La risposta, amica mia, sta latrando nel vento

dandelion-blowing-in-wind1resizedVicino a casa c’è un terreno recintato, un frutteto direi, se non fosse che un’alta siepe mi impedisce di vedere chiaramente attraverso. Nel frutteto ci sono due cani, che, contro ad ogni logica, sono tenuti a catena. Un beagle, ne sono certa dal modo di abbaiare, e un cagnone non meglio identificato che ho intravisto una volta affacciarsi in uno spiraglio del muro vegetale. Sono soli tutto il giorno, alla catena, e il beagle in particolare, abbaia di continuo. Da quando vivo qui, mi sono fatta mille domande: qual è il senso di tenere a catena due cani in un terreno recintato, tenuto a prato e alberi da frutto? Soli, ma nemmeno liberi di muoversi, di giocare insieme, di stringersi l’uno all’altro durante un temporale? Conosco già la trafila che non porta a niente: negli anni ho tentato di tutto in questi casi, soluzioni ufficiali e meno ufficiali, ma – il più delle volte – chi ha il tarlo della catena, anche quando gli porti via un cane in capo a qualche settimana ne mette uno nuovo allo stesso posto. E così subisco questa tortura quotidiana.

Ogni giorno la crudeltà umana mi sveglia, e ogni sera mi impedisce di dormire. La crudeltà latra, latra di continuo, è la sirena che ogni giorno mi prepara ad altre crudeltà a venire. E che ogni sera mi augura di non riposarmi bene, perché anche l’apparentemente pacifica notte in questo pianeta rotondo è un giorno crudele da qualche altra parte.

A farci caso, la crudeltà umana è varia e multiforme, e non si ferma dinanzi a nulla.

La vedi nelle piccole cose come in quelle più grandi. La vedi nell’indifferenza alla sofferenza, come nel godimento dissimulato per le disgrazie altrui. E non soltanto verso gli animali, o verso le persone sconosciute. La vedi nei colleghi di lavoro quando a vedersi fatt* fuori dopo anni di precariato sono altr* e non loro. La vedi nei vicini di casa frustrati, che si ingegnano in guerre di logoramento per i motivi più banali. La vedi nello sguardo di disprezzo per chi tende una mano verso un finestrino ad un semaforo, o in quello di indifferenza di un pescatore che tiene un corpo vivo, che si contorce e soffoca, tra le mani.

E’ forse questa la banalità del male? Di quali e quanti atti spaventosi possono macchiarsi le persone “normali”?

Rivendico la mia anormalità. La crudeltà mi annichilisce e mi ossessiona, e del personale ho dovuto fare politico per non uscire di senno. Perché attraverso la consapevolezza, la crudeltà si dispiega in tutta la sua potenza di fronte ai miei occhi. Scegliendo di vedere, non di raccontarmi favole o giustificazioni capaci di tacitare la mia coscienza, mi sono trovata circondata di crudeltà, e dell’indicibile sofferenza che porta con sé. Ogni giorno.

Ho dovuto fare i conti con le mie quotidiane crudeltà: il compito non è facile, ma nemmeno impossibile, e soprattutto non è mai finito.In questo sforzo personale ho trovato il senso di un agire politico che tenta di smascherare quella crudeltà che ci hanno insegnato a considerare “normale”.

Normale è una parola così violenta, non è vero? Ciò che è normale non è giusto, non è etico, non è equilibrato. Conforme alla consuetudine e alla generalità, regolare, usuale, abituale, questo è normale. E se la consuetudine è violenta, se è razzista, se è misogina, se è crudele… allora tutto questo è perfettamente “normale”, ma aberrante per chi riesce a vederlo.  Per chi vuole vederlo.

E così ti dibatti nella situazione paradossale di essere tu, che vedi tutta questa crudeltà e tenti di combatterla e di smascherarla, ad essere “estremista”, “terrorista”, “intransigente”.

Sei ipersensibile perché non vuoi più vedere fiumi di sangue di non umani e umani scorrere, per il “piacere” di addentare un panino o per l’ultimo modello di smartphone disponibile. Sei naif, perché “così vanno le cose, così devono andare”. Sei inopportun*, perché “con tanti problemi, prova a pensare alle cose realmente importanti”.

Ma lo faccio, dannazione, ogni maledetto giorno! Cosa c’è di più urgente della lotta alla normalizzazione della crudeltà?

Quella che fa più male non è la persona che vede la crudeltà e ne è indifferente, ma quella che non la vuole vedere. Quella che addenta un panino al prosciutto e in quell’atteggiamento assolutamente schizofrenico ma completamente “normale”, di fronte ad un maialino sospira di tenerezza, e di fronte ad un’immagine del mattatoio distoglie lo sguardo perché “quelle cose non le posso vedere”.

“Quelle cose” raccapriccianti, che sono diretta conseguenza della carne rosea che fa capolino tra le fette di pane? Carne rosea strappata ad un essere vivo e indifeso, quando se ne poteva fare a meno, perché si può essere felici anche senza causare tutto questo dolore.

Quella crudeltà (e stupidità) che, di fronte ad una collega di più di quarant’anni, lasciata a casa senza un lavoro,  mormora  – tra un sospiro di sollievo e l’altro, rincuorata per non essere stata vittima dello stesso destino –  che “in fondo se l’è cercata, con quel carattere orribile”, solidarizzando con chi sfrutta e gioca con le vite altrui e con la propria.

Stupendosi poi dell’indifferenza che un giorno, con tutta probabilità, dovrà attraversare dopo aver subito lo stesso trattamento.

Quella crudeltà e stupidità e conformismo che si sente migliore di qualunque “diversità”, nell’illusione o speranza di essere più simile a chi ha costruito a tavolino gerarchie di “consumabilità” per parassitizzare chiunque non faccia parte dell’élite autodefinitasi tale… tutt* coloro che si affannano per farne parte, e che il resto si fotta, invece di unirsi per demolirne le fondamenta.

E nonostante la consapevolezza di tutto ciò sia a tratti annichilente, quando imbocchi questa strada coltivi sempre una speranza… perché sai che in fondo, è tutto così complicato ma anche così semplice.

Prende le mosse da un desiderio animale, un desiderio di libertà e felicità, vera, tangibile, concreta, anormale. Eccedente gli angusti spazi di manovra delle “libertà” e “felicità” concesse, una libertà che non vuole nuocere ad altr*, perché sa che per essere felici non ce n’è bisogno. Una libertà che vuole essere contagiosa, non esclusiva. Una libertà che sa che non può esistere autentica felicità quando tutto intorno ci sono solo cadaveri e grida e morte e lacrime e sofferenza.

Una libertà che richiede prima di tutto uno sforzo di verità: una verità scomoda, ma essenziale. Una verità che non limita, come alcun* sembrano suggerire, ma amplifica.

Quella verità che rende liber*, e che dimostra di riuscire a far capolino anche nei peggiori dispositivi di potere e di oppressione, perché la libertà è il bene più grande per ogni animale e il fondamento della felicità… anche per quelle “scimmie fuori controllo” che siamo.

Soprattutto, quella libertà che nel liberarci è capace di liberare anche chi ci sta intorno, che cammini a 2 o 4 zampe, che abbia ali o pinne o tette o pelle dei colori dell’arcobaleno.

La libertà è contagiosa, ma richiede una certa dose di coraggio in tempi così intrisi di oppressione e privilegio. Quel coraggio che possiamo trovare nel confrontarci con la crudeltà che per quanto diffusa, per quanto dissimulata, per quanto normale non riesce a spegnere i latrati dell’anelito ad una vita degna di questo nome. Basta volerli ascoltare.

Il poliamore è il nuovo nero

Jeffrey Alan Love polyamoryTraduzione di questo articolo di feminoska. Revisione di lafra e Serbilla.

Ora che il dibattito sulla monogamia è entrato nelle assemblee, non esiste spazio antagonista, libertario, postmoderno o femminista che non sbandieri la propria poliamorosità. La rottura – formale – dalla monogamia, incarnata in questo concetto sfuggente che è il poliamore, promette di liberarci da tutti i mali, come per magia: ci piace credere che dovunque passi il poliamore non crescano più le malerbe. Invece crescono, e quanto! Non bastano nomi nuovi o gesti grandiosi per far cadere un sistema: partiamo da ciò che siamo per sognare nuovi mondi, ma i nostri sogni si nutrono di sedimenti che ci trasciniamo dietro. Per la materia inevitabile che ci costituisce.

La costruzione di amori non-monogami è fatta di concetti, emozioni e sguardi ereditati dalla monogamia. Le riflessioni di Monique Wittig sull’eterosessualità come sistema di pensiero sono parimenti utili per la costruzione emozionale dell’amore:
“Questi discorsi dell’eterosessualità ci opprimono, nel senso che ci impediscono di parlare a meno che non si parli nei suoi termini. Tutto ciò che la mette in questione viene immediatamente squalificato come elementare. Il nostro rifiuto delle interpretazioni totalizzanti della psicoanalisi fa dire ai suoi teorici che trascuriamo la dimensione simbolica. Questi discorsi ci negano la possibilità di creare le nostre proprie categorie. Ma la sua azione più feroce è la tirannia inflessibile esercitata sul nostro essere mentale e fisico”.

Il sistema monogamico è una tirannia. E non è un’opzione: è un obbligo, ed è la violenza simbolica inscritta in questo obbligo che ci impedisce di scegliere percorsi diversi, anche quando crediamo di sceglierli. A volte vinciamo la lotteria e gli obblighi ci risultano opportuni, comodi, ma questo non li rende opzionali. Come spiega Pierre Bourdieu: “Di tutte le forme di persuasione nascoste, la più spietata è quella esercitata semplicemente dall’ordine delle cose.” La monogamia è un sistema di oppressione così ben codificato che ci ritroviamo lacerati di dolore ogni volta che cerchiamo di opporvi resistenza.

Abbiamo vinto la morale, la vergogna e le leggi che ci vogliono docili e cast@. Ma il mal di pancia di fronte alla rottura dalla monogamia non si cura con manifestazioni o striscioni. Lo straordinario apparato di propaganda e infiltrazione del sistema ci insegna fin dalla nascita che l’amore è a due, che la vita senza la coppia è un fallimento, e la vita a più di due è sospetta. Che se sei single, o se hai più di un amante, è perché hai delle mancanze. Ci insegna a sentirci minacciat@ da ciò che ci circonda, a passare da un amore all’altro per la pura incapacità di amare più di una persona, o ad amarne più di una per semplice incapacità di impegnarsi. La monogamia ci vuole limitat@, cup@, spaventat@, egoist@, divisi in coppie, in duetti. E tutti i disastri amorosi che accumuliamo nella maggior parte della nostra vita, tutte le volte che abbiamo sofferto per amore, tutti gli amori che son diventati battaglie, tutte le cicatrici che ci attraversano sono la prova che il sistema funziona bene e impregna di miseria il nostro potenziale più grande: la capacità che abbiamo, dopo tutto, di amare.

La lunga notte dei secoli
La monogamia non esige da tutt@ allo stesso modo. Le più grandi limitazioni e l’esclusività sono toccate storicamente all’identità femminile. Silvia Federici in Calibano e la strega, parla del controllo del corpo e della sessualità come di un prerequisito per l’attuazione dello strumento del capitalismo durante il Medioevo europeo. Un controllo che viene esercitato su tutti i corpi, ma che ha riservato alle donne l’orrore della caccia alle streghe.

“I processi alle streghe forniscono un elenco che fa riflettere sulle forme di sessualità vietate nella misura in cui erano ‘non produttive’: l’omosessualità, il sesso tra giovani e anziani, il sesso tra persone di classi diverse, il rapporto anale, il rapporto da dietro (si credeva che risultasse in rapporti sterili), la nudità e la danza. Venne anche vietata la sessualità pubblica e collettiva che ha prevalso durante il Medio Evo, e nelle feste di primavera di origine pagana che, ancora nel XVI secolo, si celebravano in tutta Europa. (…) La caccia alle streghe – che condanna la sessualità femminile come fonte di tutti i mali – ha rappresentato anche il principale strumento per effettuare una ristrutturazione globale della vita sessuale che, adeguata alla nuova disciplina del lavoro capitalista, criminalizza qualsiasi attività sessuale che minaccia la procreazione, il trasferimento di proprietà all’interno della famiglia o sottragga tempo ed energia al lavoro.”

Ancora più anticamente, in Europa, la monogamia implicava un patto di fedeltà sessuale delle donne agli uomini, ma non necessariamente il contrario. Michel Foucault ne scrive nella sua ‘Storia della sessualità’, a partire dai tempi della Grecia antica: “L’uomo, in quanto uomo sposato, ha l’unico divieto di contrarre un altro matrimonio; nessuna relazione sessuale gli è vietata per il solo fatto di essersi sposato; può avere avventure, uscire con prostitute, essere l’amante di un ragazzo, senza contare gli schiavi, maschi o femmine, che ha in casa. Il matrimonio di un uomo non lo lega sessualmente. All’interno del sistema giuridico, ciò comporta che l’adulterio non è considerato una violazione del vincolo del matrimonio da parte di uno qualsiasi dei coniugi; Non è considerato una violazione se non nel caso di una donna sposata che fa sesso con un uomo che non è suo marito; è lo stato civile della donna, mai dell’uomo, che consente di definire una relazione come l’adulterio. E, secondo l’ordine morale, si comprende come non vi sia stata per i greci questa categoria della “fedeltà reciproca”, che sarebbe poi entrata più tardi nella vita coniugale come una sorta di “diritto sessuale” con valore morale, effetto giuridico e componente religiosa.”

Il principio di un doppio monopolio sessuale, che rende la coppia di sposi compagni esclusivi, non è richiesta in una relazione matrimoniale. Ma mentre lei appartiene a tutti gli effetti al marito, il marito appartiene solo a sé stesso. La doppia fedeltà sessuale, in quanto dovere, impegno e sentimento ripartito in parti uguali, non costituisce la garanzia necessaria né l’espressione più alta della vita coniugale.
Il modello diffuso di rapporto eterosessuale poliamoroso in cui l’uomo è molto più prolifico e promiscuo nei rapporti rispetto alla propria compagna è erede di questa disuguaglianza sistemica. Così come il pubblico disprezzo che ricevono gli uomini dissidenti di un sistema che li vuole tuttora “macho”. Un paio di anni fa, alla radio, un compagno affermò che l’uomo che accetta il poliamore è quello che definiremmo un povero succube. E proferì queste parole senza battere ciglio.

Il privilegio etero, il privilegio maschile, il privilegio cisgender e tutti gli altri contribuiscono al grande terno al lotto poliamoroso. Non è una questione di differenze personali, ma di categorie inscritte nelle persone. La libertà simmetrica di decidere sulle nostre vite è una rozza illusione utilitaristica, in un mondo in cui ogni dissenso paga il suo prezzo, e nel quale l’amore è attraversato dal genere e dalle sue manifestazioni identitarie: classe, razza, capacità, identità sessuale e tutte le altre categorie di oppressione che possiamo aggiungere. Veniamo, quindi, alla lunga notte dei secoli. La domanda è: Dove stiamo andando? Dove desideriamo andare?

La riproduzione delle dinamiche di oppressione
Possono gli strumenti del padrone smantellare la casa del padrone? Può essere smantellata un’imposizione imponendone una nuova? Cosa intendiamo quando parliamo di liberare i nostri corpi, i nostri piaceri, la nostra sessualità e i nostri amori? La libertà ha una forma specifica e definita o è un concetto che si riferisce alla molteplicità di opzioni equivalenti tra cui scegliere senza costrizione? Se la monogamia è un obbligo, la sovversione è contro la naturalezza dell’obbligo stesso, contro l’inevitabilità dell’ordine delle cose. Il lavoro fondamentale che dobbiamo compiere è contro l’imposizione di un sistema che definisce i nostri desideri, i nostri spazi corporali, le nostre possibilità e proiezioni emotive, e che ci costringe a rimanere ancorat@ ad una singola opzione. Se la rottura della monogamia ha qualcosa di sovversivo, è l’aprirsi della possibilità di alterare il sistema imposto, di ripensare come e perché amiamo come facciamo. Costruire nuove possibilità tra cui scegliere.

Avere più relazioni sessual-affettive contemporaneamente è solo un aspetto formale e visibile di una vasta trama che, se non smantellata, riproduce sempre lo stesso sistema, ma con un altro nome. Nel suo libro “Transessualità. Altri sguardi possibili”, Miquel Missé racconta un aneddoto personale. Parte da una riflessione sull’autenticità che esprime il personaggio di Agrado in ‘Tutto su mia madre’ di Pedro Almodovar. Scrive Missé: “Diversi anni fa, una delle mie zie, che non aveva capito molto di questa storia della transessualità, mi regalò una cartolina su cui era scritto: “La saggezza della vita è quella di accettare i limiti”. Ero veramente arrabbiato, sentivo che era un modo per dirmi che il mio problema è che non mi accetto come donna, che accettare i limiti implicava il vivere come non volevo. Ma un paio di mesi fa ho trovato di nuovo la cartolina, persa in un cassetto, e improvvisamente ho pensato ad Agrado e all’autenticità che proclama nel film, e ho compreso maggiormente la frase che mi aveva fatto male al momento. Ora, a mia zia, direi che la saggezza della vita è ugualmente quella di accettare che i limiti sono costruzioni sociali, ma che, probabilmente, aveva in gran parte ragione: ciò che ci rende autentic@ non ha nulla a che fare con l’evitarli, ma con l’essere consapevole di dove sono e a che servono.”

E’ ingenuo pensare che tutta questa vasta trama del sistema monogamico si possa risolvere avendo più di una relazione. Ed è violento costringere le/gli altr@ ad accettarlo perché si ‘liberino’ di tutta questa sovrastruttura, con argomenti che si rifanno ai massimi sistemi senza comprendere i dolori e le difficoltà. Predicare la liberazione altrui ignorandone volutamente il prezzo è un altro dei discorsi infiniti che usano la libertà a fini neoliberali. Ogni volta che qualcuno si vanta della propria modernità e libertà di avere più partner non è cosa da poco, perché muore un futuro possibile: nessun@ può uscire da un sistema oppressivo con un click, firmando una petizione o leggendo un libro. L’unica via di fuga è quella di boicottare le dinamiche oppressive. Dalla rottura formale dalla monogamia alla costruzione di relazioni non monogame c’è un abisso. Ed è in questo divario il potenziale del movimento: nei dubbi, nei limiti, nelle paure, nei piccoli passi avanti e salti all’indietro. La sua carica eversiva, se ne ha, verrà dai gesti quotidiani e non dalle grandi gesta eroiche che devono il proprio immaginario a tempi gerarchici e individualisti che vogliamo lasciarci alle spalle, che appartengono a un mondo in cui il dolore, la vulnerabilità, la cura, il legame, l’empatia, non esistono neppure. Ci hanno imposto per secoli tali modelli, con risultati deplorevoli. Sapere dove sono i nostri limiti, i nostri dolori, le nostre speranze, i nostri sogni, e sapere a cosa sono funzionali fa parte del mondo nuovo. Unitevi a noi sul nostro cammino, nei nostri piccoli passi e balzi in avanti, amateci a partire dai piccoli gesti e costruiamo duetti, trii, o reti verso altri luoghi che siano liberatori; spazi amorosi in cui possiamo permetterci di cadere, aver paura, soffrire e comprendere, trasformarci e costruirci: è forse la nostra scommessa più radicale.