Non perché sono in grado di soffrire, ma perché sanno essere felici!

3006035_orig

Proprio oggi leggevo un articolo di Nathan Runkle –  fondatore e Presidente di Mercy for Animals – intitolato “il nostro sdegno per il Festival della carne di cane di Yulin rivela un’ipocrisia disgustosa”. Il pezzo in questione argomentava in modo non troppo dissimile dall’articolo pubblicato pochi giorni fa, intitolato Del Mangiar Cani, e chiudeva con questa riflessione, già sentita in diverse occasioni:

“Certo, hanno aspetti diversi. Mucche e maiali adulti non sono esattamente i più adatti per accoccolarsi assieme sul divano (se è per questo nemmeno i cavalli, eppure poche persone li mangiano). Potrebbe essere una sfida portare un pollo a fare una passeggiata, data la sua capacità di volare (ma anche in questo caso, avete mai provato a mettere il vostro gatto al guinzaglio?).

In termini di intelligenza, nessuno di questi animali si differenzia notevolmente dagli altri – anche se i maiali sono in realtà più intelligenti dei cani. Quando si tratta di personalità, ogni animale ha la sua – ma, in generale, sono tutti socievoli e stare in compagnia degli umani gli piace quando vengono trattati con gentilezza. E tutti amano una bella grattata dietro le orecchie.

Anche quando delle differenze esistono – nell’aspetto, nelle capacità intellettive, nella personalità – queste non bastano a giustificare il trattamento differente riservato ai diversi animali, così come non bastano a giustificare il trattamento differente riservato alle diverse tipologie di umani. Che la nostra relazione con mucche, maiali e polli sia stata, storicamente, di sfruttamento, piuttosto che di compagnia, non ci scagiona: per secoli i bianchi hanno sfruttato i neri e gli uomini hanno sfruttato le donne.

Ciò che veramente conta è la capacità di soffrire e provare dolore. Da questo punto di vista, e gli scienziati su questo sono concordi, gli animali che amiamo e quelli che mangiamo sono uguali.

La crudeltà è crudeltà, e la sofferenza è sofferenza. Tutto il resto è arbitrario. E’ giusto provare sdegno – persino rabbia – per il Festival di carne di cane in Cina. Ma non dovremmo sentirci meno inorriditi da quello che succede nel nostro paese, proprio sotto il nostro naso”.

Subito dopo aver letto questo articolo – in una fase di masochismo evidente – mi allietavo con un altro post pubblicato questa volta su di una rivista online dedicata all’allevamento (!) sulla quale è presente una categoria chiamata “il confessionale dell’allevatore”, nella quale chi si guadagna da vivere sulla pelle degli altri animali può, rigorosamente nell’anonimato, svuotarsi la coscienza e condividere pensieri e riflessioni sulla sublime arte di togliere la vita.

Ebbene, in molte delle confessioni,  uno degli aspetti più consolatori era, unanimemente, la rapidità di una morte QUASI indolore. A prescindere dal fatto che il termine “quasi” potrebbe già da solo dar adito a moltissimi interrogativi, leggere questo articolo in coda al primo mi ha fatto realizzare un punto importante: per la maggior parte degli esseri umani, il fatto di poter vivere la propria vita è qualcosa di così scontato da farci preoccupare, quando si tratta di animali non umani, quasi esclusivamente di fargli ottenere una buona morte, ovvero una morte veloce, indolore, quasi inconsapevole.

In questo senso ambedue gli articoli, sia quello scritto da un attivista animalista, che quello di un’allevatrice, avevano dei punti in comune: ambedue non negavano la sofferenza che provano gli animali, e ambedue sottolineavano come sia eticamente imprescindibile evitare questa sofferenza. Eppure, tutti questi occhi puntati sulla sofferenza degli animali sembrano non notare qualcosa di ancor più fondamentale: ovvero, la capacità degli animali di essere felici!

Preoccuparsi della morte degli animali, e pensare che basti una morte “indolore”, “dolce”, “umana” per sentire di aver risolto il problema è nella migliore delle ipotesi naif, nella peggiore decisamente ipocrita.

Gli animali si sono evoluti, esattamente come noi anche se ognuno in modo peculiare, per vivere su questa terra, e per viverla liberi. Da questo punto di vista la morte è, per loro come per noi, l’ultimo dei problemi, o quantomeno, l’unico insormontabile. Ma al di là della morte, esiste la vita da vivere: una vita libera, in cui esplorare l’ambiente, relazionarsi con i propri simili e con altri esseri senzienti, vivere affetti e antipatie, divertirsi, provare fame ma anche sazietà, giocare e poltrire, scoprire e scopare, imparare e tramandare.

E fare ognuna di queste cose, per tanto tempo, o per lo meno per il maggior tempo possibile.

Sfruttare gli animali non umani significa privarli della vita: non soltanto perchè li uccidiamo, ma perché li alieniamo da una vita che sia degna di questo nome. In questo senso, la carne felice non esiste. Non esiste felicità nell’essere imprigionati contro la propria volontà, nel non potersi muovere liberamente, nell’essere stuprate se femmine per far nascere una prole che verrà allontanata e massacrata al momento stesso della nascita, o poco dopo. Non c’è felicità in luoghi bui e sporchi, o in mezzo a recinti elettrificati, tra compagni di sventura che non si sono scelti, e giusto per il lasso di tempo necessario a diventare abbastanza grassi – o abbastanza improduttive – per finire, al massimo adolescenti, al mattatoio. Avremmo mai il coraggio di dire, di un dodicenne allontanato dalla famiglia, tenuto in prigionia, torturato e ammazzato con un colpo in testa, che “in fondo, ha avuto una morte dolce?”

Eticamente sarebbe accettabile?  In A chi spetta una buona vita, Judith Butler affronta il difficile tema della vulnerabilità delle vite, della loro precarietà e delle forme di resistenza che si oppongono a questo ordine prestabilito che decide il valore della vita di ognun*.

Parlando delle vite umane, in un ragionamento che già si presta ad estendersi senza sforzo al non umano, sostiene che “La comprensione delle modalità di attribuzione di valori differenziali alle vite umane non può che passare anche per la comprensione di come alcune vite siano considerate non-vite – vite “già morte” – molto prima della morte.” Questa non-vita dei non umani assoggettati al nostro sfruttamento è il vero nodo gordiano per il quale l’unica soluzione non può essere e non sarà mai l’utopia e l’inutilità di una “buona morte”, ma che al contrario richiede un taglio netto con quello specismo che ci è stato insegnato fin dalla culla: un passo più semplice a compiersi di quanto si possa credere, e che risponde affermativamente alla semplice domanda (che risuona sulle pagine del rifugio per animali australiano Edgar’s Mission🙂 “Se potessimo vivere in salute e felicemente senza far del male ad alcuno…perché non dovremmo farlo?”

 

Guadagnarsi il diritto di essere vegan: Sull’intersezione tra privilegio abilista e potere specista

taylor_sunaura_image08

Articolo originale qui, traduzione di feminoska.

Ultimamente, nel leggere il sempre provocatorio blog Vegans of color, ho provato sentimenti contrastanti. Riflettendo sui conflitti razziali, posso affermare in tutta onestà di essere stato molto più fortunato della maggior parte delle/i vegan di colore, a parte alcuni casi di rilievo. Il conflitto reale che ho dovuto affrontare nella mia esperienza di vita è un pò diverso da quello della maggior parte della gente di colore, perché sono cresciuto in mezzo ad altre persone di colore, in un ambiente autenticamente multiculturale. In quanto membro di una famiglia genuinamente multiculturale (e onnivora), ogni conflitto vegan/onnivor* è sorto quasi esclusivamente a causa di questioni relative all’abilismo.

L’ “alterità” che ricopre un ruolo importante nella mia Persona politico-sociale ha la forma della disabilità: “paralisi cerebrale” significa che mi è stata diagnosticata una disabilità di apprendimento e che sono parzialmente sordo a causa di un incidente di pattinaggio. Ora, prima di pensare: “Ecco, ora comincia la triste storia”, lasciatemi dire che l’unico scopo di questo post è quello di esaminare le interconnessioni di dominazione che tanto affliggono i rapporti umani; questo non è, in alcun modo, un concetto nuovo nell’ambito del discorso abolizionista animalista, né è necessariamente indicativo (spero) di un mio voler stimolare, attraverso speculazioni filosofiche, reazioni di pietà. Se si è vegan diversamente abili costrett* ad affrontare il problema concreto di dipendere da persone speciste (non importa quanto comprensive) per la sopravvivenza quotidiana (alimentare e non), si ha sicuramente voce in capitolo, anche solo per schiarirsi le idee.

Il paternalismo specista subito dalle persone diversamente abili tende ad essere molto più insidioso rispetto ad altre questioni di intersezionalità, semplicemente perché è apparentemente molto più logico di primo acchito. Chi può incolpare il genitore tormentato dal dover organizzare pasti differenti per chi è convintamente vegan, ma fisicamente e/o mentalmente mal equipaggiato per esserlo?

Il pregiudizio abilista può esprimersi anche attraverso forme più insidiose, in quell’attivismo per i diritti degli animali che presuppone un’intima familiarità con ogni singolo ‘argomento caldo’ del movimento, o per lo meno la possibilità di mostrarsi ben versati nelle svariate discipline che vanno dalla legge, alla sociologia, all’etica. Anche se ciascuna di queste discipline è senza dubbio attinente alla più ampia questione dei diritti degli animali – e può essere utilizzata con grande efficacia – sarebbe così strano se la persona vegana, che per qualsiasi ragione (ad esempio disabilità) non possa onestamente affrontare in maniera così approfondita questi problemi, leggesse questa richiesta come una porta sbattuta in faccia? Sono davvero stanco di vedere i miei problemi psicoeducativi /organizzativi usati per demolire la logica del’essere vegan. Il veganismo, con una condiscendente pacca sulle spalle, diventa non una posizione etica con la quale fare i conti, ma un favore benevolo concesso dall’onnivoro gentile e sensibile al petulante e ipersensibile “amante degli animali”.

L’infido assunto costantemente ripetuto è che dovrei “guadagnarmi il diritto di essere vegan” attraverso forme di indipendenza che mi permettano di raggiungere più rapidamente quel giorno felice nel quale le mie capacità organizzative, le mie disabilità di apprendimento e la mia memoria, tutte comincino a funzionare secondo un parametro oggettivo di riferimento esterno che mi conferirà il “diritto” di vivere come un non-specista. Capite perché nessun criterio esterno in materia di “liceità” del veganismo sia credibile? Non la cultura, non la tradizione religiosa, non la capacità, non una formazione costosa o specialistica. Non si finisce mai di imparare alla scuola di pensiero abolizionista animalista, e il costo del biglietto è scandalosamente basso.

Tutte le persone devono diventare vegan per gli animali, indipendentemente dalle loro abilità. L’attivismo di ognun* è importante, e non nella modalità condiscendente in stile “siamo tutt* vincenti”, ma, come ho detto più volte su questo blog, perché ognun* di noi è l’unica persona che può raggiungere tutte le altre. Non riesco a fare ciò che fai tu, tu non puoi fare ciò che faccio io. Peter Singer non è davvero, in ogni caso, il modello per qualsiasi tipo di movimento per i diritti degli animali, ma è interessante che il supposto “padrino” del movimento sposi punti di vista che potrebbero essere definiti quasi-eugenisti. Siamo davvero così ansios* di essere parte di un movimento composto solo da coloro ai quali è concesso valore in base a certi criteri predefiniti, quando stiamo combattendo proprio la validità dell’esistenza di criteri predefiniti?

Dobbiamo rifiutare di impegnarci nell’ “utilitarismo pratico” nel nostro attivismo. Abbiamo un disperato bisogno di una rielaborazione radicale del significato del veganismo nel discorso sociale, al di fuori di un paradigma di privilegio alla moda. In realtà, il correttivo di tutto questo è abbastanza semplice. L’idea che io abbia il “diritto” (guadagnato o meno) di essere vegan è al suo interno alimentato dallo specismo. Invece, è vero il contrario: Non ho il diritto di non essere vegan. Il veganismo non è una scelta, di per sé. Lo “scelgo” solo nel senso in cui mi rendo conto che vivendo in un mondo specista, sono moralmente obbligato a vivere l’abolizionismo nella mia vita.

Né il veganismo è una montagna russa filosofica attraverso la quale mostrare le proprie incredibili capacità logiche. Si tratta di un imperativo assoluto che tutt*, indipendentemente dalla propria eloquenza, istruzione e capacità di mettere in pratica decisioni personali dovrebbero abbracciare. Poco importa agli animali non-umani che la vostra posizione possa essere sostenuta con riferimenti incrociati ad ogni brano di letteratura attinente, o anche che non cuciniate tanto bene. Gli unici che hanno a cuore tali banalità sono specist* o vegan con qualcos’altro da dimostrare.

Compagn* attivist* vegan, io umilmente domando una rinnovata consapevolezza delle esperienze vissute da altr* vegan; il veganismo è semplice; lasciamo che sia semplice, e usiamo tale semplicità per attirare tutte le persone possibili. Ricordate che non stiamo combattendo la stupidità, ma l’ignoranza; sosteniamo non la conoscenza riservata a pochi, ma il comune senso morale. Il veganismo è semplice, così spesso affermiamo, e così è, in linea generale; ma alcun* di noi stanno compiendo questo viaggio con un passo meno leggero e un pò più zoppicante.

* Se sei un* giovane che vive da abolizionista animalista sotto la tutela di genitori onnivori, sappi di avere il mio più profondo rispetto. Continua la tua buona battaglia – non sei sol*.

Ignoranza di genere #2

poracci

Diciamocelo: la recente manifestazione reazionaria e razzista messa in scena in Piazza San Giovanni a Roma, ironicamente chiamata dai diabolici organizzatori Family day, ha avuto l’indiscusso merito di far venire alla luce – non ce n’era gran bisogno, ma pazienza – un nutrito gruppo di intellettualoni capaci di sparare ciclopiche sciocchezze. Su cosa? Ma sui grandi sconosciuti della cultura italiana: gli studi di genere.

Visto che non vogliamo far torto a nessun*, rispetto alla prima puntata di “Ignoranza di genere” stavolta saranno perlopiù gli amici maschietti a tenere la scena, e scelti dal fior fiore degli intellettuali. Prima però d’immergerci nel simpatico clima di quel giorno, permettetemi qualche riga su un gustoso prodromo – tra i tanti sceglibili.

Nei giorni precedenti il famigerato giorno della famiglia c’era stato – vale la pena ricordarlo – il mitico Pietro Citati a dargli di fuffa, sfornando un favoloso articolo a proposito (?) del referendum irlandese sul matrimonio gay. Il suo appello agli omosessuali a “non essere banali” se la batte con qualcuna delle sue tremende quarte di copertina, che hanno gettato nello sconforto più generazioni di lettori. Il talento è quello, perché passare da un’affermazione come

Mentre conquistano i propri diritti, gli omosessuali pretendono di essere come gli altri: ciò che certo non sono

confondendo l’avere (i diritti) con l’essere (gay), a una perla come

I grandi omosessuali hanno un profondo orgoglio del loro ego: talora un disprezzo dei cosiddetti esseri normali, e della loro vita comune.

ci vuole solo la forza visionaria di chi pensa che tutti i gay siano come l’immagine di sé che raccontava Oscar Wilde, non a caso messo in foto. Va bene, direte voi che siete più buoni di me: ma Citati sta sempre lì nei libri, non è che ci possiamo aspettare una grande capacità di conoscere la realtà più quotidiana, o quello che studi sociali raccontano da decenni. Lui si occupa di letteratura. Epperò, dico io, tra le altre amenità è capace di uscirsene con una bella fascistonata tipo questa:

Nel caso degli omosessuali si aggiunge la coscienza della violazione e delle violazioni che essi impongono ai costumi di quella che resta la maggioranza.

Niente male eh? Secondo Citati i gay impongono violazioni ai costumi della maggioranza, cioè sono una minoranza che impone cose ai più: Citati crede, in sostanza, alla “lobby gay” che governa il mondo. Oh: questo è il pensiero di uno chiamato a fare il commento autorevole alla cronaca sul più diffuso quotidiano italiano. E non a caso: un’ammiccamento agli amici del Vaticano lo vogliamo dare? Eccolo:

In quasi ogni omosessuale, c’è qualcosa di demoniaco; ed è la coscienza di quella che molti di loro considerano la propria orgogliosa altezza spirituale.

E via con i gay demoniaci tra fumi di zolfo e zampe caprine, ché se ne vantano pure. Complimenti per l’autorevolezza e la preparazione.

Ma veniamo al giorno fatidico del 21 Giugno. Apre le danze Guido Ceronetti, che non ha voluto far mancare il suo augusto giudizio su Samantha Cristoforetti, chiamando in causa nietepopodimeno che il vecchio Sigmund:

Per un’analisi freudiana si potrà interpretare una donna fluttuante fuori gravità come desiderio soddisfatto di un rapporto incestuoso col padre, senza nozze tragiche, senza esplicazione, irrorazione e amorosa redenzione scenica.

Incestuosa in quanto astronauta donna: però, che profondità di analisi. Tanto Ceronetti aveva già deciso che una così non è neanche donna, ormai:

Di fisiologia ginecologica la sfidante intrepida non avrà certamente avuto più nessuna traccia, fin, credo dalla base, come in un evento patologico.

E insomma questo poeta caricato a cultura misogina è l’intellettualone cui dà spazio Repubblica. E adesso che ci siamo scaldati con gay e donne, passiamo alla famiglia.

Il Fatto Quotidiano vuole sbaragliare la concorrenza in fatto d’ignoranza e intellettualmaschilismo, e molla un pezzo da novanta: Diego Fusaro. Il quale, da vero filosofo, ci tiene a dire che

Non è mio interesse parteggiare per l’uno o per l’altro dei movimenti. Mi interessa, piuttosto, comprendere un ben più profondo fenomeno, che è oggi in atto, e che – ho cercato di argomentarlo nel mio studio Il futuro è nostro (2014) – coincide con la distruzione capitalistica della famiglia.

Questo è il suo pallino, oltre a quello di farsi pubblicità: i movimenti LGBT sono servi del capitalismo, che vuole disfarsi di Hegel per ragioni di vile danaro. Senti qua che roba:

Così, se la “destra del denaro” decide che la famiglia deve essere rimossa in nome della creazione dell’atomistica delle solitudini consumatrici, la “sinistra del costume” giustifica ciò tramite la delegittimazione della famiglia come forma borghese degna di essere abbandonata, silenziando come “omofobo” chiunque osi dissentire.

Capito? Destra e sinistra (che non esistono, ma quando serve sì) collaborano a bollare come omofobo chiunque tenti di difendere – da cosa non è dato sapere – la famiglia come forma borghese. Se non bastasse questa ben ponderata e profonda visione delle cose, c’è a testimoniare la sua preparazione negli studi di genere questa bella frasetta esplicativa:

Chi, ad esempio, si ostini a pensare che vi siano naturalmente uomini e donne, che il genere umano esista nella sua unità tramite tale differenza e, ancora, che i figli abbiano secondo natura un padre e una madre è immediatamente ostracizzato con l’accusa di omofobia.

Ma infatti, perché documentarsi? Meglio seguire le orme storicamente reazionarie, e non ci si sbaglia mai. Segue ammonimento a suon di Orwell. Peccato, un passo di Hegel ci sarebbe stato meglio. Per esempio, che ne so, questo?

L’uomo, quindi, ha la sua vita effettiva, sostanziale nello Stato, nella scienza, ecc. e, in genere, nella lotta e nel travaglio col mondo esterno e con se stesso, sì che egli, soltanto dal suo scindersi, consegue, combattendo, la sua unità autonoma con sé, la cui calma intuizione e la cui eticità soggettiva sensitiva egli ha nella famiglia, nella quale la donna ha la sua destinazione sostanziale, e in questa pietà il suo carattere etico. (Lineamenti di una filosofia del diritto)

Eccola, la famiglia hegeliana tanto amata da Fusaro: l’uomo fa il cittadino e il filosofo, la donna bada alla casa. Eh sì, molto naturale e poco capitalistico. Oh, per inciso, non è che poi i detrattori di Fusaro siano tutti meglio di lui, eh: tal Raffaele Alberto Ventura, citato da Minima&Moralia da molti per perculare Fusaro, è uno che nel suo post più noto in proposito, spara ‘na cosa come

… su Judith Butler e la teoria del gender, marginalissima moda intellettuale non più rilevante del balconing…

cioè chiama Judith Butler, filosofa coi fiocchi da qualche decennio, una moda intellettuale rilevante quanto una idiota moda giovanilistica, e chiama gli studi di genere col nome che gli danno i fanatici cattolici in vena di propaganda e fuffa: teoria del gender. Che sia facile smontare gli argomenti di Fusaro è noto, ma non ci si potrebbe documentare meglio sulle cose che evidentemente non si conoscono? A rifletterci ci sarebbe un problema, a tradurre spensieratamente l’inglese gender: cioè almeno cinquant’anni di studi seri che nel mondo anglosassone, com’è ovvio, hanno cambiato da un pezzo l’uso di quella parola. Se io la spendo qui in Italia senza minimamente avvertire chi legge, sto o no facendo una pessima operazione culturale? Sì, sto facendo una pessima figura – sempre supponendo la buona fede. Se no evidentemente mi fa comodo usare gender e “genere” come sinonimi, come se niente fosse.

Operazione che avrebbe dovuto fare Michela Marzano, la quale scrive con la volontà di fare chiarezza teorica sul problema. Prima di tutto non ci pensa nemmeno per un attimo a fare la cosa che andrebbe fatta sempre e subito cominciando discussioni o articoli su questi temi: dire che la “teoria del gender” non esiste, è un’invenzione fatta per motivi politici e propaganistici che ha autori precisi e noti come i suoi scopi – oppure dire che quella cattolica è una delle tante possibili gender ideology, e che la Chiesa la difende strenuamente spacciandola per verità naturale. Invece usa allegramente quell’espressione come fosse il solito sinonimo spendibile tranquillamente, e poi pensa bene di divulgare cose sostenendo che

C’è chi si è concentrato sugli stereotipi della femminilità e della mascolinità, cercando di mostrare che è da bambini che si introiettano modelli e comportamenti […] (si pensi alle ricerche di Nicole-Claude Mathieu, di Françoise Collin e di Luce Irigaray)

le quali sarebbero le prime a sorprendersi di vedersi attribuiti quegli argomenti. Marzano procede poi nominando un tale Jonathan Katz che è o un comico o il director of the Maryland Cybersecurity Center at the University of Maryland. Probabilmente si voleva riferire a Jackson Katz – ma chi volete che lo conosca, in Italia? Appunto: nessuno e pochi altri. Dopo queste altre approssimazioni, la conclusione è che

Si capisce quindi bene come non esista una, e una sola, “ideologia gender” ma un insieme eterogeneo di posizioni. Alcune più radicali, altre meno. Alcune talvolta eccessive, come certe posizioni queer di Teresa de Lauretis.

Grazie Marzano! Finalmente abbiamo detto non che l’ideologia gender non esiste, pensando al pubblico italiano, ma anzi che ce ne sono tante, pensando a tutto il resto del mondo; e qual è quella eccessiva? Quella delle gerarchie cattoliche, attive fin dagli anni ’90 nella loro propaganda anti LGBTQ? No! L’eccessiva è quella «queer di Teresa de Lauretis» – eccessiva solo per Marzano ovviamente, e non ci viene detto perché, anche se è facile intuirlo dalla citazione evangelica che chiude il pezzo.

Infine il 23, last but not least, arriva Paolo Ercolani (ve lo ricordate? E’ quello che l’otto marzo ha scritto alle donne di «restare donne», annunciando un suo libro in proposito). Il nostro pensa bene, o lui o chi gli fa i titoli, di lanciare un richiamo alla Antonelli appena morta tra i commenti sessisti di moltissimi, chiamando il pezzo “Sesso matto”. I primi complimenti sono per questa scelta di gran gusto. Poi anche lui si lancia a criticare Fusaro, cosa poi non tanto difficile, proprio sulle fonti, sui tanto venerati maestri che i due hanno in comune. Cioè, sulla questione “famiglia” Ercolani pensa bene di difendere Hegel, così:

Nel caso di Hegel la fami­glia deve essere supe­rata da una «società civile» in cui si eser­citi la piena libertà indi­vi­duale, non­ché da uno Stato che non si lascia rego­lare da dogmi ideo­lo­gici e men che mai reli­giosi nell’esecuzione del pro­prio governo e nella pro­mul­ga­zione delle leggi.

La citazione riportata più sopra spiega bene chi sono per Hegel i membri della società civile: solo gli uomini e le donne no. Aggiungiamo un’altra citazione hegeliana che spiega il perché le donne non possono essere cittadine come gli uomini:

Le donne possono, certamente, esser colte, ma non sono fatte per le scienze più elevate, per la filosofia e per certe produzioni dell’arte, che esigono un universale. Le donne possono avere delle trovate, gusto, delicatezza; ma non hanno l’ideale. La differenza tra uomo e donna è quella dell’animale e della pianta; l’animale corrisponde più al carattere dell’uomo, la pianta più a quello della donna; poiché essa è più uno svolgimento quieto, che mantiene a suo principio l’unione indeterminata del sentimento. (Lineamenti di filosofia del diritto)

Tutto ribadito abbondantemente anche nella Fenomenologia dello spirito, come vedremo. Niente male eh? Difendere la famiglia in Hegel contro Fusaro è davvero un’idea geniale. Bravo Ercolani. Il quale poi passa a difendere il caro Marx:

Ma è lo stesso Marx che con­si­de­rava la «fami­glia» come un ele­mento fon­da­tivo di quello stesso sistema capi­ta­listico, tanto da defi­nirla un micro­co­smo in cui si repli­ca­vano gli stessi rap­porti di forza e di sfrut­ta­mento (a danno della donna) tipici del macro­co­smo della società capitalista.

dimenticandosi – lui e per un bel po’ un sacco di pensatori sedicenti marxisti – che due cosette in proposito le aveva scritte anche Engels, che non ci crederete ma era capace di scrivere anche senza l’amico Karl. E scriveva roba così, in un testo intitolato, guarda caso, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato:

Col passaggio dei mezzi di produzione in proprietà comune, la famiglia singola cessa di essere l’unità economica della società. L’amministrazione domestica privata si trasforma in un’industria sociale. La cura e la educazione dei fanciulli diventa un fatto di pubblico interesse; la società ha cura in egual modo di tutti i fanciulli, legittimi e illegittimi. E con ciò cade la preoccupazione delle “conseguenze”, la quale oggi costituisce il motivo sociale essenziale – sia morale che economico – che impedisce ad una fanciulla di abbandonarsi senza riserve all’uomo amato.

Niente male per un testo del 1884, no? E tenendo conto che lui lo aveva già scritto nei Principi del comunismo (1847), e che ovviamente «Aboliamo la famiglia!» era già nel Manifesto – no il giornale dove scrive Ercolani, quello vero del 1848. Peccato che non sia mai stata realizzata, ‘sta cosa, da nessuna rivoluzione; e peccato non esserselo ricordato, apparentemente, né Ercolani né Fusaro (e manco Marx, c’è da dire). Infatti si continua allegramente con cose tipo

I cit­ta­dini, ci inse­gnava quell’Hegel citato a spro­po­sito da Fusaro, non pos­sono essere rico­no­sciuti, giu­di­cati e quindi discri­mi­nati rispetto al loro essere pec­ca­tori agli occhi di una morale specifica.

Peccato essersi dimenticati pure che per Hegel “i cittadini” erano solo quelli di sesso maschile, perché le donne non ce la potevano proprio fare, poverine (oh, se non bastassero i passi citati, c’è la mitica Fenomenologia dello spirito, § A.a. “Il mondo etico, la legge umana e divina, l’uomo e la donna”, in particolare pagine 17 della traduzione di De Negri che trovate qui; l’argomentata critica di Carla Lonzi, invece, è qui). Mi sa che la morale specifica invece c’era, e c’è ancora – anche se gli si dà un nome in inglese.

Siccome così si divertono, i due continuano a duellare a colpi di letture di grandi maestri.

Allora, alla fine abbiamo, pescati a caso in una breve parentesi temporale: Citati, Ceronetti, Marzano, Fusaro, Ercolani. Più o meno titolati, più o meno noti, più o meno professori, critici, scrittori, poeti. Tutti con il loro spazio fisso sui giornali, tutti produttori di numerosi libri – evidentemente ben venduti, se no non glieli stamperebbero – tutti con un largo seguito di pubblico. E quasi tutti, ipocritamente, a parlare di un capitalismo brutto e cattivo. Tutti chiamati a parlare di questioni di genere, e tutti che dimostrano così di saperne solo ciò che gli fa comodo. Quasi nulla. E intanto giù a straparlare di uomini, donne, generi, famiglia, inquinando una cultura già di suo storicamente manchevole proprio di solide basi e capacità di aggiornarsi in questi cruciali argomenti sociali.

Per fortuna, altrove da queste e questi, qualcosa succede.

Mi sono fatta violentare per amore

amor-violacion-emma-gasco-870x561

Articolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di Serbilla e Elena Zucchini.
Buona lettura!

Da giorni continuo a chiedermi se pubblicare o meno questa storia. La cosa più semplice sarebbe tenerla per me; alla fine, si è trattato di due sole aggressioni delle tante subite nella mia vita. Se sono riuscita a sopravvivere senza traumi, sopravviverò anche a questa… in fondo non è “così grave”…

Alla fine ho deciso di renderla pubblica, per diversi motivi. In primo luogo, perché anche io mi sono resa pubblica e visibile mediaticamente, in particolare su di un tema, quello della prostituzione, che scatena accesi dibattiti all’interno del femminismo. La mia posizione, in quanto prostituta (è così, mi guadagno da vivere prostituendomi dal 1989), è quella di difendere i diritti fondamentali delle persone che esercitano la prostituzione – non quella dei “protettori”, sia chiaro: lotto contro lo stigma della prostituta e il trattamento da “poverette” incapaci di prendere decisioni e assumersi rischi. Inoltre, sostengo che non tutti gli uomini che ricorrono al sesso a pagamento sono maltrattatori o stupratori, ma soprattutto che sono relazioni che si concordano tra adulti (le pratiche sessuali che verranno messe in pratica, l’obbligo dell’uso del preservativo, il tempo, ecc.);

Quando mi chiedono se io sia mai stata aggredita da un cliente – anche solo per mera statistica, dovrebbe essermi successo – la mia risposta è ‘no, non sono mai stata aggredita da nessuna delle decine di migliaia di uomini con i quali ho avuto rapporti’. Quali sono stati e chi sono i potenziali aggressori? Certo, sono stata testimone di aggressioni e ho pianto con alcune compagne, ma nel mio caso, ho imparato ad evitare situazioni potenzialmente pericolose. Allo stesso modo non accetto le molestie di strada e so affrontare i bulli. Dunque, in quale contesto sono stata aggredita? Nella vita quotidiana, fuori dall’ambito della prostituzione, e sempre, sempre, da parte di uomini con i quali avevo un precedente rapporto di fiducia: uomini della mia famiglia, vicini, capi dei miei vari posti di lavoro, colleghi e una delle mie “cotte” (leggasi il “brivido dell’innamoramento”)… Sì, ho subito molestie sessuali, abusi sessuali, e, infine, due violenze da parte di uomini di cui mi fidavo.

Quando ho pubblicato il mio libro ‘Una mala mujer’ (‘una donna permale’)  ho raccontato gli abusi e le violenze tra le quali sono nata e cresciuta, a partire da mio padre e mia madre; poi la violenza da parte dei vicini “teppisti” del quartiere, quando avevo 12 anni, e l’abuso sessuale di uno dei miei capi, in cui davvero mi sono sentita “puttana” e sporca – ma per paura di perdere il lavoro (un lavoro di merda, devo dire, perché non mi permetteva di riscattarmi dalla povertà) ho accettato tutto quello che mi ha chiesto, fingendo che mi piacesse tanto essere “la sua amante”, ma né lui mi piaceva né io volevo fare sesso con lui, lo facevo solo per paura. Non ho raccontato episodi di molestie fisiche, anche in adolescenza, da parte di due cugini, che mi lasciavano a metà tra il sentire l’emozione del proibito e il disgusto che mi dava il loro toccarmi, perché non mi chiedevano il permesso, semplicemente lo facevano e io li lasciavo fare…

E così, con queste premesse, arrivo al punto della questione: Come è possibile che una donna che in 26 anni di prostituzione non è mai stata aggredita da nessun cliente, subisca violenze sessuali – “palpate” sopra i vestiti da parte di una persona conosciuta e che ora non racconterò per non dilungarmi – nel giro di poche settimane? E dopo quell’episodio a 12 anni, che io pensavo mai si sarebbe ripetuto, sono stata violentata a causa dell’innamoramento, per quello stato di imbecillità che mi ha lasciato bloccata e mi ha impedito di reagire.

È un uomo che ho incontrato sui social network, che prima di questo episodio ammiravo molto, che un giorno mi ha approcciato e l’ammirazione che provavo mi ha fatto abbassare la guardia; ha saputo prima illudermi e poi farmi innamorare con belle parole, facendo apprezzamenti rispetto alle mie inquietudini e con un emozionante sesso virtuale del quale ho sinceramente goduto. Alla fine ero arrivata a credere che davvero gli importasse di me come persona, che non si curasse del fatto che mi guadagno da vivere come prostituta, perché mi aveva completamente inclusa nella sua vita quotidiana, mi aveva fatto incontrare la sua famiglia, mi raccontava di essere in procinto di separarsi, diceva di amarmi… Quando è arrivato il momento di incontrarci di persona, desideravo quel rapporto sessuale. Quello che non mi aspettavo, perché nulla del suo atteggiamento me lo aveva fatto sospettare, è che sarebbe stato così aggressivo.

Ci siamo incontrati in un hotel, sono arrivata presto e l’ho aspettato eccitata e ansiosa, tenevo pronto il preservativo sopra al comodino… Lui è arrivato puntuale e dopo quattro baci, quattro baci letteralmente, dati frettolosamente (che già mi dovevano allarmare), ha cominciato a toccarmi aggressivamente, in modo molto brutale, i seni, le parti intime sotto al vestito, e in quel momento mi sono bloccata, non sono riuscita a fermarlo, a frenarlo, a dirgli “non essere così brutale “, a respingerlo. Il resto? Non sono in grado di ricordare i dettagli, so che in un attimo ero a letto senza mutandine; lui si abbassava soltanto i pantaloni e mi penetrava, proprio così. Sì, se ne è venuto subito,  e finito il tutto si è alzato, “Devo andare” … tutto in pochi minuti …

E io piangevo, pensando: “Ma… cosa è successo? Sì… Sono stata violentata!”, E sì, “Non ha usato il preservativo”, “Non mi ha chiesto se potrei rimanere incinta, o se uso contraccettivi”, “Non mi ha chiesto cosa mi piaceva e cosa no”, “Non è stato come avrebbe dovuto”, “Come mai non sono riuscita a lasciare la stanza, e mi sono fatta toccare in quel modo?”… “Ma … ma… come ho potuto lasciare che mi trattasse così? E cosa devo fare adesso?”, “Perché mi è successo e perché ho abbassato la guardia?”. Dopo diversi giorni di riflessione, l’ho raccontato a due “amiche”, che l’hanno percepita più che altro come un’avventura andata storta. Solo una collega di lavoro, vale a dire una prostituta, mi ha dimostrato empatia ed è stata d’accordo con me nell’identificarla come violenza machista, e senza scrupoli, contro le donne –  inclusa sua moglie.

Tutto questo è il riflesso della violenza strutturale di genere. Un grave problema di educazione sessista, che ci portiamo dietro generazione dopo generazione, per cui le donne hanno difficoltà a trovare gli strumenti necessari a gestire emozioni come la paura o l’infatuazione. Quell’ “amore romantico” interiorizzato fin da piccole, e al quale ci arrendiamo, senza domande;  nonostante impariamo e sappiamo essere una costruzione culturale perversa, quanto è difficile non cadere nella sua rete! Colpisce tutte le donne, indipendentemente dal livello socio-culturale, in maggiore o minore misura … E mi fa arrabbiare ancor di più perché, nel mio caso, nel contesto del sesso a pagamento io controllo tutto e reagisco, non mi blocco.

Tanto potente e subdola è la violenza di genere. Tutte le donne sono vulnerabili, dunque c’è molto da fare se desideriamo lasciare un mondo migliore di quello che abbiamo trovato ed evitare che le future generazioni continuino a riprodurre questo schema. Sono indignata del fatto che non esista una educazione sessuale e affettiva dall’infanzia… non so che altro dire… spero solo che la condivisione di questa esperienza, se ancora c’è chi non riconosce l’entità di questa violenza contro le donne, renda pienamente consapevole di come si manifesta. Violenza non significa soltanto essere violentate con la forza, le minacce e le aggressioni fisiche, una violenza si verifica anche quando uno stato emotivo causato da questo tipo di educazione ci impedisce di reagire, e non solo per la paura di subire una violenza più grande o la paura del rifiuto o la paura che pensino che “sono una fica secca”.

Se mi definisco femminista è perché mi batto affinché le donne possano esprimersi come desiderano, ciascuna nel proprio contesto e nelle proprie circostanze personali, e che non siano più oppresse da questa cultura maschilista che ci rende incapaci di dire: “No, non così!” e “Niente e nessuno mi impedirà, per il fatto di essere donna, di realizzarmi e realizzare i miei sogni!”

 

Del mangiar cani

pigndog

“E’ veramente mostruoso che un individuo abbia fame di esseri che ancora muggiscono, insegnando di quali animali ci si debba nutrire, mentre questi sono ancora in vita ed emettono la propria voce, e stabilendo determinati modi di condire, cuocere e imbandire le loro carni. Bisognerebbe cercare chi per primo diede inizio a pratiche simili, non colui che troppo tardi vi pose fine.”

Plutarco, De esu carnium

Al Festival della carne di cane di Yulin – che si tiene ogni anno in occasione del solstizio d’estate – hanno massacrato tra ieri e oggi circa 10.000 cani. I cani, oggetto di un commercio illegale, a volte addirittura rubati alle proprie famiglie umane per essere venduti dai commercianti di carne di cane, vengono stipati in gabbie stracolme, e dopo viaggi estenuanti vengono uccisi in modo spesso estremamente crudele: strangolati, picchiati a morte,  scuoiati e/o bolliti ancora vivi.

Dal momento che il cane è nella maggior parte dei paesi occidentali – ma non solo, considerata la gentrificazione di ampi strati della popolazione cinese – il pet per eccellenza (“il migliore amico dell’uomo” come viene sovente definito), l’orrore nei confronti di tale pratica non ha tardato a farsi sentire a livello internazionale.
Anno dopo anno,  sempre più persone ingrossano le fila di chi denuncia questa pratica abominevole, chiedendone a gran voce la fine – e spesso, purtroppo, scadendo nel razzismo qualunquista che condanna, per gli usi e costumi di alcun*, un intero popolo.

La denuncia in sé è certamente condivisibile, ma quello che dà adito a tremendi dubbi è il fatto che, tra le persone che levano alte grida e si battono il petto contro questa odiosa pratica, molte – anzi moltissime – sono le stesse che non si fanno problema alcuno a mangiare maiali, agnelli, polli, conigli, mucche, cavalli… insomma, per costoro l’unico valido scrupolo nei confronti della pratica di cibarsi dei corpi di altri animali, è quello in grado di tutelare la vita dei cani.

Will Saletan (giornalista e, per inciso, carnivoro) in un articolo su Slate afferma che, per molte persone “il valore di un animale dipende dal modo in cui viene considerato.  Se lo allevi per la compagnia, allora è un amico. Se lo allevi per mangiarlo, allora è cibo. Questo relativismo è più pericoloso dell’assolutismo dei vegani o dei carnivori convinti. Si può scegliere di astenersi dal mangiar carne perché si è convinti che le capacità mentali degli animali siano troppo simili a quelle degli umani. O di mangiarla perché si pensa che non sia così. In ambedue i casi, si utilizza un criterio di coerenza. Ma se ci si rifiuta di mangiare soltanto la carne degli animali “da compagnia” – trangugiando pancetta e nel contempo affermando che i coreani non possono stufare dalmata – si sta affermando che la “moralità” di un’uccisione dipende dall’abitudine, o addirittura dal capriccio. Il ridicolo della situazione è che fino a pochi anni fa, i cani in Corea non erano considerati “animali da compagnia”. Perciò dal punto di vista del criterio del pet, è perfettamente legittimo che possano essere mangiati.”

In un altro articolo dedicato all’argomento aggiunge: “Gli psichiatri la chiamano “dissonanza cognitiva”. Mastichi un pezzo di pancetta e poi coccoli il tuo cane, rabbrividisci alla vista di un cavallo azzoppato ma continui a masticare il tuo hamburger […] Amiamo gli animali, ma amiamo anche mangiarli e non vogliamo dover scegliere .”

Personalmente, più che dissonanza cognitiva, mi piace definirla malafede. Le motivazioni che rendono i cani meno sacrificabili dei maiali, tanto per fare un esempio, sono ridicole e senza alcun fondamento: la maggior parte delle persone che dice che i maiali non stimolano la stessa empatia dei cani sono quelle che non hanno mai visto un maiale da vicino in vita loro – ma che probabilmente al cinema tifavano per Babe, maialino coraggioso e piangevano copiose lacrime mentre si ingozzavano di panini al prosciutto. Sono quelle persone per cui i vegani sono “estremisti che mettono sullo stesso piano i cani e le zanzare” (piace giocare facile, eh?), e per cui evidentemente la tensione alla coerenza è un valore abdicabile.

E’ questo il motivo per il quale, seppure canara e antispecista, quest’anno sto soffrendo molto meno del massacro di Yulin… o per meglio dire, sto soffrendo come al solito, come ogni giorno nel quale penso a tutti quegli splendidi animali uccisi e divorati per i “piaceri del palato”. Per quanto ami visceralmente i cani, non posso in tutta coscienza sentirmi più addolorata della loro morte rispetto a quella di una mucca, di un maiale o di un pollo, morti delle stesse orribili morti dei cani di Yulin.

Gli animali non umani hanno un proprio valore peculiare che prescinde da quanta empatia riusciamo a provare per loro, da cosa rappresentano per noi, dalla relazione che si viene a creare tra loro e noi. L’empatia ha degli aspetti controversi che non possono essere ignorati: l’empatia può non essere motivante all’azione, può spingere a trattamenti di favore, può dipendere da fattori non essenziali (a volte anche da aspetti secondari quali la percepita “coccolosità”) ed essere manipolata, può essere altamente selettiva, focalizzandosi su quei soggetti che sentiamo a noi più simili o più vicini, ed essere limitata al momento nel quale ci troviamo di fronte ad una particolare situazione, per poi dimenticarcene appena l’evento scatenante si allontana dalla nostra esperienza e percezione.

Etica ed empatia non sono la stessa cosa, anche se per alcune persone la prima è direttamente correlata alla seconda. Ma l’etica ricerca i criteri che consentano all’individuo di gestire adeguatamente la propria libertà nel rispetto di chi ha intorno – non solo però di chi è a noi più simile, o più vicino… Chiunque abbia intorno, mi permetto di aggiungere io.

In assenza di un’etica di questa portata, che richiede una presa di posizione politica su cosa sia il bene che si intende realizzare e che permetta di tradurre in azioni sociali quello che il nostro sentire morale ci suggerisce, che cosa ci scandalizza del mangiar cani?

Il problema “femminista”

ignoranza

A me pare evidente: questo paese ha un problema col femminismo. Ma mica inteso come movimento politico, magari: significherebbe che viene considerato, dai più, come tale. Qui c’è proprio il problema del pronunciare la parola “femminista”.

Cominciamo con un bell’esempio recente. Su Samantha Cristoforetti è stato detto di tutto e di più. Per me la cosa più sbalorditiva rimane questo articolo apparso su La Stampa in digitale, nel blog Obliqua-mente di Gianluca Nicoletti, che vorrebbe essere anche un elogio dell’astronauta italiana. Titolo e sottotitolo dicono già tutto:

 

IL MITO #ASTROSAMANTHA CHE SEPPELLIRA’ BOTOX E TACCO 12
La donna astronauta contro una legione di super femmine costruite sul tavolo chirurgico, la perfetta risposta alle emule di Belen, ma anche al baffo politico e il rogo del reggiseno

Leggo tutto ciò abbastanza costernato, e mi chiedo, tanto per cominciare: ma perché Cristoforetti dovrebbe seppellire qualcun’altra? Perché essere una scienziata di livello mondiale dovrebbe nuocere a supposte super femmine costruite sul tavolo chirurgico? Nicoletti le mette in contrapposizione senza dire il perché. Nell’articolo non c’è traccia del motivo per cui Samantha e Belen dovrebbero essere una contro l’altra: evidentemente è dato per scontato, è ovvio.

Com’è ovvio che una donna che studia e che si fa valere nel mondo della scienza non è – appunto – una donna: da stereotipo qual è (perché contrapposta a un’altra donna-stereotipo, Belen Rodriguez), Samantha è ipercazzuta. Samanta ce l’ha grosso – infatti è nominata ingegnerE, ecco perché è tanto diversa da Belen, che notoriamente invece ha la farfallina.

Farfallina che, sostiene Nicoletti cavalcando i luoghi comuni che evidentemente galoppano molto lontano, è anche lei poco femminile ormai, anzi poco umana: Belen è l’esempio di prodotti umanoidi. Non è più neanche un essere umano.

Ricapitolando, un uomo descrive una supposta lotta per l’esistenza (“seppellire“) tra donne in questo modo: una non-donna mette sottoterra un non-essere umano. Complimenti. Ma come ha fatto? Ecco la spiegazione:

in lei si è riflessa quella parte del paese che non ha mai accettato come unità di misura del successo femminile i centimetri di tacco, ma nemmeno la fierezza dei baffi e il rogo dei reggiseni.

Cioè Samantha è una donna – anche se con un grosso pisellone ed è ingegnere – NON FEMMINISTA. Non corrisponde allo stereotipo della femminista: non ha i baffi (?) e non brucia il reggiseno. Ecco perché ha battuto la farfallina, dice Nicoletti.

Ora, il problema sociale che articoli come questo sollevano non è certo la cultura di genere di Nicoletti, che si presenta da sola e non vale la pena commentare. Il problema è che questa roba ha raccolto, tanto per fare un esempio, più di quindicimila condivisioni su un social network. Cioè è un buon esempio di quello che pensano lettori e lettrici – dato il giornale, dato il blog, dato l’autore – di cultura quantomeno media in Italia.

Di questo si ha riscontro anche nella chiacchiera quotidiana. Qualunque femminista che non si vergogna di professarsi tale si scontra con persone che a quella parola si sentono in dovere di sottolineare che si tratta di qualcosa di profondamente negativo. Racconta Lola sul suo sempre ottimo “Ci riprovo”:

Ieri ho parlato un po’ con un uomo dell’età di mio padre. Ad un certo punto gli ho detto che spesso usa un linguaggio fortemente sessista, e che quando ride di me che glielo faccio notare o si lancia in ardite spiegazioni sul perché è possibile dare della “troia” ad una donna che non ci piace mi manda in bestia.
“Mi sembri una di quelle…” “Sono una di quelle”. E da qui due ore a parlare. Quello che ho capito di tutto quel discorso è che la cosa fondamentale per poter permettere ad una femminista di parlare è che lei non si dichiari mai tale e che il femminismo non venga mai nominato.

Puoi dire quello che vuoi – basta che tu non sia FEMMINISTA. Puoi arrivare a tutti i traguardi che vuoi – basta che tu lo faccia NON DA FEMMINISTA.

mentre-cucinaEvidentemente, in questo caso a me “ha detto culo”: in tutto il mondo io sarei un feminist, e mica me ne vergogno. Però in Italia io sono un antisessista, perché se mi dicessi “femminista” tantissimi uomini riderebbero a crepapelle pensando che io sia parecchio strano o molto checca (il che non sarebbe un male di per sé, ma non corrisponderebbe nemmeno a verità), e fior di donne si offenderebbero – a parte ridere di gusto forti di una loro supposta superiorità (anche questo, per quanto incredibile, mi è successo). Tutto ciò, oltre a confermare in vario modo la legge di Lewis (“I commenti a qualsiasi articolo sul femminismo giustificano il femminismo”), dimostra che qui in Italia in molti e molte hanno dei grossi problemi con questa parola. Ma grossi, eh.

Per esempio, abbiamo quell* che credono a uno o più dei tanti luoghi comuni sulle femministe. Abbiamo anche un gruppo di musiciste che porta avanti un progetto musicale “a favore delle donne vittime di violenza”, dichiarando a destra e manca che non sono femministe. Abbiamo gruppi di donne che non hanno problemi a dire che loro sono più femministe di altre. (Fuori, intanto, non è che vada tanto meglio, se ci sono media internazionali che si divertono a giocare con la parola “femminista”).

Uomini e donne che, semplicemente, non hanno idea di cosa significhi femminista. Hanno il grosso problema di non poter accettare che un/a femminista è, come da definizione, “una persona che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica tra i sessi”. Perché?

Da una parte, molti e molte credono di essere “una persona che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica tra i sessi”, MA non direbbero mai “tra i sessi”, perché a sentire loro non hanno importanza: esistono solo “le persone”. Cioè esistono solo le loro capacità, indipendentemente dai loro corpi; e infatti la stessa Cristoforetti non è femminista, dato che disse, poco tempo fa, che

per me non c’è differenza tra maschi e femmine. L’unica differenza è tra chi è competente e chi, invece, non lo è.

Tanto per dire: che milioni di donne non siano nelle condizioni minime per avere o usare le loro competenze, e che milioni di uomini siano automaticamente socialmente avvantaggiati da tutto ciò, non sembra essere per lei di grande importanza. Complimenti anche a lei.

D’altra parte, in molt* credono che quella “uguaglianza sociale, politica ed economica” sia già raggiunta, a forza di leggi paritarie, quote rosa, divorzi vantaggiosi e altre fantasiose amenità legislative che dimostrerebbero chissà cosa – rendendosi colpevoli, almeno, di ignoranza e ipocrisia. I dati sulla disparità di genere, sull’attivo e funzionante patriarcato discriminante, ci sono, e non sarà certo una legge a cambiarli a breve termine.

Un problema culturale? Direi proprio di sì. Che comincia dall’alto:

Fino al 2000 le studiose femministe hanno fatto ricerca e insegnato ‘sotto mentite spoglie’, prive di nome, impossibilitate a esibire la propria carta d’identità. Gli studi delle donne li abbiamo dovuti non solo inventare, ma anche continuare a reinventare un anno dopo l’altro, come se ogni volta fosse stato necessario presentare di nuovo i documenti per dimostrare la validità di nome, data di nascita e domicilio di residenza.
Prima che si chiamassero «di genere», per indicare molte altre cose, oppure anche soltanto essere utilizzati come sinonimo dall’apparenza ‘perbene’, gli studi delle donne li abbiamo insegnati en travesti. Ciascuna di noi agiva come un agente segreto mascherato dentro, dietro e sotto un’altra denominazione ufficiale; la quale poteva essere: letteratura italiana, economia politica, antropologia, sociologia, storia moderna, filosofia medievale o storia della scienza. Il documento d’identità legalmente autorizzato per la pratica didattica serviva a coprire i riferimenti a oscuri e disdicevoli commerci sessuali e politici che avrebbero fatto un’oscena irruzione se si fosse usato il loro vero nome.

E pure dal basso:

Scuotono la testa con decisione non appena sentono il termine femminismo. Si stringono forte al proprio compagno mentre dichiarano di essere femminili, non femministe, come a volerlo rassicurare. Se interrogate sul significato del termine affermano che: «Non sono superiore al mio uomo, ognuno ha il proprio ruolo e io sono una donna».
A dirlo sono in tante, tantissime, forse milioni di donne. Sono laureate, casalinghe, giovanissime e meno giovani, occupate, disoccupate o inoccupate, ma anche donne in carriera e di successo. Più che il titolo di studio, l’età o il tipo di lavoro svolto, la differenza lo fa l’ambiente sociale che frequentano, ancora molto maschilista e misogino e che loro, in un modo o nell’altro, avallano.

Aggiungendoci anche qualche vero e proprio delirio:

oggi, guadagnati e fatti salvi quei diritti civili grazie a sacrosante battaglie di idee (cito una campionessa per tutte: Simone de Beauvoir), è ormai antistorico e anacronistico continuare a procedere nella stessa direzione, cercare un accanimento antifemminile che di fatto non esiste e non è mai esistito, inventarsi una persecuzione sessuale che di fatto non esiste e non è mai esistita (a proposito: ma chi crede davvero al femminicidio?), perpetuare l’idea di una presunta contrapposizione sessista che da tempo dovrebbe [avere, ndr] fatto il suo tempo.

In tutto ciò, non c’è davvero di che preoccuparsi per i maschilisti d’Italia. Finché questi problemi di cultura – io preferisco dire di ignoranza, ma so’ io, non ci fate caso – continueranno ad averceli tanti uomini e tante donne, di femminista in giro ci sarà sempre ben poco.

(Grazie a Lola e a Chiara per l’ispirazione)

Per Riccardo

Louis_XIV_of_FranceE’ finita: Riccardo Venturi, autore solitario di un preziosissimo blog, ha finito la sua assurda avventura processuale nel migliore dei modi: assolto perché il fatto non sussiste.

Quale fatto?

Per avere infranto gli articoli 278 e 99 del codice penale; il 99 è la recidiva, il 278 è il cosiddetto Attentato all’onore e al prestigio del Capo dello Stato. Il tutto è dovuto a un articolo da me scritto su questo blog sabato 20 aprile 2013 e intitolato Sfrizzola il vilipendulo.

Un classico reato d’opinione – che tra l’altro non dovrebbe neanche esistere. Eppure, esiste, giustificato dall’errore di confondere l’opinione con l’offesa. “Questo reato”, ci direbbero alcun*, “serve a tutelarci dalle calunnie, dalle diffamazioni” ma chissà perché è sempre usato per colpire chi esprime pareri contrari al governo e ai/lle loro rappresentanti e mai per impedire che pensieri discriminanti vengano alimentati, vedi le manifestazioni delle sentinelle – la cui violenza è fatta passare come opinione.

Ma si sa, viviamo in un mondo dove le parole si svuotano e si riempiono a piacimento dei capi e dei potenti. Il bispensiero orwelliano è tra noi. Questo reato, credo sia chiaro a tutt*, è un avviso, un’intimidazione, un modo come un altro che lo stato ha per ricordare a noi tutt* che alle autorità va garantito il rispetto, un po’ come fanno i/le professori/resse a scuola quando intimoriscono/ricattano i/le alunn* per assicurarsi un “rispetto” che è solo e soltanto paura. Se non si accetta la gerarchia e lo stato/padre/padrone, allora si subiscono le conseguenze che, “se tutto va bene”, si risolvono con una sentenza di assoluzione dopo almeno un paio di anni di ansia e angoscia per un processo interminabile e se va male si tramutano in una condanna. Chiamatela, se riuscite, democrazia.

Per Riccardo è valsa questa prima ipotesi, con nostra grande gioia, ma questo lungo percorso giudiziario ha avuto dei costi che non possono essere trascurati. Siamo qui, dunque, non solo per rallegrarci dell’assoluzione di Riccardo ma anche per dare inizio, come collettivo Intersezioni assieme ad altr* compagn*, a una raccolta fondi per sostenere Riccardo nelle spese processuali che ha affrontato. 

Su Paypal.com inviate quanto volete all’indirizzo aprilsonorganizer(at)anche.no

Paralipomeni di etica canina

2013-12-13-0750

* Il post che segue scaturisce dalla lettura di questo articolo. Grazie a Gabri Disordine per avermelo fatto notare!

Un dilemma etico di proporzioni inaudite ha luogo ogni giorno nel profondo dell’animo canino, e suona più o meno così: “Posso io lasciarmi alle spalle l’abietta alimentazione carnivora specie-specifica che mi contraddistingue, facendomi blandire da quelle crocchettine vegane con contorno di legumi così profumate ed invitanti, o devo io esprimere malcelato disprezzo di fronte ad una proposta alimentare che snatura in maniera così evidente le mie caratteristiche tassonomiche?

Del resto, non sono forse io un discendente diretto del nobile lupo? Certo, dicono che da allora le cose siano un po’ cambiate: non solo esistono cani di tutte le taglie e forme possibili, ma millenni al fianco dei bipedi chiassosi ci hanno fatto apprezzare altre forme e sapori; cereali e verdura cotti ed anche i legumi non sono proprio male,  la frutta dolce e succosa d’estate è così buona! Biscotti, pane, pasta e riso – ahhh, quanto vorrei arrivare allo scaffale alto della dispensa… e le patatine fritte… beh, sì, forse le patatine fritte sono un azzardo, ma quando capita, che golosità!

Non so, a pensarci bene questa convivenza va ben soppesata, ha i suoi pro e i suoi contro: il divano di casa figura sicuramente tra i pro, guinzaglio e collare un po’ meno. Ancor meno apprezzo di andare in quel posto dove il bipede in bianco mi mette su un tavolo lucido che mi spaventa, sul quale a volte mi addormento per svegliarmi dolorante e intontito: ma pare che siamo troppi su questa terra, anche se nessuno ci ha mai chiesto che ne pensiamo in merito. Non posso mangiare quando voglio (sempre), ma non mi devo più preoccupare di cosa mangerò domani; insomma, la vita in comune con questa scimmia schizofrenica richiede compromessi, e io con l’ottimismo che in quanto cane mi contraddistingue, ho imparato a gestirla in maniera egregia.

La natura, quella primigenia, un po’ me la sono dimenticata a dire il vero: mi piace tanto correre sfrenatamente nel bosco, ma allo stesso modo abbandonarmi stanco e pasciuto di fronte alla stufa la sera. Se piove, guardo fuori dalla porta e spesso e volentieri, mi giro e torno sul tappeto (ahhh, che bello il tappeto, lode a chi lo ha inventato!).

Insomma, non so: davvero il problema sta in quello che ho nel piatto? Che poi dipendesse da me, quando mai mangerei merluzzo? Di cani pescatori ancora non ne ho conosciuti! Certo  è che, potendo scegliere, non mangerei di sicuro quelle palline puzzolenti di scarti scadenti, che come cortigiani ottocenteschi, sono in realtà laide e fetide ma piene di profumo per dissimularlo!

Su una cosa non transigo: il mio piatto deve essere pieno: rispettata questa condizione credo di poter affermare che, insomma, della carne posso anche farne a meno (della pancia piena giammai!).

Sono altre le mie preoccupazioni: quando vedo altri cani imprigionati a catena, picchiati, spaventati, e dimenticati in un angolo. Quando in strada devo stare tutto il tempo legato, senza potermi muovere come più mi aggrada, e le persone intorno gridano e si spostano al mio passare; quando il bipede esce e mi lascia da solo, ore ed ore di nulla condito da noia che il mio animo di cane non può tollerare. Ma basta un amico cane con cui giocare e arrotolarsi vicini la sera, del tempo insieme al bipede per farmi accarezzare… passeggiate interminabili d’estate, magari condite da qualche nuotata, un cuscino caldo d’inverno quando fuori piove e fa freddo. Certo sì, lo so che non è “naturale”, di sicuro morire di stenti lo è… ma davvero, potendo, è quello che vorrei?

Il bipede ha mille ambizioni, si immagina come un dio, ma quando pensa ai cani ci vuole ancora lupi: forse rimpiange la sua animalità perduta, chissà! Io per me so bene quel che voglio, e sono anche abile e capace di ottenerlo… senza indugio perciò divorerò quella scodella di lenticchie, o quel riso profumato con le verdure… Al solo pensiero ho l’acquolina in bocca, e non rimpiango carcasse e interiora.

Solo su una cosa non transigo: ora mangio ma dopo… c’è una pancia da grattare!”

La stalla sexy

calendario-fromgirls-2012-settembre

Uno degli aspetti della cultura patriarcale più difficili da affrontare e gestire, sul piano politico come nel personale, è quello della pervasività dello sguardo maschile reificante. Vorrei però subito sgombrare il campo dagli equivoci, sottolineando come tale modo di guardare – che si impone e prevarica l’esperienza soggettiva del corpo vivente – non appartenga solo a quegli individui identificati in quanto ‘maschi biologici’; non è, d’altro canto, difficile notare le tragiche analogie esistenti in questo specifico modo di guardare le donne e gli animali non umani (in particolare, ma non solo, di sesso femminile).

Partiamo da questo articolo – ma soprattutto dal servizio video che ne è all’origine. Nel pezzo in questione sono ben evidenziati molti aspetti critici – i doppi sensi usati in maniera assolutamente strumentale e consapevole (il servizio si intitola non a caso “La vacca più bella del Trentino”, non “la mucca più bella del Trentino”), i movimenti di macchina dal basso verso l’alto, e, dulcis in fundo, affermazioni assurde al limite dell’imbarazzante (“anche in stalla eleganza e sensualità non guastano”?!?!?!).

L’intenzione è chiara: le due vacche – quella umana agghindata come una coniglietta (l’abitino corto e sberluccicante pare più in stile sexy oktoberfest che tradizionale trentino!) e quella non umana, oggetto della “competizione di bellezza” (è quasi esilarante, se non fosse tragica, la capacità della cultura patriarcale di rendere fruibili i corpi, in primis quelli femminili, umani e non, che si trovano perennemente sotto alla lente di un desiderio coatto) –  sono offerte in maniera assolutamente simmetrica sull’altare del consumo  maschile (chi trovasse azzardato il parallelo in chiave sensuale donna-mucca, può vederlo messo in opera in direzione opposta ma simmetrica sulla pagina facebook di un giornale di settore che s’intitola Cowsmopolitan: le mammelle lucide e le code spazzolate e lucenti delle mucche offerte allo sguardo ricordano in maniera esplicita analoghe parti di corpi femminili!)

Un consumo che parte proprio dagli occhi, che scelgono di guardare due esseri senzienti, donna e mucca, nell’unico valore a loro riconosciuto di corpi consumabili. Non interessa la loro sensualità, nel senso di capacità sensoriale e sensibilità, ma solo quella che definisce il compiacimento, visivo prima e fisico poi, di un godimento personale ed egoistico.

E’ d’altro canto necessario spendere alcune parole sull’altra protagonista del video, la mucca Jolly, la quale, come candidamente e tragicamente afferma la sua padrona (poiché Jolly non è che una schiava, dopotutto) “ha 5 anni ed è alla terza lattazione”. Questa affermazione, resa maggiormente intelligibile, significa tante cose: partendo dal dato di fatto che una mucca può vivere 20 anni, che anche se “da latte” viene macellata intorno ai 5 anni (appena la produzione comincia a calare), che la pubertà bovina insorge intorno all’anno e, soprattutto, che non c’è produzione senza riproduzione, possiamo tradurre la frase “innocente” così: Jolly ha l’età equivalente di una ragazza di vent’anni, che appena entrata nella pubertà è stata stuprata (da un umano che l’ha inseminata artificialmente) tre volte, ha sostenuto tre gravidanze e tre parti, ha già vissuto tre volte la disperazione di vedersi portare via i propri figli dopo poche ore dalla loro nascita, e… sta per morire.

Tutto questo orrore spiegato con tranquillità e naturalezza da un’altra femmina, umana, che aderisce in maniera talmente acritica – e anzi, complice –  al diktat dello sguardo maschile reificante, da applicarlo con assoluta naturalezza su quella “vacca” a lei tanto simile perché a disposizione dell’uso e consumo maschile  (ma anche nella propria realtà  – misconosciuta e negata – di essere senziente, capace di generare –  ma non per questo costretta a farlo –  di provare attaccamento per la propria prole  – e pertanto dolore atroce nel momento in cui ne venga crudelmente separata – ma anche di autodeterminarsi, in maniera unica ma sempre valida).

Che lo sguardo maschile non sia una prerogativa dei maschi biologici è evidente nel video che pubblichiamo qui di seguito, una pubblicità di vini friulani destinata al mercato russo che ha sollevato diverse polemiche.

La regista, Iris Brosch, pare sia “conosciuta a livello internazionale per aver restituito dignità e forza all’immagine femminile nella fotografia”. Almeno così dicono, questo è il video:

Dove sarebbe qui la millantata “forza delle donne” (lasciamo perdere la dignità!)? A corpi patinati di baccanti in atteggiamenti saffici che non fanno nulla se non offrirsi al consumo altrui, risulta difficile riconoscere tale qualità.

Qualità riconoscibile in altri progetti, che raccontano storie di forza e coraggio di fronte alla sofferenza e all’oppressione, e che restituiscono  soggettività ed agency ad individui che ne sono stati violentemente privati: quelli di Jo-Anne McArthur – che ha realizzato WeAnimals o più recentemente UnboundProject, nei quali esplora rispettivamente il complicato rapporto tra animali umani e non umani e celebra l’impegno delle donne nell’attivismo antispecista – o di Carrie Mae Weems  – esemplare in questo senso il progetto From here I saw what happened and I cried nel quale viene smascherato il potere dello sguardo bianco (patriarcale e proprietario) di rendere inferiori e consumabili i corpi degli schiavi di colore, allo scopo di giustificarsi e autoassolversi eticamente di una pratica tanto abominevole.

Come vivete le vostre esistenze sotto la lente maschile? La subite o ne siete (consapevolmente o meno) complici? Riuscite a riconoscere quello sguardo che tutto divora nei vostri occhi?

La fine dell’università e gli studi di genere. Cambia qualcosa per le donne?

Riceviamo da Paola Di Cori e volentieri pubblichiamo.*

zoe_leonard_mouth_open_teeth_showing_th

Sul fascicolo di “Internazionale” di questa settimana (22/28 maggio 2015) un articolo di Terry Eagleton, tradotto dal Chronicle of Higher Education e intitolato La fine dell’università eleva al cielo alti lai per la distruzione dei saperi umanistici. Il contributo di Eagleton – noto critico letterario marxista, di famiglia operaia, con studi a Oxford e Cambridge negli anni ’60 e ’70, noto per le prese di posizioni polemiche nei confronti delle correnti sperimentali più audaci della critica contemporanea – è pubblicato nello stesso numero della rivista il cui piatto forte viene annunciato dalla copertina che ritrae il disegno di un irsuto personaggio dalla cui barba fuoriescono omini neri armati di fucili, con il titolo “Lo stratega del terrore”. Il servizio giornalistico, tradotto dallo “Spiegel”, si interroga infatti sul disegno politico che sta dietro alla vittoriosa marcia dei jihadisti in Siria.

La pubblicazione di entrambi gli articoli nello stesso numero, forse  semplice coincidenza casuale, è una tentazione a immaginare una affinità esistente tra i due: come le truppe del Califfato stanno facendo a Palmira – mediante l’invasione violenta, le decapitazioni dei prigionieri e il proposito di radere al suolo quei monumenti che un tempo l’avevano resa celebre e i cui splendidi resti forse hanno vita breve – così agiscono i nuovi manager che ormai governano le università di tutto il mondo, trasformando quelli che un tempo erano luoghi privilegiati dei saperi “alti” in sedi decentrate affinché le élite prossimo-future acquisiscano le nuove competenze necessarie a consolidare l’egemonia della finanza internazionale. Gli antichi ideali di elevazione sociale, raffinatezza culturale, etica pubblica, vengono velocemente spazzati via dalla brutalità degli attuali responsabili di quell’insieme di pratiche informatiche, amministrazione e gestione burocratica che hanno trasformato le università in sedi deputate all’acquisizione di conoscenze di carattere tecnico-scientifico, dalle quali i saperi umanistici stanno scomparendo o hanno pochi anni di vita davanti. Ridotti drasticamente gli studi classici, tagliati i fondi ai settori letterari, filosofici, artistici in genere, depauperate le scienze sociali, che giacciono in stato di indigenza estrema, una nuova barbarie sta velocemente prendendo piede negli atenei. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: le ultime generazioni che escono con titoli ottenuti mediante sistemi di valutazione più indicati per misurare costi e ricavi di un’azienda che una acquisita maturità scientifica, intellettuale e culturale, sono ormai avviate verso forme di desolante  analfabetismo crescente.

Sono argomentazioni che – anticipate una ventina di anni fa da un grande libro del compianto Bill Readings, The University in Ruins (Harvard University Press) – da tempo risuonano di qua e di là dell’Atlantico negli interventi pubblici di accademici e studiosi di provenienze diverse, negli inserti di cultura dei quotidiani, riviste on-line e blog, destinati a denunciare gli effetti deleteri della riduzione di fondi e l’inarrestabile declino nella qualità della formazione scolastica e universitaria.

Difficile non concordare con buona parte di questi contributi, che  da prospettive svariate si interrogano sul destino imminente degli studi umanistici, e sulla qualità scadente della formazione avanzata in generale. Tuttavia, queste lamentazioni sono spesso scontate e purtroppo inevitabilmente inefficaci; come in parte anche le tesi sostenute da Eagleton, condite di un brillante stile Oxbridge ma in fondo poco saporite. Se poi guardiamo a quel che accade nel nostro paese, è facile constatare che l’accelerazione dei processi degenerativi in atto ha conseguenze ancora più gravi che altrove. In parte perché si finge di assistere a un disastro giunto all’improvviso, come quello del Vajont o il terremoto dell’Aquila. Non c’erano forse state tante avvisaglie negli ultimi venti o trent’anni? Nessuno dei sapientoni che soloneggiano dalle pagine del “Sole-24 ore”, del “Corriere” e di “Repubblica” si era mai accorto, se non per commentarli scuotendo la testa con qualche amico, dei baratri di formazione dei nostri laureati rispetto a quelli del resto d’Europa, delle decrepite strutture entro cui sono costretti a formarsi gli studenti?

Eppure l’imminente catastrofe era facilmente prevedibile all’indomani della riforma Berlinguer alla fine degli anni ’90, quando l’introduzione del famigerato percorso “3+2” accelerò l’inarrestabile crollo, i cui disastri furono subito sotto gli occhi di tutti. Ma nessuno protestò; non ci furono levate di scudo in massa da parte dei docenti più autorevoli, dei molti notissimi ‘liberi pensatori’ e intellettuali che ancora riempivano i senati accademici. Com’è consuetudine da queste parti del globo, si cercò di trarre vantaggi individuali e personali dalle pessime istruzioni ministeriali che si ammucchiavano sulle scrivanie dei presidi; soltanto l’improvviso successo nel 2007, del libro “La casta”, scritto da due giornalisti, sembrò rendere visibile la miserabile condizione dell’accademia italiana; tutti ne erano al corrente da tempo, ma nessuno si era preso il disturbo di denunciarla. E ora il terremoto annunciato ha scosso fin dalle fondamenta edifici secolari; una cupa rassegnazione è la paralizzante risposta a tanto disastro, mentre i giovani benestanti fuggono oltre i confini.
In questo apocalittico quadro di distruzione e povertà crescente, ha senso chiedersi cosa succederà agli studi di genere? Anche una modesta osservatrice si rende conto che non sono in molte a porsi il problema; e questo è forse il lato più malinconico dell’intera questione. Tuttavia, per quanto possa sembrare una domanda superflua le risposte sono forse meno scontate e deprimenti di quanto si possa pensare.

Per un verso, i cambiamenti non potranno incidere più che tanto in una situazione dai contorni sfuggenti a ogni tentativo di tracciarne il profilo, e il cui statuto disciplinare è incerto per definizione. Inoltre, a differenza del resto dell’Europa e del mondo, gli studi di genere hanno tradizionalmente goduto nel Belpaese di una esistenza malaticcia, frammentata, dispersa e disomogenea; fatta di qualche insegnamento di prima alfabetizzazione, con scarsa incidenza dei medesimi sull’insieme del piano formativo individuale; in breve: sono studi che hanno sempre goduto di una identità instabile. Alcune ottime esperienze qualificate – dottorati di storia delle donne e letterature a Napoli e a Roma, qualche convegno di settore, molte pubblicazioni di buon livello, associazioni con centinaia di iscritte, tante laureate e dottorate in questi temi nei decenni passati – si sono rivelate purtroppo di corto respiro, “senza sbocco al mare”, sia per il taglio dei fondi ma ancor di più per l’assenza di una specifica strategia politica concertata a livello nazionale e in collaborazione effettiva con la rete europea; a questo c’è da aggiungere un generalizzato disinteresse generale: i gruppi e le associazioni influenti del femminismo li hanno sempre guardati di malocchio; le docenti provenienti dai movimenti degli anni ’70 hanno spesso preferito prendere le distanze, aderire occasionalmente e con cautela a questa o quella iniziativa, senza mai impegnarsi in un confronto serio con le gerarchie accademiche. Più spesso si è trattato di percorsi solitari, talvolta veri e propri esercizi semi-clandestini di militanza, con pochissime sedi dove gli studi di genere risultano effettivamente inseriti nei programmi, uno scarso numero di dottorati attivi e – ancor più grave – con un atteggiamento radicato di estraneità, spesso ostentato distacco,  da parte di docenti che si richiamano al femminismo e che grazie ad esso hanno anche fatto carriera.

Sono state soprattutto le tante situazioni esterne all’università ad aver garantito la sopravvivenza e qualche briciolo di trasmissibilità delle esperienze e delle conoscenze relative alla condizione delle donne in Italia: centri delle donne, fondazioni, incontri e seminari estivi e invernali, riviste, pagine di quotidiani, blog e reti sociali, libri e librerie, case editrici, premi, dibattiti e laboratori, senza dimenticare naturalmente le reti sociali; ecc.; in poche parole, la società civile femminile attiva. Coloro che sono inserite stabilmente nelle istituzioni hanno sempre preferito assecondare lo status quo, ‘andare in trasferta’ presso le molte sedi del femminismo esterno invece che impegnarsi all’interno. Un intenso scambio tra dentro e fuori le università ha perciò sostituito in Italia insegnamenti istituzionali di base e corsi formativi modellati sugli esempi migliori a livello europeo (Utrecht, Gran Bretagna, Francia, ecc.).

Come noto, tranne poche eccezioni, non c’è mai stato nel nostro paese un aperto interesse da parte delle donne appartenenti ai gradi alti della docenza per inserire stabilmente gli studi di genere nei curricola, costruire solidi percorsi formativi di base, ingaggiare una negoziazione di breve e lungo periodo con l’establishment accademico. In questo, le italiane presenti nelle università hanno, abbiamo, lavorato male, poco, e peggio di come hanno fatto le altre europee, per non dire dell’impegno e degli esiti straordinari ottenuti in questo campo da parte delle donne attive in molti paesi del cosiddetto terzo mondo.
Di conseguenza, è un fatto che la quasi totalità delle giovani e meno giovani femministe inserite nelle università e nelle scuole, comprese docenti precarie e a tempo parziale, supplenti, volontarie, – oltre che attraverso la rete di centri esterna all’università – si sono formate fuori d’Italia, per poi proseguire con aggiornamenti su testi prevalentemente scritti da autrici non italiane. In linea con i tagli di fondi dei governi degli ultimi anni, e le pessime ministre che si sono succedute a presiedere e pianificare l’istruzione scolastica e universitaria, gli scarsi dottorati di un tempo non sono stati rifinanziati, al pari di quelli di molti altri settori; non più riattivati corsi e programmi insegnati anni fa; i seminari intorno ai ‘gender studies’ (inutile neanche menzionare il tristo destino di qualche rara sperimentazione LGBQT) si contano ormai sulle dita di una sola mano; i convegni sono rari o relativi a tematiche specialistiche. Palmira sei tutte noi, viene quasi da dire.

Non tutto il male viene per nuocere

Questo malinconico quadro di rovine fumanti non risponde tuttavia alla situazione reale. La quale versa certamente in acque melmose, ma non peggiori o diverse da quanto accadeva negli anni ’90 o nel decennio successivo. A differenza di quanto si lamenta in altri contesti, in Italia la situazione non è molto diversa da quella di un tempo. Sono in molte le docenti che ormai hanno incorporato nei propri corsi, ricerche e attività professionali, tematiche nate e cresciute grazie al luppo nei paesi di lingua inglese dei “gender studies” (la denominazione è sempre più imprecisa, ma utile, almeno in questo contesto); e in virtù della libertà di insegnare ciò che si vuole, ancora diffusa tra le pieghe delle discipline umanistiche negli italici atenei, anche se sono di fatto inesistenti sono curricula specifici ed è  risibile numero di posti di dottorato che premia questi studi, capita di veder sorgere qua e là verdi germogli “di genere”, la cui crescita ulteriore viene demandata alla buona volontà e alle risorse economiche delle giovani leve. Esistono di fatto in Italia un gran numero di insegnamenti dove le donne e le differenze sessuali sono al centro dei programmi approvati dai dipartimenti, talvolta anche insegnati da uomini; ma spesso si ha la sensazione di muoversi sul crinale di qualcosa che non è ben definito, inserito tra tematiche solo parzialmente legittime, con pochi crediti attribuiti. ‘Curricolabile’ solo in alcune circostanze e non in altre, la sua natura è piuttosto quella di abitare un territorio  pericolosamente ‘labile’. Come prima, meglio di prima, con qualche differenza. Ciò che prima era invisibile e nascosto, ora si vede e si sente, ma è povero e inadeguato.

Anche se questo quadretto assai nero e buio non invita a sperare in meglio, una esperienza come quella dei “gender studies all’italiana” potrebbe offrire qualche soluzione positiva. Tradizionalmente, si è detto, essi esistono fuori dai programmi, in numero scarso, sparsi, scollegati. In questo si manifesta coerenza con l’insieme della accademia nostrana, in particolare nel caso delle discipline umanistiche; basta pensare a quanto l’aggettivo ‘umano’, attaccato alle scienze abbia spesso in Italia una fisionomia incerta; al punto che certe volte viene scambiato con ‘sociale’ o utilizzato come fossero sinonimi. Per quanto sia assai difficile immaginare nel breve periodo un rovesciamento di segno – sentieri fioriti sullo sfondo di mari azzurri dove tuffarsi allegramente nella bella stagione – si potrebbero anche sfruttare alcuni lati positivi e utilizzare con profitto qualche ricchezza nascosta. Difficile immaginare che le italiche università mettano in poco tempo la testa a posto, che le subalternità femminili all’establishment si capovolgano per costituirsi in bellicose avanguardie resistenti, e nel breve giro di qualche mese di pragmatismo ‘renziano’ siano eliminati corruzioni, sprovvedutezze, superficialità, familismi, cortigianerie – unitamente alla sparizione di quell’egemonico, immutabile, odioso, violento stile patriarcale e paternalistico che continua a essere la nota prevalente nei nostri atenei.

Tuttavia, l’esperienza di un lavorio incessante tra il dentro e il fuori – tra il mondo reale esterno alle aule e ai dipartimenti da un lato, e i saperi accumulati in alcuni decenni in nome del femminismo dall’altro; tra pratiche politiche antisessiste e antirazziste, e le vecchie istituzioni che nel tentativo di rinnovarsi rimangono implacabilmente uguali o peggio di prima – potrebbe costituire un buon esempio anche per l’insieme dell’università, e non solo per i corsi di gender studies. Se le facoltà umanistiche – dove questi studi e chi li pratica sono stati maggiormente presenti – si sgretolano, ed è impossibile ricostruirli con risorse interne, forse qualche boccata d’ossigeno potrebbe venire attingendo alle risorse esterne, questa volta rovesciando le direzioni di marcia. Sono esigenze molto sentite da gran parte dei settori scientifici e delle scienze sociali nel loro insieme, quelle dirette ad avviare un rapporto sinergetico con centri di ricerca, istituzioni, associazioni, italiani e non italiani, esterni alle università; queste ultime si trovano  crudelmente imprigionate da burocrazie soffocanti, indifese e impotenti a scalfire la salda impalcatura di paralizzanti interessi corporativi che le avvolge.

Forse è giunto il momento di cominciare a pensare ai tanti modi con cui, per esempio, lo strumento interdisciplinare – su cui gli studi delle donne, quelli di genere ed LGBTQ si sono sviluppati – potrebbe trasformarsi in una strategia di lavoro trasversale: tra istituzioni accademiche e mondo esterno alle università; tra settori della conoscenza chiusi in autoritratti monocolori e il resto del mondo; tra lingue diverse e non solo in dialogo esclusivo con l’inglese; tra donne e uomini intesi come esseri percorsi da una molteplicità di tensioni e pulsioni identitarie diverse, invece che considerati come riflesso di sessualità naturali prestabilite. La proposta di pratiche conoscitive e politiche entre-deux potrebbe contribuire intanto allo svecchiamento del femminismo italiano; e chissà, forse anche l’università nel suo insieme sarebbe in grado di usufruirne ed emettere qualche segnale di vita. La conclamata interdisciplinarietà – per non parlare della comparazione, vera e propria araba fenicie della ricerca- che per l’insieme degli insegnamenti impartiti negli atenei italiani continua a rappresentare un impossibile miraggio ma anche uno dei problemi più assillanti, è una via obbligata da sempre percorsa dagli studi di genere e dai suoi ancor più sfortunati compagni LGBQT; uno strumento indispensabile di crescita intellettuale e di militanza politica, spesso mortificata dalle ansie di legittimazione istituzionale che hanno ingessato tante pratiche di genere interne all’accademia.
Paradossalmente, ciò che per tanto tempo ha costituito il punto debole dei gender studies all’italiana, è forse una risorsa ancora da sfruttare a fondo. Sarebbe possibile avviare esperienze a metà strada tra università e mondo esterno – peraltro già sperimentate lungo gli anni, e molte ancora in vigore – purchè siano garantite alcune condizioni: una maggiore disponibilità effettiva da parte di chi occupa posizioni privilegiate e ha accumulato conoscenze e pratiche; la proposta di obiettivi politici mirati, meno settari e ideologici di quelli che hanno dominato nei decenni trascorsi; un coinvolgimento comune effettivo nella costruzione di percorsi formativi.

E’ un dato di fatto che buona parte dei temi ‘caldi’ che hanno animato il dibattito femminista – a livello teorico e di ricerca – anche se avviati da qualcuna inquadrata nelle istituzioni, pur rimasti ai margini di più roboanti argomenti, si sono sviluppati  prevalentemente fuori dalle università e sono stati promossi da esponenti di quella società civile femminile attiva, o per iniziativa di giovani che studiano e lavorano fuori d’Italia: da quello intorno alla trasformazione (dissoluzione? evaporazione?) della parola “gender” e alle mobilitazioni per frenare gli attacchi clerico-patriarcali intorno a una presunta “teoria del gender”, fino alle prospettive riguardanti l’intersezionalità; dalle tante manifestazioni relative alla galassia “queer” – mostre, convegni, incontri, collane editoriali, ricerche; tutte iniziative rigorosamente extra-murarie – alle questioni divenute drammaticamente attuali legate al ruolo e rappresentazione delle donne nei più recenti fronti di guerra in Asia e medio-Oriente; alle migrazioni e al razzismo. Se la marginalità e la carenza di risorse materiali soffoca progettualità ed energie di chi sta fuori, dentro le università i saperi legati agli studi di genere si sbriciolano, e i soggetti che li avevano coltivati e cresciuti tornano all’invisibilità. Per continuare a svilupparsi, agli uni e agli altri è indispensabile rendere più dinamici i passaggi tra dentro e fuori, capire che in tempi di crisi è vantaggioso rafforzare le alleanze con situazioni e luoghi di sperimentazioni vitali; laddove sia possibile, conviene infatti da entrambe le parti: da un lato, attenuare rigidità e sbarramenti in nome di improbabili ideali di scientificità; dall’altro, pretendere l’adesione a formule politiche invecchiate, fantasiose e illusorie.
Sopravvivere a stento tra le macerie, o continuare faticosamente a praticare esperienze marginali di invenzione?

(Con ringraziamenti a Francesca, Marilena, Roberta.)