Nancy Fraser, you lose!

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Ovvero, perché Nancy Fraser ha toppato alla grande e la responsabilità degli ‘intellettuali’ nella divulgazione delle idee.

Nei giorni scorsi abbiamo partecipato con interesse al dibattito scatenatosi a seguito della traduzione dell’articolo di Nancy Fraser dal titolo COME IL FEMMINISMO DIVENNE ANCELLA DEL CAPITALISMO – E COME RISCATTARLO.

Essendo particolarmente interessat* – e sentendoci in qualche modo parte,con tutti i limiti del caso, in quanto bianch* occidental* – a femminismi altri rispetto a quello descritto nell’articolo, è venuto spontaneo sottolineare gli errori di prospettiva e soprattutto le lacune e omissioni che l’articolo in questione mostrava… Questo ha avuto diversi effetti, tra i quali quello di vederci posta una domanda assolutamente fuori luogo, ma interessante come esempio di ‘reazione difensiva’ che ha la potenzialità di ‘porre il veto’ alle critiche costruttive.

La domanda è la seguente: “Gli intellettuali, o i pensatori, di turno, hanno diritto di parlare?”
Domanda alla quale, di primo acchito e senza troppo riflettere, ho risposto: “Certo che sì, ma prendendosi la responsabilità delle proprie parole (dato che purtroppo in una società verticale quelle parole hanno un certo peso) e tenendo comunque conto di avere un approccio situato e per molti versi privilegiato, in nessun modo ‘super partes’”.

In un secondo momento però, mi sono accorta di essere caduta in una trappola doppiamente infida: prima di tutto perché il “diritto di parlare degli intellettuali” non solo non è mai stato in discussione, ma anzi ha sempre avuto un peso e una valenza assai più grande di quello dei “comuni mortali” – ed anche maggiori possibilità di essere ascoltato e divulgato dai mass-media in generale. Anche in conseguenza di questa realtà, dagli ‘intellettuali’ mi aspetto, proprio in virtù della loro posizione, un approfondimento e una prospettiva assai più articolata (e forse questo caso esemplifica come questa “aspettativa” sia una presunzione infondata).

E invece, il privilegio di molti intellettuali di poter parlare di più e in maniera più visibile (o meglio, ascoltabile) dei ‘comuni mortali’ non sempre è così meritato: già solo il rendersi conto di far parte di una casta dovrebbe essere messo in discussione dagli stessi intellettuali, e questo raramente avviene. Inoltre, mentre si lavora su questo aspetto del privilegio, capire come utilizzare in maniera responsabile questo vantaggio sarebbe il minimo che ci si possa aspettare da loro.

La mia contro-domanda è un’altra: “posso io comune mortale – benché dotata di intelletto e perciò in qualche modo ‘intellettuale’ pure io, seppure senza stellette di merito nell’Accademia – criticare il verbo dell’intellettuale, senza sentirmi rimessa “al mio posto”, senza venire accusata di “invidia” (apertamente o tramite allusioni più o meno evidenti)? Altrimenti si entra in un loop nel quale, se voglio esprimere una ragionevole critica in merito alle parole del “sommo” di turno, devo aspettare che un altro, riconoscibile come pari rango, si esprima in merito.

A questo proposito, mi è stata segnalata la traduzione di un contro-articolo dal titolo La sindrome del fardello della femminista bianca di Brenna Bhandar, che sostanzialmente sostiene le stesse cose che abbiamo notato io e altr* del collettivo Intersezioni in merito all’articolo della Fraser. Per carità, bell’approfondimento, e siamo content* di sapere che non abbiamo vaneggiato, ma perché dobbiamo legittimare il nostro pensiero sempre e solo attraverso chi ha maggiore credito in virtù di ‘stellette accademiche’ o di visibilità?

La nostra critica è semplice ma puntuale: la Fraser ha toppato alla grande!

Sarebbe bastato aggiungere al titolo di quell’articolo una parola, ad esempio: “come CERTO femminismo divenne l’ancella del capitalismo… ecc.ecc.” E sforzarsi di inserire anche un solo paragrafo sui femminismi altri (magari facendo qualche nome, e aggiungendo qualche link ad esperienze di grande valore e ingiustamente ignorate), per dare un taglio tutto diverso al pezzo.
Ma invece no, il focus resta su quel certo femminismo che da sempre, invisibilizzando tutti gli altri, si è arrogato il diritto di essere riconosciuto dalla maggior parte delle persone come il ‘Femminismo’ tout court.

Fraser si rende colpevole anche di appropriazione nel momento in cui, da femminista bianca e accademica, ripete critiche al femminismo bianco e interclassista (anche se lo addita solo in quanto interclassista senza riconoscerne la bianchezza) già note e popolari presso altri femminismi (quelli di bell hooks, Angela Davis, Patricia Hill Collins, Gayatri Spivak e Gloria Anzaldúa, per dire), senza citare neanche *una* personalità di questi femminismi… Questo è colonialismo. Che i bianchi si approprino del duro lavoro – intellettuale e non – delle persone di colore* è storia. E la storia si ripete: quando le stesse cose le dice la femminista di colore non se la fila nessuno e rimane ai margini, se lo dice Fraser viene acclamata – e tra l’altro malinterpretata da alcun* e utilizzata, in parte, come ‘l’utile idiota’ per delegittimare i femminismi in toto, anche se lei parla di riappropriazione.

Da questo punto di vista l’articolo è davvero pessimo, ma pare dar credito alla regola del ‘bene o male, l’importante è che se ne parli’. E infatti la Fraser solo di quel femminismo parla, degli altri femminismi non fa nemmeno il nome, e questo fatto è casomai ancora più grave se consideriamo che, come intellettuale, le sue parole hanno un potere di gran lunga superiore a quello di tant* di far penetrare concetti ed esperienze altre all’interno del dibattito mainstream. Cosa altro potremmo aggiungere per far capire ai nostri interlocutori quale grande occasione si sia – di nuovo – persa?