Mi sono fatta violentare per amore

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Articolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di Serbilla e Elena Zucchini.
Buona lettura!

Da giorni continuo a chiedermi se pubblicare o meno questa storia. La cosa più semplice sarebbe tenerla per me; alla fine, si è trattato di due sole aggressioni delle tante subite nella mia vita. Se sono riuscita a sopravvivere senza traumi, sopravviverò anche a questa… in fondo non è “così grave”…

Alla fine ho deciso di renderla pubblica, per diversi motivi. In primo luogo, perché anche io mi sono resa pubblica e visibile mediaticamente, in particolare su di un tema, quello della prostituzione, che scatena accesi dibattiti all’interno del femminismo. La mia posizione, in quanto prostituta (è così, mi guadagno da vivere prostituendomi dal 1989), è quella di difendere i diritti fondamentali delle persone che esercitano la prostituzione – non quella dei “protettori”, sia chiaro: lotto contro lo stigma della prostituta e il trattamento da “poverette” incapaci di prendere decisioni e assumersi rischi. Inoltre, sostengo che non tutti gli uomini che ricorrono al sesso a pagamento sono maltrattatori o stupratori, ma soprattutto che sono relazioni che si concordano tra adulti (le pratiche sessuali che verranno messe in pratica, l’obbligo dell’uso del preservativo, il tempo, ecc.);

Quando mi chiedono se io sia mai stata aggredita da un cliente – anche solo per mera statistica, dovrebbe essermi successo – la mia risposta è ‘no, non sono mai stata aggredita da nessuna delle decine di migliaia di uomini con i quali ho avuto rapporti’. Quali sono stati e chi sono i potenziali aggressori? Certo, sono stata testimone di aggressioni e ho pianto con alcune compagne, ma nel mio caso, ho imparato ad evitare situazioni potenzialmente pericolose. Allo stesso modo non accetto le molestie di strada e so affrontare i bulli. Dunque, in quale contesto sono stata aggredita? Nella vita quotidiana, fuori dall’ambito della prostituzione, e sempre, sempre, da parte di uomini con i quali avevo un precedente rapporto di fiducia: uomini della mia famiglia, vicini, capi dei miei vari posti di lavoro, colleghi e una delle mie “cotte” (leggasi il “brivido dell’innamoramento”)… Sì, ho subito molestie sessuali, abusi sessuali, e, infine, due violenze da parte di uomini di cui mi fidavo.

Quando ho pubblicato il mio libro ‘Una mala mujer’ (‘una donna permale’)  ho raccontato gli abusi e le violenze tra le quali sono nata e cresciuta, a partire da mio padre e mia madre; poi la violenza da parte dei vicini “teppisti” del quartiere, quando avevo 12 anni, e l’abuso sessuale di uno dei miei capi, in cui davvero mi sono sentita “puttana” e sporca – ma per paura di perdere il lavoro (un lavoro di merda, devo dire, perché non mi permetteva di riscattarmi dalla povertà) ho accettato tutto quello che mi ha chiesto, fingendo che mi piacesse tanto essere “la sua amante”, ma né lui mi piaceva né io volevo fare sesso con lui, lo facevo solo per paura. Non ho raccontato episodi di molestie fisiche, anche in adolescenza, da parte di due cugini, che mi lasciavano a metà tra il sentire l’emozione del proibito e il disgusto che mi dava il loro toccarmi, perché non mi chiedevano il permesso, semplicemente lo facevano e io li lasciavo fare…

E così, con queste premesse, arrivo al punto della questione: Come è possibile che una donna che in 26 anni di prostituzione non è mai stata aggredita da nessun cliente, subisca violenze sessuali – “palpate” sopra i vestiti da parte di una persona conosciuta e che ora non racconterò per non dilungarmi – nel giro di poche settimane? E dopo quell’episodio a 12 anni, che io pensavo mai si sarebbe ripetuto, sono stata violentata a causa dell’innamoramento, per quello stato di imbecillità che mi ha lasciato bloccata e mi ha impedito di reagire.

È un uomo che ho incontrato sui social network, che prima di questo episodio ammiravo molto, che un giorno mi ha approcciato e l’ammirazione che provavo mi ha fatto abbassare la guardia; ha saputo prima illudermi e poi farmi innamorare con belle parole, facendo apprezzamenti rispetto alle mie inquietudini e con un emozionante sesso virtuale del quale ho sinceramente goduto. Alla fine ero arrivata a credere che davvero gli importasse di me come persona, che non si curasse del fatto che mi guadagno da vivere come prostituta, perché mi aveva completamente inclusa nella sua vita quotidiana, mi aveva fatto incontrare la sua famiglia, mi raccontava di essere in procinto di separarsi, diceva di amarmi… Quando è arrivato il momento di incontrarci di persona, desideravo quel rapporto sessuale. Quello che non mi aspettavo, perché nulla del suo atteggiamento me lo aveva fatto sospettare, è che sarebbe stato così aggressivo.

Ci siamo incontrati in un hotel, sono arrivata presto e l’ho aspettato eccitata e ansiosa, tenevo pronto il preservativo sopra al comodino… Lui è arrivato puntuale e dopo quattro baci, quattro baci letteralmente, dati frettolosamente (che già mi dovevano allarmare), ha cominciato a toccarmi aggressivamente, in modo molto brutale, i seni, le parti intime sotto al vestito, e in quel momento mi sono bloccata, non sono riuscita a fermarlo, a frenarlo, a dirgli “non essere così brutale “, a respingerlo. Il resto? Non sono in grado di ricordare i dettagli, so che in un attimo ero a letto senza mutandine; lui si abbassava soltanto i pantaloni e mi penetrava, proprio così. Sì, se ne è venuto subito,  e finito il tutto si è alzato, “Devo andare” … tutto in pochi minuti …

E io piangevo, pensando: “Ma… cosa è successo? Sì… Sono stata violentata!”, E sì, “Non ha usato il preservativo”, “Non mi ha chiesto se potrei rimanere incinta, o se uso contraccettivi”, “Non mi ha chiesto cosa mi piaceva e cosa no”, “Non è stato come avrebbe dovuto”, “Come mai non sono riuscita a lasciare la stanza, e mi sono fatta toccare in quel modo?”… “Ma … ma… come ho potuto lasciare che mi trattasse così? E cosa devo fare adesso?”, “Perché mi è successo e perché ho abbassato la guardia?”. Dopo diversi giorni di riflessione, l’ho raccontato a due “amiche”, che l’hanno percepita più che altro come un’avventura andata storta. Solo una collega di lavoro, vale a dire una prostituta, mi ha dimostrato empatia ed è stata d’accordo con me nell’identificarla come violenza machista, e senza scrupoli, contro le donne –  inclusa sua moglie.

Tutto questo è il riflesso della violenza strutturale di genere. Un grave problema di educazione sessista, che ci portiamo dietro generazione dopo generazione, per cui le donne hanno difficoltà a trovare gli strumenti necessari a gestire emozioni come la paura o l’infatuazione. Quell’ “amore romantico” interiorizzato fin da piccole, e al quale ci arrendiamo, senza domande;  nonostante impariamo e sappiamo essere una costruzione culturale perversa, quanto è difficile non cadere nella sua rete! Colpisce tutte le donne, indipendentemente dal livello socio-culturale, in maggiore o minore misura … E mi fa arrabbiare ancor di più perché, nel mio caso, nel contesto del sesso a pagamento io controllo tutto e reagisco, non mi blocco.

Tanto potente e subdola è la violenza di genere. Tutte le donne sono vulnerabili, dunque c’è molto da fare se desideriamo lasciare un mondo migliore di quello che abbiamo trovato ed evitare che le future generazioni continuino a riprodurre questo schema. Sono indignata del fatto che non esista una educazione sessuale e affettiva dall’infanzia… non so che altro dire… spero solo che la condivisione di questa esperienza, se ancora c’è chi non riconosce l’entità di questa violenza contro le donne, renda pienamente consapevole di come si manifesta. Violenza non significa soltanto essere violentate con la forza, le minacce e le aggressioni fisiche, una violenza si verifica anche quando uno stato emotivo causato da questo tipo di educazione ci impedisce di reagire, e non solo per la paura di subire una violenza più grande o la paura del rifiuto o la paura che pensino che “sono una fica secca”.

Se mi definisco femminista è perché mi batto affinché le donne possano esprimersi come desiderano, ciascuna nel proprio contesto e nelle proprie circostanze personali, e che non siano più oppresse da questa cultura maschilista che ci rende incapaci di dire: “No, non così!” e “Niente e nessuno mi impedirà, per il fatto di essere donna, di realizzarmi e realizzare i miei sogni!”

 

Deconstructing l’alibi de li mortacci vostra

tomas-milian2Ci sono tanti modi per far passare come rispettabile un’opinione politica che ha il valore di una banale stronzata. Uno di questi è fraintendere fin da subito i termini in gioco, usandoli come se il significato di essi fosse comunemente accettato nel modo di chi scrive. Nella realtà dei fatti, però, non è così – ma se non ve ne accorgete subito, argomentazioni anche coerenti ma del tutto fuori luogo possono essere usate per dimostrare qualunque cosa. Questo articolo è un ottimo esempio di come una ben congegnata stupidaggine può risultare credibile e addirittura ragionevole, soprattutto se si parte dall’assunto che il movente di un assassinio non conta, non conta perché qualcuno viene ucciso, conta solo che un essere umano è morto. Cosa che si può facilmente constatare, mentre invece io vorrei sapere perché, in modo da evitare che succeda ancora. E sempre più spesso questo motivo è semplicemente che la vittima era una donna che ha detto un no a un uomo.

Invece dice che non importa che muoia un uomo o una donna, come se in questione ci fosse quello. Così si dice, negando che esistano i femminicidi e i motivi i quei corpi morti. Invece i mortacci vostra esistono sicuramente, e allora li usiamo per far sembrare il femminicidio un alibi politico.

10/03/2014 06:06

IL LAMENTO DELLA SINISTRA

L’alibi (culturale) del femminicidio

Le donne subiscono più violenze di quante ne commettono [e fino a qui, sembra quasi normale…]
Ma la discriminazione di genere nell’omicidio è ancora più pericolosa […ma ecco la formula che non vuol dire niente pronta a scattare: se distingui il sesso dei morti, sei tu che discrimini. Non conta che tu vuoi sapere i motivi per cui quell@ è stat@ uccis@, se distingui allora discrimini. Complimenti]

La «parità di genere» e il «femminicidio» sono due termini ai quali ci stiamo abituando rapidamente [eh, che vuoi farci, “sarà ‘sto buco daa azzòto” (cit.)]. Sono termini “di sinistra” [eh?], nel senso che descrivono fatti e fenomeni che esistono da sempre [però, hai capito] ma che, come avviene periodicamente in molti settori, la sinistra fa finta di scoprire per prima [ma per prima rispetto a chi? C’è chi lo dice dagli anni ’70. Vabbè], gli dà un bel nome, ci costruisce intorno campagne mediatiche [mah, campagne mediatiche mi pare un po’ esagerato], e alla fine le cose rimangono come erano prima [insomma, su, qualche cosa s’è fatta, dài] o, non sarebbe la prima volta, peggio di prima [eh ma come sei acida però]. L’assunto di base è semplice: le donne subirebbero molte più ingiustizie e/o violenze di quante ne subirebbero gli uomini [no, calma. Perché il condizionale? E poi, assunto di base di cosa? Non è questo l’assunto di base di la «parità di genere» e il «femminicidio». Infatti ci sarebbe da dire, per esempio, del tipo di ingiustizie e/o violenze; mica stiamo parlando di reati fiscali o scippi di borsette]. Questo dato non è vero in assoluto [e te credo], perché gli uomini, intesi come maschi, da sempre prediligono uccidere altri uomini, non importa se in guerra o in contese di altro tipo [EH? I maschi prediligono cosa? Beh, per certi versi è ovvio, dato che solo a loro viene insegnato che è “da maschi” risolvere le cose con la violenza. Ma non è che c’hanno il cromosoma del killer, eh]. È vero invece un altro dato: le donne subiscono più violenze di quante non ne commettano [ma no. Ma dài. Guarda, mi pare incredibile. E comunque: ma di che violenze parliamo? E per quali motivazioni?]. Ma questo dato è molto controverso [eh, mi pareva troppo bello – e comunque lo è per forza controverso, dato che non hai spiegato di che violenza parli, e del suo movente]. È controverso perché subiscono violenze quelle donne che in qualche misura si sottraggono alla «protezione maschile» [SCUSA? E dimmi, c’è disponibile il dato su cosa sarebbe la qualche misura? Oppure quello su cosa caspita intendere come «protezione maschile»?]. Laddove ancora oggi la donna accetta un ruolo subalterno rispetto a quello maschile [Laddove? E perché non dire dove? Accetta? Cioè il ruolo subalterno le viene gentilmente proposto? Ha delle alternative?], nelle culture tribali, nell’Islam, nell’Induismo, nelle varie forme di fondamentalismo religioso (anche ebraico e cristiano), la donna vive sottomessa ma sicura [SICURA? Cioè in quelle società – ammesso che si capisca quali sono, data la descrizione sommaria – non esiste la violenza di genere? Ma stiamo scherzando? E la sottomissione che sarebbe?]. Là dove la donna lascia i suoi ruoli tradizionali e chiede la sacrosanta parità di diritti, lì nasce lo spaesamento, la confusione, e subito dopo la violenza [quest’ultima frase è da manuale. Notate come, scritta così, faccia sembrare che la violenza subita dalla donna nasca dalla sua volontà di pretendere la sacrosanta parità. Non si nomina chi agisce quella violenza. Fantastico]. Ma le femministe occidentali, quelle vere, quelle che hanno studiato e militato, non quelle improvvisate dei salotti televisivi, alla parità di genere non ci credono e non la vogliono [nomi delle femministe occidentali, quelle vere? Nessuno. Link, riferimenti? Niente. Parole al vento, così, tanto per]. E non vogliono, quindi, nemmeno sentir parlare di “femminicidio” [ma quindi che cosa, che non hai messo uno straccio di riferimento? Che fai, deduci dalle tue stesse invenzioni? Ma come si fa a pensare di essere creduti argomentando in maniera così sfacciatamente ipocrita?]. Perché maschi e femmine sono diversi, diversissimi, e quello che si deve fare è rispettare questa diversità, non negarla, e men che mai omologare tutti [notate: è una frase talmente vaga che è ottima anche per pubblicizzare una fashion week]. Ma se per le femministe intelligenti [dopo quelle occidentali e quelle vere ci sono anche loro, quelle intelligenti – anche loro anonime, si vede che sono pure timide] il femminicidio è un falso problema [tornate qualche riga indietro e notate: non ha detto il perché sarebbe un falso problema, manco ha provato a inventarselo], per alcuni osservatori è addirittura un modo pericoloso di affrontare il problema più generale della violenza, chiunque possa essere la vittima [ci sono le femministe occidentali, vere e intelligenti e ci sono gli osservatori – alcuni, non tutti. Tutti e tutte anonim@, dev’essere una specie di gruppo di auto-aiuto, chissà]. Chiedere pene più alte per chi uccida una donna può sembrare che si possa invece fare uno sconto a chi uccide un uomo [nessuno ha proposto una cosa simile, che può sembrare verosimile solo a un@ deficiente, imho], creare procure o corpi di polizia specializzati [e chi l’avrebbe proposto?] può dare l’idea che altre forma di violenza siano meno gravi [di nuovo: nessuno l’ha detto], dedicare migliaia di progetti e di onlus nella speranza che mariti squilibrati smettano di picchiare o di uccidere le mogli può far sembrare che l’ignoranza o la pazzia si curino con le chiacchiere [cioè i progetti e le onlus sarebbero pensate per chiacchierare con vittime e violenti? Va bene dire stupidaggini, ma adesso cominciamo a offendere la professionalità di parecchi, eh], invece che con servizi sociali e sanitari efficienti e soprattutto non ideologizzati [quindi i problemi di genere sono patologie? Interessante. E per “curarli” servirebbero servizi sociali e sanitari efficienti, notoriamente il fiore all’occhiello della politica italiana; e poi, quale sarebbe l’ideologia di cui si parla? Altre parole al vento, altre ipotesi senza fondamento e prese di posizione campate in aria. Ma l’importante è dire che il problema è un altro]. Aprire tutti i telegiornali, come l’altro giorno, con l’omicidio di una donna, e confinare alle scritte che scorrono sotto il video la notizia di 3 morti a Napoli e in Calabria dà l’idea che ci dobbiamo rassegnare a un certo razzismo “di sinistra” [COSA? Le scelte editoriali di una testata giornalistica televisiva sarebbero razzistiche perché mettono una donna morta “davanti” a tre uomini morti? Ma cosa c’entra?], per cui i meridionali (che non a caso votano Berlusconi) sono animali e non ci si può fare niente [ma che paragone è? Che senso ha, a parte indignare il lettore già prevenuto e pieno di pregiudizi? E poi, questo sarebbe pensato sempre da tutti i telegiornali? Anche quelli di Berlusconi?]. Soprattutto, diciamocelo, parlare troppo di femminicidio è pericoloso là dove dà l’illusione alle donne di poter godere di protezioni particolari [EEEEEEH? Fossi una donna: io sento tutti i giorni che una donna come me viene ammazzata perché moglie, madre, donna che ha detto un “no”, e dovrei sentirmi sicura di poter godere di protezioni particolari? Da parte di chi, della Feniof?]. No, qualcuno dovrà avere il coraggio di ricominciare a raccontare alle nostre figlie che, poiché non si può mettere un poliziotto in tutte le discoteche e in tutte le auto dei loro fidanzati [che a questo punto non si capisce perché non si può: tanto siamo in là con la fantasia, perché non militarizzare il territorio e gli spazi privati? Ma sì, dài, che ce frega], sarà il caso che alcune precauzioni le prendono da sole [certo, invece adesso le donne escono tutte sicure e tranquille, no? Meno male che glielo dici tu, ché a sentire ‘ste cose di femminicidio dormono tutte sonni beati]. Perché l’imprevisto è sempre in agguato [tranquillizzare è sbagliato, il femminicidio è un’invenzione della sinistra, teniamoci il sano terrore sparso della destra]. Perché la natura non è buona [è il 2014, qualche sospetto l’abbiamo già avuto, sa?]. Perché il male esiste [questa l’ha presa da una locandina cinematografica, l’ho riconosciuta]. Perché la stupidità esiste [su questo siamo d’accordissimo]. Checché ne dica la facile propaganda di troppi sciagurati in cerca di consenso un tanto al chilo [i quali quindi direbbero che va tutto bene perché esiste il femminicidio? Ma che canali guarda, scusi? Ah, sì, quelli dove parlare troppo di femminicidio è pericoloso perché dà l’illusione alle donne di poter godere di protezioni particolari. Boh, forse stanno sul satellite, mi farò regolare l’antenna parabolica].

Francesca Mariani [casomai voleste essere sicure uscendo di casa, contattatela; c’ha sicuramente dei buoni consigli da darvi, amiche mie]

Così, per ribadire: distinguere non è discriminare. Voler sapere un movente non significa considerarlo “migliore” di un altro. Voler agire culturalmente per impedire a quel movente di esistere nella società non significa progettare momenti di chiacchiera. Mortacci vostra.

Un’idea veramente originale: la fica!

unoFinisce il 2013, inizia il 2014 e si sa: è tempo di calendari. Quello per la violenza sulle donne “va un casino quest’anno” (cit.). Oh, finalmente si spendono tempo, energie e risorse per mettere in casa di tante persone qualcosa che, per tutto l’anno, ricorderà un’emergenza sociale così importante come la violenza di genere. Ma come si fa a ricordare un tema tanto spinoso per tutto un anno? Vediamo qualche esempio, tra i tantissimi.

Bruno Oliviero fotografa Kyra Kole

Antonio Oddi fotografa Giorgia Giannandrea

“Il calendario delle studentesse” di Arakne Communication

Ecco come! Con la fica! D’altronde, si sa: i vecchi metodi sono sempre i migliori.

Divertitevi a cercare altri esempi. Le rappresentazioni, al di là delle parole di circostanza di tutti i professionisti interessati, sono del tutto aderenti ai consueti schemi visivi della fotografia di moda più conformista. Simboli e frasi svuotate di senso, patinature, trucchi ed effetti stancanti, pose e scatti già visti migliaia di volte. In tutti i casi, corpi di donna nelle posizioni e negli abiti preferiti dal machismo pornocommerciale: intimo variopinto, qualche sguardo torvo, strappi e tagli, aderenze, magrezze, frasi a effetto, sorrisi di purezza sotto il fard.

Il motivo di tutto questo è ormai noto, a chi si occupa di questioni di genere: la violenza sulle donne è un brand, e se ne sono accorti tutti, grandi aziende e piccole realtà, fotografi noti e “creativi” in cerca di visibilità. “There is nothing more alluring than a dead girl“, e il risultato lo vedete in quei tre esempi: parole ricopiate e messe in bocca – o sulla foto – senza alcuna cognizione di causa, tanto per decorare la solita posa softpornomainstream che placa la coscienza – e gonfia i corpi cavernosi – del maschio che assiste. A posto così.

A questa meravigliosa convergenza estetica tra softporno commerciale, ipocrisia politica, incoscienza sociale, ignoranza crassa viene dato il nome di “per la violenza sulle donne”; ed è dovuta, ovviamente, al gioco al ribasso tipico del marketing spietato. L’argomento trendy fa abbassare il prezzo e raccoglie i volontari, ed ecco che tutti fanno a gara per intitolare il loro (solito) spaccio di carne umana in lingerie alla “violenza sulle donne”. E’ il prezzo basso a decidere vicinanze ed equivalenze, passando sopra alle più evidenti assurdità.

La tristezza di queste operazioni commerciali è aumentata dal fatto che nessuno dei poteri in gioco viene minimamente messo in questione; in fondo è l’etimologia a ricordarci quel legame originario tra donne, sesso, denaro e potere (il potere di chi l’ha inventato, questo legame) che ormai si esprime nella vita politica, sociale e nel linguaggio di gran parte della nostra bella società. Pensare che la pornografia commerciale sia fatta solo di cazzo, fica, urla finte e grugniti macho è ormai davvero riduttivo, quando non difensivo e forse nostalgico di una felice era dell’incoscienza maschile. E purtroppo oggetti come questi calendari moralizzano ancora di più l’immaginario, evitando, tra le altre cose, di impegnarsi a stravolgere quel porno commerciale che ne avrebbe tanto bisogno.

Invece non c’è alcuna necessità di nascondere questo sfacciato potere maschilista e il suo continuo desiderio di macinare immagini e rappresentazioni di corpi femminili: fa vendere, quindi ben venga. E’ lavoro, occupazione, reddito, visibilità, di che vi lamentate? Zitti tutti e tutte, zerbini e femministe: è il mercato, baby. E il mercato lo sa bene cosa serve per vendere; fatelo il giochino online “Fashion or Porn“, è molto istruttivo. Attenzione, potreste vedere del sesso, mica come nelle immagini dei calendari degli esempi qui sopra. Quelle sono “per la violenza sulle donne”.

Rubo a feminoska:

Questi calendari sono normativi per i corpi, eterodiretti, il ‘mondo donna’ (così viene chiamato da molti addetti ai lavori) fa tendenza, per questo i soliti misogini e misogine lo sfruttano, utilizzando claim che reputano di richiamo, svuotandoli di contenuto, e legandoli al solito bieco sfruttamento dell’immagine femminile eteronormata e machopornizzata. L’operazione è scrivere nuove parole d’ordine sullo stesso vecchio immaginario, ed è fatto in maniera talmente idiota che non ci si chiede nemmeno quali siano le nuove parole d’ordine.

Altre parole, altre immagini e altre fantasie ci sono, eh. Basterebbe informarsi, non farsi prendere in giro e smettere di dare ragione a chi fa soldi speculando sull’immaginario sessista.

25 Novembre – Una violenza enorme che ne oscura tante (più o meno) piccine

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25 Novembre, e non so cosa dire.

Ogni volta che leggo gli articoli, le riflessioni, i post scritti in  occasione della giornata internazionale per l’eliminazione della  violenza contro le donne, mi sembra di guardare la Terra da  Plutone. Di più, mi sento ammutolire: perché sento parlare di  femminicidio, di botte e stupri, e io, seppur femminista, di queste  cose non so parlare. Non ne so parlare perché non le conosco, o  meglio non le conosco direttamente, sulla mia pelle o sulla pelle di  chi mi è più vicin@ – e non ho mai assistito (fortunatamente) ad  episodi di violenza estrema e brutale.

Eppure, mentre mi apprestavo a seguire il filo dei pensieri e degli  eventi legati a questa importante giornata da spettatrice, mi sono  resa conto che la violenza sulle donne la vedo agita ogni giorno, da  sempre. Non è una violenza eclatante, da prima pagina dei  giornali, non si chiama femminicidio, né botte, né stupro. Eppure  esiste, è pervasiva, è quotidiana, è come la goccia che scava, scava  e attraversa l’anima, annichilisce persone con costanza e pazienza nell’arco di una vita, in molti casi trasformando chi la subisce in maniera radicale.

Quella agita su tante donne che ho conosciuto e conosco, intrappolate per una vita in rapporti coniugali impari, alla mercé di mariti i quali, seppure non platealmente ‘violenti’, sono quasi sempre freddi, distratti, economicamente e psicologicamente abusanti e inclini ad approfittare di qualsivoglia privilegio patriarcale sia a portata di mano per trattarle come colf, badanti, mammine di ricambio e sex workers, al bisogno e, ovviamente, gratis.
Quella su colleghe di lavoro precarie come me, mandate via alla prima gravidanza in quanto non più pienamente produttive e in alcun modo tutelate – le stesse che, alla notizia della gravidanza, ricevevano il plauso patriarcale della dirigenza maschile per aver ottemperato ai propri impliciti ‘doveri biologici’ di femmine – rispedite prontamente al mittente del lavoro di cura e della dipendenza economica, senza vergogna né rimorso.
E poi c’è quella ubiquitaria che ho sentito sulla mia pelle, su quella di amiche o semplici conoscenti continuamente sottoposte a controllo, giudicate e condannate dall’inquisizione patriarcale che agisce in ognun@ di noi, uomini e donne – sempre troppo puttane, troppo suore, troppo maschiacci, troppo loquaci, troppo sciacquette, troppo serie, arriviste, pazze, stupide, instabili, fragili, grasse, magre, aggressive, audaci, passive, indolenti, indipendenti o dipendenti… sempre troppo o troppo poco di qualsiasi cosa, perennemente fuori posto o talmente al loro posto da meritare in ogni caso solo disprezzo.

Ecco, questa è la violenza che io conosco. E mi spaventa pensarla così ‘normale’, così quotidiana, così pervasiva da diventare invisibile, persino a volte ai nostri stessi occhi. Perché di fronte al femminicidio, di fronte alle botte, di fronte allo stupro, io ammutolisco. Qualcun@ mi direbbe persino che io, ‘al confronto’, sono una donna fortunata. Eppure anche io conosco la violenza, una violenza che accompagna i miei giorni, da sempre: e non mi sento fortunata, proprio no, quando penso a quante volte ho dovuto incassare i colpi di un sistema che mi discrimina in quanto donna.

E allora quello su cui rifletto oggi, in una giornata così importante e simbolica, è che la violenza contro le donne non si riduce al suo estremo, e la violenza brutale non cancella tutte le altre, ma va inserita – concettualmente e politicamente – in un contesto più ampio, quello che richiede un’azione culturale e sociale che nessun provvedimento emergenziale e securitario potrà in alcun modo sostituire.

Auguro a tutte le donne di trovare la forza – in sé stesse e in amic@,compagn@, sorell@ – di riconoscere e opporsi a qualsiasi forma di violenza, anche le più piccole, anche quelle considerate insignificanti, che le riguardi in quanto donne. Perché dalla nostra personale dose di violenza quotidiana, nasca la forza di una resistenza che è anche e soprattutto politica.

Perché le Sex Worker sono escluse dal dibattito riguardante la violenza sulle donne?

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Articolo originale qui – traduzione di feminoska, revisione H2O.

“Ho ucciso così tante donne che faccio fatica a tenere il conto… il mio piano era di uccidere più prostitute possibile… sceglievo loro come vittime perché erano facili da abbordare senza dare nell’occhio.”

— Gary Ridgewood, “The Green River Killer,” 15 Nov. 2003, Seattle, Washington

Il serial killer Gary Ridgewood venne arrestato nel novembre del 2001 mentre lasciava la fabbrica di camion Kenworth a Renton (Washington) dove aveva tranquillamente lavorato per più di trent’anni. Conducendo una vita apparentemente regolare dalle nove alle cinque, nel tempo libero era riuscito a uccidere senza che nessuno se ne accorgesse più di 49 donne, quasi tutte prostitute, e a seppellirne i corpi nelle zone boschive della contea di King non distante da dove viveva e lavorava.

“Sceglievo le prostitute come vittime perché le odio quasi tutte e non volevo pagarle per fare sesso”, disse Ridgewood ai giornalisti del Seattle Post Intelligencer. Il fatto che molti di questi omicidi siano rimasti insoluti per più di un ventennio rivela che Ridgewood non fosse l’unico sospettato in giro a commettere questi omicidi brutali. L’indifferenza della polizia e delle forze dell’ordine verso le sex worker, e il disprezzo e lo stigma che la società in generale rivolge a questo gruppo marginalizzato di persone, fa sì che centinaia e centinaia di morti restino impunite e sommerse per periodi di tempo assurdi e disumani.

Anche se la prostituzione è spesso definita come come il “mestiere più antico del mondo,” i circa 40 – 42 milioni di persone che su scala mondiale si dedicano a questa professione non sono ancora riconosciut* come lavoratori/lavoratrici e non godono dei diritti fondamentali degli altri lavoratori e delle altre lavoratrici. Secondo uno studio condotto dalla Fondation Scelles e pubblicato nel gennaio del 2012 , tre quarti di questi 40-42 milioni di persone hanno un’età compresa tra i 13 e i 25 anni, e l’80% di loro è costituito da donne. Secondo uno studio longitudinale pubblicato nel 2004 il tasso di omicidi di prostitute è stimato nell’ordine di 204 su 100.000 — il che costituisce il tasso di mortalità sul lavoro più alto rispetto a qualsiasi altro gruppo di donne mai studiato.

Eppure, nonostante tutto questo, a livello di Nazioni Unite nei diversi dibattiti sui diritti umani incentrati sulla violenza contro le donne non viene quasi mai fatta menzione della violenza subita dalle sex worker. La scorsa settimana, al termine della 57a sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione della donna, il Segretario Generale Ban-Ki Moon ha confermato l’impegno, della durata di sette anni, preso delle Nazioni Unite per concentrarsi sulla lotta alla violenza contro le donne fino al 2015:

“La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani atroce, una minaccia globale, una minaccia per la salute pubblica e un oltraggio morale”, ha dichiarato Ban-Ki Moon: “Indipendentemente da dove vive e indipendentemente dalla sua cultura e società di appartenenza, ogni donna e ogni ragazza ha il diritto di vivere libera dalla paura.”

 Ma per dirlo con le parole della suffragetta nera Sojourner Truth:

“Non sono forse una donna?”

tumblr_ljbghvs1Wi1qbuphsPerché le sex worker non rientrano nel dibattito sulla violenza contro le donne? Le sex worker sono figlie, sorelle, madri pienamente inserite nella comunità, che vivono nella vostra stessa città, prendono il vostro stesso autobus, mangiano negli stessi ristoranti e frequentano le stesse biblioteche. Anche se la maggioranza delle sex worker è di sesso femminile o si identifica come donna, molti sono anche figli, fratelli, padri e amanti. Gay, etero, ner*, bianc*, alt*, bass*, ricc* e pover*, i/le sex worker provengono da una varietà di ambienti diversi e scelgono il lavoro sessuale per molte ragioni differenti. Alcun* di loro migrano in tutto il mondo in cerca di migliori opportunità e alcun* sono vittime della tratta di esseri umani contro la propria volontà. Alcun* sono dipendenti da droghe e alcun* hanno dottorati; questi due gruppi non sono nemmeno mutualmente esclusivi. Tu stess* o qualcuno che ami probabilmente conosce un/a sex worker, magari ne hai anche amat* un*.

Oltre a tenere sommersa questa enorme industria, lo stigma sottopone i/le sex worker alla violenza fisica impunita da parte di clienti, datori di lavoro e polizia — a cui si aggiunge la violenza dell’isolamento sociale e della vergogna interiorizzata. Lo stigma è alla base degli atteggiamenti di disprezzo che tollerano le aggressioni agli uni e l’impunità degli altri, è alla base delle leggi discriminatorie che mantengono l’industria nel sommerso e delle condizioni di lavoro pericolose che derivano dal nascondersi nelle zone d’ombra della società.

Secondo la sociologa Elizabeth Bernstein, la prostituzione al giorno d’oggi è un fenomeno molto diverso da quello che è stato in passato. La tecnologia di Internet, la globalizzazione, la crescente disparità di ricchezza, la crisi economica, i debiti accumulati negli anni di studio e le variazioni nei gusti e nelle rappresentazioni sessuali, hanno tutti contribuito all’evoluzione di questa industria. Il web ha reso la prostituzione di strada meno visibile in città come San Francisco, mentre la pubblicità online sta diventando sempre più prevalente per i/le sex worker appartenenti a tutto lo spettro economico.

Le circostanze, le razze e le classi sociali dei/delle sex worker sono molto diverse tra loro – non esiste un canovaccio che descrive la situazione di tutt*. L’ipotesi suggerita dal benintenzionato movimento anti-tratta è che la maggior parte delle persone nel mercato del sesso siano state vittime del traffico di esseri umani, e siano state costrette a lavorare contro la propria volontà e le proprie caste intenzioni. Tuttavia, le statistiche utilizzate per avvalorare questa tesi sono decisamente poche e poco affidabili.

Per molte persone, il lavoro sessuale è un atto che esprime autodeterminazione e resistenza, un modo di fare i conti con disuguaglianze più opprimenti. Mentre i lavoratori/le lavoratrici migranti si prendono sempre più spesso carico dei logoranti lavori di cura nel settore dei servizi delle città globali, alcun* scelgono il lavoro sessuale come alternativa più redditizia all’interno di un mercato del lavoro discriminante per classe e genere. Il lavoro sessuale è uno dei pochi settori lavorativi in cui le donne vengono pagate più degli uomini e le madri a volte riescono a negoziare un orario flessibile per la cura dei bambini. Per una persona con disabilità o senza accesso all’istruzione superiore, può anche essere il modo più pragmatico di guadagnare denaro, che pone ostacoli di ingresso relativamente facili da superare.

Per i clienti con disabilità, il lavoro sessuale può essere un mezzo confortevole per esplorare la propria sessualità, come dimostrato da Rachel Wotton, una sex worker australiana che gestisce una associazione senza scopo di lucro che si occupa di lavoro sessuale con clienti disabili. Mentre ci sono molti lavoratori migranti sfruttati, costretti ad accettare lavori a bassa retribuzione in condizioni precarie per pagarsi i costi della migrazione, ci sono anche molti studenti a reddito medio, che non riescono a gestire gli oneri del prestito studentesco, le scadenze e la crisi economica. Gli studenti universitari rappresentano una porzione sempre più vasta dei/delle sex worker in Inghilterra e Galles.

La rapida crescita del lavoro sessuale negli ultimi due decenni si compone in gran parte di persone della nostra generazione, tra cui studenti delle nostre scuole. Se siete tra quest*: fatevi riconoscere, Aspasia, fatti riconoscere. Insieme, possiamo rendere questo lavoro più sicuro anche per gli/le altr*. Tutte le persone impegnate nel lavoro sessuale potrebbero trarre vantaggio da una maggiore comprensione e da uno stigma inferiore. Come società, possiamo affrontare la violenza, solo se siamo dispost* a lasciare che la realtà venga alla luce. La generazione di questo millennio ha l’opportunità di ridefinire il modo in cui il lavoro sessuale è percepito nel 21° secolo. Mentre infuriano molti dibattiti teorici tra le femministe benintenzionate e gli/le attivist* anti-traffico se la prostituzione dovrebbe o non dovrebbe esistere, preferirei non ribadire questi concetti qui. Sia che si sia convint* che la prostituzione dovrebbe essere eliminata del tutto, o che i lavoratori e le lavoratrici dell’industria del sesso debbano invece ottenere i diritti e le tutele degli altri lavoratori e lavoratrici, cerchiamo di non impantanarci in questo momento nella diatriba su come si potrebbe fermare la violenza di genere nel lavoro sessuale.

Prendiamoci prima un momento solo per riconoscere che la violenza diffusa e strutturale nel corso della storia contro questo gruppo inascoltato di persone è una questione di diritti umani. Il lavoro forzato di tutti gli uomini e di tutte le donne, dai lavoratori agricoli ai lavoratori sfruttati nelle fabbriche agli schiavi del sesso, è ingiusto. Siamo tutti d’accordo su questo. Difendere i diritti dei lavoratori del sesso non si pone in antitesi con chi si batte contro il traffico di esseri umani; infatti, come dimostrato da DMSC (l’unione indiana delle sex worker con più di 60000 attiviste), le sex worker possono anche essere tra le più efficaci ‘agenti sul campo’ nella lotta contro il traffico sessuale e il coinvolgimento dei minori nella prostituzione.

Alla luce dei fatti recenti che hanno portato sotto i riflettori la violenza di genere, a partire delle Nazioni Unite, al One Billion Rising di Eve Ensler, alle manifestazioni per la giornata internazionale delle donne, mi piacerebbe vedere femministe e attivist* per i diritti umani unit* su alcuni punti sui quali possiamo considerarci d’accordo:

Le donne sono ancora oggetto di discriminazione e disuguaglianza. Le persone che scelgono il lavoro sessuale sono spesso quelle che sperimentano tale disuguaglianza in maniera più lancinante. Dalla disuguaglianza economica, il divario salariale persistente tra uomini e donne, alla disparità di genere nella scuola in molte parti del mondo, al costo irragionevolmente elevato delle tasse universitarie e di un sistema di debito formativo deformato, alla responsabilità ancora prevalentemente femminile di assistenza all’infanzia – questi sono i problemi sui quali le femministe stanno lavorando. E questi sono anche i motivi per cui le persone si dedicano al lavoro sessuale, volontariamente o meno. Cerchiamo di non punirle ulteriormente per le condizioni ingiuste che non hanno creato. Il femminismo è per tutte le donne e i diritti umani sono per tutti gli esseri umani. Nessuno merita di essere oggetto di violenza.

Le persone impegnate nell’industria del sesso evidenziano alcune delle più profonde contraddizioni della società, le crepe nelle strutture che abbiamo più care. È un importante tornasole della forza e la coerenza dei nostri quadri ideologici: per vedere se siamo in grado di estenderli ai membri più emarginati della nostra società. Quando si tratta di unirci nella lotta contro la violenza di genere, facciamo del 2013 l’anno in cui la violenza contro i lavoratori e le lavoratrici del sesso entra finalmente nella coscienza pubblica come una questione di diritti umani.

Kate Zen è una femminista e attivista per i diritti umani, nonché una studentessa di scienze sociali ed ex mistress.

Include All Woman è una campagna realizzata per dare visibilità alla violenza contro le sex worker, nell’ambito dei dibattiti sui diritti umani incentrati sulla violenza contro le donne delle Nazioni Unite.

“Ain’t I a woman?” è alla ricerca di mediattivist*, ricercatrici/ori e artist* per realizzare una campagna che includa la violenza contro le sex worker nell’ambito della commissione delle Nazioni Unite sulla condizione della donna entro il 2015.