Di pippe all’asilo, ideologia gender e comici norvegesi

Non so se lo sapete – il tipico inizio di chi presuppone che i suoi lettori siano già d’accordo con chi scrive, ed è per questo che vi amo così tanto – ma da qualche tempo pare che ‘sta polemica sul “gender” abbia passato un po’ il limite. Anzi, ne ha passati diversi, perché come insegna il buon Carlo Cipolla, «sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione». E questo ha delle conseguenze, soprattutto se, com’è facile dimostrare, a trarne vantaggio sono sempre i soliti banditi – per usare ancora la terminologia di Cipolla.

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L’extracomunitario stupido in divisa (avvisate Salvini)

In questa immagine potete vedere l’inizio di una comunicazione che un parroco di Cerveteri ha pensato bene di diffondere sul suo territorio, presa da questo luogo virtuale su facebook. Leggiamo che:

…i vostri figli saranno istigati all’omosessualità […] saranno invitati alla masturbazione precoce fin dalla culla […] obbligati ad assistere alla proiezione di filmati pornografici […] obbligati ad avere rapporti carnali con bambini dello stesso sesso.

Il tutto, secondo questo genio, accadrebbe in corsi presenti nel Piano di Offerta Formativa della scuola, cioè in un documento ufficiale di una struttura pubblica. E in più, il suo delirio di stupidità non è proiettato al futuro, ma è storia ed esperienza, perché

Queste cose sono già accadute nelle scuole in cui il gender è stato sperimentato, Italia compresa, producendo nei minori pianti, svenimenti e danni psicologici irreparabili!

Ovviamente, nessuna prova a riguardo. Perché prove non ce ne possono essere, dato che si parla di una cosa che non esiste né è mai esistita. Un qualunque avvocato, anche non particolarmente esperto di questi argomenti, potrebbe facilmente convincere il genitore ingenuo ma ancora fedele alla parrocchia che:
1) quel parroco si è reso colpevole del reato di diffamazione verso tutte quelle persone che lavorano nella scuola e per la scuola alla costruzione del P.O.F., dato che non può provare nulla di quanto afferma gravemente, gettando così discredito sulla sua persona e sull’istituzione che rappresenta (che poi questo non interessi manco alla suddetta istituzione è un altro discorso, ma vabbè);
2) il parroco non capisce niente di leggi e cita a vanvera le norme nazionali e internazionali sul diritto all’istruzione scelto dai genitori: una volta che hai iscritto la prole a una scuola, hai esercitato il diritto. Punto. Questo non si estende direttamente agli argomenti e ai contenuti, altrimenti ai miei figli avrei prescritto almeno cinque ore settimanali di storia dell’A.S. Roma.

Di solito a un extracomunitario in divisa che pensa di capirci qualcosa di questioni di genere e di diritto all’istruzione – e invece è solo, nei termini cipolliani, uno “stupido” perché col suo agire arreca danno a sé a agli altri – rispondo abbastanza esagitato che “l’ideologia gender non esiste” passando ad argomentare punto per punto le sue castronerie.
Ma così facendo rischio di essere stupido anche io. Passiamo a un argomento più serio. Dura poco, promesso.

Ma ‘sta ideologia gender esiste o no?

marescialli2Dice molto saggiamente l’amico Alessandro Lolli che sia “ideologia” che “gender” sono diventate parolacce a causa del loro uso politico da parte di una ben precisa cerchia di persone, che avevano e hanno ancora un interesse specifico affinché queste parole, sia separatamente che insieme, siano connotate negativamente – a questo tipo di persona affibbio il nome cipolliano di “banditi”.

E tuttavia quello che affermano gli studi di genere è una visione del mondo, di un mondo non presente, una visione rivoluzionaria di un mondo a venire. Non dobbiamo credere alle paranoie delle maggioranze accerchiate, questa immagine è falsa e offensiva. È terribilmente offensiva perché i nazisti, che sul tema erano sicuramente più vicini alle posizioni di Miriano e delle Sentinelle in piedi rispetto a quelle dei movimenti LGBT, hanno sterminato migliaia di omosessuali. È palesemente falsa perché la società occidentale è ancora dominata dal maschio bianco eterosessuale e le sue categorie strutturano le menti delle donne e degli uomini. La maggior parte delle persone crede che ci sia qualcosa di naturalmente maschile come la determinazione, l’aggressività e la passione per gli sport e qualcosa di naturalmente femminile come la dolcezza, la remissività e la mania dello shopping. Quello che De Beauvoir, Belotti e Butler, pensano delle donne e degli uomini, e di conseguenza quello che Chiara Lalli, Pasquale Videtta e Simona Regina riassumono nei loro articoli, è tutt’oggi enormemente distante da ciò che ne pensano le donne e gli uomini comuni.

In effetti tutti quegli stupidi che straparlano di gender senza averci mai capito niente si fanno rispondere che, come ho detto anche io spesso, la teoria del gender non esiste. Questo però tecnicamente non è esatto, perché anche quella proposta e difesa dalla chiesa cattolica è una ideologia gender, una delle tante possibili: “la natura ci fa uomini e donne eterosessuali, il resto è un’offesa al creato cioè a Dio, vallinferno punto”. Dire che non esiste è una tattica produttiva?

Ma se sono delle tattiche bisogna capire se funzionano, se raggiungono gli obiettivi. Forse localmente questa tattica è vincente, forse negare la propria radicalità per entrare nelle scuole, nei festival, negli ospedali, nelle istituzioni è efficace; ma ho dubbi sulla bontà strategica di questa ritirata nella non-esistenza. Mi ricorda una delle mosse che ha fatto la sinistra italiana per raggiungere la propria estinzione negli ultimi vent’anni.

Méttece ‘na pezza… (per gli esterni al GRA, la traduzione è: “non è facile da confutare, questo punto di vista”). E a proposito di pezze, a sostenere che l’ideologia gender non esiste si corre un altro rischio, come sottolineano Federico Zappino e Deborah Ardilli:

Sarebbe poco interessante replicare alle argomentazioni di ciascun negazionista, così interessato a sostituire idraulicamente la teoria del gender con gli irenici “studi di genere”, o con i programmi scolastici di “educazione alle differenze” volti alla decostruzione degli stereotipi o alla promozione di un maggior rispetto per le “diversità”, o a bacchettare col dito alzato sulla parola “teoria”, sostituendola con il plurale “teorie”, o con il rocambolesco “teorizzazione”. Sarà sufficiente digitare su qualunque motore di ricerca “la teoria del gender non esiste” per avere una panoramica sufficientemente ampia dell’allucinato dibattito in corso. Quale che sia il nostro giudizio sugli “studi di genere”, sulle “teorie” al plurale, sulle equilibriste “teorizzazioni”, sulla bontà della decostruzione degli stereotipi o sull’auspicabilità di una società più rispettosa, reputiamo innanzitutto più importante rinunciare a fare atto di sottomissione ai termini del discorso così com’è impostato, poiché attraverso questo discorso l’eteronormatività tenta di mettere una pezza ai problemi che essa stessa ingenera.

E anche questo è vero: a furia di dire che non esiste si assume come valido il paradigma discorsivo di chi il gender non lo vuole, e certo non si fa un favore a quel modo di vedere il mondo liberatorio e auspicabile per tutt* che invece l’eteronormatività continua a volere per sé, “concedendolo” più o meno e in vario modo a chi eteronormale non è. Rimane il fatto che non si può parlare allo stesso modo col parroco di Cerveteri e con Marzano e Muraro, che negano – loro sì – l’esistenza di qualunque gender non corrisponda alla loro ideologia. E allora?

Diceva qualcuno: tattica ed etica

Faccio un esempio personale, a proposito di esistenza o meno di ideologia gender.norwegian_glbt_pride_flag_postcard-r85f11401be624623bdb6c8ed413a7044_vgbaq_8byvr_512

Qualche settimana fa trovo sul solito gruppo facebook di difensori della famiglia naturale e di tutte le altre cose belle della chiesa loro ma non delle altre un link a questo documentario norvegese, nel quale il comico Harald Eia avrebbe fornito prove per le quali «il governo norvegese ha ritirato il finanziamento al Nordic Gender Institute nato a sostegno dell’ideologia del gender». Facciamo finta che queste parole abbiano un senso, e chiediamoci: mo’ che faccio?

Io ho fatto una cosa credo molto sensata: ho chiesto a una persona affidabile che sa il norvegese perché vive in Norvegia di aiutarmi a capire se quello che viene detto nel documentario, e ciò che si racconta di esso, è vero ed è andato proprio così. Con facebook è facile eh, è fatto apposta per conoscere gente. Non lo usate solo per farvi gli affari degli altri, ogni tanto usatelo per fare anche i vostri. Ne è risultato che, parole di Cinzia Marini che ringrazio per l’aiuto,

il centro di ricerca interdisciplinare per gli studi di genere non è stato chiuso. Nel 2012 il Consiglio nazionale per le Ricerche norvegese ha tagliato temporaneamente i fondi ad uno specifico programma di ricerca di genere, integrandolo in un programma di ricerca più generale. Il centro è ancora aperto e attivo come vedi dalla versione inglese del loro sito. Dopo il programma di Eia, che era tendenzioso nella scelta degli interlocutori ma ben fatto, sono divampate le polemiche. Quello che ha evidenziato sono debolezze non negli studi di genere tout court, ma indubbiamente in certi ricercatori, nelle loro attitudini e nel modo di esprimersi, che naturalmente hanno portato all’assurdo certe differenze di paradigma. Le critiche fatte in Norvegia sono soprattutto riferite all’impenetrabilità di certa ricerca e al linguaggio usato, oltre che alla mancanza di aperture verso il paradigma biologico, ma non hanno mai messo in discussione l’esistenza e la necessità degli studi di genere. Cathrine Egeland e Jørgen Lørentsen, i due ricercatori intervistati, sostengono che Eia ha tagliato passaggi centrali dalle loro interviste. Secondo me non ci fanno una bella figura. Cathrine Egeland lavora oggi all’istituto per al ricerca sul Lavoro dell’Università di Oslo, sempre su studi di genere. Nel 2012, dopo il programma, ha tra le altre cose pubblicato questo rapporto. Jørgen Lørentzen, l’altro ricercatore, ha fatto ricorso al Comitato etico dei Giornalisti accusando Eia di aver tagliato e redatto gran parte della sua intervista. Su questo sito, purtroppo in norvegese, puoi vedere i due spezzoni (quello intero e quello redatto) a confronto: Dette sa Lorentzen til «Hjernevask». Lørentzen parla ad esempio molto del fatto che alcune teorie riducono l’essere umano al suo genere, mentre la faccenda è molto più complicata. Registri, emozioni, capacità di cui veniamo privati. Dice anche chiaramente, a proposito di domande precise sulla biologia, “questo non lo so, non è il mio campo”.

L’ideologia gender esiste anche se forse i due ricercatori norvegesi non l’hanno sostenuta molto bene, e anche se un comico con grossi pregiudizi – il suo documentario era certamente orientato verso una tesi da dimostrare a tutti i costi – prova a sostenerne l’infondatezza. L’uso strumentale, arbitrario e in evidente malafede della faccenda è un’ovvia conseguenza, quando si hanno amici politici come il parroco di Cerveteri.

In questo caso ci vuole un po’ di attrezzatura in più del solito – compresa un’onesta amica che vive in Norvegia – ma rimane il fatto che chi costruisce discorsi oppressivi alla fine viene fuori chi è, anche se invece di inventarsi balle, diffamare e parlare a vanvera oppure cantilenare ipocrisie perché sta in cattedra fa un bel documentario tecnicamente perfetto e apparentemente oggettivo.

norway_gay_pride_tshirt-r1dc9e7c2e76646e789d5ac7f557d2c6c_8nhmm_512Bene, la critica l’ho capita e starò più attento: invece di dire l’ideologia gender non esiste dirò «queste stronzate che vai dicendo sono solo pietose difese, non sai neanche di che stai parlando quando usi quell’espressione», oppure «non provare a rigirare le cose come ti fa più comodo, sai solo manipolare le chiacchiere», o anche «egregi* professor* non provi a nascondere o a dedurre cose perché non ci casco, lei è un* ipocrita»Il tutto seguito da argomenti convincenti non su qualcosa che non esiste, ma su qualcosa che esiste e che evidentemente è molto fastidiosa per chi ha un qualche potere patriarcale.

Anche io, in fondo, sono un ideologo del gender.

Chi ha paura dell’asterisco?

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Non raramente capita, negli ultimi tempi, di sentire messa in discussione l’opportunità e l’importanza dell’uso dell’asterisco o dell’@, al posto delle declinazioni di genere nella scrittura; abbiamo così deciso di esplicitare i motivi per i quali noi,  invece, ne promuoviamo e incoraggiamo l’uso. 

***

“Incatenare le sillabe e frustare il vento sono entrambi peccati d’orgoglio”,  dalla prefazione al Dizionario di S. Johnson, 1755.

Cos’è un asterisco? Una stella che luccica in fondo ad una parola, il piccolo scoppio che segue una detonazione di vocali, un’anomalia agrammaticale che punta le sue piccole dita all’omissione consapevole di tutt* coloro che non sono compres* nell’ideologico “neutro universale”, ovvero il privilegio del maschile.

Un asterisco moltiplica le possibilità, invece di frazionarle come fa una barretta (i/e) – esplicita la variabile alla norma duale, sottolinea l’obbligatorietà di fermarsi a riflettere: perché salutando un gruppo di donne in cui è presente un solo uomo, si dice “ciao a tutti”   – e questo è ‘normale’ – ma se si dice allo stesso gruppo “ciao a tutte” l’uomo in questione terrà a rimarcare la sua estraneità alla desinenza femminile? E che dire di tutte le favolosità che non sentono di rientrare nelle i e nelle e? O di rientrare in entrambe? L’asterisco non fa distinzioni, abbraccia tutt* con lo stesso entusiasmo, e da tutt* può essere abbracciato!

Un asterisco non è leggibile, obiettano poi molt*, e allora che si fa? Già, che si fa? E perché mai l’asterisco dovrebbe essere la soluzione al problema? L’asterisco evidenzia il problema, e nella forma scritta è inclusivo di qualsivoglia soggettività, perciò dal canto suo ha già fatto tanto sporco lavoro.  E quando poi ci si trova a doverlo pronunciare, ci si sente spiazzat*: si comincia a farfugliare, a mescolare maschile e femminile, ad evitare le desinenze.

Ben venga il turbamento causato dall’asterisco, e fintantoché non si palesi anche nella lingua parlata una svolta davvero antisessista, ogni regola vale: i maschili universali allora saranno affiancati ai femminili universali senza che nessun* debba risentirsi! Potremo decidere di usare la -u, che non ha connotazioni di genere (fa strano dire “Ciao a tuttu?” Solo perchè nessunu ci è abituatu!), di passare fluidamente da un genere all’altro senza considerarlo un errore grammaticale.

La lingua è plastica per definizione, è uno strumento di descrizione della realtà e in sé non ha forma perché la sua forma è dettata dalla sua sostanza in perenne evoluzione; e proprio per questo il mutamento linguistico non è questione di poco conto, poiché la lingua dialoga con la realtà: ciò che non può essere nominato, non esiste, e il successo di una lingua o di determinate forme linguistiche hanno tutto a che vedere con il potere di chi la parla. A questo punto occorre domandarsi: chi esiste e chi non esiste nell’italiano con la I maiuscola? Chi detiene il potere prescrittivo, regolamentare e sanzionatorio delle desinenze?

La lingua deve fare gli interessi di coloro che la parlano,  e chi la parla è una vasta gamma di soggettività che hanno tutte egualmente diritto ad esistere, nel mondo come nelle sue parole;  non certo gli interessi culturali e politici di chi per malcelato conservatorismo, di destra o di sinistra, vorrebbe proteggere e coccolare l’idea, estremamente elitaria, di una lingua italiana ufficiale e perfetta elevata a divinità – etichettando di conseguenza qualsiasi sua variante meticcia e plebea  come peggiore dei mali possibili.

Il concetto di prescrittivismo grammaticale è innatamente reazionario, visto che predica il ritorno a uno ‘stato precedente’ di presunta correttezza grammaticale universale di fronte al trasformarsi (o, secondo la prospettiva dei suoi sostenitori, all’imbastardirsi) di una lingua. Riesce difficile pensare come chiunque si posizioni genuinamente contro lo stato di cose presenti possa voler sostenere una visione simile, senza contare che – non esistendo un modo oggettivo di stabilire cosa suoni bene e cosa no – le critiche, quand’anche presentate come puramente fonetiche, sono critiche politiche. Se una lingua è allora riformata sempre in senso ideologico, che sia l’ideologia di chi costruisce la libertà, non quella di chi la nega.

L’asterisco è una modifica grammaticale accettabile e coerente nel paradigma corrente di approccio normativo al linguaggio? Probabilmente no. Il problema è proprio questo, non l’uso atipico della punteggiatura e men che meno altre proposte di riforma linguistica in direzione antisessista. A chi è più cruschista della Crusca, la quale circa l’utilizzo di forme linguistiche più aperte e rispettose dei passi in avanti li sta compiendo, non rimane che accaparrarsi la tessera di Forza Nuova.

frantic & feminoska

* l’immagine usata nell’articolo (addizionata di immancabile asterisco) è di Araki, Tokyo Lucky Hole.

Smettetela di chiamarla vagina!

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Articolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di jinny dalloway… buona lettura!

L’altro giorno ero ad un corso universitario su Genere, Queer, eccetera eccetera, e il giovane professore ha detto: ” Il pene e i … [pausa di precauzione] genitali femminili “. Un mio compagno di classe ha subito replicato: “Hanno un nome”, ma non ha avuto il coraggio di dirlo. Più tardi, nel corso di una conversazione privata, il mio professore, che ha un dottorato di ricerca e tiene diversi insegnamenti su femminismo e sessualità, ha fatto ciò che fa la maggior parte della gente. Ha usato il termine improprio “vagina” invece di “vulva”. Ma una vagina non fa una vulva.

L’ apertura vaginale è solo una parte della vulva. La vulva costituisce tutto ciò che si vede all’esterno: la parte visibile della clitoride (che è solo la punta dell’iceberg clitoride, la parte più grande della clitoride si trova all’interno del corpo), le labbra (piccole e grandi), l’apertura uretrale (per la minzione o l’eiaculazione) e il punto di ingresso/uscita della vagina.
Il termine “vagina” viene usato così spesso in modo scorretto che non deve sorprendere che il mio coltissimo professore abbia usato il termine sbagliato. Anche testi e opere d’arte femministe, come I monologhi della vagina e Il grande muro della Vagina, cadono nella stessa trappola. Praticamente ogni volta che leggi/senti “vagina” nei media, viene usato in maniera errata al posto di vulva.

L’anatomia sessuale femminile, considerata un dato di fatto naturale, è in realtà socialmente costruita. Alcuni studi hanno dimostrato come la clitoride sia entrata e uscita dall’anatomia medica nel corso della storia occidentale. Le illustrazioni dell’anatomista danese Casper Bartholin degli “organi della lussuria” femminili nel 17° secolo mostravano il tessuto erettile della clitoride e delle crura in modo simile a come sono rappresentate oggi. Negli anni ’40 dell’Ottocento, l’anatomista tedesco Georg Ludwig Kobelt disegnò un ingrandimento della radice della clitoride simile a un pene, come la si conosce oggi. Nell’edizione del 1901 dell’Anatomia di Gray, la clitoride viene classificata e figura con una certa prominenza. Poi, nell’edizione del 1948: PUF! La clitoride scompare sia come organo classificato che nell’illustrazione. L’organo primario di eccitazione sessuale e orgasmo delle donne è stato eliminato dal testo principe dell’anatomia umana. Poiché la clitoride e l’orgasmo femminile non sono necessari per la riproduzione, sono stati ampiamente ignorati dalla scienza, in netto contrasto con quanto avvenuto col pene.

Quando diciamo ‘vagina’, stiamo ignorando collettivamente l’aspetto visibile dell’anatomia femminile, la clitoride e le labbra, attraverso il linguaggio. La vagina è il modo attraverso il quale i ragazzi che fanno sesso con le ragazze vengono. Dalla pubblicazione, nel 1953, di quella pietra miliare che è il libro di Kinsey dal titolo Il comportamento sessuale della femmina umana, sappiamo che la maggior parte delle donne ha bisogno della stimolazione diretta della clitoride (con la mano, la bocca o attraverso l’uso di altri oggetti) per avere un orgasmo. Eppure, quante volte vediamo ancora, nei film o alla televisione, la rappresentazione dell’orgasmo di una donna come risultato della sola penetrazione di un cazzo? Che noi chiamiamo i genitali femminili “vagina” la dice lunga sulle politiche del sesso. “Vagina” focalizza l’attenzione sul piacere maschile etero.

La dott.ssa Mithu Sanyal, autrice di ‘VULVA – una storia culturale della vulva’, è convinta che le idee sul corpo siano imposte attraverso le parole. “Il linguaggio è collegato alla nostra percezione del mondo. Non possiamo parlare di ciò che non possiamo nominare, e in ultima analisi, non possiamo pensarlo”, scrive. La psicologa clinica dott.ssa Harriet Lerner definisce questo fenomeno per cui si ignorano la clitoride e le labbra “mutilazione genitale psichica.” Secondo lei, “La lingua può essere potente e veloce come il bisturi del chirurgo. Ciò che non ha nome non esiste.”

Oggi, molte donne e persino ragazzine di 16 anni, si stanno spingendo ancora oltre in questa direzione, rendendo davvero invisibili i propri genitali. La labioplastica (che consiste nell’asportare parte delle piccole labbra per renderle più piccole) è uno degli interventi di chirurgia cosmetica in più rapida crescita nel Regno Unito e negli Stati Uniti. La mutilazione genitale femminile è l’atto rituale di rimuovere una parte o la totalità dei genitali femminili esterni. E’ eseguita in molti paesi africani e di solito non è considerata paragonabile alla chirurgia estetica genitale praticata in Occidente. È interessante notare che l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la MGF come “tutte le procedure che comportano la rimozione parziale o totale dei genitali femminili esterni o altre lesioni agli organi genitali femminili per ragioni non mediche.” Sia il ringiovanimento vaginale che la labioplastica rientrano nelle definizioni di mutilazione fornite dalle Nazioni Unite.

A Berlino, città famosa per i valori sessuali progressisti e una storia di campagne per i diritti omosessuali, alcune persone cercano di contrastare questa tendenza. La dott.ssa Laura Meritt, proprietaria di Sexclusivitäten, il più longevo sex shop femminista della capitale tedesca, sta attualmente raccogliendo “ritratti di fiche” per illustrare la diversità delle vulve e dimostrare che non vi è alcuna norma generale. Si può contribuire compilando il sondaggio online o di persona. “Qualsiasi università sarebbe invidiosa del risultato! Abbiamo avuto oltre 2.000 partecipanti e quello che abbiamo scoperto è incredibile”, ha detto Meritt.

I risultati saranno pubblicati nel mese di marzo come parte della Mösenmonat (“mese della fica”), una celebrazione annuale in cui la vulva è onorata in mostre d’arte, spettacoli, film e workshop a Sexclusivitäten. Il tema di quest’anno è “la verità clitoridea.” Meritt ha anche curato la versione tedesca del classico testo di anatomia femminista, Una nuova visione del corpo di donna. Le fotografie di questo libro rendono chiaro che le vulve variano notevolmente in forma, colore, consistenza e dimensioni.

Forse, tutto sommato, la parola “vulva” è troppo clinica per voi. Nessun problema. Che ne dite di “fica”, “yoni,” o una sfilza di altre parole? Personalmente, ho sempre scelto la via della della rivendicazione. Dico “fica” [cunt]. La parola cunt ha la stessa radice etimologica di queen, kin e country [regina, parente e paese]. Fica non dovrebbe essere la parola più offensiva in lingua inglese. Le fiche sono fantastiche! Dovrebbero essere celebrate, non denigrate. Non usate la parola “vagina”, a meno che non stiate parlando della vagina. Usare la parola “vagina” in maniera scorretta oscura erroneamente il piacere sessuale delle donne e perpetua il mito del mistero della sessualità femminile. Il misticismo non deve essere confuso con l’ignoranza o con la censura. Viva la vulva!

L’archivio della Primavera Queer 2014

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Ci raccontavamo in quei giorni a Chieti, con Laura Corradi, che in Italia una cosa come la Primavera Queer non s’è mai vista.

Un gruppo autonomo di studenti e studentesse (alcun* dei quali già attivisti nei collettivi Laboratorio Le Antigoni e La Mala Educacion) ha promosso a Chieti la Primavera Queer come momento di autoformazione, incontro e discussione intorno alla teoria queer. Il progetto è stato presentato al bando 2013 per le attività socio-culturali degli studenti dell’Università d’Annunzio, selezionato e finanziato. Docenti, autori e autrici, noti anche a livello internazionale, si alterneranno in sei giorni di seminari e laboratori.

Non nel senso che in Italia non s’è mai fatto nulla di queer, ci mancherebbe: ma non ci ricordavamo di nulla che durasse una settimana, che sia stato voluto e costruito dagli studenti e finanziato da un ateneo italiano. Speriamo di essere smentiti, ovviamente.

Adesso in questa pagina stanno raccogliendo tutti i materiali completi di quei giorni, per costruire un archivio più che utile in un paese che ha difficoltà anche solo a sapere che esiste la parola “queer”. E’ importante diffondere il più possibile le parole di tutti quelli che sono intervenuti, in presenza o connessi dalle loro sedi, e conservarli, perché in giro su questi argomenti c’è ancora molto poco; e perché realtà molto efficaci sul territorio ancora conoscono poco di quello che si fa di buono anche a pochi chilometri di distanza.

Il video del mio intervento, Il linguaggio sessista: riconoscerlo, neutralizzarlo, decostruirlo dura quasi un’ora e venti quindi vi consiglio di non sorbirvelo tutto insieme perché potrebbe farvi male 🙂 aggiungo però il file ODP con le slide che ho usato; questo invece è l’abstract del mio discorso. Qualsiasi domanda o commento vogliate fare mi sarà molto utile e ve ne ringrazio fin da adesso.

Spero che ci siano presto altre Primavere Queer in tante altre città.

Ognun@ ha la sua opinione?

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Chi non ha sentito almeno una volta la frase: ‘Ognun@ ha la sua opinione’? Probabilmente è successo a chiunque.

È la frase favorita da discriminator@, oppressor@ e stronz@ di ogni risma per giustificare le proprie attività di rinforzo dell’idea dominante. Come anarchic@, antirazzist@, femminist@, persone lgbtqia, antispecist@ ci troviamo costantemente a fronteggiare atti di sopraffazione e violenza verbale liquidati con questa locuzione.

Come sbarazzersene definitivamente, purtroppo, non lo so. Ma decostruire i pensieri che sono alla base di questa mossa retorica è sicuramente il primo passo.

Libertà di parola per molt@ significa il diritto a dire la propria cazzata senza prendersene la responsabilità, e chiunque critichi questo concetto è un “fascista”, un “illiberale” e via dicendo: come se “libertà”, fosse libertà di opprimere. L’idea per cui occorre tollerare l’espressione di chiunque, perché ognun@ ha diritto a esprimersi è meravigliosa in teoria, ma terrificante nella pratica: l’effetto che produce è tollerare chiunque e qualunque cosa, comprese le tendenze reazionarie che di fatto impediscono di cambiare le cose e mantengono lo status quo. La chiave sta nel concetto di responsabilità, poiché il numero di coloro che si sperticano a difesa della libertà di parola – e non solo – e che sono poi dispost@, nell’eventualità, ad accogliere reazioni negative e addirittura a prendere atto di aver sbagliato, è così ridicolmente basso da sfiorare l’inesistenza. Ciò che si desidera, dunque, non è la libertà di parola, ma la libertà della propria parola.

Perciò accade, spesso, che chi si ritrova a ricoprire un ruolo subaltern@ è disciplinat@ assai severamente, molto più della controparte; e questa severità proviene proprio da coloro che per sé stess@ sventolano il vessillo della democrazia, della tolleranza, della libertà d’opinione e di parola, della neutralità, dell’imparzialità, dell’equidistanza. Tutte finzioni che hanno decisamente poco di libertario, propugnate da soggett@ che, pur affermando di rifuggire gli estremismi, finiscono per incarnarne uno: il fascismo.

Pur non essendo esplicitamente fascista, il paradosso democratico risiede nel fatto che per non negare sé stessa la democrazia deve tollerare, suo malgrado, chi finirà per distruggere la sua esistenza, e con lei chiunque tenti di criticare chi, nei fatti, la distruggerà. Questo è quanto mi basta per affermare, con orgoglio, che democratico non lo sono e non lo sarò mai.

Un’opinione, in realtà, non è mai un’opinione e soprattutto non è mai soltanto un’opinione. Opinione è quando dico che il gelato al pistacchio non mi fa impazzire, cosa contro cui sarebbe difficile e stupido argomentare; quando invece, fuori dai confini delle preferenze personali, parlo di ciò che mi circonda, le mie affermazioni non possono essere per nulla apolitiche, equidistanti, o neutrali,  ma situate e indubbiamente di parte.  Se un’affermazione è irrispettosa, dannosa e pericolosa, nessuna legge dell’universo conosciuto impone che vada preservata soltanto in quanto opinione: ognun@ ha il sacrosanto diritto di sputarci sopra. Se la cosa vi spaventa, ciò riguarda voi e il vostro segreto timore che il vostro privilegio e la vostra parzialità, di cui forse neanche voi siete a conoscenza, venga allo scoperto. Non il vostro interlocutore o interlocutrice.

Perciò: no, non avete diritto alla vostra opinione.

Deconstructing la zappa sui piedi

zappa2Del linguaggio di Mario De Maglie mi sono già occupato in passato, qui e qui. Adesso che torno a parlare di lui, mi pare il caso di premettere delle cose che ritengo importanti.
De Maglie coordina il Centro di Ascolto Uomini Maltrattanti (C.A.M.) di Firenze, e solo per questo si meriterebbe un monumento, dato che lo fa in Italia. Però nel suo blog su “Il Fatto Quotidiano” online usa spesso un linguaggio, e degli argomenti, molto discutibili, e ancor più incredibili dato il lavoro che fa. Leggere per credere.

Autoconsapevolezza maschile, tra necessità ed opportunità

Partita ed in fase costituente l’esperienza di Diversa-Mente Molteplice, Riflessioni a Passo d’Uomo, nonostante le difficoltà di coinvolgere attivamente gli uomini, sono sempre più convinto dell’utilità dei gruppi di autoconsapevolezza maschile come luoghi nei quali si possa realizzare uno spazio di confronto e ascolto reciproco in merito ai piaceri e alle criticità dell’essere uomo e del proprio rapporto con il femminile [approvo e sottoscrivo. Il post potrebbe finire qui]. Nessuno ci ha istruito in proposito, a rapportarci con il proprio e l’altrui genere (non solo maschile e femminile), sembrerebbe cosa così naturale e spontanea da essere portati a pensare che non ci sia niente da imparare, ma, se ci soffermiamo sui rapporti di potere passati ed attuali e sulle conseguenze di questi ultimi, sembra chiaro che qualcosa decisamente non vada [soprattutto non va parlarne così. Se ci soffermiamo sui rapporti di potere passati ed attuali, ci accorgiamo che questa modalità di rapportarci con il proprio e l’altrui genere non è per niente così naturale e spontanea. E’ un dato di fatto che non solo non è vero che nessuno ci ha istruito, ma che si posso facilmente fare nomi e citare sistemi culturali e sociali che hanno ben istruito al maschilismo generazioni di uomini. Ci sono fior di studi in proposito, perché non dirlo chiaramente?].

La mia impressione è che, dopo un periodo di conquiste e di rivendicazioni da parte delle donne, che forse ha avuto il suo apice con i movimenti femministi negli anni 70 [forse?], almeno in termini di consapevolezza, siamo in una fase di stallo in cui si oscilla tra l’andare  poco più avanti o poco più indietro, senza che abbiano luogo grandi cambiamenti sull’impronta di quelli passati [EH? A parte che rimane da capire cosa c’azzecca la digressione sulla storia del femminismo, come sarebbe che dagli anni ’70 siamo in una fase di stallo? Scusate l’elenco di nomi, ma tanto per dire di cose fatte e dette dopo i ’70: Adrienne Rich, Monique Wittig, Angela Davis, Andrea Dworkin, Carol Gilligan, Riane Eisler, Donna Haraway, Teresa De Lauretis, Luisa Muraro… i primi che vengono in mente a me. E attualmente il femminismo è ancora, come sempre, un ribollire di forze e di esperienze politiche diverse. E queste sarebbero donne che oscillano tra l’andare  poco più avanti o poco più indietro, senza che abbiano luogo grandi cambiamenti sull’impronta di quelli passati?]. Questo penso possa essere dovuto anche (se non soprattutto) al fatto che la capacità di autoanalisi e di autodeterminazione del femminile arrivano ad un punto morto, se poi il maschile non comincia a fare altrettanto, smettendo di fare “concessioni”, ma riequilibrando il potere in modo consapevole ed autodeterminato [cioè, per far andare avanti il pensiero femminista servono gli uomini? De Maglie, “you can’t be serious” (cit). Una cosa è dire che gli uomini devono partecipare attivamente allo smantellamento del potere patrarcale per demolirlo davvero – e ci mancherebbe che non fossi d’accordo pure io; un’altra è sostenere che nel frattempo il femminismo s’è fermato perché senza l’òmo non si va da nessuna parte: scherziamo?].

Il maschile si trova spesso arrocato in una posizione difensiva che gli è poco utile, ma questo perché ha paura e se ha paura è perché si sente in pericolo, il pericolo di perdere il proprio stabilito ruolo (quanta inconsapevole fatica starci dentro!) [si può essere d’accordo su questo – a parte lo spesso: a me pare perlopiù che al maschile, nella maggior parte dei casi, non gliene frega niente della crisi del suo ruolo, perché è ancora avvertita in troppo pochi casi limite].

Faccio un esperimento ed invito i lettori a leggere i commenti che seguiranno a questo post da parte di molti uomini. Se questi saranno i soliti, in cui a contenuti dai toni equilibrati, anche se non necessariamente condivisibili, perché la libertà di opinione non è un optional, seguiranno una serie di commenti ai confini con l’insulto, la minimizzazione, la denigrazione verso l’autore o l’autrice, avrò evidenziato le problematiche di cui parlo. Cose viste e riviste per i blogger de Il Fatto Quotidiano che parlano di violenza e questioni di genere e che diventano facile  tiro al bersaglio dei soliti ignoti. [Sul commentatore medio dei blog de IFQ mi espressi anche io, e siamo d’accordo: ma questo che tipo di esperimento è?  A cosa serve farlo? Per dimostrare una posizione difensiva di un intero gruppo sociale bastano i commenti a un blog? De Maglie, sei sicuro di agire sensatamente verso la tua stessa credibilità? Io mi sono limitato a contarle, le risposte a un post, e a dividerle per risposta: mi pare il massimo che si possa fare. Con quali strumenti se ne può invece ricavare con certezza un atteggiamento sociale di massa? Se ci sono, non sarebbe il caso di parlarne prima?]

Ovviamente il lettore può non essere d’accordo con il contenuto di un post e decidere di commentarlo, ma, a seconda di come esprime il suo disaccordo, si evidenzia se e cosa smuove in lui, non di rado una rabbia mista ad indignazione difficile da comprendere per chi mostra di possedere  una certa sensibilità verso le nostre tematiche. Questo per fare un esempio legato alla vicina realtà per la quale scriviamo, il tutto è solo uno specchio del sociale e culturale nel quale siamo immersi [De Maglie, stai proponendo analisi psicologiche dai commenti a un post. Anche questo tuo modo di fare e di parlare a vanvera è solo uno specchio del sociale e culturale nel quale siamo immersi, temo, che è sintentizzabile in: fuffa. Ma tu coordini un CAM!!!].

Ben lieto di ricredermi, se i commenti saranno di diverso stampo.

Potersi permettere tra uomini di non dover parlare necessariamente di “figa”, “sesso”, “calcio”, “lavoro”, ma anche di donne, amore, passioni e tempo libero è un lusso che i gruppi di autoconsapevolezza maschile avvierebbero a trasformare in quotidianità. [Sì, ma detto in questo modo non si capisce il problema, che non è solo di ordine psicologico. Per la stragrande maggioranza degli uomini etero in Italia le donne sono “figa”, l’amore è “sesso”, la passione è “il calcio” e il tempo libero è un “lavoro”. E ci si trovano benissimo a parlarne tra loro, senza alcun  necessariamente ma molto naturalmente. E’ in gioco un ordine culturale che proprio il femminismo, sia prima che dopo i ’70, contrasta con tutte le sue forze. Fase di stallo? Ma per favore.]

La strada è ancora lunga, me ne accorgo perché sto imparando quanto sia arduo coinvolgere gli uomini, ma si comincia. I cambiamenti epocali hanno bisogno di epoche intere per stabilizzarsi, il prezzo della conquista. [E’ lunga sì, se il coordinatore di uno dei pochi centri per uomini maltrattanti presenti nel paese si esprime in questo modo. Sigh. Questo modo di fare e di esprimersi, a mio modestissimo parere, può solo sintetizzarsi con un “darsi la zappa sui piedi”.]

Per quanto il lavoro con gli uomini maltrattanti sia importantissimo – soprattutto in assenza sia di un livello politico accettabile di consapevolezza del problema della violenza di genere sia, conseguentemente, di strutture pubbliche adeguate – e tenendo conto che non mi sogno nemmeno di contestarne l’utilità, rimane il fatto che le dinamiche legate alla supposta paura di perdere il proprio ruolo egemone non dicono tutto del sessismo vigente, e non credo siano le migliori leve per chiedere agli uomini di parlare tra loro.

Per esempio, quando leggo un pezzo come quello che segue, scritto dal redattore di un quotidiano online come risposta alla giusta indignazione di una donna per l’ennesima pubblicità sessista, mi pare ovvio che il paradigma della perdita di potere è ancora ben lontano dallo spiegare la tranquilla strafottenza con la quale un uomo si permette atteggiamenti sessisti che, scritti nero su bianco, sono da ritenere socialmente molto più violenti di qualunque cosa possa commettere un uomo maltrattante nel suo ambito privato. Questa è violenza che passa tra chiunque legge l’articolo. Le botte si fermano a una o poche più vittime. Se si vuole fare qualcosa per una massa di uomini, la chiave è la cultura comune e non la psicologia del singolo.

“Ho visto il corpo femminile divenire un santuario”

[già il titolo mette paura]
Cara Enrica, nel tuo sfogo tu proponi una serie di giuste osservazioni, eccellentemente argomentate, ma è stato il finale a farmi pensare un bel po’. Concludi dicendo Io non ci sto a far passare il mio corpo come oggetto sessuale. Non ci sto.  Giustissimo, ma rifletti su una cosa: se la foto che ti ha fatto indignare esiste, è perché qualcuno l’ha fatta, ma anche perché una donna procace se l’è fatta scattare. [La colpa del sessismo è delle donne che lo permettono. Complimenti, Luca.] E perché se l’è fatta scattare? Per soldi, perché fa la modella, perché compra il pane e il latte facendosi scattare (anche) foto di quel tipo. È una scelta, deprecabile o meno, ma una scelta. Personale e sicuramente motivata. [Notoriamente, alle donne sono permesse, consentite e agevolate tutte le forme di lavoro; fare la modella è da sempre una libera scelta di una donna procace, no?] Il corpo è il primo strumento di cui ci avvaliamo per fare qualsiasi cosa [con questa bella frase il caro Luca mette insieme il gesto strumentale e lo sfruttamento lavorativo, ma sì, sono la stessa cosa, è tutto fatto col corpo] ed alcuni di noi, una minoranza, hanno un corpo così gradevole che suscita suggestioni tali negli occhi e nelle menti altrui da poterci guadagnare qualcosa. A volte molto [e certo, è il corpo che suscita suggestioni, mica esiste una cultura che ti insegna quelle associazioni e che ti inculca a cercarle, quelle suggestioni. E’ tutta natura].

Sono d’accordo sul fatto che ormai alcune pubblicità si riducono ad un bombardamento osceno teso a far cadere il gonzo di turno nella rete della bellona procace [notate: la responsbilità della trappola è della bellona procace, è lei che guadagna, mica l’agenzia, il produttore, il cliente dell’agenzia pubblicitaria, no no, loro non c’entrano niente] che vede per quei cortissimi e lunghissimi trenta secondi di durata media di uno spot, ma non sono d’accordo sull’appiattire tutto sul subconscio che assorbe le informazioni senza filtro [il subconscio? Quella c’ha le tette di fuori, ma quale subconscio!]. Esso è solo una parte della questione. Siamo noi stessi che, consciamente e non inconsciamente, moltissime volte ci lasciamo andare all’assimilazione passiva, perché siamo pigri e svogliati [si vabbè, ma noi stessi chi? Pure la bellona procace?]. L’inconscio lavora, ma lo spirito critico e l’umanità di ognuno possono lavorare altrettanto bene per farci essere persone capaci di valutare quello che vediamo e di rispettare chi abbiamo di fronte [certo, soprattutto dopo decenni di machismo pompato da tutti i media, da tutti i coetanei, da tutti gli ambienti quotidiani. Non sai che spirito critico che viene su, in una società sessista come questa].
Sono passati poco più di due mesi da quando ho visto uscire mia figlia dal corpo della mia compagna e ti posso dire che ho visto con questi occhi il corpo femminile divenire un santuario [ecco, appunto: il corpo femminile o è un santuario o è la bellona procace, o sante o puttane, siamo sempre lì, all’ABC del maschilismo] capace nello stesso tempo di manifestare una forza sovraumana e di creare una meraviglia.
Se non tutti gli uomini capiscono il rispetto che alla donna si deve, ti prego allora di essere clemente, nell’evoluzione delle capacità intellettive vi stiamo inseguendo, ma per prendervi ci vuole ancora un bel po’ [capito, Enrica? Praticamente Luca t’ha detto di aspettare, ancora non hai sofferto abbastanza, l’uomo ancora non c’è arrivato. T’ha fatto un buono: e che vuol dire?]

Allora: cosa distingue chi dice che il femminismo è fermo dagli anni ’70 da chi dice che il corpo femminile è un santuario? Cosa distingue chi dice che nessuno ha istruito gli uomini ai rapporti tra generi da chi dice che fare la modella è una scelta e che quindi la responsabilità di pubblicità sessiste è delle donne raffigurate?
Che cosa continua a far sì che chi ha i titoli e l’esperienza necessarie per fare antisessismo e parlarne come si deve, invece continui a darsi la zappa sui piedi?

Cassazione e comunicazione

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Direttamente dal sito cortedicassazione.it, leggiamo che le funzioni della Corte di Cassazione italiana sono così definite:

In Italia la Corte Suprema di Cassazione è al vertice della giurisdizione ordinaria; tra le principali funzioni che le sono attribuite dalla legge fondamentale sull’ordinamento giudiziario del 30 gennaio 1941 n. 12 (art. 65) vi è quella di assicurare “l’esatta osservanza e l’uniforme interpretazione della legge, l’unità del diritto oggettivo nazionale, il rispetto dei limiti delle diverse giurisdizioni”. Una delle caratteristiche fondamentali della sua missione essenzialmente nomofilattica ed unificatrice, finalizzata ad assicurare la certezza nell’interpretazione della legge (oltre ad emettere sentenze di terzo grado) è costituita dal fatto che, in linea di principio, le disposizioni in vigore non consentono alla Corte di Cassazione di conoscere dei fatti di una causa salvo quando essi risultino dagli atti già acquisiti nel procedimento nelle fasi che precedono il processo e soltanto nella misura in cui sia necessario conoscerli per valutare i rimedi che la legge permette di utilizzare per motivare un ricorso presso la Corte stessa.

Cosa vuol dire “funzione nomofilattica”? Sostanzialmente due cose, come si dice in questa circolare:
– la Cassazione deve “garantire l’attuazione della legge nel caso concreto”;
– la Cassazione deve “fornire indirizzi interpretativi ‘uniformi’ per mantenere, nei limiti del possibile, l’unità dell’ordinamento giuridico, attraverso una sostanziale uniformazione della giurisprudenza”.

Alla Corte di Cassazione possono ricorrere tutti i cittadini, contro i provvedimenti di un giudice in appello o in grado unico, secondo vari motivi (violazione di diritti, errori procedurali, mancanze insufficienze o contraddizioni nella motivazione della sentenze, e altri). Quindi

quando la Corte rileva uno dei vizi summenzionati, ha il potere-dovere non soltanto di cassare la decisione del giudice del grado inferiore, ma anche di enunciare il principio di diritto che il provvedimento impugnato dovrà osservare: principio cui anche il giudice del rinvio non potrà fare a meno di conformarsi quando procederà al riesame dei fatti relativi alla causa.

Quindi la Cassazione “è un giudice di legittimità chiamato a verificare che nei processi precedenti le leggi siano state applicate correttamente e che tutto si sia svolto secondo le regole. Per farla ancora più semplice, non deve mettersi a riesaminare le prove e sentire i testimoni; ma solo studiare le carte e ascoltare quanto pubblici ministeri e avvocati della difesa hanno da dire a riguardo. Dopodiché, si decide” (fonte Polisblog).

Fin qui è tutto chiaro. Quando però leggo un titolo come

Islamico tentò di uccidere la figlia 17enne
che faceva sesso col ragazzo: pena ridotta

L’episodio due anni fa a Milano: l’egiziano tentò di soffocare la figlia. La Cassazione: manca l’aggravante dei futili motivi, “non potendosi definire nè lieve nè banale la spinta che ha mosso l’imputato”

è chiaro che il compito della Cassazione ha anche – inevitabilmente – un grosso peso culturale. Quando leggo anche che “comunque non può essere considerato futile un motivo fondato sull’onore della famiglia e sulla violazione del precetto religioso di non congiungersi carnalmente con persona di fede diversa”, mi sembra ovvio che la Cassazione, con le sue decisioni, non fa solo giurisprudenza, ma anche cultura. E come tutti i fenomeni culturali, se non è adeguatamente comunicato e divulgato, è facilissimo strumentalizzarlo. Guardate questa stessa notizia, e queste stesse parole, come sono usate da AGI, Il Sole 24 Ore, Il Messaggero, Il Giornale.

Ma la storia della Cassazione sui quotidiani è lunga, soprattutto quando l’argomento delle sue decisioni riguarda questioni di genere – o, come preferisce il medio pensiero italiano, “la morale”. Ecco qualche esempio di come i quotidiani usano comunicare il lavoro della Cassazione:

Lui 60 anni e lei 11: per la Cassazione è amore
Annullata condanna a dipendente Comune Catanzaro

Con i jeans lo stupro diventa “consenziente”

Stupro di gruppo, no all’obbligo del carcere
l’ira delle donne: “Sentenza aberrante”

sembrerebbe così che la Cassazione ce l’abbia proprio con le donne, e sia un covo di maschilisti incalliti e tronfi del loro supremo potere. Però ci sono anche questi titoli, da aggiungere:

Cassazione: «il Viminale paghi per gli stupri del poliziotto»

Cassazione: senza penetrazione
lo stupro non è meno grave

Anche una ‘manata lampo’ sul sedere
per la Cassazione è violenza sessuale

Allora?

Io credo che molto dipenda – e non è l’unico caso, quando si tratta di questioni di genere – da come i mezzi d’informazione decidono di dare le notizie. Perché la Cassazione tutto è tranne una cosa facile da gestire e semplice nelle sue espressioni, quindi è facilissimo sparare titoli sulle sue decisioni (sentenze e motivazioni) che con la volontà di riassumere e sintetizzare quanto a lungo motivato e scritto, finiscono col far dire alla Cassazione quello che non ha detto; e in più, non fanno capire perché lo ha detto.

Riguardo per esempio il caso di Catanzaro – il sessantenne e l’undicenne e il loro “amore” – la Cassazione ha detto che la Corte d’Appello ha scritto male le motivazioni della sua sentenza, cioè ha fatto male il suo lavoro (come spiega un penalista qui). Ci tengo a dirlo esplicitamente: io non difendo la Cassazione (non lo fa neanche il penalista in quel sito), soprattutto perché la cosa da difendere qui non è l’istituzione, ma la mia intelligenza. Nello spiegare in cosa la Corte d’Appello ha sbagliato, la Cassazione afferma che non si è tenuto conto dell’amore esistente tra un 60enne e una 11enne per determinare pene e attenuanti.

Spero di riuscire a spiegarmi bene. Le leggi, le sentenze e le motivazioni delle varie corti giudicanti hanno eccome un impatto sulla “cultura” pubblica e civile, ma non certo nei modi in cui vengono trattate nella maggior parte dei mezzi d’informazione. I quali, quando a loro fa comodo in termini di “choc” sul pubblico, ben si guardano invece dall’essere così sensibili alle decisioni di giudici e legislatori, anche al di là della Cassazione.

Il caso emblematico più noto, e ormai storico, riguarda come è stato ed è trattato dai media il “delitto d’onore“. Con la legge n. 442 del 5 agosto 1981, le disposizioni sul delitto d’onore sono state abrogate; e da allora è fiorita in tutti i mezzi di comunicazione, e poi nel linguaggio comune, l’espressione “delitto passionale”, che ha ripreso in tutto e per tutto lo spazio semantico di quella denominazione uscita dai codici, ma non dalla cultura. E lì non c’è stato alcun intervento della corte suprema; la legge ha sancito la fine (meglio: l’auspicabile inizio della fine) di una cultura sessista, ma la comunicazione pubblica continua a tenerla in vita, con altre espressioni.

La sentenza e le motivazioni della Cassazione a proposito dell’operato della Corte d’Appello sulla vicenda della bambina di Catanzaro (potete rileggerle qui) sono certamente, anche tenendo conto della loro “esattezza” tecnica, quanto meno discutibili nel loro linguaggio; e altrettanto certamente sono condannabili nella loro manifesta irresponsabilità verso il pubblico che le legge, e nei confronti di ciò che indirettamente descrivono come plausibile fatto sociale (l’amore tra un 60enne e una 11enne). Ma queste, oltre a faccende di procedura penale, sono soprattutto questioni culturali e di comunicazione, sulle quali nessuna suprema corte ha giurisdizione. Rimane il fatto, conclamato anche in questo caso, che nessuno di quelli che ne avrebbe il potere e la competenza si è assunto il compito di spiegare che i linguaggi delle sentenze e delle motivazioni sono il riflesso di una cultura dominante e anche lo strumento con il quale la si continua a imporre. E’ la cultura – patriarcale, paternalista, “morale” – che fa dire a un organo supremo dello Stato che sono stati trascurati, nella sentenza d’Appello, “gli ulteriori e attenuativi aspetti della vicenda prospettati dalla difesa, quali il “consenso”, l’esistenza di un rapporto amoroso, l’assenza di costrizione fisica, l’innamoramento della ragazza“. Non c’è più bisogno di capire se chi parla è o no un supremo organo di giudizio dello Stato, e se si esprime “tecnicamente” o meno: questo è il frutto di una cultura priva delle minime basi che riguardano le questioni di genere. E nessuno lo dice, né lo scrive, su quegli stessi strumenti d’informazione che raccolgono insulti, urli, falsità, calunnie – ma quasi mai critiche fondate. Perché? Quando ci occuperemo – quando mai la maggior parte di giornalisti e giornaliste si occuperanno – per esempio del fatto che il supremo tribunale del nostro paese fa giurisprudenza parlando come un qualunque irresponsabile sessista?

Giustamente, il blog #OgniBambinaSonoIo dice: “in particolare vigileremo affinché la Corte di Appello di Catanzaro, cui oggi spetta il compito di decidere, nomini la violenza e affermi con chiarezza un principio di giustizia per questa bambina, ma anche per tutte le altre“. Nominare la violenza è esattamente quello che ancora i mezzi d’informazione ben si guardano dal fare. Della cultura che in questo modo continuano a costruire e perpetuare, gli effetti si vedono pure nelle parole usate dai più alti gradi di giudizio.

Deconstructing l’impressione

MAMMA MIA CHE IMPRESSIONE_2Mamma mia, che impressione! Era il tormentone di un personaggio pensato e creato da Alberto Sordi in un suo film, giovane imbranato e fessacchiotto che divenne subito popolare più per i suoi tic che per la graffiante carica satirica che aveva, e che avrebbe avuto poi. Questo personaggio, come altri di Sordi, piacque perché tutti si sentivano superiori a lui, senza accorgersi quanto invece gli somiglino. Alla lettura di questo articolo apparso nel ghetto rosa del Corriere, “La 27° Ora”, il titolo mi ha subito suggerito la vicinanza col personaggio di Sordi in quel film: peccato che il contenuto dell’articolo non faccia ridere per niente, anzi.

Che impressione i genitori che baciano sulla bocca i figli

Parlo da spettatrice, non avendo figli [complimenti per l’inizio, da manuale. Già un bel po’ di lettrici e lettori hanno cliccato altrove]. Ma da spettatrice perplessa. Perché va bene l’amore incondizionato dei genitori, va bene la tenerezza infinita che suscitano i bambini, specie se piccoli, va bene anche che i tempi sono cambiati e le abitudini pure [ok, abbiamo capito, evviva i bei tempi andati], ma vedere – sempre più spesso – genitori che baciano sulla bocca i loro piccini, il più delle volte dicendo loro anche un bel “ti amo“, fa scattare in qualcuno (tipo me) un brivido freddo che corre lungo tutta la schiena [la prossima volta copriti. Già che siamo partiti di nostalgia, due parole sulla “maglia di lana”?].

Ora a molti sembrerò crudele e insensibile [e nostalgica, “se stava mejo quanno se stava peggio”], senza contare che non “posso capire fine finché non avrò figli” (jolly preferito da tutti i genitori afflitti da manie obiettivamente sconcertanti [complimenti per l’obiettività della diagnosi]), ma fino a qualche tempo fa le cose non funzionavano così [e questo invece non è un jolly di chi è afflitto da qualcosa?]. Quanti di noi (e per noi intendo gente abbastanza adulta da leggere un blog [sempre grazie per l’elitarismo di fondo]) può dire di aver ricevuto attenzioni simili dai propri genitori [io, per esempio, embè?]? Io grazie al cielo no [Estiqaatzi. Estiqaatsi penserebbe che non è giusto fare di impressione personale regola universale]. Mio papà non mi ha mai baciata sulla bocca e neanche mia mamma e credo che se mi avessero detto “ti amo” mi sarei messa a piangere per la vergogna [certo, perché tu da bambina avevi già un sistema di valori morali e un linguaggio dell’eros sviluppati; tanto da cogliere il contrasto tra etica pubblica, vita sentimentale e rapporto genitoriale, cortocircuitati da una frase apparsa contestualmente deleggittimante il tuo diritto a essere appunto bambina. Invece, semplicemente, di fidarti dell’amore che arrivava da loro, in qualunque forma. Eh sì, i tempi sono cambiati e le abitudini pure, adesso per esempio non ci si rilegge più per controllare bene cosa si va scrivendo].

Come loro facevano anche i genitori dei miei amici [ok, siete tutti un bel gruppo elitario uniti dagli stessi valori nostalgici, complimenti]. E non è che fossero generali prussiani [Estiqaatzi. Estiqaatsi penserebbe che siamo tutti diversi, non si possono mettere a confronto storie di genitori diversi tra loro e farne categorie]. Anche noi (oggi trentenni) eravamo coccolati e i nostri genitori non si limitavano a una vigorosa stretta di mano per farci capire che ci volevano bene [complimenti per l’immaginario affettivo e il lessico simbolico. ‘Na cosa meno militare no? E forse – ma forse, eh – ci sono più di due sfumature per manifestare affetto genitoriale. Forse]. Ci prendevano in braccio, ci abbracciavano, stavamo seduti vicini sul divano… insomma, c’era un discreto corredo di tenerezza [discreto corredo di tenerezza, ma non sarà un’espressione troppo forte per il Corriere? Beh, ma in fondo i tempi sono cambiati e le abitudini pure, adesso si può osare di più]. Ma c’erano anche dei limiti. Limiti che, essendo naturali [i famosi limiti naturali all’espressione dell’affettività, come no], non venivano neanche vissuti come tali [perché si chiamano pregiudizi culturali, ecco perché non venivano e non vengono vissuti come tali] e che ho ritrovato nel candore delle risposte di mia mamma a un paio di domande fatte (da me) a tradimento [la domanda a tradimento alla mamma, altro che “doppio cieco” o CSI per sapere la vera verità] proprio per capire un pochino di più come sono cambiate le cose [e poi in che senso ritrovato, se stai parlando sempre dei tuoi genitori? Che t’aspettavi?]. Ieri al telefono, così, a freddo, le ho chiesto:

Mamma, perché quando ero piccola non mi davi i baci sulla bocca? Una frazione di secondo. Poi lei: “Ci mancherebbe, è anti-igienico [e questo non è un altro jolly preferito da tutti i genitori afflitti da manie obiettivamente sconcertanti? Anche se non hai figli, bastava chiedere a qualcuno che ha avuto figli e diverso da tua madre]”. E perché non mi dicevi “ti amo”? “Ma cosa ti salta in mente?”. Rispondi. “Ti dicevo ti voglio bene, che senso aveva dirti ti amo? … Che poi i bimbi lo ripetono [ecco, non sia mai che i bambini dicono ti amo a qualcuno! ORRORE!]. Era più giusto dire ti voglio bene [era più giusto. Poi la discussione su quale sia questa giustizia non la facciamo, la discussione sul perché in italiano ci sono due espressioni diverse di quello che in altre lingue viene detto con la stessa lasciamola cadere, la discussione sul senso di dire più spesso ti amo proprio lasciamola perdere. Ancora complimenti per le occasioni mancate per fare un articolo interessante]”.

Sono virgolettati testuali, apprezzate la cronaca di un normale scambio madre-figlia [apprezziamo il normale, mi raccomando, e ricordate quanto detto all’inizio: chi bacia in bocca figlie o figli non è normale]. Va bene che è mia mamma, ma io colgo quello che – almeno fino a qualche tempo fa – era un pensiero diffuso (magari con altre varianti) e comune. Sensato, aggiungerei anche [il giorno che la quantità farà la qualità deve ancora sorgere. Hitler è stato eletto a maggioranza, sembrava una cosa molto sensata anche quella]. Non tanto per l’igiene, quello no [e con un poderoso colpo di reni l’estremo difensore sventa in calcio d’angolo!!!]. Ma piuttosto per il fatto che troppo spesso i figli diventano i bersagli di attenzioni un po’ troppo oppressive, asfissianti, quasi una agghiacciante proiezione di quei rapporti invadenti che hanno certi genitori con i figli ormai adulti, ma trattati sempre e comunque come teneri cucciolotti [EH? Dall’abitudine di baciare bambini sulla bocca siamo passati a una storia familiare di oppressione affettiva, ai bamboccioni di Padoa Schioppa? Ma di cosa parla questo articolo? E con quali competenze ci si permette di tracciare linee di demarcazione nette tra sviluppi psicologici, gesti abitudinari e lessico familiare?].

Sento mamme che dicono che il proprio figlio è “il mio fidanzato” oppure “l’unico vero uomo (o amore) della mia vita”. Ma vale anche al contrario. I papà non sono da meno nel travolgere di attenzioni e dichiarazioni d’amore i loro figli. Che è bello e giusto [e se è bello e giusto allora che cacchio stai dicendo?]. Come quando sento un mio amico dire che lui bacia sulla bocca i suoi figli “perché è una bella sensazione. Senza contare che i baci sulla guancia li dai a tutti, quindi darli a loro sulla bocca è come riservare delle attenzioni più esclusive”. Ma senza esagerare [ma esagerare rispetto a cosa? Vuoi dare dei criteri? Vuoi tracciare dei limiti? Perché non dirlo chiaramente, assumerti una responsabilità e invece darli per scontati perché ribaditi dalla tua mamma?]. Che tutto questo derivi dal fatto che molto spesso oggi i figli rappresentano una certezza mentre i rapporti da cui nascono no, può essere una spiegazione [ma sarà una spiegazione per te, che fai psicologia d’accatto. Ma che spiegazione è? Un link, dei dati? Qualcosa che faccia sembrare tutto questo avvicinabile al giornalismo?]. Ma non è meno inquietante [ma sarà inquietante per te, e chissenefrega non ce lo metti?].

Non è riversando sui figli tutte le proprie attenzioni che gli si trasferisce più amore [e non è l’ennesimo jolly pure questo?]. E forse far capire loro che esistono dei limiti, delle forme diverse di manifestare il proprio affetto [è italiano eh: un limite non è una forma espressiva. O c’è un limite – e allora saresti pregata di giustificarlo e comprovarlo in qualche modo, grazie – oppure c’è solo la forma del tuo pregiudizio, ma di quello ce n’eravamo già accorti, grazie], alcune adatte ai figli, altre meno, potrebbe essere un insegnamento utile [a chi? Per che cosa? A parte il parere della tua rispettabile mamma, si può avere dell’altro?]. Per toglierci qualche dubbio su questo cambiamento dell’affettuosità tra genitori e figli, ho chiesto un parere ad Anna Oliveiro Ferraris, psicologa dello sviluppo [ce l’abbiamo fatta: quello che dovrebbe essere all’inizio dell’articolo invece è alla fine, ancora complimenti]. Che ha detto: “Ormai sono i genitori che spesso cercano nei figli un appoggio e l’affetto dei figli diventa un elemento centrale nella loro vita: puntano al loro affetto per sentirsi protetti, cercano sicurezze quando dovrebbero essere loro a darne” [pensiero rispettabile e immagino comprovato da fior di letteratura sull’argomento, ma ancora non ci è stato detto perché baciare sulle labbra un figlio è segno di genitori che cercano nei figli un appoggio e tutto il resto].

Sarebbe bene dunque porsi dei limiti anche nell’affettività con i propri figli o non è necessario [ma cosa c’entra una domanda così generalizzante? Si voleva parlare di un solo gesto come quello che fa impressione, e lo si prende a sintomo e prova di un superare i limiti nell’affettività con i propri figli? Ma che modo di argomentare è?]?

“E’ bene non esagerare per non dare vita a quello che definirei “un incesto emotivo” [UN CHE COSA? Ma sì, spendiamo il parolone della psichiatria per un bacio, via con la diagnosi al volo, dopotutto è lo sport nazionale]. Il compito dei genitori è anche quello di rendere sempre più autonomi i figli, invece ci sono madri a cui sembra normalissimo che i dormano nel lettone con loro. Questo crea una forma di dipendenza molto forte da cui poi è difficile liberarsi, anche da adulti” [di nuovo, tutto vero, ma non è pertinente. Qui non si è descritta una madre o un padre affettivamente invadenti, si voleva parlare, almeno credo, dell’impressione suscitata dal vedere un bacio sulle lebbra tra genitore e figli*].

E che ne pensa dei baci sulla bocca? [Capita la tattica del grande giornalismo? Prima spendo gli psicoparoloni che mettono paura, poi rispondo alla domandina che doveva essere la prima e l’unica – e indovinate un po’ che risposta sarà?] “La bocca è una zona erogena: sarebbe bene che i piccoli capissero che la forma di piacere che si prova quando qualcuno ti bacia in quel punto del corpo non va ricercata con il proprio genitore ma con altre persone [capito? I bambini devono capire le zone erogene – ma non bisogna dirgli ti amo perché se no lo dicono agli altri. Interessante modello educativo] e, soprattutto, quando si è più grandi. Il problema è che i baci sulla bocca, il dire “ti amo”, sono tutte storture degli adulti che trattano i bambini come immagini di loro stessi in miniatura: attribuiscono degli schemi validi tra persone grandi ai bambini [lo fanno gli adulti, tutti, sempre, ovunque – chiaro? NESSUNO di quelli che bacia figlie o figli è immune, TUTTI trattano i bambini come immagini di loro stessi in miniatura, e lo fanno perché non sono come la mamma della giornalista, come i genitori dei suoi amici e come la dottoressa].

Non che esista una morale su questa questione [NOOOOOOO, figurati, la tua mica era una morale, no no]. Ma può essere uno spunto per rifletterci su. Voi che ne pensate?

[Io che ne penso? “Che impressione il giornalismo che si mette sulla bocca un linguaggio ipocrita.”]

Appunti per conversazioni non transfobiche

CARTEL-MANI-TRANSFOBIA-2011
Ecco alcune azioni che dovrebbero essere categoricamente evitate nel parlare con e di una persona trans*:

– Chiamarl* con nomignoli storicamente insultanti che la persona t* non usa. Rientrano spessissimo nella categoria “transettone”, “travello”, “travone” e affini. Molt* di noi credono nella riappropriazione politica dei termini, è vero, ma questo non vuol dire certo che ognun* di noi si senta a proprio agio con il reclamare l’uso di alcuni o di tutti i termini in oggetto. Vuoi sapere se li usa e quali usa? Solitamente, salvo essere ciechi e/o sordi, è sufficiente ascoltare o leggere la persona interessata per scoprire questo arcano, e ad ogni modo è molto meno imbarazzante porre una domanda che darsi a improbabili scivoloni dialettici per spiegare mancanze etiche ingiustificabili.

– Riferirsi a l*i con nomi e linguaggi che non usa. Può essere il maschile per alcuni, il femminile per altre, e c’è anche chi preferirebbe forme neutre. Rispetta questa necessità. Non si tratta di egoismo linguistico e non iniziare dibattiti linguistici sulla correttezza di asterischi e via discorrendo. Le persone vengono prima dei nazismi grammaticali.

– Rammentare alla persona t*, costantemente ma anche occasionalmente, in una maniera o nell’altra, che la genetica l’ha generat* in una certa maniera. Ciò che si chiama “disforia” è, molto banalmente, il malessere derivante – sorpresa! – dal non corrispondere fisicamente a ciò che si sente. Spiattellare dunque fascismi biologici è molto poco carino e genera in qualunque persona t*  il genuino desiderio di smolecolarizzarti l’arteria femorale a morsi.

– Fare humour a casaccio sull’argomento senza premurarsi di sapere cosa ne pensa la persona, per poi avere diverbi e molestarl* con amenità come “scusa, non volevo offenderti”. Se commetti una cagata, la cosa migliore da farsi è ammetterlo e scusarsi genuinamente senza spostare la responsabilità del proprio agire alla reazione di l*i. La sua rabbia, il suo scazzo e qualsiasi altra emozione ed opinione è legittima a prescindere dai toni con la quale questa viene espressa, purché non siano -isti o -fobici e più semplicemente oppressivi essi stessi.

– Cooptarl* a priori in quella che potremmo chiamare “altrizzazione”. Le donne trans* sono donne, gli uomini trans* uomini. Poi chiaramente ci sono persone genderqueer che sfuggono le categorie, e probabilmente in una palla tridimensionale dei generi c’è chi si trova in posti assai complicati. Questo non autorizza nessun* a considerarl* inclus* in una sorta di terzo genere degli indefiniti. Non è indefinit* – si identifica in maniera ben precisa, se e quando si identifica. Parlare di  donne, uomini e trans* è terribilmente offensivo visto che un sacco di persone trans* sono uomini o donne. Si potrebbe sostituire questa espressione con donne, uomini e persone nonbinarie.

– Una persona trans* non si “identifica” soltanto in un genere, ha un genere; quel genere. Frasi quali si sente donna/uomo/nonbinari@  sono a dir poco raccapriccianti, in particolare se abbinate a pronomi sbagliati. Noto anche che si prova ad usare persone che si identificano uomo/donna per essere più inclusiv*, ma l’unico risultato ottenuto nella pratica è perpetuare la degenderizzazione delle persone trans*, perché – ad esempio – nella mentalità dell’italiano medio rimarrà normale usare “donna” per riferirsi alle donne cisgender e “donna trans”, o più spesso solo “trans”, per riferirsi alle donne trans. Questo implica che il genere delle persone cisgender è automaticamente più valido, ma ciò è falso. Il sentire di ognun@ è valido.

– Non riferirsi a “corpi maschili” parlando di donne trans* e “corpi femminili” parlando di uomini trans*. La biologia non è un destino, e soprattutto non può essere ciò che si trova tra le gambe a determinare la definizione del resto del suo corpo. Autodeterminazione anche nei linguaggi, please!

Non c’è in questa lista la pretesa di essere esaustiv*, assolutamente, ed in ogni caso l’unico metodo sempre affidabile per rivolgersi ad una persona senza mancarle di rispetto è domandarle quali sono i suoi confini, limiti, off-limits, eccetera. Buona chiacchierata 🙂