Un compagno ha bisogno di aiuto

È un bel po’ che di questo blog non rimane che un archivio. Ma vi chiediamo un ultimo sforzo finale per uno di noi che se la sta passando molto male, e che ha bisogno di tutto l’aiuto possibile. Non possiamo fare altro che linkarvi il crowdfunding messo su dalle persone a lui più care e sperare nella solidarietà militante di cui ci facciamo parecchio vanto.

Salve a tutti. Siamo Elena, Varxh e Chiara, tre persone molto vicine a Den. Abbiamo deciso che quest’ultima se la cavava meglio con le parole, e le abbiamo chiesto di parlarvi di lui. 

È sempre strano cercare di strizzare in qualche riga tutto quello che si dovrebbe sapere di un essere umano, ma per amor di sintesi tenteró. Conosco Den da qualche anno, e mi è sempre sembrato una persona fantastica. È comprensivo, pirotecnico, folle il giusto, e curioso di tutto. In un giornata tipo lo si trova a divorare (metaforicamente) libri di Hawking o di qualunque altro astrofisico conosciuto (la grande passione), o variegati pezzi letterari e non di scibile umano, solitamente circondato da palle di pelo miagolanti. Ha solo 21 anni, e giá ha all’attivo vari articoli su giornali online (argomenti: intersezionalità, femminismo, critica sociale), unapartecipazione mensile su Radio Onda Rossa, vari interventi in eventi di centri sociali romani. Insomma, oltre a essere un umano fantastico è anche molto coinvolto socialmente, cosa che gli riesce benissimo. Scrittore insonne, ha anche un blog, dove trovate poesie e pezzi suoi, scritti probabilmente alle 4 del mattino in raptus creativi improvvisi (con immancabile essere micioso annesso). Beh, immaginate un Baudelaire giovane e post-moderno che al chiaro di luna batte a macchina fantasie meravigliose e avete piú o meno l’immagine che cerco di trasmettere (togliete l’assenzio e rimpiazzatelo con camomilla fumante). Qui e qua troverete il resto che fa. 

Venendo al punto saliente: perché aiutarlo? Se le immagini accattivanti descritte prima non bastassero come motivazione, ne aggiungerei una ulteriore. La vita, giá prima ma recentemente peggio, lo ha preso a sassate innumerevoli volte in molti ambiti diversi. È una persona che, con le adeguate risorse e possibilità sará grandi cose, senza dubbio. E il fatto che per casualità lui non le abbia non mi sembra un buon motivo per cui non dovrebbe riuscire a fare qualcosa di meraviglioso nella vita. Tutti noi quindi abbiamo deciso di aiutarlo, creando questa campagna, con un piccolo contributo da ognuno la situazione migliorerà di sicuro. Spero di avervi fatto conoscere almeno un pó la persona che conosco io.

Ritorniano a noi: aprire un crowdfunding implica avere una posizione precisa. È l’idea che il singolo non debba essere abbandonato a se stesso, che la partecipazione collettiva non debba ridursi a sporadici atteggiamenti di elemosina e pietismo, ma essere un sostegno attivo, permanente, reciproco, umanizzato, solidale: responsabilità verso gli altri. Vogliamo che gli scogli, gli ostacoli di ogni giorno non siano solo un problema di Den e le persone a lui immediatamente vicine.

Da molti anni soffre di gravi forme ansiose e depressive, non trattate perché nessuno si è mai accorto e in ogni caso, nessuno aveva risorse per farlo, ormai diventate ingestibili e pericolose. C’è urgentemente bisogno di un intervento immediato.  Si trova a venire a patti con varie problematiche fisiche – tra cui dolori neuropatici mai arrivati a attenzione medica – che uniti alla sua condizione di autistico annullano drasticamente le possibilità di spostarsi da casa senza un mezzo di trasporto idoneo, non posseduto. Non siamo più disposti a tollerare la marginalizzazione, l’indifferenza, il rimando, l’abilismo di servizi che si sottraggono al prenderlo in carico, individuando nel suo sostegno qualcosa di accessorio e in cui non investire: chiediamo partecipazione di tutti nel garantirgli una psicoterapia, un sostegno medico, mezzi di trasporto idonei, un computer che è l’unico mezzo con cui può lavorare. Tutte cose che non si può permettere viste le disastrose condizioni economiche della sua famiglia.

Speriamo vivamente nella vostra solidarietà <3 

La fine è importante in tutte le cose

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Provi a non pensarci: ogni giorno ti alzi come fosse sempre il primo. E’ un’illusione che ci accompagna in ogni nostra azione quotidiana, la pia speranza che tutto ciò che amiamo, tutto ciò che ci sembra appartenerci e definirci possa continuare per sempre. Cerchiamo di mettere radici e di sentirci invincibili di fronte allo scorrere del tempo, della vita stessa.

Lei, imperturbabile, silenziosamente ma inesorabilmente rosicchia pezzettino dopo pezzettino quello che tanto ci siamo affannati a costruire, che con fatica abbiamo realizzato e crediamo saldo e finalmente acquisito.  Succede sempre, è una delle poche costanti che non vogliamo vedere né ammettere: tutto cambia, e tutto finisce.

Intersezioni è stato un progetto politico fondamentale per chi ne ha fatto parte: eravamo – e forse ancora siamo – persone molto diverse, ma accomunate dalla passione politica e da una convinzione, intuitiva ma potente, che il futuro dei movimenti per la liberazione, umana e non umana, dipenderà dalla capacità di includere il variegato caleidoscopio delle lotte in una sollevazione animale, etica e politica dirompente.

Senza questa inclusività, non c’è futuro, e ognun* soffocherà nella piccola pozza della propria lotta “personale”, prosciugata dal sol dell’avvenire che non è proprio quello che ci si augurava… Le magnifiche sorti e progressive si sono dimostrate quello che sono: una vera sòla.

L’intersezionalità ha ampliato in maniera incommensurabile gli orizzonti di quel “personale/politico” dal quale siamo partit*.

Esperienze queer, trans, prospettiva decoloniale e lotta di classe hanno arricchito il femminismo e l’antisessismo che ci ha avvicinat*. L’antispecismo ci ha dimostrato, nel personale e nel politico, come si possa essere crudeli e ciech* oppressor* anche quando si crede di lottare per la “liberazione”, e che più duro e difficile è riconoscere e rinunciare ai propri privilegi piuttosto che chiedere ad altr* – a chi è veramente “cattivo”?! –  di rinunciare ai propri (a far quello siam brav* tutt*).

L’intersezionalità ci ha fatto crescere politicamente, e oggi più di ieri la riteniamo fondamentale.

Eppure in questi anni di attivismo abbiamo anche compreso che la politica radicale non è evidentemente ancora pronta ad accogliere questa idea: probabilmente perché troppo dirompente, troppo personale. Guardarsi allo specchio e scoprire che il peggior nemico ce lo portiamo dentro è per troppe persone ancora incredibilmente doloroso. Sentir crescere in sé la consapevolezza che non esistono dualismi netti, che la capacità di opprimere ce l’hanno insegnata fin da piccol* e che la agiamo nel nostro quotidiano, che non siamo migliori proprio di nessun*, fa male.

E rinunciare ai propri privilegi è dura. E’ scomodo, ti toglie quella libertà di “fare quello che ti pare” con le vite e le libertà altrui.

Noi in questi anni ci abbiamo provato, a far crollare queste barriere di incomunicabilità. Non è stato facile, anzi è stato molto difficile. Ci abbiamo messo, testa, cuore, tempo e fatica. Abbiamo scoperto inaspettate alleanze, ma anche, tristemente, inaspettate quanto testarde resistenze, anche in quegli ambienti “militanti” che credevamo affini per definizione.

Questi anni bellissimi e durissimi oggi ci presentano il conto: e ci guardiamo per quello che siamo, attivist* stritolati da vite precarie, sempre più dure e faticose. Gli anni passano, le forze vengono meno, le resistenze sono sempre là dove le abbiamo lasciate, la repressione guadagna strada.  Le alleanze si fanno sottili e le nostre vite si sfilacciano sotto i colpi di politiche assassine.

Forse è tempo di tornare gli animali che siamo.

Grazie per esserci stat*. Ci auguriamo che dei semi che abbiamo sparso a piene mani, qualcuno prenda forma, cresca e si faccia forte. Non sappiamo cosa ci aspetta nel futuro, ma sappiamo che non è più qui: forse chissà, ci sarà un nuovo inizio, ma passerà di sicuro attraverso questa dolorosa fine.

E abbiamo capito quanto coraggio ci vuole per diventare una semplice farfalla.

Nuovo requiem per un camion di maiali

pigGuardo i loro volti agonizzanti sull’asfalto, la bocca aperta per un ultimo, ansimante respiro. In altre immagini, i corpi ormai immobili sono caricati su di un camion con un argano, issati per i piedi, materia senza più vita. Parole di crudeltà mi feriscono nel profondo: “merce”, “carico”. Le vittime contabilizzate sono molte più di quelle dichiarate sui giornali, loro però non fanno parte del computo del lutto, perché non ne sono degni: del resto erano nati per morire. Ed è inspiegabile la tristezza, e la stanchezza. Dover spiegare ogni volta perché quelle vite SONO degne di lutto. Doversi giustificare, trovare motivazioni filosofiche, sociologiche, energetiche, ecologiche, per vedersi riconosciuto il diritto alla compassione, ad una vita il più possibile gentile, il meno possibile crudele. Perché siamo diventat* quello che siamo? Interrogo quel poco che so, ma fatico a trovare una risposta.

E non ho più voglia, davvero nessuna, di dover argomentare attraverso lunghe digressioni quello che sento essere l’unico modo giusto, o perlomeno il più giusto per me, di stare al mondo. Si può fare? Sì. E allora si deve fare. Perché se davvero essere “umani” significa qualcosa – io non lo credo, ma va tanto di moda, da qualche secolo a questa parte, appellarsi all’eccezionalità della nostra supposta umanità  – dovrebbe aver a che fare con l’essere compassionevoli, quando in verità a me pare che l’umanità sia, in realtà, l’esatto opposto.

L’essere umano è, per la maggior parte del tempo, assai crudele.

Animale umano di sesso femminile catapultato in questo mondo non per mia volontà,  non mi ci è voluto molto a capire che, per quanti privilegi potessi avere (perché sono bianca, perché sono cisgender, perché sono di classe più o meno media, perché ho potuto studiare, perché non ho disabilità *troppo* evidenti) erano altrettante le oppressioni che avrei dovuto affrontare su base quotidiana. E così è stato, e contro quelle oppressioni lotto tuttora, ogni giorno.

Ma ancora prima di tutto questo, ancor prima di sentirmi – e pertanto dichiararmi –  femminista, ho sentito in maniera inequivocabile dentro di me uno sdegno intollerabile per quello che viene fatto agli altri animali. E’ stato più semplice e più immediato, perché – ora ne sono certa – non ho mai perso contatto con l’animale che dunque sono. E quell’animale, mai disprezzato, a volte stupito e confuso, non ha mai smesso di com-patire, di sentire e farsi attraversare dall’altr*.

Come si può ridere della sofferenza altrui? Come si può agire con crudeltà, come si può restare indifferenti? Cosa vedono gli occhi distaccati e freddi, quando altri occhi li fissano vitrei ma ancora mobili, ancora in cerca di un altro sguardo a cui aggrapparsi, perché questo è quello che qualunque vivente fa quando sta per morire?

Dove sta nascosta la tanto millantata umanità in quei momenti? E qual’è quel momento in cui, da splendidi bruchi pieni di stupore per la vita crescendo diventiamo farfalle orrende, velenose e assassine? Per quale motivo ci assoggettiamo ad una “realtà” cucitaci addosso con brutalità, invece di lottare, ribellarci e rivendicare la nostra libertà, il nostro desiderio, la nostra felicità? Un cavallo, un’orca, persino un esile merlo hanno più coraggio di noi, e tutti sono disposti a pagare, persino con la vita, quel bene che sanno supremo e non vogliono perdere.

Siamo i più addomesticati tra gli animali, più delle tanto vituperate pecore, delle galline tanto ingiustamente tacciate di stupidità. Siamo codardi e feroci e conformist*. A guardarci con onestà, a fissarci nudi, di fronte ad uno specchio, facciamo davvero paura.

Questo non voglio per me, e spero che nessun* lo desideri. Mi voglio strappare di dosso questa pelle non mia, questa pelle che han cercato di cucirmi addosso e che soffoca l’animale che è in me, in ognun* di noi, rendendolo noncurante e insensibile. Fa molto male, indubbiamente, ed espone ad un continuo e rinnovato dolore. Quella che resta è una pelle sensibile, porosa, che non riesce a proteggere, o almeno non del tutto, dal dolore che permea il mondo e di cui noi, così “umani”, siamo tanta parte. Parrebbe quasi un esercizio masochistico, non fosse che l’alternativa è ancora più agghiacciante, ed è non riconoscere l’altr*, non sentirne le gioie e i tormenti, e in questa distanza invisibile ma incolmabile perdere se stess*, diventare comparse inutili in un copione scritto da altr*.

“No! I am not Prince Hamlet, nor was meant to be;
Am an attendant lord, one that will do
To swell a progress, start a scene or two,
Advise the prince; no doubt, an easy tool,
Deferential, glad to be of use,
Politic, cautious, and meticulous;
Full of high sentence, but a bit obtuse;
At times, indeed, almost ridiculous—
Almost, at times, the Fool.”

E’ questo il motivo, e quasi riguarda più me di loro: perché non voglio perdermi, e voglio poter chiudere gli occhi ogni giorno con il cuore, se non altro, un pò meno pesante.

Ed è perché, assieme al dolore, si ricomincia ad essere attraversat* anche dalla felicità degli animali, che sono capace di soffrire per un camion di maiali.

Ps: Questo era il primo requiem.

Pensieri occasionali sulla cultura dello stupro

Alex mask nose

Ogni giorno sono rabbiosa testimone di come uomini e donne di ogni età rinforzino con le proprie affermazioni, giudizi – e soprattutto pregiudizi – quella cultura dello stupro che fa di ogni donna (cisgender, lesbica o trans) la candidata ideale di uno stupro “giustificabile”.

L’idea, profondamente radicata, che uno stupro sia causato dal comportamento di chi lo ha subito è continuamente rinforzata da una forma di “buoncostume” introiettata ed agita acriticamente dalla maggior parte delle persone, che fa di ogni individuo il controllore dell’altrui moralità. Una moralità che comunque ha sempre un doppio standard, lasciando alle donne l’onere di difendere una propria presupposta “virtù”, e agli uomini la scusante di “avere delle esigenze irrinunciabili”.

Io non sento di avere virtù da proteggere, ma in quanto persona e non “oggetto del desiderio”, rivendico la mia consensualità e quella delle altre donne. Non sono mai stata stuprata, ma ho provato sulla mia pelle e assistito quasi quotidianamente, nel corso della mia vita, al crearsi delle condizioni adeguate perché ciò potesse accadere anche a me. Sono stata finora fortunata, non c’è dubbio.

L’estate, ad esempio, è tra i periodi dell’anno quello peggiore. Quando fa veramente caldo, e si lasciano nel guardaroba jeans e maglioni per indossare vestiti più freschi ed evitare il collasso da calore, subito si avverte un cambiamento negli sguardi, nelle “battute”, nella tracotanza di certi individui.

In A Tight Situation

Parlare con qualcuno che ti fissa la scollatura – a volte nemmeno quella, basta un tessuto troppo leggero e il risultato è il medesimo – con insistenza, anche quando tu mostri chiaramente di non gradire. Vedere una ragazza che in una sera d’estate, con qualche cocktail di troppo sullo stomaco, viene palpeggiata contro la sua volontà da uomini appena conosciuti o “amici” con la scusa di essere sorretta perché barcollante, magari tra gli sguardi compiacenti e compiaciuti degli uomini intorno. Sentire le donne continuamente accusate di avere comportamenti che istigano allo stupro, evidentemente rifacendosi ad un’idea radicata che vede la donna come la paradigmatica provocatrice, e l’uomo come la vera vittima, incapace di sottrarsi alle lusinghe… non è forse questo che tramandano da millenni con la storiella di Adamo ed Eva?

Questo ribaltamento delle responsabilità è funzionale ad assolvere chi perpetra una violenza, e impedisce alle donne, di fatto, di esprimere una qualsivoglia assertività di fronte alle proprie scelte sessuali. Quello che quasi qualsiasi uomo fa di continuo, ovvero 1. esprimere in maniera esplicita i propri desideri e appetiti sessuali 2. essere libero di mostrare il proprio corpo senza per questo rischiare una violenza 3. corteggiare in maniera evidente (anzi, a volte estremamente testarda e insistente) una donna – spesso anche indipendentemente dai segnali di gradimento o fastidio della stessa – non sono considerati comportamenti accettabili in una donna.

Anzi peggio, sono considerati come un semaforo verde che rende quella donna non una persona emancipata ed assertiva, ma un oggetto dell’altrui desiderio perennemente a disposizione. L’assurdo di tutto questo è che anche il contrario è ugualmente vero, e per questo motivo esistono gli “stupri correttivi” perpetrati ai danni delle donne lesbiche, colpevoli a loro volta di non essere corpi a disposizione del desiderio maschile, ma corpi dissidenti nei desideri e sottratti alle dinamiche di potere capaci di insinuarsi, in una cultura patriarcale, anche nelle relazioni consensuali tra uomini e donne. Per non parlare di quello che devono sopportare le donne trans, che vengono costantemente sessualizzate come se la transessualità fosse qualcosa di intrinsecamente ‘erotico’.

Questa cultura tossica che continua a rovinare la vita di tante donne è rinforzata e agita senza sosta sia dagli uomini che da molte, troppe donne. Persone che si scandalizzano, ad esempio, di come “le tredicenni oggi si vestano da puttane”, implicando con questo che 1. Le puttane siano donne stuprabili; 2. Sia colpa delle adolescenti se, immerse in una cultura che insegna a tutte le donne che il più alto valore e asset a loro disposizione è il loro corpo, mettono in pratica ciò che viene loro insegnato così bene; 3. Ci si dimentichi che l’adolescenza è un periodo di grande sperimentazione, fisica e sessuale, ma che è criminale che un uomo adulto si autoassolva dei propri pensieri e gesti potenzialmente violenti nei confronti di una ragazzina, giudicandola consapevole e soprattutto responsabile degli effetti che, in una cultura come questa, ha un certo aspetto esteriore e derubricando il fatto che è lui, in quanto persona adulta, a dover mettere in pratica il proprio autocontrollo contro tali “irrinunciabili” istinti.

Original-Handjob-Patent-DocumentE qui è necessaria una specifica sulle “esigenze” maschili: le vostre esigenze lasciano indifferenti. Avete le mani, o no? Esiste una quantità di oggettistica sexy impressionante oggigiorno, imparate a soddisfarvi da soli. Imparate (ed insegnate) che il sesso deve essere consensuale, che non deve essere per forza penetrativo, che – se solo per sfogare istinti – bastano le proprie mani e un po’ di fantasia. E che gli “istinti” non giustificano mai l’uso di violenza e coercizione. Mai.

Sono femminista. Vivo con disinvoltura il mio corpo, ma questo non è un invito allo stupro. Mi piace corteggiare e non ho problemi ad esprimermi in maniera sessualmente esplicita, ma questo non è un invito allo stupro. Sento di poter decidere in qualsiasi momento di non voler andare oltre e di poter dire “no”. Una frase esplicita, uno sfioramento di pelle, un bacio non sono un lasciapassare per qualsiasi cosa e non sono un invito allo stupro. Nemmeno se stiamo insieme da anni, nemmeno se una volta ho magari pensato che avrei desiderato andare oltre: tutto questo non è un invito allo stupro.

La consensualità non è difficile da capire: basta chiedere, e comportarsi di conseguenza; cogliere i segnali di chi si ha di fronte, e in caso di incertezza – cautelativamente – interpretarli come un no.

Nel dubbio, una sega in più vi renderà sicuramente uomini migliori.

Di pippe all’asilo, ideologia gender e comici norvegesi

Non so se lo sapete – il tipico inizio di chi presuppone che i suoi lettori siano già d’accordo con chi scrive, ed è per questo che vi amo così tanto – ma da qualche tempo pare che ‘sta polemica sul “gender” abbia passato un po’ il limite. Anzi, ne ha passati diversi, perché come insegna il buon Carlo Cipolla, «sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione». E questo ha delle conseguenze, soprattutto se, com’è facile dimostrare, a trarne vantaggio sono sempre i soliti banditi – per usare ancora la terminologia di Cipolla.

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L’extracomunitario stupido in divisa (avvisate Salvini)

In questa immagine potete vedere l’inizio di una comunicazione che un parroco di Cerveteri ha pensato bene di diffondere sul suo territorio, presa da questo luogo virtuale su facebook. Leggiamo che:

…i vostri figli saranno istigati all’omosessualità […] saranno invitati alla masturbazione precoce fin dalla culla […] obbligati ad assistere alla proiezione di filmati pornografici […] obbligati ad avere rapporti carnali con bambini dello stesso sesso.

Il tutto, secondo questo genio, accadrebbe in corsi presenti nel Piano di Offerta Formativa della scuola, cioè in un documento ufficiale di una struttura pubblica. E in più, il suo delirio di stupidità non è proiettato al futuro, ma è storia ed esperienza, perché

Queste cose sono già accadute nelle scuole in cui il gender è stato sperimentato, Italia compresa, producendo nei minori pianti, svenimenti e danni psicologici irreparabili!

Ovviamente, nessuna prova a riguardo. Perché prove non ce ne possono essere, dato che si parla di una cosa che non esiste né è mai esistita. Un qualunque avvocato, anche non particolarmente esperto di questi argomenti, potrebbe facilmente convincere il genitore ingenuo ma ancora fedele alla parrocchia che:
1) quel parroco si è reso colpevole del reato di diffamazione verso tutte quelle persone che lavorano nella scuola e per la scuola alla costruzione del P.O.F., dato che non può provare nulla di quanto afferma gravemente, gettando così discredito sulla sua persona e sull’istituzione che rappresenta (che poi questo non interessi manco alla suddetta istituzione è un altro discorso, ma vabbè);
2) il parroco non capisce niente di leggi e cita a vanvera le norme nazionali e internazionali sul diritto all’istruzione scelto dai genitori: una volta che hai iscritto la prole a una scuola, hai esercitato il diritto. Punto. Questo non si estende direttamente agli argomenti e ai contenuti, altrimenti ai miei figli avrei prescritto almeno cinque ore settimanali di storia dell’A.S. Roma.

Di solito a un extracomunitario in divisa che pensa di capirci qualcosa di questioni di genere e di diritto all’istruzione – e invece è solo, nei termini cipolliani, uno “stupido” perché col suo agire arreca danno a sé a agli altri – rispondo abbastanza esagitato che “l’ideologia gender non esiste” passando ad argomentare punto per punto le sue castronerie.
Ma così facendo rischio di essere stupido anche io. Passiamo a un argomento più serio. Dura poco, promesso.

Ma ‘sta ideologia gender esiste o no?

marescialli2Dice molto saggiamente l’amico Alessandro Lolli che sia “ideologia” che “gender” sono diventate parolacce a causa del loro uso politico da parte di una ben precisa cerchia di persone, che avevano e hanno ancora un interesse specifico affinché queste parole, sia separatamente che insieme, siano connotate negativamente – a questo tipo di persona affibbio il nome cipolliano di “banditi”.

E tuttavia quello che affermano gli studi di genere è una visione del mondo, di un mondo non presente, una visione rivoluzionaria di un mondo a venire. Non dobbiamo credere alle paranoie delle maggioranze accerchiate, questa immagine è falsa e offensiva. È terribilmente offensiva perché i nazisti, che sul tema erano sicuramente più vicini alle posizioni di Miriano e delle Sentinelle in piedi rispetto a quelle dei movimenti LGBT, hanno sterminato migliaia di omosessuali. È palesemente falsa perché la società occidentale è ancora dominata dal maschio bianco eterosessuale e le sue categorie strutturano le menti delle donne e degli uomini. La maggior parte delle persone crede che ci sia qualcosa di naturalmente maschile come la determinazione, l’aggressività e la passione per gli sport e qualcosa di naturalmente femminile come la dolcezza, la remissività e la mania dello shopping. Quello che De Beauvoir, Belotti e Butler, pensano delle donne e degli uomini, e di conseguenza quello che Chiara Lalli, Pasquale Videtta e Simona Regina riassumono nei loro articoli, è tutt’oggi enormemente distante da ciò che ne pensano le donne e gli uomini comuni.

In effetti tutti quegli stupidi che straparlano di gender senza averci mai capito niente si fanno rispondere che, come ho detto anche io spesso, la teoria del gender non esiste. Questo però tecnicamente non è esatto, perché anche quella proposta e difesa dalla chiesa cattolica è una ideologia gender, una delle tante possibili: “la natura ci fa uomini e donne eterosessuali, il resto è un’offesa al creato cioè a Dio, vallinferno punto”. Dire che non esiste è una tattica produttiva?

Ma se sono delle tattiche bisogna capire se funzionano, se raggiungono gli obiettivi. Forse localmente questa tattica è vincente, forse negare la propria radicalità per entrare nelle scuole, nei festival, negli ospedali, nelle istituzioni è efficace; ma ho dubbi sulla bontà strategica di questa ritirata nella non-esistenza. Mi ricorda una delle mosse che ha fatto la sinistra italiana per raggiungere la propria estinzione negli ultimi vent’anni.

Méttece ‘na pezza… (per gli esterni al GRA, la traduzione è: “non è facile da confutare, questo punto di vista”). E a proposito di pezze, a sostenere che l’ideologia gender non esiste si corre un altro rischio, come sottolineano Federico Zappino e Deborah Ardilli:

Sarebbe poco interessante replicare alle argomentazioni di ciascun negazionista, così interessato a sostituire idraulicamente la teoria del gender con gli irenici “studi di genere”, o con i programmi scolastici di “educazione alle differenze” volti alla decostruzione degli stereotipi o alla promozione di un maggior rispetto per le “diversità”, o a bacchettare col dito alzato sulla parola “teoria”, sostituendola con il plurale “teorie”, o con il rocambolesco “teorizzazione”. Sarà sufficiente digitare su qualunque motore di ricerca “la teoria del gender non esiste” per avere una panoramica sufficientemente ampia dell’allucinato dibattito in corso. Quale che sia il nostro giudizio sugli “studi di genere”, sulle “teorie” al plurale, sulle equilibriste “teorizzazioni”, sulla bontà della decostruzione degli stereotipi o sull’auspicabilità di una società più rispettosa, reputiamo innanzitutto più importante rinunciare a fare atto di sottomissione ai termini del discorso così com’è impostato, poiché attraverso questo discorso l’eteronormatività tenta di mettere una pezza ai problemi che essa stessa ingenera.

E anche questo è vero: a furia di dire che non esiste si assume come valido il paradigma discorsivo di chi il gender non lo vuole, e certo non si fa un favore a quel modo di vedere il mondo liberatorio e auspicabile per tutt* che invece l’eteronormatività continua a volere per sé, “concedendolo” più o meno e in vario modo a chi eteronormale non è. Rimane il fatto che non si può parlare allo stesso modo col parroco di Cerveteri e con Marzano e Muraro, che negano – loro sì – l’esistenza di qualunque gender non corrisponda alla loro ideologia. E allora?

Diceva qualcuno: tattica ed etica

Faccio un esempio personale, a proposito di esistenza o meno di ideologia gender.norwegian_glbt_pride_flag_postcard-r85f11401be624623bdb6c8ed413a7044_vgbaq_8byvr_512

Qualche settimana fa trovo sul solito gruppo facebook di difensori della famiglia naturale e di tutte le altre cose belle della chiesa loro ma non delle altre un link a questo documentario norvegese, nel quale il comico Harald Eia avrebbe fornito prove per le quali «il governo norvegese ha ritirato il finanziamento al Nordic Gender Institute nato a sostegno dell’ideologia del gender». Facciamo finta che queste parole abbiano un senso, e chiediamoci: mo’ che faccio?

Io ho fatto una cosa credo molto sensata: ho chiesto a una persona affidabile che sa il norvegese perché vive in Norvegia di aiutarmi a capire se quello che viene detto nel documentario, e ciò che si racconta di esso, è vero ed è andato proprio così. Con facebook è facile eh, è fatto apposta per conoscere gente. Non lo usate solo per farvi gli affari degli altri, ogni tanto usatelo per fare anche i vostri. Ne è risultato che, parole di Cinzia Marini che ringrazio per l’aiuto,

il centro di ricerca interdisciplinare per gli studi di genere non è stato chiuso. Nel 2012 il Consiglio nazionale per le Ricerche norvegese ha tagliato temporaneamente i fondi ad uno specifico programma di ricerca di genere, integrandolo in un programma di ricerca più generale. Il centro è ancora aperto e attivo come vedi dalla versione inglese del loro sito. Dopo il programma di Eia, che era tendenzioso nella scelta degli interlocutori ma ben fatto, sono divampate le polemiche. Quello che ha evidenziato sono debolezze non negli studi di genere tout court, ma indubbiamente in certi ricercatori, nelle loro attitudini e nel modo di esprimersi, che naturalmente hanno portato all’assurdo certe differenze di paradigma. Le critiche fatte in Norvegia sono soprattutto riferite all’impenetrabilità di certa ricerca e al linguaggio usato, oltre che alla mancanza di aperture verso il paradigma biologico, ma non hanno mai messo in discussione l’esistenza e la necessità degli studi di genere. Cathrine Egeland e Jørgen Lørentsen, i due ricercatori intervistati, sostengono che Eia ha tagliato passaggi centrali dalle loro interviste. Secondo me non ci fanno una bella figura. Cathrine Egeland lavora oggi all’istituto per al ricerca sul Lavoro dell’Università di Oslo, sempre su studi di genere. Nel 2012, dopo il programma, ha tra le altre cose pubblicato questo rapporto. Jørgen Lørentzen, l’altro ricercatore, ha fatto ricorso al Comitato etico dei Giornalisti accusando Eia di aver tagliato e redatto gran parte della sua intervista. Su questo sito, purtroppo in norvegese, puoi vedere i due spezzoni (quello intero e quello redatto) a confronto: Dette sa Lorentzen til «Hjernevask». Lørentzen parla ad esempio molto del fatto che alcune teorie riducono l’essere umano al suo genere, mentre la faccenda è molto più complicata. Registri, emozioni, capacità di cui veniamo privati. Dice anche chiaramente, a proposito di domande precise sulla biologia, “questo non lo so, non è il mio campo”.

L’ideologia gender esiste anche se forse i due ricercatori norvegesi non l’hanno sostenuta molto bene, e anche se un comico con grossi pregiudizi – il suo documentario era certamente orientato verso una tesi da dimostrare a tutti i costi – prova a sostenerne l’infondatezza. L’uso strumentale, arbitrario e in evidente malafede della faccenda è un’ovvia conseguenza, quando si hanno amici politici come il parroco di Cerveteri.

In questo caso ci vuole un po’ di attrezzatura in più del solito – compresa un’onesta amica che vive in Norvegia – ma rimane il fatto che chi costruisce discorsi oppressivi alla fine viene fuori chi è, anche se invece di inventarsi balle, diffamare e parlare a vanvera oppure cantilenare ipocrisie perché sta in cattedra fa un bel documentario tecnicamente perfetto e apparentemente oggettivo.

norway_gay_pride_tshirt-r1dc9e7c2e76646e789d5ac7f557d2c6c_8nhmm_512Bene, la critica l’ho capita e starò più attento: invece di dire l’ideologia gender non esiste dirò «queste stronzate che vai dicendo sono solo pietose difese, non sai neanche di che stai parlando quando usi quell’espressione», oppure «non provare a rigirare le cose come ti fa più comodo, sai solo manipolare le chiacchiere», o anche «egregi* professor* non provi a nascondere o a dedurre cose perché non ci casco, lei è un* ipocrita»Il tutto seguito da argomenti convincenti non su qualcosa che non esiste, ma su qualcosa che esiste e che evidentemente è molto fastidiosa per chi ha un qualche potere patriarcale.

Anche io, in fondo, sono un ideologo del gender.

Brioches, ormoni, lotta di classe – ovvero dell’annosa questione del menefreghismo

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Caratteristica comune tra quelle persone transessuali e transgender che esibiscono a vari livelli una forma di politicizzazione, è un dirompente cinismo verso il destino dell’organizzazione politica e sociale della propria categoria. Aprono bocca e senti odore di mandorle amare – è l’odore della disillusione. Eccolo, arriva: “Le persone trans non hanno nulla in comune, le persone trans sono individualiste e pensano solo a risolvere gli affari propri, le persone trans vogliono essere normalizzate, le persone trans non si curano di combattere un paradigma medico e psichiatrico che le patologizza.” Colpo di grazia: “Le persone trans non hanno nessuno scopo collettivo comune”.

È sorprendente notare come a nessun* sembri insensato affermare che la matrice di una lotta che non decolla sia da individuarsi esclusivamente nel proprio soggetto politico, e non negli errori, di analisi e di prassi, di chi, a parole, intenderebbe organizzarlo, nel senso di fornire strumenti – a sé e alla collettività di cui si è parte – per attuare mutuo aiuto, resistenza, e offensive verso le strutture della società che la rendono più che mai improrogabile. Sopratutto, affermarlo senza porsi interrogativi a riguardo. Perché questo accade? Dovrebbe essere una domanda centrale, ma non lo è.

La grande maggioranza di chi si occupa di questioni trans ha a cuore la posizione culturale della transessualità e transgenderismo, nella modalità più astratta possibile dalla posizione sociale ed economica di chi quei vissuti li incarna. Se una critica è essenziale, e lo è, non la si troverà certo in questo panorama desolante. Da una parte c’è l’opportunismo dell’associazionismo gay e lesbico che dà spazio alla lotta trans nei termini a esso più comodi: lontano dalla fascia protetta, subito dopo la torta nuziale. Di fatto, senza dubbi, le richieste della comunità sono soltanto un gettone di presenza, esplicitato qua e là con qualche poster o qualche affermazione, da chi ha i mezzi per permettersi di fare lobbying enormemente più rumorso circa altre cause – esemplificate in pieno dal matrimonio egualitario – che, come è evidente, ritiene prioritarie.  Dall’altra, è pieno di torri di polistirolo erette da chi, in fondo, le sostituirebbe volentieri con quelle d’avorio dell’elitarismo accademico, ma che finché non può o non vuole scalarle, si tiene stretto l’élite controculturale e frattanto, allora, gioca a fare il/la teoric* queer con il corpo, i sentimenti e le istanze, vere e presunte, degli altri e delle altre.

Una persona trans, non una di quelle che si suppone arrogantemente in base ai propri criteri come “politicamente consapevoli”, non una di quelle fortunate e sorridenti,vorrebbe, in primo luogo, non essere costretta a discriminazioni ai colloqui di lavoro o mobbing. Avere un nome e un sesso coerenti con la sua identità di genere – nella carta d’identità, nella tessera sanitaria nel conto corrente e in tutto il resto del mucchio di carta che si affronta di giorno in giorno – senza obbligo di operazione preventiva; averli ufficialmente in un registro di classe e in un libretto universitario. senza dover contare sui magheggi extraburocratici a discrezione di alleati che fanno il possibile, ma che potrebbero non esistere sempre e in ogni dove. Usufruire della sanità nazionale senza doversi esporre per forza anche soltanto per togliere una carie. La gratuità garantita delle prestazioni psicologiche, endocrinologiche, chirurgiche, legali che occorrono per il percorso che desidera intraprendere. Attraversare una strada senza avere gli occhi, se non direttamente le mani, addosso. Ed è molto stanca, dopo tutto questo, di prendere atto che la sua autodeterminazione sia considerata semplicemente una forma di autocentrata stupidità – e non è disposta a prendersi in carico il narcisismo di chi sventola la sua bandiere senza neanche chiedere il permesso.

Ragionevolmente il problema è situato qui, non nel completo disinteresse di una categoria, già socialmente svantaggiata e in piena crisi economica, per battaglie che non colgono l’urgenza del bisogno. Occorre una miopia politica davvero grave per non vederlo, e una strategica della stessa entità per non incominciare a sostenere proposte ponderate in base alle necessità reali, urgenti, quotidiane. Perché privilegio è anche questo: poter pensare che fare politica sia qualcosa di differente dal cercare sopravvivenza. E di brioche, si sa, non si sopravvive.

La risposta, amica mia, sta latrando nel vento

dandelion-blowing-in-wind1resizedVicino a casa c’è un terreno recintato, un frutteto direi, se non fosse che un’alta siepe mi impedisce di vedere chiaramente attraverso. Nel frutteto ci sono due cani, che, contro ad ogni logica, sono tenuti a catena. Un beagle, ne sono certa dal modo di abbaiare, e un cagnone non meglio identificato che ho intravisto una volta affacciarsi in uno spiraglio del muro vegetale. Sono soli tutto il giorno, alla catena, e il beagle in particolare, abbaia di continuo. Da quando vivo qui, mi sono fatta mille domande: qual è il senso di tenere a catena due cani in un terreno recintato, tenuto a prato e alberi da frutto? Soli, ma nemmeno liberi di muoversi, di giocare insieme, di stringersi l’uno all’altro durante un temporale? Conosco già la trafila che non porta a niente: negli anni ho tentato di tutto in questi casi, soluzioni ufficiali e meno ufficiali, ma – il più delle volte – chi ha il tarlo della catena, anche quando gli porti via un cane in capo a qualche settimana ne mette uno nuovo allo stesso posto. E così subisco questa tortura quotidiana.

Ogni giorno la crudeltà umana mi sveglia, e ogni sera mi impedisce di dormire. La crudeltà latra, latra di continuo, è la sirena che ogni giorno mi prepara ad altre crudeltà a venire. E che ogni sera mi augura di non riposarmi bene, perché anche l’apparentemente pacifica notte in questo pianeta rotondo è un giorno crudele da qualche altra parte.

A farci caso, la crudeltà umana è varia e multiforme, e non si ferma dinanzi a nulla.

La vedi nelle piccole cose come in quelle più grandi. La vedi nell’indifferenza alla sofferenza, come nel godimento dissimulato per le disgrazie altrui. E non soltanto verso gli animali, o verso le persone sconosciute. La vedi nei colleghi di lavoro quando a vedersi fatt* fuori dopo anni di precariato sono altr* e non loro. La vedi nei vicini di casa frustrati, che si ingegnano in guerre di logoramento per i motivi più banali. La vedi nello sguardo di disprezzo per chi tende una mano verso un finestrino ad un semaforo, o in quello di indifferenza di un pescatore che tiene un corpo vivo, che si contorce e soffoca, tra le mani.

E’ forse questa la banalità del male? Di quali e quanti atti spaventosi possono macchiarsi le persone “normali”?

Rivendico la mia anormalità. La crudeltà mi annichilisce e mi ossessiona, e del personale ho dovuto fare politico per non uscire di senno. Perché attraverso la consapevolezza, la crudeltà si dispiega in tutta la sua potenza di fronte ai miei occhi. Scegliendo di vedere, non di raccontarmi favole o giustificazioni capaci di tacitare la mia coscienza, mi sono trovata circondata di crudeltà, e dell’indicibile sofferenza che porta con sé. Ogni giorno.

Ho dovuto fare i conti con le mie quotidiane crudeltà: il compito non è facile, ma nemmeno impossibile, e soprattutto non è mai finito.In questo sforzo personale ho trovato il senso di un agire politico che tenta di smascherare quella crudeltà che ci hanno insegnato a considerare “normale”.

Normale è una parola così violenta, non è vero? Ciò che è normale non è giusto, non è etico, non è equilibrato. Conforme alla consuetudine e alla generalità, regolare, usuale, abituale, questo è normale. E se la consuetudine è violenta, se è razzista, se è misogina, se è crudele… allora tutto questo è perfettamente “normale”, ma aberrante per chi riesce a vederlo.  Per chi vuole vederlo.

E così ti dibatti nella situazione paradossale di essere tu, che vedi tutta questa crudeltà e tenti di combatterla e di smascherarla, ad essere “estremista”, “terrorista”, “intransigente”.

Sei ipersensibile perché non vuoi più vedere fiumi di sangue di non umani e umani scorrere, per il “piacere” di addentare un panino o per l’ultimo modello di smartphone disponibile. Sei naif, perché “così vanno le cose, così devono andare”. Sei inopportun*, perché “con tanti problemi, prova a pensare alle cose realmente importanti”.

Ma lo faccio, dannazione, ogni maledetto giorno! Cosa c’è di più urgente della lotta alla normalizzazione della crudeltà?

Quella che fa più male non è la persona che vede la crudeltà e ne è indifferente, ma quella che non la vuole vedere. Quella che addenta un panino al prosciutto e in quell’atteggiamento assolutamente schizofrenico ma completamente “normale”, di fronte ad un maialino sospira di tenerezza, e di fronte ad un’immagine del mattatoio distoglie lo sguardo perché “quelle cose non le posso vedere”.

“Quelle cose” raccapriccianti, che sono diretta conseguenza della carne rosea che fa capolino tra le fette di pane? Carne rosea strappata ad un essere vivo e indifeso, quando se ne poteva fare a meno, perché si può essere felici anche senza causare tutto questo dolore.

Quella crudeltà (e stupidità) che, di fronte ad una collega di più di quarant’anni, lasciata a casa senza un lavoro,  mormora  – tra un sospiro di sollievo e l’altro, rincuorata per non essere stata vittima dello stesso destino –  che “in fondo se l’è cercata, con quel carattere orribile”, solidarizzando con chi sfrutta e gioca con le vite altrui e con la propria.

Stupendosi poi dell’indifferenza che un giorno, con tutta probabilità, dovrà attraversare dopo aver subito lo stesso trattamento.

Quella crudeltà e stupidità e conformismo che si sente migliore di qualunque “diversità”, nell’illusione o speranza di essere più simile a chi ha costruito a tavolino gerarchie di “consumabilità” per parassitizzare chiunque non faccia parte dell’élite autodefinitasi tale… tutt* coloro che si affannano per farne parte, e che il resto si fotta, invece di unirsi per demolirne le fondamenta.

E nonostante la consapevolezza di tutto ciò sia a tratti annichilente, quando imbocchi questa strada coltivi sempre una speranza… perché sai che in fondo, è tutto così complicato ma anche così semplice.

Prende le mosse da un desiderio animale, un desiderio di libertà e felicità, vera, tangibile, concreta, anormale. Eccedente gli angusti spazi di manovra delle “libertà” e “felicità” concesse, una libertà che non vuole nuocere ad altr*, perché sa che per essere felici non ce n’è bisogno. Una libertà che vuole essere contagiosa, non esclusiva. Una libertà che sa che non può esistere autentica felicità quando tutto intorno ci sono solo cadaveri e grida e morte e lacrime e sofferenza.

Una libertà che richiede prima di tutto uno sforzo di verità: una verità scomoda, ma essenziale. Una verità che non limita, come alcun* sembrano suggerire, ma amplifica.

Quella verità che rende liber*, e che dimostra di riuscire a far capolino anche nei peggiori dispositivi di potere e di oppressione, perché la libertà è il bene più grande per ogni animale e il fondamento della felicità… anche per quelle “scimmie fuori controllo” che siamo.

Soprattutto, quella libertà che nel liberarci è capace di liberare anche chi ci sta intorno, che cammini a 2 o 4 zampe, che abbia ali o pinne o tette o pelle dei colori dell’arcobaleno.

La libertà è contagiosa, ma richiede una certa dose di coraggio in tempi così intrisi di oppressione e privilegio. Quel coraggio che possiamo trovare nel confrontarci con la crudeltà che per quanto diffusa, per quanto dissimulata, per quanto normale non riesce a spegnere i latrati dell’anelito ad una vita degna di questo nome. Basta volerli ascoltare.

La vittoria del matrimonio gay non riguarda l’uguaglianza

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Articolo originale qui, traduzione di Agnes Nutter e feminoska, revisione di Jinny Dalloway. Buona lettura!

L’attivista queer Yasmin Nair sostiene che la lotta per il matrimonio gay sia stata guidata da un movimento elitario e conservatore – 26 giugno 2015

La dott. Yasmin Nair è una scrittrice, attivista, accademica e commentatrice freelance di Chicago. È co-fondatrice del collettivo editoriale Against Equality (“Contro l’uguaglianza”) e componente di Gender JUST, un’organizzazione di attivismo radicale di base di Chicago. Figlia bastarda della teoria queer e del decostruzionismo, Nair ha al suo attivo numerosi saggi critici e recensioni editoriali, è fotografa e scrive come opinionista e giornalista investigativa. Ha pubblicato, tra gli altri, su These Times, Montlhy Review, The Awl, The Chicago Reader, GLQ, The Progressive, make/shift, Time Out Chicago, The Bilerico Project, Windy City Times, Bitch, Maximum Rock’n’Roll, e No More Potlucks.

DHARNA NOOR, PRODUTTRICE, TRNN: Benvenut* su The Real News Network. Sono Dharna Noor in collegamento da Baltimora.
Nelle ultime notizie, la Corte Suprema ha emesso una delibera storica secondo cui gli stati non possono proibire i matrimoni tra persone dello stesso sesso. Appena poche ore dopo che la decisione è stata presa, in tutto il paese coppie dello stesso sesso hanno iniziato a unirsi in matrimonio.
Nel 2013 la Corte Suprema aveva deliberato che ad ogni coniuge, dello stesso sesso o meno, devono essere garantiti gli stessi benefici a livello federale. Oggi la corte si è spinta ancora oltre, stabilendo che il matrimonio omosessuale è un diritto costituzionale. Questa notizia arriva giusto in tempo per i festeggiamenti del fine settimana. Le sfilate del Gay Pride si terranno questo fine settimana in diverse città, come San Francisco e New York. Ma d’ora in poi saranno solo arcobaleni per la comunità queer negli Stati Uniti? In collegamento da Chicago per spiegarcelo, Yasmin Nair. Yasmin è una scrittrice, un’accademica e un’attivista . È co-fondatrice del collettivo editoriale Against Equality (“contro l’uguaglianza”) e componente di Gender JUST, un’organizzazione di attivismo di base di Chicago.
Grazie mille per essere qui con noi oggi, Yasmin.
YASMIN NAIR, CO-FONDATRICE, AGAINST EQUALITY: Grazie a voi. È un piacere essere qui.
NOOR: Dunque, “Contro l’uguaglianza”, eh? Credi che sia giusto che un’istituzione come il matrimonio debba escludere alcune persone?
NAIR: No. Cioè, quello che diciamo è che il movimento per l’uguaglianza, [proprio] per il modo in cui si configura, non ha nulla a che vedere con alcun tipo di giustizia sociale, né alcun tipo di uguaglianza secondo nessun tipo di legge. Ha tutto a che vedere con l’esclusione delle persone da benefici salvavita come – ancora adesso – l’accesso alla sanità, i permessi di soggiorno e molti altri benefici che si potrebbero elencare.
ll movimento per il matrimonio gay ha fatto un uso distorto del termine uguaglianza. Ci siamo volut* chiamare Against Equality prima di tutto per far sì che le persone se ne interessassero, e anche poter dire… sapete, bisogna davvero chiedersi cosa significhi la parola uguaglianza. Uguaglianza per chi, per chi… chi [distribuisce] l’uguaglianza, a quali condizioni, prima di tutto.
NOOR: Quindi oggi il matrimonio gay è passato con il margine di un voto. Ci sono stati cinque sì e quattro no. E tra chi ha votato a favore troviamo un delegato dei Repubblicani, il giudice Anthony Kennedy. Stupisce che qualcuno che è dalla parte dei conservatori quando si tratta di azioni positive e campagne di riforma fiscale, sostenga una causa come questa?
NAIR: Non stupisce assolutamente. Anzi, è inevitabile, perché è proprio ciò che è il matrimonio gay, come ho già detto altrove, ossia un movimento sostanzialmente conservatore. Sono davvero sorpresa che ci sia voluto, ecco… che sia passato solo per il rotto della cuffia. Ma il matrimonio gay è un’istituzione sostanzialmente conservatrice , e i conservatori lo amano.
Conservatori, liberali, persino persone di sinistra, lo amano perché serve a reggere un sistema… un sistema neoliberale dove i vantaggi si accumulano a beneficio di quei privati che hanno maggiori risorse. E’ ciò che ha sempre voluto il conservatorismo, no? Ognun* faccia per sé. Lo stato non si prende nessuna responsabilità per il benessere dei cittadini. Ogni donna o uomo fa da sé. Ecco, questo, fondamentalmente, è uno dei pilastri del conservatorismo.
È un’istituzione – il matrimonio, non solo il matrimonio gay, ma il matrimonio è… è un’istituzione economicamente solida per molti conservatori. Sono loro che l’hanno voluta. Si sa, ne propongono sempre i benefici. Quindi ha perfettamente senso che sia così, che tutto avvenga in questo modo.
NOOR: Hai anche fatto notare nei tuoi scritti che le organizzazioni pro-matrimonio gay hanno usato molte immagini dei leader dei diritti civili neri come Martin Luther King nei loro materiali “promozionali”. Com’è quindi che quando la gente pensa al movimento per i diritti omosessuali pensano più spesso alla faccia di uomini bianchi danarosi come Dan Savage, il creatore del progetto It Gets Better (“le cose migliorano”)?
NAIR: Esatto, esatto. E Dan Savage non è nemmeno… per chiarezza, sai… Dan Savage non è nemmeno uno degli uomini gay più ricchi che stanno dietro il movimento. Il movimento per il matrimonio gay è davvero sostanzialmente – sì, qualcuno mi ha… la gente ha sempre accusato me e Against Equality di comportarci come se il movimento per il matrimonio gay fosse diretto da una cricca di uomini bianchi. Quello che stiamo scoprendo è che effettivamente è proprio vero.
Il movimento per il matrimonio gay è stato finanziato da milionari e multi-milionari. Se consideri uno…un libro come quello di Jo Becker, Forcing the Spring (Imporre la primavera), sul movimento per il matrimonio gay, scopri che – dando un’occhiata a quel libro scopri che gran parte delle risorse proviene effettivamente da persone ricchissime. Non si tratta affatto di un movimento di base. È stato finanziato, sostanzialmente sin dall’inizio, da uomini e donne omosessuali bianch* e ricch*.
Ciò che il movimento per il matrimonio gay ha fatto per controbilanciare questa particolare immagine che continua a emergere è sfruttare e usare i volti e le azioni di leader ed eroi* dei diritti civili come Martin Luther King e Rosa Parks. Nello stesso tempo, il movimento per i diritti omosessuali è anche stato praticamente… e lo è in pratica nella sostanza, un movimento razzista. Dicono spesso… usano slogan come “gay è il nuovo nero”. Le persone omosessuali si compiacciono molto nel dire che gli/le omosessuali sono l’ultima minoranza oppressa del paese.
Chiunque abbia seguito le notizie negli ultimi mesi, incluse quelle sugli eventi di Charleston, ovunque nel paese… Io vivo a Chicago, a Hyde Parke, quindi nel South Side. Chiunque conosca l’effettiva realtà delle cose sa che ciò è semplicemente falso. Ma il movimento per i diritti omosessuali ha sempre amato l’uso delle metafore e delle vite di leader per i diritti civili delle persone nere in un senso che non è per nulla…per non fare altro che appropriarsene, e per coprire il fatto che in pratica, alla base, è un movimento guidato e finanziato da uomini gay bianchi e ricchi.
NOOR: Ecco, persino coloro che sarebbero d’accordo con te sul fatto che alcuni ideali all’interno dell’attuale movimento per i diritti gay sono problematici, direbbero però che ora che abbiamo tolto dalla lista delle cose da fare i diritti omosessuali – ovvero il matrimonio omosessuale, possiamo andare avanti a radicalizzare ancor di più il movimento. A questo come rispondi?
NAIR: La mia risposta è che non è così–i diritti dei gay fanno parte di un movimento economico. E’ un movimento che scaturisce da, e riguarda… riguarda fondamentalmente l’aspetto economico – l’accumulare benefici economici per poch* privilegiat*. E’ fondamentalmente neoliberista. Riguarda il creare un sistema in cui le persone possono accedere alle risorse solo attraverso mezzi privatizzati come il matrimonio, capisci… In modo che – i sistemi economici non funzionano in altro modo – se non allo scopo di smantellare i sistemi attuali e poi andare oltre e creare sistemi ancora più oppressivi.
Il matrimonio gay non è una funzione sociale, è una funzione economica. Giusto? Quindi, già si capisce – questo è… non succederà mai. Quello che non succederà mai è che il matrimonio gay porti a un’ulteriore radicalizzazione delle lotte, o che ora si possa prendere fiato e dire bene, ora passiamo ai giovani queer senzatetto o all’HIV/AIDS. Perché è accaduto negli ultimi 20 o 30 anni che il matrimonio gay ha sottratto un sacco di risorse sia agli etero che ai gay. E le organizzazioni che si occupano di HIV/AIDS, le organizzazioni che si occupano di giovani queer senzatetto e così via, di fatto hanno dovuto chiudere.
Ripeto, non ci si può mobilitare al di là dei matrimoni gay, semplicemente perché il matrimonio gay ha già devastato il panorama economico delle organizzazioni queer. Non ci sono più soldi da ottenere, ed è molto improbabile che i ricchi bianchi omosessuali, in particolare quelli per i quali il matrimonio gay ha rappresentato un tema così importante, ora si accorgano di noi e dicano “sì, ora cerchiamo di lavorare su tutte le altre cose fondamentali”. Loro non hanno motivi per preoccuparsene. Ricordate sempre che i ricchi uomini bianchi omosessuali, in particolare, non hanno mai dovuto preoccuparsi veramente di HIV/AIDS, perché hanno sempre potuto permettersi i farmaci. Quindi è tutto… è proprio – proprio non funzionano così le strutture economiche.
E dobbiamo pensare al matrimonio gay non come un [problema] sociale, non come una questione sociale, ma come un problema economico. E il neoliberismo non funziona in modo da fermarsi e guardare indietro per vedere chi si è lasciato alle spalle. Procede semplicemente per la sua strada.
NOOR: Certo. E abbiamo assistito, negli ultimi anni, a un aumento costante nel sostegno al matrimonio gay negli Stati Uniti. Quindi credo che tu stia dicendo che questo non avviene solo perché le persone stanno diventando più tolleranti, più accoglienti verso le altre persone, più accoglienti verso l’amore.
NAIR: Scusate, mi viene da ridere solo al sentirlo. Ma no. No, l’amore non ha niente a che fare con questo. Penso che molta parte del supporto della sinistra liberale – il supporto francamente delirante della sinistra liberale al matrimonio gay – è dovuto al fatto che il movimento è stato percepito come un movimento che riguarda l’amore. Quindi tutto ciò che vede sono queste dolci coppie gay e i loro figli eccetera eccetera. L’escamotage ha funzionato molto bene. Penso che man mano che le persone verranno a conoscenza delle implicazioni economiche del matrimonio gay e anche di chi sta realmente dietro al matrimonio gay… penso che ci sarà molto meno sostegno per la causa. Naturalmente, ora questo non ha molta importanza, perché la stiamo vivendo ora.
Ma no, penso che il sostegno sia stato dato, ripeto, per l’incapacità di riconoscere il matrimonio gay come una questione economica.
NOOR: Quindi, che tipo di soluzioni politiche consideri efficaci, per sostenere realmente la comunità americana queer, la popolazione gay, la popolazione trans, eccetera?
NAIR: Penso che quello che dobbiamo fare è prima di tutto – penso che vi sia un’enorme componente ideologica e psicologica in tutto questo. La prima cosa che dobbiamo capire è che proprio ora siamo in una posizione terribile. Quindi, fintanto che continuiamo a pensare che il matrimonio gay sia una delle tappe di una lunga storia di successi, siamo… siamo… sto cercando di pensare a una parola che sia abbastanza educata e non sia una parola volgare. Siamo semplicemente fottut*.
Fino a quando pensiamo che possiamo andare avanti, non esiste… non esiste alcuna alternativa sana per noi. Quello che dobbiamo fare da qui in poi, da qui in avanti, è fermarci e prima di tutto riconsiderare il modo in cui pensiamo a ciò di cui hanno bisogno le comunità. Abbiamo anche bisogno di pensare… credo che il problema veramente grande della comunità queer sia quello di iniziare a pensarsi come parte di una comunità più ampia. Come parte di un tessuto più grande, per così dire.
Quindi, fintanto che la comunità queer pensa solo egoisticamente a se stessa e al matrimonio gay come forza propulsiva, per esempio, tutti sono condannati. E penso che andando avanti dovremo cominciare a renderci conto di questioni come il forte razzismo – no? – che esiste in questo paese, che è peggiore – allo stesso livello o peggio, del razzismo schiavista. Questa è la realtà in questo momento. E l’America del 21° secolo è permeata di razzismo schiavista. Dobbiamo pensarci. Dobbiamo pensare alle devastanti politiche economiche e ambientali che abbiamo messo in atto. Tutto questo è collegato alle persone. Non si tratta solo delle persone gay e delle loro problematiche particolari in quanto gay.
Quindi nell’andare avanti dobbiamo pensare in questi modi, oserei dire, collaborativi. Ma dobbiamo anche iniziare a pensare a come ottenere supporto per questioni come, per esempio, i queer senzatetto. O un problema che mi angoscia molto, a cui spesso vedo andare incontro un sacco di mie* amic* più vecch*, le problematiche relative all’AIDS in età avanzata, per esempio. Per la prima volta in molte generazioni, abbiamo ormai un paio di generazioni di uomini e donne che stanno vivendo più a lungo, che stanno invecchiando con l’AIDS, capisci. E […] uomini gay che stanno effettivamente vivendo fino a tarda età, e non sappiamo che cosa fare di loro, perché non possiamo semplicemente metterli nelle solite residenze per anziani, ad esempio.
Questi sono i problemi ai quali dobbiamo pensare, e dobbiamo anche pensare a come finanziare e sostenere tali questioni. Come sosteniamo questo tipo di lotte senza essere concentrati solo sul finanziamento elargitoci da poche persone omosessuali ricche. E questo è stato il problema fondamentale dell’attivismo queer per troppi anni. E questo è successo, perché nessuno ci avrebbe finanziato prima. Nessuno finanziava la ricerca sull’AIDS fino a quando abbiamo costretto il governo a farlo.
Quindi siamo in un altro tempo e luogo. E dobbiamo cominciare a pensare, smettere di pensare al patriarcato gay come l’unica fonte di reddito o l’unica fonte di sostegno. Dobbiamo anche pensare in modo collaborativo. Tutto questo significa che – in realtà da molti punti di vista sarà davvero difficile – sarà necessario smontare e, in qualche modo, interrogare il complesso omosessuale senza scopo di lucro/industriale che è sorto nel frattempo. Questo sarà un compito davvero duro. Sono tentata di dire che sarà impossibile. Dirò solamente che si tratterà di un lavoro duro, semplicemente perché conosco molti mie* amic* che in realtà lavorano nelle viscere di quella macchina, capisci.
Quindi sarà una lotta lunga e dura, e penso che sia delirante per chiunque di noi affermare che ora che abbiamo finito con il matrimonio gay possiamo andare avanti. Il lavoro è molto più difficile perché c’è molto meno denaro, c’è molta meno energia politica, e i tempi sono duri. Il neoliberismo sta mostrando – non solo sta mostrando i muscoli — ha preso il sopravvento e ci sta strangolando.
NOOR: Grazie mille per questa conversazione che ci ha dato molto su cui riflettere, non vediamo l’ora di risentirti in futuro.
NAIR: Grazie a voi, è stato un piacere. Grazie per avermi invitata.
NOOR: E grazie per averci seguito su The Real News Network.

Fine

ESCLUSIONE DI RESPONSABILITÀ: Si prega di notare che le trascrizioni da The Real News Network vengono dattiloscritte da una registrazione del programma. TRNN non può garantire la loro completa accuratezza.

Ipocrisia alta a Venezia – Deconstructing Brugnaro

sidivertono La vicenda dei libri per bambini e del sindaco di Venezia immagino che la sappiate già:

«L’avevo promesso in campagna elettorale e l’ho fatto», ha spiegato Brugnaro, «ho dato ordine agli uffici che vengano ritirati tutti i libri con genitore 1 e genitore 2 dalle scuole, ma non dalle biblioteche, dove c’è libertà di scelta». Per Brugnaro sono «i genitori a doversi occupare di educare i figli su queste cose, non la scuola. Noi non vogliamo discriminare i bambini, a casa i genitori possono farsi chiamare papà 1 e papà 2 ma io devo pensare a quella maggioranza di famiglie dove ci sono una mamma e un papà».

Queste le alate parole del sindaco. Nei fatti è andata ancora peggio, perché la lista dei libri ritirati è parecchio grande.

Non staremo a fermarci troppo sulla figura del sindaco, che come tutti quelli che dicono di essere né di destra né di sinistra, nei fatti è di destra. Non ci soffermeremo sulla totale incompetenza in merito di chi decide una cosa del genere – non è solo lui, immagino i fior di professionisti della formazione interrogati in proposito – né sulla banale osservazione che tutto ciò s’inserisce perfettamente nel quadro della propaganda cattolica contro la sua stessa invenzione, la teoria del gender. Ci faremo invece due risate amare sul comunicato che il sindaco ha voluto fare “in risposta” alle polemiche sollevate dalla sua decisione. Ecco il link e il testo.

http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/84108

Denunciamo la polemica inerente quelli che sono stati definiti i libri sulla teoria gender. Ne è nata una speculazione culturale che non ci intimorisce.

Ah, la speculazione culturale la farebbe chi protesta, e non chi ritira i libri dalle scuole? Per rispondere alla domanda “cos’è una speculazione culturale” basterebbe andare a vedere chi li ha definiti libri sulla teoria gender. Libri scelti poi, si suppone, da professionisti dell’insegnamento: i quali vengono così deliberatamente accusati di non saper fare il loro lavoro. Ma sì, tanto agli insegnanti in Italia si può fare tutto, chissenefrega: c’hanno tre mesi di vacanza all’anno, ci manca pure che possano capire qualcosa. E poi il sindaco non si fa intimorire – notate come lui, come tutti i sostenitori della fuffa gender, si pone subito dalla parte di chi subisce qualcosa, di chi si deve difendere, di chi tutela una libertà violata. Quale? Non si sa.

Non potendo avere una visione completa ed esaustiva della questione, si è preferito ritirare tutti i libri distribuiti dalla precedente Amministrazione in modo da poter verificare serenamente e con piena cognizione di causa quali siano, e soprattutto quali non siano, adatti a bambini in età prescolare.

Il sindaco ammette che né lui né la sua amministrazione sono in grado di avere una visione completa ed esaustiva della questione, quindi invece di fidarsi della professionalità altrui – chi ha scelto i libri – li ritirano tutti e via così. Non sappiamo quali medicine fanno davvero bene e quali male, chiudiamo le farmacie. Non sappiamo quale cibo sia più o meno avvelenato da porcherie chimiche, quindi chiudiamo i supermercati. Queste sono assurdità, mentre ritirare i libri no. Chi è che farebbe, allora, una speculazione culturale? E poi, oh: solo quelli distribuiti dalla precedente amministrazione. Questa non sarebbe, invece, una speculazione politica? Allora perché non tutti? Cosa assicura che due amministrazioni fa i libri distribuiti non parlino di zozzerie che fanno piangere Gesù?

Il vizio di fondo è stata l’arroganza culturale con cui una visione personalistica della società è stata introdotta nei nidi e nelle scuole per l’infanzia unilateralmente, in forma scritta e senza chiedere niente a nessuno, in particolar modo alle famiglie.

Notate la scelta lessicale: vizio. Non errore, né sbaglio, né abuso: vizio. Cosa ricorda in un paese cattolico la parola vizio? Il vizio sarebbe stato introdurre ai bambini discorsi sulla diversità, che notoriamente è una visione personalistica della società. Quindi secondo Brugnaro più difendo la diversità di genere più sono egoista. Ma sì, contraddiciamoci pure, chi vuoi che se ne accorga? Io non sono né di destra né di sinistra e ho vinto le elezioni, quindi IO posso fare le cose senza chiedere niente a nessuno. Qualcuno ha idea della burocrazia necessaria a far adottare un libro a scuola? Di questa decisione ne devono essere a conoscenza un esercito di persone e c’è da imbrattare un sacco di carta. Invece secondo il sindaco ci sono egoisti in paillettes e boa di piume che entrano nottetempo negli asili a piazzare libri peccaminosi all’insaputa dei genitori – tra l’altro, se fosse così, come avrebbe potuto il sindaco produrre una lista tanto precisa? Evidentemente, la cosa era nota e approvata da tempo dall’amministrazione, e quei libri erano nelle scuole da un pezzo. Perché adesso è un problema e prima no?  Dov’erano i genitori all’insaputa, prima?

I genitori dei piccoli devono, invece, avere voce in capitolo su aspetti determinanti che riguardano l’educazione dei loro figli e non esserne aprioristicamente esclusi.

Aprioristicamente esclusi? Ma questo non è il paese dove per far venire i genitori alle riunioni non si sa più che inventarsi? Questo non è il paese dove fare il rappresentante di classe è considerato una rottura di scatole seconda solo a una ispezione di Equitalia? Questo non è il paese dove i genitori temono come la peste i messaggi del gruppo Wazzup con gli altri genitori di classe e la maestra, per paura che ci sia un lavoro da fare o qualche euro da dare per i servizi primari della scuola? Questo sarebbe il paese che esclude i genitori dalla vita della scuola?

E’ quindi nostra intenzione esaminare con cura e obiettività i testi, non distribuendo quelli inopportuni per i più piccoli, che pure restano liberamente consultabili da parte degli adulti nelle biblioteche.

E chi li esaminerebbe? Con quali criteri smentire la distribuzione già fatta? Inopportuni perché, dato che rimangono nelle biblioteche? E perché consultabili da parte degli adulti, dato che sono libri per bambini e anche loro vanno in biblioteca? Ma qualcuno che ha una minima preparazione in queste questioni lo ha riletto questo comunicato?

Molti libri, che trattano i temi legati alla discriminazione fisica, religiosa e razziale, sono notoriamente straordinari e verranno certamente ridistribuiti, come ad esempio le opere di Leo Lionni “Piccolo blu e piccolo giallo” e “Guizzino”. Le riserve riguardano, invece, alcuni testi come “Piccolo uovo” di Francesca Pardi o “Jean a deux mamans” di Ophelie Texier.

Sì, qualcuno che ci capisce lo ha letto, evidentemente, dato che alcuni nomi sembrerebbero esclusi – anche se per ora sono ritirati come tutti gli altri, la cui pericolosità è stata ben individuata. Allora i criteri li hai o no? Perché dire ancora che c’è da valutare? La lista l’hai fatta, sindaco, ormai quelli li ho buttati! Adesso mi dici che qualcuno invece andava bene? Attenzione: vanno bene quelli che trattano i temi legati alla discriminazione fisica, religiosa e razziale. Della discriminazione sessuale, del sessismo, del maschilismo, dei diritti LGBTQI, non si deve far sapere niente soprattutto ai bambini. E’ su questo che genitori e sindaco sono all’erta. Solo su questo.

Sarà un lavoro di analisi fatto con cura e attenzione, anche approfittando del periodo estivo e delle vacanze scolastiche, valutando quali siano le persone più adatte a questa selezione ed evitando, così, ulteriori diatribe e strumentalizzazioni di un argomento che, ad oggi, ha fatto anche troppo parlare di sé.

Facciamo le cose d’estate, che nessuno ne ne accorge, e poi di questo argomento si è anche parlato troppo – però che politica nuova che fa il sindaco della lista civica, davvero un rivoluzionario. Come farebbe poi una amministrazione che sulla lista dei libri da ritirare ci ripensa in pochi giorni a saper valutare quali siano le persone più adatte rimane un mistero. Ma mica tanto misterioso: basterà scegliere tra genitori all’insaputa e dottissimi sostenitori della fuffa gender. Non vedo l’ora di sapere. Intanto gira tra estremisti cattolici e cattolici in divisa questo simpatico modulo da usare per il prossimo anno scolastico:

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Questo lo firmeranno quei genitori che per riparare il loro impianto idraulico esigono professionalità; per la loro salute esigono trasparenza; per la gestione dei loro risparmi esigono trasparenza e convenienza; per i loro acquisti esigono la qualità e il risparmio. Per decidere dell’istruzione dei loro figli no, bastano loro.

Complimenti.

La mignotta nella testa

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Bene, finita la mania dell’arcobaleno? Per carità, c’è da essere contenti che un uomo nero dichiari legale il matrimonio gay da presidente del suo paese, e che quel paese sia la guida economica – e non solo – di tutto l’occidente.  Non è male, ma la strada è ancora molto lunga, e non è detto che quella imboccata sia la direzione giusta.

Il matrimonio è comunque un contratto che fa parte di una gamma di istituzioni tipicamente patriarcali, strettamente connesso con un certo concetto di famiglia, certi dispositivi legali di diritto ereditario, un preciso modo di concepire e regolare i rapporti tra i generi… insomma sì, va bene, beati monoculi in terra caecorum, ma non è che il tutto sia scevro di critiche. Anche perché il silenzio tombale su libertà di aborto, per dire, non è che prometta niente di buono per il futuro.

Prima di tutto c’è il solito dubbio, sui provvedimenti sociali calati dall’alto, che questi siano una bella operazione di facciata e/o di opportunismo politico: rainbow washing(ton)? Forse sì, in un paese dove già ci si lamentava dell’eccessivo marketing arcobaleno in tempi non sospetti. Poi ci sarebbe – ripeto, pur nella dovuta gioia per chi aspettava comunque da decenni un minimo traguardo di civiltà – da fare un raffronto tra paesi, prima di essere contenti. Qui è stato facile farsi invadere da tante mode USA, ma per questa temo che ci sarà qualche ostacolo in più rispetto al jeans, al rock’n’roll, e così via.

No, perché intanto che milioni di italiani si sono arcobalenizzati il profilo facebook, in Italia si continua non solo a stuprare, ma a dare la colpa a chi viene stuprata. E a pensare alla castrazione come a una soluzione al problema. Sì, la castrazione, la versione chirurgica delle ruspe salviniane: la rimozione fisica della “causa visibile” del problema. L’incontrollabile libido dello stupratore, l’incontrollabile alloggio del nomade. Entrambi da spazzare via, da annullare. Non a caso entrambe le soluzioni arrivano proposte dalla stessa parte politica.

Forse dipende dal fatto che qui, sempre dall’alto, è calata una fantasmatica “teoria del gender” per costruire una nuova propaganda contro ogni forma di educazione sessuale? Forse perché in questo paese un pensiero omofobo e patriarcale come il cattolicesimo permea così tanto il senso comune da rendere credibile che la “famiglia tradizionale” sia in pericolo – la stessa famiglia che viene accusata di lasciare in giro una sedicenne a mezzanotte? Forse questa micidiale miscela di ipocrisie ha come risultato – uno dei tanti – che un tizio pagato dal paese che non spende una lira in educazione sessuale, ma milioni di euro in educazione militare (“i nostri marò!”), stupri una sedicenne spacciandosi per un altro tizio in divisa, e un numero schifosamente grande di persone pensa che lei se la sia cercata?

Difendiamoci pure, noi con milioni di profili con l’arcobaleno, pensando la solita storia del malato, dell’eccezione, dello schifoso-gliela-farei-vedere-io. Come già detto in occasione del poliziotto che tortura (che dite, ci sarà un legame pure tra cultura patriarcale e difesa della violenza di Stato?), non è una mela marcia: è l’albero che ha qualcosa che non va.

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Ci sarebbe anche da dire, date le migliaia di commenti che danno alla sopravvissuta allo stupro – ricordo, minorenne di anni 16 – della “zoccola”, che di fronte a questi esempi di cultura popolare forse le discussioni sul sex working sono un po’ premature, in Italia – anche se comunque necessarie. Nel senso che se anche domattina, per un magico caso del destino, venisse approvata una splendida legge che con un colpo solo combatta efficacemente la tratta internazionale, smantelli il regime di schiavitù di migliaia di prostitute a forza e permetta a chi vuole di prostituirsi legalmente – avremmo cambiato qualcosa per le milioni e milioni di “mignotte” nella testa degli italiani e delle italiane?

No. Quelle saranno sempre lì, pronte a saltar fuori al prossimo incrocio, al prossimo divorzio, al prossimo stupro, pronte per il maschio italico e i suoi nobili istinti. E attenzione: i suoi sono nobili, perché se sono di uno non al 100% italiano nell’aspetto o nel sangue, allora: a casa! Linciaggio! Ruspa! Castrazione!

Ah, a proposito di leggi: dice che non basta mica fare le leggi, perché ci sono pure i tribunali da cui difendersi. Eh sì, difendersi, perché se sei una sedicenne stuprata da amici in gruppo, ti può succedere che

tu vai avanti, ti fai la tua battaglia in Tribunale, ti sottoponi a perizie e controperizie, parli con psichiatri, psicologi e magistrati. Racconti la tua storia e provi a non ondeggiare nella fiducia: ti crederanno, tu sai che stai dicendo la verità. E in qualche modo lo crede anche il giudice che per le infinite pagine della motivazione della sentenza, che assolverà i tuoi stupratori, riconosce l’onestà delle tue parole. Solo che non ci sono le prove: “Se è vero che il comportamento passivo della vittima – si legge nelle motivazioni della sentenza – e il fatto che scivolasse nella doccia avrebbero dovuto indurli a sospettare che la stessa avesse perso la lucidità necessaria per presentare un valido consenso all’atto sessuale è altrettanto vero che l’assenza di azioni di respingimento e di invocazioni di aiuto avrebbero potuto ingenerare la convinzione che la 16enne fosse consenziente”.

No, ma non è un problema culturale, no no. Ci vuole la legge. Certo, come no.

Ripeto: ben felice che altrove qualche traguardo – anche se discutibile – venga raggiunto, anche se dall’alto e tramite una legge. Però preferirei che qualcosa cambiasse anche da queste parti, dal basso e nel sentire comune. E’ molto più faticoso, ma i risultati sono sicuramente più duraturi. Sarà il caso di cominciare presto, dalle scuole, dai centri antiviolenza (anche maschili)… o no?