L’istinto materno non esiste

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«C’è ancora una pressione molto forte sulle donne, le quali sembrano essere sottomesse a una falsa equazione: essere donne significa essere madre», afferma lo psicologo Mariano Torres.

Essere donna non implica essere madre, ciononostante le donne subiscono ancora una forte pressione sociale rispetto alla maternità, un’idea che si perpetua attraverso il celebre “istinto materno”. Tuttavia, il desiderio di essere madre (o no) non ha alcuna causa fisiologica provata.

«No, non avrò figli», risponde Alicia Menéndez alle impertinenti domande delle vicine, delle zie, e anche delle amiche. Queste, sorprese, contrattaccano con un  «Ma è perché non ti piacciono i bambini?» o «fra qualche anno cambierai opinione e sentirai la chiamata». Alicia, che ha appena compiuto trent’anni e lavora come assistente amministrativa, assicura che “non voglio avere figli” è il nuovo “non voglio sposarmi”, anche se sostiene che la seconda affermazione non produce lo stesso ‘disordine pubblico’ della prima.

«Ho avuto un compagno per quattro anni ma da poco più di un anno abbiamo deciso di rompere. Lui sapeva di volere dei figli, io sapevo di non volerne. Rispetto, ma a volte mi sorprende – e mi spaventa – la capacità di alcune persone di provare più amore per qualcosa che in ogni caso è un progetto a lungo termine nella propria vita, che per qualcosa che già hanno, qualcosa di reale». Alicia ricorda che giunse un momento in cui l’arrivo di un bambino avrebbe rappresentato una catarsi, il sollievo dopo mesi di discussione. «Capirei se non potessi avere figli, se fossi sterile, ma non accetto che tu non voglia averne potendoli avere», le ripeteva lui.

‘Mujer sin hijo’ [‘Donne senza figlio’], di Jenn Díaz

«Esiste ancora una pressione molto forte sulle donne, le quali sembrano essere sottomesse a una falsa equazione: essere donne significa essere madre», afferma lo psicologo Mariano Torres. C’è un’idea tacita che giace nelle profondità della nostra mente. Secondo Torres, «si associano la bontà e la generosità a quelle donne che vogliono essere madri, e l’egoismo a quelle che rifiutano la maternità in modo netto, come se queste ultime fossero individualiste che si preoccupano solamente di loro stesse. Nonostante ciò, non restiamo a bocca aperta quando un uomo dice che non vuole essere padre».

Ma cosa accadrebbe se la pressione sociale di cui parla lo psicologo diventasse in una imposizione? Cosa accadrebbe se per legge le donne fossero obbligate a procreare? Questo è ciò che propone Jenn Díaz nel suo ultimo libro, ‘Mujer sin hijo’ [‘Donne senza figlio’] (Jot Down Book). La scrittrice prospetta la seguente distopia: un paese nel quale il governo crea un Piano di Ripopolazione Nazionale dopo una grande guerra, secondo il quale le donne devono avere figli. Uno scenario nel quale c’è chi si rifiuta di vedere il proprio utero usato come ‘terreno di coltura’. «La maternità è un tema che mi interessa, per non dire che mi ossessiona. Avevo molta voglia di tornare a creare un mondo immaginario, come feci nel mio primo romanzo (‘Belfondo’). Non so né quando né come iniziò, ma da subito mi sono vista scrivere su una donna che non voleva avere figli, e l’ho voluta mettere in difficoltà», dice l’autrice.

E questo personaggio che Díaz spreme e racchiude tra le sue pagine per metterla di fronte a sé stessa è Rita Albero, sposata con Samuel, un uomo che brama una discendenza. “Se non potessi avere figli, probabilmente mio marito mi abbandonerebbe”, ripete a sé stessa all’inizio del libro. L’identità di donna si può sostituire con quella di madre? «Molte volte si antepone il fatto di essere madre a quello di essere donne. Ma questo avviene in funzione di come la madre vuole affrontare la cosa: lottare per cambiare o assumere il ruolo. Il figlio ti cancella nella misura in cui tu lasci che ti cancelli: la maternità in sé stessa non è cattiva, lo è come la concepiamo da secoli», puntualizza la scrittrice.

Ideologia della madre perfetta

L’argomento che espone Jenn Díaz è simile a la tesi che sostiene Elisabeth Badinter nel suo saggio ‘Le conflit. La femme et la mère’ [‘Mamme cattivissime? La madre perfetta non esiste’, Corbaccio]. La filosofa francese critica la sacralizzazione della maternità, la figura della madre perfetta. “Così com’è concepita la maternità attualmente nella nostra società, presuppone una nuova schiavitù per le donne, perché antepone il bambino a tutto”, scrive Badinter. La figura della madre perfetta (abnegata, che allatta al seno, che ha partorito con dolore ma senza lamentarsi) secondo la saggista, provoca solamente frustrazioni ad entrambe le parti: per il non essere una buona madre e per il non essere una donna realizzata. “L’ideologia della buona madre confina la donna in casa, converte la maternità in una professione a tempo pieno”, critica.

È il cosiddetto ‘istinto materno’ o ‘ruolo biologico della maternità’ ciò che conferisce un ‘carattere scientifico’ al fatto che molte donne desiderano essere madri. «La donna nasce con un numero approssimativo di ovuli, circa 400.000 (nell’età fetale ne ha un milione, ma durante lo sviluppo ne perde più della metà). Poi, dopo la nascita, la donna ne  perde poco a poco, e c’è un’età, attorno ai 40 più o meno, in cui avviene una perdita importante. Quando si raggiunge la menopausa significa che si resta senza ovuli, per cui non si può più essere madre. Questo è l’orologio biologico, che non ha alcuna relazione con il fatto che una donna desideri o no essere madre» spiega il dottor doctor Manuel Fernández, direttore dell’ IVI di Siviglia.

«Prima sì, si metteva in relazione il periodo di ovulazione con il fatto che la donna fosse più ricettiva per la riproduzione, ma lo sviluppo culturale ha modificato tutto questo completamente, da cui ne deriva che il desiderio di essere madre (o no) non ha una causa fisiologica conosciuta», aggiunge il dottor Fernández. Affermando che vanno a consulto coppie in cui  «se la donna non può avere figli, questa si sente molto in colpa, e lo ritiene un problema per il marito». «In culture come quelle gitane o arabe, per ciò che ho potuto vedere, vi sono ancora molti uomini che associano la donna ad una funzione eminentemente riproduttiva» sottolinea.

Il dottor José María Lailla, presidente della Società Spagnola di Ginecologia e Ostetricia (SEGO), spiega che gli ormoni considerati femminili (estrogeni e ossitocina) potrebbero avere una relazione con questo preconcetto. «Se ci basiamo sugli animali, tutte le femmine desiderano essere madri. Tuttavia, quando le si castra, questo desiderio di solito scompare. Nella donna questo non avviene, giacché molte continuano a desiderare di avere dei figli anche quando sono state sterilizzate per motivi medici». Per questo, il dottor Lailla stabilisce che «non ci siano cause fisiologiche dimostrabili», anche se nota che «il desiderio di avere dei figli nelle donne continua a essere maggioritario».

Essere donne non significa essere madri

La sociologa britannica Catherine Hakim, autrice dello studio ‘Childless in Europa’ [Senza figli in Europa], sostiene che «l’istinto materno non esiste, è un mito utile a perpetuare l’obbligo morale di avere figli nelle donne», aggiunge. Perché come sarebbe un mondo in cui le donne rifiutano di avere una discendenza? «Non vogliamo arrivare a quel punto, così diciamo che si tratta di ‘istinto materno’ affinché sembri un desiderio intrinseco al fatto di essere donne. Dunque, le donne che non vogliono avere figli sono anormali?», si domanda la sociologa.

Ángeles Caballero, di trentasette anni, è giornalista e ha una figlia di sei anni e un figlio di tre. Afferma che «la società a volte è crudele con le donne»: «Se non abbiamo figli siamo incomplete, se non ci sposiamo anche. Se decidiamo di non essere madri e persino se siamo biologicamente impossibilitate ad averne ci trasformiamo in bestie rare. Questo agli uomini non succede, o non così tanto», racconta. «Mia sorella non ha figli e mai mi è sembrato un atto di egoismo. Può essere che un giorno si penta, ma conosco donne e uomini che si pentono di essere diventati madri e padri senza valutarne le conseguenze. E questo è irreversibile. Mi riferisco a quella maternità che riflettono molti mezzi di comunicazione, la maledetta ‘superdonna’ che tanto danno continua a farci».

Nel suo romanzo ‘Mujer sin hijo’, la scrittrice parla attraverso la protagonista: «Rita chiarisce che ciò che rifiuta è la maternità imposta e non la maternità in sé stessa. Quando una donna che vuole avere un figlio fa un figlio, ha vinto. Quando una donna che non vuole avere un figlio non lo fa, ha vinto».

Testo originale di Noemí López Trujillo, MUJERES SIN HIJOS. «El instinto maternal no existe», pubblicato su gonzoo.com. Traduzione di Serbilla, revisione di feminoska.

Riprodursi? Anche no!

 Devo ammetterlo, la questione fino a qualche anno fa non mi interessava proprio… Fino a quando sono stata felicemente immersa in quell’età nella quale la riproduzione è soltanto uno spauracchio (la gravidanza da evitare perché troppo giovane) nonché una questione teorica rimandabile (apparentemente, come tutte le cose spiacevoli – dalla calvizie maschile all’artrite) in un futuro molto più ipotetico che reale. Ma compiuto il giro di boa (non ricordo nemmeno esattamente quando), la questione dell’avere figli è diventato come un mantra. Sia chiaro, non per me: io sono rimasta, da quel punto di vista, quella di un tempo. E tra tante idee del cavolo che mi sono state inculcate dal ‘braccio amorevole del sistema’ (la famiglia), fortunatamente l’inevitabilità del mio destino di ‘fattrice-in-quanto-donna’ non ha mai attecchito particolarmente nei miei genitori, e di conseguenza, in me… Si, ecco, loro erano più il tipo ‘diventerai-un’-avvocatessa-rampante-e-spietata-vivrai-nella-grande-mela-e-il-tuo-guardaroba-sarà-come-quello-di-paperino-ma-pieno-di-costosissimi-tailleur (Acc…papà e mamma, mi spiace… you lose!). Così sono cresciuta in maniera un po’ più ‘selvatica’ dal punto di vista delle mie gonadi, considerando la questione maternità davvero molto lontana dal mio orizzonte esistenziale. Poi il tempo passa, ti laurei, inizi (tristemente) a lavorare, vai via dalla casa dei tuoi, ti trovi un compagno più o meno fisso, e il mondo intorno subisce una rivoluzione copernicana. Tic, toc, tic, toc, scopri di avere un orologio impiantato nell’utero… E da un giorno all’altro ti ritrovi tutti nelle mutande, per dirla chiaramente. Familiari, parenti, vicini di casa, perfino datori di lavoro… tutti a chiederti se hai dei figli, se ne vuoi, perché non ne vuoi, cioè, insomma, alla tua età… sei strana. Strana io? Cioè, pensiamoci un attimo: PERCHE’ DOVREI DESIDERARE UN FIGLIO?

imagesE non penso tanto a ciò che lo impedirebbe in senso negativo (le solite litanie fatte di lavoro precario, garanzia di un futuro di incertezza per il pupo, fino ad arrivare ai problemi globali di sovrappopolazione in un mondo finito, l’inquinamento, financo la minaccia atomica – sto esagerando… più o meno!), ma a quello che la rende un’opzione insensata IN SENSO POSITIVO: guardo alla mia vita di oggi… non ho un figlio, e non mi interessa averlo. Sono alla soglia dei 40, ho un lavoro precario e part-time che mi fa sì guadagnare poco (ma poi ‘poco’ rispetto a quali standard? Non certo per i miei, per i quali il mio guadagno è più che sufficiente a sopravvivere!) ma mi lascia ampi spazi di vera libertà, fatti di tempo da dedicare a ciò che REALMENTE dà un senso alla mia vita… l’attivismo politico, gli animali umani e non umani che condividono la vita con me, le cose che amo fare (leggere, passeggiare in mezzo alla natura, scrivere o disegnare). Sento di avere una vita molto piena (pure troppo!), e anzi, persino quelle 4 ore al giorno che fino ad ora sono stata costretta a dedicare al lavoro per ‘mangiare’ mi paiono ore rubate al mio tempo di vita, tanto che mi sto arrovellando per cercare un modo di limarle ancora un po’!

Non sento vuoti da riempire, né di tempo né affettivi… anzi, a dirla tutta, sì, a volte sento qualche mancanza, perlopiù quando non riesco a vedere persone a cui tengo – quelle con le quali, negli anni dell’università ad esempio, vivevi in simbiosi giorno/notte – perché stritolate in un lavoro full time o, come sempre più spesso accade, tra le due schiavitù fondanti e primarie di questa società: lavoro e casa/famiglia/figli.

3yEdQETAllora io mi chiedo, perché? Perché le persone arrivano con tanta inconsapevolezza all’età nella quale scatta quella programmazione sociale che le porta, contro ogni ragionamento e buon senso logico (individuale e collettivo) a sobbarcarsi l’enorme fatica personale/economica/di tempo di riprodursi (nonché ad aumentare il già troppo esuberante numero di persone che già esistono, e che non solo stanno cancellando dalla faccia della terra le altre specie, ma stanno anche faticando sempre di più ad esistere loro stesse – la torta è sempre quella, baby, ma gli invitati sempre di più!)? Il mondo esubera di bambini che vivono in condizioni pietose, perché questo anelito al ‘proprio’ bambino? Cos’è questo rigurgito che sa tanto di smania di proprietà e illusione di propria immortalità (cioè, davvero vi considerate così speciali)?
Mi rispondo, in parte: imprinting, noia, paura del futuro e anche una buona dose di totale incoscienza. E, prima che nei confronti di questo mondo, nei propri stessi confronti. La quasi totalità delle persone che hanno dei figli sono totalmente incoscienti, di sé stesse e del proprio ruolo all’interno del sistema di cui tanto si lamentano – quasi mai si sono fermate a chiedersi da dove derivino questi ‘insopprimibili impulsi o desideri’ prima di portarli a compimento – della mole spaventosa di responsabilità verso quel nuovo individuo – ma davvero si può essere felici di mettere al mondo un nuovo schiavo (che ci piaccia o no, questa è la realtà con la quale ci troviamo oggi a farei conti) dovendolo poi indottrinare su come piegare la testa abbastanza per riuscire a sopravvivere! – e verso un mondo che non è soltanto nostro – tutti a immaginare sacri, unici e intoccabili i PROPRI nuovi piccoli umani e mandando al macero tutti gli altri, umani e non, che non trovano posto nel nostro ‘piccolo giardino dell’eden’.
Certo, nasciamo imprintati come le papere di Lorenz, e seguiamo il mostruoso pifferaio magico tutt* felici e starnazzanti… ma poi, crescendo, possibile che non arriviamo mai a capire davvero quello che stiamo facendo? Ricordo quell’ossessivo ritornello dei CCCP (ante rincoglionimento di Giovanni Lindo Ferretti): ‘produci-consuma-crepa’, che ci angosciava da ragazzin*, tanto da ripeterlo all’infinito come le preghiere di un esorcismo – quando tutt* pensavamo che noi, così, non lo saremmo diventat*… che ci saremmo ribellat*!
Io ci riconosco in quanto schiav*: siamo schiav* di questo sistema dalla nascita, differentemente ma similmente da tutti gli altri animali, umani e non, e siamo forgiat* per esistere secondo un’idea totalitaria che non ci appartiene. Questa è la nostra origine, e non è una nostra colpa. Ma poi, poi arriva un momento nel quale subentra (o dovrebbe subentrare) la nostra coscienza e la nostra responsabilità, e lì si palesa invece la nostra collusione. Ed è così deprimente vedere le persone inanellare tappe in maniera automatica, aggiungendo schiavitù a schiavitù, invece di tentare di liberarsi da quelle che già ci opprimono (vedi la schiavitù lavorativa, tra le tante), e trasformare la propria vita, ancora acerba e priva di senso, in una corsa ad ostacoli fatta di doveri verso il datore di lavoro, i figli, la società tutta… fino al giorno in cui si potrà finalmente essere liber* di venire rottamat*, o crepare.
Così dopo l’ingresso imprescindibile nel mondo del lavoro suona la seconda campanella irrinunciabile, quella che obbliga a fare figli, e non si ha più tempo per nulla altro, per amic* e rapporti importanti, per la vita politica, la vita della mente… e i soldi non bastano, bisogna lavorare di più per guadagnare di più, il tempo non basta, bisogna svegliarsi prima per fare tutto e andare a letto sempre più tardi e più esaust*, sobbarcandosi il compito di far crescere degli altri individui, quando non si è mai nemmeno dedicato il giusto e necessario tempo a far crescere sé stess*… e quella persona che siamo e che ancora dovrebbe crescere, capire, nutrirsi di nuove idee ed esperienze finisce in un cantuccio schiacciata da ‘doveri’… autoimposti.
Insomma, perché? Cosa credete che manchi alle vostre vite? Io me lo chiedo, e non trovo una risposta.
A volte qualcun* mi dice che mi sto perdendo qualcosa. Credo abbiano ragione, ma non sanno cosa stanno perdendo loro.

1263.kidsnoway E’ una questione di scelte, del resto. Rispetto a chi ha un lavoro full time e dei figli, io ho meno denaro e più tempo. Non conosco la gioia che possono dare dei bambini, ma nemmeno le rinunce e i dolori. Conosco la gioia della libertà che me ne deriva, dei rapporti altri che coltivo, del tempo che posso dedicare alla mia crescita personale, alla vita in un senso assai più ampio ed inclusivo. Questo guardarmi così mortalmente inserita in un tutto che mi trascende, mi fa sentire assai meno speciale, e d’altro canto assai libera. Perdo qualcosa e guadagno qualcosa, perché ogni scelta presuppone vantaggi e rinunce, e credo che, per la persona che sono, questo sia quanto di più desiderabile possa esistere. Peraltro, ne vedo il grande valore aggiunto di poter avere tempo anche per altr*, la mia famiglia allargata, fatta di quegli animali umani e non umani che già esistono, qui ed ora, e purtroppo, spesso, si trovano in difficoltà.
L’estremo lo raggiunge chi mi taccia di egoismo… egoista, io? Sì, bado al mio benessere. Sono felice del mio tempo, sono felice di non dover ‘vivere per i figl*’, ma di scegliere per chi vivere, per me o per coloro che scelgo di amare. Felice anche di poter oziare, o ‘perdere tempo’. E siccome non ho mai creduto a certe bugie, so anche che la mia scelta di non avere figli ha potenzialità – non ignorabili né irrilevanti – di ripercussioni positive sugli altri esseri già viventi e sul pianeta. Ma poi, come posso essere egoista verso qualcuno che non esiste? E non sono invece costretti all’egoismo i genitori i quali, stritolati nelle cure parentali, spesso anche volendo non possono dedicarsi ad altr*?
Non si deve per forza scegliere tra la propria felicità e quella altrui, anzi: io non l’ho fatto, e la mia pratica politica femminista/antispecista e la mia vita mi hanno insegnato che spesso le due cose coincidono. Un altro mondo non arriverà mai, senza il coraggio di mettere in pratica nuove prospettive…
E non mi reputo estinzionista – almeno non nel senso negativo con cui questo termine viene evocato il più delle volte: sono sicuramente per una riduzione drastica del numero di animali umani, ottenibile non attraverso ‘l’epidemia mortale’ o la sofferenza e il dolore, ma semplicemente evitando di riprodursi in maniera incontrollata e irresponsabile. Si può fare, e si deve fare, checché l’astensione dalla riproduzione sia un tema tabù nella nostra società. Nel frattempo, e ad incommensurabile beneficio delle generazioni future (umane e non umane), mi eserciterò a diventare quella persona e immaginare quel mondo che vorrei, così distante nelle forme da quello nel quale mi ritrovo oggi a vivere. Cercando di essere io quella figlia a cui insegnare qualcosa di utile e sensato – a beneficio della mia stessa vita e di quella altrui – sforzandomi di imparare dalle altre persone e di trasmettere quello che di buono mi pare di aver inteso… questa è la maternità migliore che possa portare a termine, quella i cui frutti spero avranno davvero un potenziale trasformativo.
Perché i nostri figli siamo noi, e quell* che già ora ci circondano. Liberando noi stess*, liberiamo anche loro, e quell* che verranno.

Dunque cosa stiamo aspettando?