambine? Complimenti (anche per la coerenza in poche righe)], ché per i bagni di realtà avranno tutto il tempo [no. Come potrebbero raccontarti numerose persone impegnate nei centri antiviolenza, spesso i bagni di realtà non arrivano mai o arrivano accompagnati dalla sirena dell’ambulanza – quando va bene]. Anche perché non vorremmo doverci ritrovare, poi, con un Ken stempiato, con le maniglie dell’amore e la canottiera macchiata di sugo. Il marito perfetto per quel cesso di Lammily [eh, certo, la cessa possiamo lasciarla al mercato e a qualche femminista, ma il maschio medio non sia mai vederlo rappresentato come giocattolo. Allora meglio il marito o fidanzato col sorriso da coglione, con il quale comunque giocano le bambine. E perché mai impedire questa differenza, Facci, se tanto poi ci pensa il mercato? Ce lo spieghi? No].

Eh no, meglio non lasciarle al mercato, certe possibilità, meglio impedirle prima. Perché se poi funzionano, mica puoi dire che non vanno bene. Sai che problema se avesse avuto successo la bambola coi piedi piatti: adesso niente tacchi e tutte con le ballerine. Che brutta cosa per i maschi!

Guida al porno indipendente Volume 1

Il movimento sex-positive e quello porno-femminista promuovono una forma responsabile e inclusiva di fare e commercializzare porno, e si definiscono per le seguenti caratteristiche:
♥ A differenza dell’industria del porno mainstream tengono in conto le donne come spettatrici, produttrici e registe. Per questo hanno un punto di vista diverso sul desiderio, il corpo e il piacere.
♥ E’ un’industria che si comporta responsabilmente con le proprie ‘star’, non sfrutta e non obbliga nessuna persona a realizzare atti sessuali, le/gli attor@ ele altre persone coinvolte hanno il controllo su ciò che desiderano fare, per questo motivo il sesso che si vede in questi film è reale.
♥ Il piacere è multiforme e promuove la libertà, includendo diversi tipi di corpo, etnie e preferenze sessuali.
Militancia erótica si è dichiarata contraria al porno mainstream:
“Odiamo il porno mainstream perché è sessista, misogino e falso. Odiamo guardare corpi deformati dalla chirurgia estetica che fingono orgasmi. Vogliamo vedere produzioni pornografiche con contenuti artistici forti”.
Per questa ragione abbiamo voluto pubblicare una guida relativa ad alcune delle maggiori produzioni di porno indipendente legate alle suddette caratteristiche:

1 Mili-especial♥ Trouble Films: è una società di produzione di film per adulti guidata da Courtney Trouble, incredibile pornografa e attrice che ha rivoluzionato la scena del porno indipendente. Vincitrice di premi quali il Feminist Porn Award, il Trans Awards e il BBW Fan Fest Awards tra gli altri, Courtney è la nostra eroina per aver diretto e appoggiato numerosi progetti che ci rendono felici, dando l’avvio a quella che lei definisce “la nuova epoca del porno”.
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♥ Lesbian Curves: una serie di film che hanno per protagoniste ragazze voluttuose che vivono romantiche storie lesbiche, le situazioni variano in un ampio gioco di fantasie, ovvero è possibile spaziare dalla relazione intima all’interno del tipico dormitorio con elementi molto femminili ad un complesso gioco BDSM in uno scenario fantastico. Le ragazze rappresentate sono molto diverse tra loro, alcune molto femminili e altre molto maschili. Anche Lesbian Curves è un progetto di Courtney Trouble.

2♥ Indie Porn Revolution: è probabilmente la casa di produzione pornografica più variegata e famosa di porno Queer, fondata da Courtney Trouble nel 2002 come NoFauxxx.Com, un progetto personale che ha finito col coinvolgere molte persone in un ulteriore sforzo per la rivoluzione sessuale. Indie Porn Revolution è un progetto che definisce con maggiore chiarezza gli ideali del movimento Sex-positive nell’industria del porno. Di nuovo grazie alla ragazza “problematica” (n.d.T.:gioco di parole con il nome Courtney Trouble).

sd♥ QUEERPORN.TV: nel 2011 ha vinto il premio attribuito dai Feminist Porn Awards come miglior sito web. Questo progetto riunisce molte delle stelle del porno undergound, è un sito davvero adorabile perché condivide pubblicamente produzioni di ottima qualità, si può anche diventare membri e trovare una vasta collezione di documentari, interviste, film e fotografie.

queer
♥ A Four Chambered Heart: è uno studio cinematografico dedicato alla produzione di cortometraggi pornografici non convenzionali. I suoi video integrano elementi naturali e fantasie sessuali, con edizioni digitali, effetti sonori e un accurato lavoro di ripresa e scenografia. Questo collettivo inglese esplora le nuove forme della sessualità, dell’arte e della pornografia, attraverso una proposta differente che combatte la banalità del porno commerciale.

http://vimeo.com/104864285

♥ Comstock Films: questi film integrano interviste documentali con sesso reale e intimo. Non si tratta di coppie di attori, ma di persone che realmente si amano e celebrano la propria sessualità. E’ bello, elegante, eccitante, erotico e sexy, le coppie sono di tutti i tipi: eterosessuali e omosessuali, di età e culture diverse. Amiamo questo progetto del regista Tony Comstock, perché è una potente fonte di ispirazione, dato che non separa l’erotismo dalla pornografia.

porno femminista

♥ Pink & White Productions: diretta da Shine Louise Houston, un’altra delle sorprendenti donne registe e produttrici di porno che ci piacciono. I suoi film sono sexy e ben prodotti, cioé, i suoi film integrano la bellezza del cinema, fatta di effetti sonori e di ripresa, con il sesso reale ed esplicito. Oltre a ciò questa produttrice si preoccupa di insegnare “come fare un buon porno” – con tutta la parte tecnica e i suoi segreti – come commercializzarlo e distribuirlo responsabilmente. Legati a questa produttrice potrete trovare prodotti come: Crash Pad Series, Heavenly Spire y Pink Label.porno femminista 1

♥ Bleu Productions di Maria Beatty: continuando sulla scia del buon cinema porno incontriamo questa regista newyorchese, i suoi film sono eleganti, con scene surrealiste, oniriche e affascinanti, alcune in bianco e nero e con musiche di grandi artisti del jazz come John Zorn. Maria Beatty ha esplorato la sessualità femminile nel cinema come nessun’altra donna fino a ora. Il suo film icona è The Black Glove filmato nel 1997, un bel film che pare una fotografia di Helmut Newton che prende vita propria per animare la sua fantasia, le sue protagoniste sono donne incredibilmente belle e fatali.

porno femminista 2

♥ Dirty Diaries: è una collezione di 12 corti di porno femminista prodotti nel 2009 da Mia Engberg. E’ uno dei prodotti più rilevanti del movimento Sex-Positive e Porno femminista, poiché si tratta sia di un progetto artistico che politico. Dirty Diaries aspirava a stabilire delle regole per la creazione di pornografia che rispondesse a le necessità delle donne. Dobbiamo confessare che questo progetto è stato davvero la miccia per la creazione di Militancia Erótica. Potete vedere qui uno dei 12 corti (completo) intitolato Skin.

http://muvi.es/w1512

E per finire, come un orgasmo molto forte, presentiamo con un rombo di tamburi, ta!ta!taaaa! la bellissima, incredibile e spettacolare ♥Annie Sprinkle♥

ann porno femminismo militanza erotica♥ Annie Sprinkle: questa artista newyorchese è una sacerdotessa dell’erotismo, una conoscitrice dei sacri segreti del sesso. Lei è la grande promotrice del movimento Sex-Positive dagli anni ’80. Attraverso bellissime performance ci ha illustrato il potere che hanno i nostri corpi e la magia del sesso. E’ un’attivista per la libertà di espressione, per i/le lavorator@ sessuali e a favore di un sesso sano e forte. Annie Sprinkle ha anche diretto ed è stata protagonista di film pornografici legati ai movimenti Post-Porno, Sex-Positive, Porno Femministi, Eco-Porno e altre correnti: lei è la regina della rivoluzione sessuale.

Con amore, Militancia Erótica

Testo originale Guía de Porno Independiente Vol. 1, di Militancia Erótica. Traduzione di Serbilla, revisione di feminoska.

 

Deconstructing la replica delle Malmaritate. Il marketing rosa e il ciuccio che vola

Asino perlesso.
Asino perplesso.

Riportiamo di seguito la replica delle Malmaritate alle critiche che abbiamo mosso loro in questo post. Di questa replica vi ringraziamo. Da parte nostra vogliamo rispondere con una decostruzione del testo, al fine di chiarire punto per punto la nostra posizione. In corsivo le parole di Serbilla [tra parentesi quelle di Lorenzo].

Facciamo seguito ad alcune critiche che ci sono state rivolte negli ultimi giorni.
Questa la nostra replica.

“Carissime amiche contrariate,

Neanche noi abbiamo mai avuto intenzioni belligeranti. Abbiamo mosso una critica politica a delle pubbliche affermazioni, riguardanti un lavoro pubblicato che ricade, per intenzione delle artiste, in questioni politiche di cui ci occupiamo. Di questo si tratta. Preciso che il mio articolo appartiene al collettivo e al collettivo appartengono più generi. Soprattutto, non sono contrariata, non dovete certo corrispondere a delle mie aspettative; le vostre dichiarazioni sono sconfortanti, preoccupano perché si inseriscono nel solco della retorica istituzionale che usa la vittimizzazione delle donne per opprimere e reprimere. La vostra azione – come quella di tanti soggetti che quotidianamente usano il brand “violenza contro le donne” – svuota di significato la lotta, che è una lotta politica. Politica, di impegno politico, di chi abita la polis per intenderci. Voi la abitate? se la abitate non potete sottrarvi dall’agire politico. Potete dichiararvi non femministe, ma questo è un posizionamento politico.

[«Amiche», perché se sei uomo non ti può neanche dare fastidio che qualcuna usi le parole a casaccio e te lo venga a dire, quando lo fai. Cominciamo bene.]

non essere femministe (sostantivo)

sostantivo

– non vuol dire ignorare, o peggio, disprezzare il femminismo (di cui tutte conosciamo i valorosi ed encomiabili trascorsi);

Non essere femminista significa non riconoscersi in nessun femminismo (diamo per scontato che attribuiamo a questa parola lo stesso significato), quindi non riconoscerli come validi strumenti di analisi e azione. Dunque come fate a parlare di encomiabili trascorsi? Ma, poi, trascorsi? Ora, adesso, in questo momento, ci sono nel mondo milioni di femminist@ che agiscono da femminist@ anche per voi. Chiaramente non essere femminista è una posizione legittima, che andrebbe però argomentata, data la volontà espressa di volersi impegnare nella lotta alla violenza contro le donne, cosa femminista.

– non vuol dire esimersi dal compiere azioni femministe (aggettivo)

..e aggettivo. Questa è un’arrampicata sugli specchi spaventosa. Non siete femministe ma fate cose femministe. E’ come dire: compio azioni antirazziste,  ma non sono antirazzista. Oppure: compio azioni antifasciste, ma non sono antifascista. Ti dissoci dall’antifascismo ma, allora, perché compi azioni antifasciste?  Potete anche esimervi dal compiere azioni femministe, se non vi riconoscete nel femminismo.
Va be’ io ho capito però, la traduzione sarebbe: noi siamo contrarie alla violenza contro le donne, però non ne capiamo niente ed è meglio che diciamo di non essere femministe. Sbaglio?

[Il duck test è un metodo di ragionamento molto semplice: se parli come una femminista, fai cose femministe e agisci per lotte femministe, sei femminista. Però le Malmaritate vogliono sovvertire anche la logica più elementare. Perché?]

– non vuol dire fare SCIACALLAGGIO sulle disgrazie altrui.

Parlate di violenza contro le donne e lo fate il 25 novembre, due cose femministe che non riconoscete come tali. E’ un’azione di marketing come lo sconto dal parrucchiere l’otto marzo. La musica nutre l’animo e l’intelletto, il taglio di capelli nuovo ti fa sentire più carina. Approfittare della festa della donna e del 25 novembre per vendersi alle donne è marketing, il marketing non è filantropico.
Immagino a questo punto che non abbiate nessuna consapevolezza di ciò che fate, sempre parlando di dichiarazioni e tempistica.
[Come detto sopra, se fai una cosa “per le donne” il 25 novembre, fai marketing. Che si può chiamare sciacallaggio anche se il vostro CD costa “solo” dieci euro.]

Detto ciò, dire di essere femministe, dal nostro punto di vista, significherebbe appropriarsi indebitamente di un ruolo che non svolgiamo al 100%, sminuendo e strumentalizzando di conseguenza il lavoro quotidiano di chi in questo “dignitosissimo movimento” impiega infinite risorse ed energie.

Avete presente quella volta in cui qualcuno vi ha fatto sentire a disagio, perché dedicavate troppo tempo allo studio del vostro strumento musicale e non abbastanza alle pulizie di casa? Avete presente quel senso di frustrazione? Quella rabbia perché voi volevate seguire la vostra passione e, maledizione, i piatti nella vaschetta possono pure aspettare! E se proprio nonno, papà, zio, li vogliono puliti, possono anche lavarseli da soli, che non ce le avetele mani?! Avete presente? Ecco, quella è rabbia femminista. Se avete pensato una sola volta “non è giusto che debba fare io questa cosa/debba rinunciare a questo, solo perché sono nata con la vagina” complimenti, dentro di voi siete femministe – ma non ve ne eravate accorte, a tutt@ capita così in principio, anche a chi non è nat@ con la vagina, ma è femminista lo stesso.
Essere femministe non è un “ruolo”, non c’è una patente che qualcuno vi dà dopo aver superato delle prove. Non c’è un partito, non c’è una chiesa. Si è femminista quando ci si comporta da femminista. Un’azione può essere oggetto di critica, ma nessuno può dirvi “non sei femminista”, perché la regola numero uno è: siete voi che vi dite femministe. Voi invece vi siete dette non femministe, per rispetto. Se vi dico che sapevo già che avreste risposto così, mi credete?

Il lavoro quotidiano di cui parlate, forse, è quello delle operatrici dei centri antiviolenza. Per quello ci vuole una formazione, ovviamente, ma essere femminista non si conclude in quello. I centri antiviolenza sono una delle espressioni del femminismo. Il femminismo non è un lavoro, è un modo di essere, questo modo di essere lo si porta in ogni azione quotidiana.

[Solo io noto che «appropriarsi di un ruolo» è una espressione molto “economically correct”? No, non solo io. E ci sarebbe sempre quell’anatra da sistemare: quel ruolo lo state svolgendo, se proponete qualcosa che andrebbe contro la violenza di genere.]

Ma forse questo è semplicemente un rispettoso scrupolo linguistico che ci siamo poste sin dall’inizio e che umilmente ci siamo adoperate a sottolineare in seguito.
Il nostro impegno si traduce
– nella lotta contro ogni tipo di violenza sugli esseri umani (e non)

Sì siete buone, anche se in questo momento non vi sembra così, pure noi lo siamo. Davvero!

– nel sostegno che, con non trascurabili sacrifici, offriamo incondizionatamente.

Mi fa sapere Jinny Dalloway che Thamaia, l’unico Centro Antiviolenza di Catania, è a rischio chiusura, potete devolvere il ricavato del cd a loro, questo sarebbe un gesto di sostegno concreto.

Forse ci sentiamo più genericamente FEMMINE UMANISTE, simpatizzanti femministe, irriducibili animaliste, inguaribili musiciste.

Io mi auguro che ci stiate perculando.  Perché “simpatizzante femminista” non si può sentire. Io simpatizzo blandamente per il Napoli perché sono napoletana, anche se non seguo molto il calcio. E sono antispecista, sempre perché mi posiziono. La mia non è una critica alla vostra musica, non mi permetterei. Da femmine+umaniste si genera facilmente femministe, state attente, non sia mai!

[Ciao, io sono molto trendy uscendomene il 25 di novembre con un CD e un progetto contro la violenza sulle donne, ma siccome c’è chi se ne occupa da qualche decennio e potrebbe vagamente sentirsi presa in giro, allora mi metto un bel nome nuovo che non significa niente così faccio vedere la mia unicità – delimitando perbene il territorio che non voglio spartire con nessun altr@: femmine umaniste. Che vuol dire? Niente! «Femmine» lo siete per forza, «umaniste» pure – e che volete essere “disumane”? “Non umaniste”? L’importante è che “femministe” no, mai, per carità.]

Con molta sorpresa e sgomento constatiamo un accanimento, forse un po’ esagerato, verso ciò che facciamo col cuore.

Due articoli non sono accanimento, sono niente rispetto all’eco delle vostre parole. Parole che viaggiano molto di più e molto più velocemente, accostate al nome di Carmen Consoli. Vi pare troppo severa la critica? voi fate le cose con il cuore, nessuno lo mette in dubbio, ma non basta.
Sottolineare più e più volte che non si ha niente a che fare col femminismo quando si tratta di violenza contro le donne produce l’effetto di delegittimare quelle persone che di antiviolenza si occupano da sempre, anche qunando il 25 novembre finisce. E questo crea un’onda di ritorno devastante, laddove è unicamente il femminismo che può fare qualcosa di concreto per risolvere definitivamente la questione.

[Le Malmaritate di femminismo forse sanno poco, ma di tattica politica sì: gli fai notare che stanno usando un linguaggio insensato, e loro chiamano le tue critiche «accanimento». A me pare lo stesso giochetto di certe sentinelle che, mentre vogliono soffocare i diritti altrui, gridano di essere in grande pericolo.]

Vi invitiamo a capire ed approfondire in maniera più appropriata la natura del nostro progetto e del nostro impegno prima di giungere (pubblicamente) a conclusioni affrettate e denigratorie.

Appare chiaro che non siamo noi a dover approfondire e riflettere. Nel momento in cui dite qualcosa pubblicamente, il pubblico che ascolta si fa un’idea ed esprime la propria opinione. Dato che qui ci occupiamo proprio di quello su cui vi siete espresse, noi abbiamo sentito il dovere di puntualizzare che depoliticizzare la tematica e fare marketing sulla violenza (anche involontario o “suggerito”), crea un danno. Dalla vostra risposta troviamo solo conferme.

[Ah, voi v’inventate definizioni e noi dovremmo «capire e(d) approfondire»? E come lo si dovrebbe fare poi, se non valutando quello che dite in pubblico? Complimenti. A proposito, c’è uno che sostiene che la d eufonica si mette solo tra due vocali identiche. Forse pure lui dovrebbe capire e approfondire?]

Vi aspettiamo, dunque, numerose al nostro fianco per continuare, ognuno con i propri mezzi e capacità, a camminare insieme come è giusto che sia.”
Malmaritate

Anche noi vi aspettiamo, gli strumenti sono a disposizione di tutt@. Ci auguriamo di trovarvi più consapevoli al prossimo giro.

[Numerose perché noi gli uomini proprio non ce li vogliamo, non siamo femministe, solo femmine umaniste e i maschi no, non possono continuare a camminare insieme.]

Serbilla e [Lorenzo]