Quando gli avvoltoi volano su Battistini

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Non capita spesso di girare il chiavistello nella porta di casa e vedere gli avvoltoi. A pensarci bene accade poco, molto poco. Per vederli, però, non mi è servito alzare gli occhi al cielo. Erano tutti per strada a urlare. Diciamo che accade un po’ più spesso, se hanno la faccia di tutti i peggiori rigurgiti nazionalpopolari e dell’estrema destra. Tutti riuniti in una manifestazione, apolitica nella stessa maniera in cui possono esserlo gli enfatici strombazzamenti xenofobici di Salvini e seguaci.

Siamo di fronte a una narrazione tossica che più tossica non si può. Incentrata tutta sulla condanna di un orrore, etnicizzato due volte. La prima dalla frustrazione di chi sfoga la propria insoddisfazione circa la mancanza di prospettive in acritiche cacce al diverso, che diviene nei filtri distorcenti della percezione pubblica, vale a dire quella dell’opinione mediatica, un misterioso figuro ammantato di immeritate concessioni, le quali sarebbero ingratamente ripagate con delitti di ogni genere. La seconda volta dalla classe politica, che non esita a gettare fertilizzanti su quanto di terrificante è già stato seminato dalla televisione e dalle varie testate cartacee e digitali.

Si ha un ben parlare di tragedie annunciate, nessuno però sa indicare bene dove si trovava l’annuncio di questa tragedia in particolare, tanto orribile quanto casuale. A ragione, poiché bastasse la presenza di esseri umani ad avvalorare sospetti di reato, anche quando le condizioni di vita sono quelle considerate proprie del degrado, l’intera zona di Primavalle sarebbe un covo: i suoi abitanti, ottantamila criminali. Questo quartiere, a differenza di chi si fa vivo solo se c’è da cantare l’inno minacciando genocidi di periferia, c’è anche chi lo vive tutti i giorni e può parlare con cognizione di causa. Non esiste nessuna emergenza zingari, nessuna violenza rom. Esistono piuttosto l’emergenza reddito e l’emergenza abitativa, e molte altre, di natura economica, politica, culturale che è possibile continuare a citare per giorni e giorni. Esiste la violenza di vivere nella trappola di una stratificazione sociale sempre più stringente e asfittica, fatta passare in secondo piano con discorsi razzisti e fuffologici proclami antidegrado. Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda gli adesivi sui pali: stoltezza particolarmente infida, classista e razzista, se il degrado da eliminare cessa di essere l’ambiente e incomincia ad essere incarnato dalle persone – certi tipi di persone – e non dall’arredo urbano.

A ben vedere, i mostri singoli si sbattono in prima pagina solo quando sono bianchi e cittadini italiani. Se non lo sono, il giudizio individuale sparisce e lascia il posto al consolidamento di un mostro collettivo, rappresentato da tutte le persone appartenenti all’etnia di turno, presa di mira da un retroscena di anni di campagne antiziganiste e una versione distorta del principio di responsabilità collettiva. Questo è l’andazzo? Allora riformiamo l’intero diritto civile e penale. Quando un italiano fa qualcosa che non deve, fuoco sul suo condominio. Suona male, quando il mirino è puntato su di noi. Sembra una soluzione inconcepibilmente folle. Lo è. Come è folle che esista una marea emozionale che monta ininterrotta, totalmente avulsa dalla realtà dei fatti, esacerbata da livori accumulati in precedenza, legittimata da una gestione della cosa pubblica tutta ruspe e repressione ma che di politiche sociali proprio niente.

C’è chi proclama vendetta alla folla e alza fiaccole al vento mentre vende le case popolari, sgombera e sfratta. Poi c’è chi sta dalla parte di chi i diritti non ce li ha e li pretende insieme, e non da quella di chi per attività conservatrice verso le ultime molliche di pane si mette a calpestare esseri umani. Non sarà una limpida attività di sciacallaggio e ossessione legalitaria come si conviene ad ogni bravo cittadino, ma è meglio così.

 

 

Diventare donna significa diventare una puttana

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Traduzione di questo post di Akynos – aka The Incredible Edible Akynos, performer burlesque e intrattenitrice.

Chi poteva immaginare che diventare donna significasse diventare una puttana?

Di questi tempi, la libertà sessuale delle donne è talmente oppressa, che l’unico modo per essere considerata onesta è quello di adottare una facciata da madonna.

Le donne rispettabili non bestemmiano, né dormono in giro. Passano la vita rincorrendo la speranza di sposare l’uomo dei loro sogni tristi e ottenere qualche lavoro succhiasangue, mentre conservano la loro energia sessuale per quel solo uomo – per sempre. Un uomo che, vorrei aggiungere, a causa della sconcertante doppia morale della nostra società, può ritenere suo diritto divino scopare ogni donna che desideri, solo perché è un uomo.

Umiliata fino alla repressione sessuale, la donna non dovrebbe mai ricorrere ad atti di espressione sessuale, perché verrebbe considerata empia – indegna d’amore, un’emarginata sociale. E di fronte all’opportunità di scopare senza pensieri, non dovrebbe mai cercare un profitto economico.

Dispensare fica gratuitamente, anche se comunque deplorevole moralmente, è leggermente più rispettabile e viene considerato con maggiore indulgenza rispetto all’accettare denaro in cambio di preziosa energia sessuale. Energia che, se priva di adeguato sfogo, può far impazzire chiunque. Sarebbe come cercare di esistere senza il sole; non è possibile!

In una cultura misogina e sessualmente repressiva, nella quale gli uomini guadagnano ancora più delle donne, il lavoro è poco, l’istruzione universitaria sta dimostrando di essere una farsa, e troppi uomini approfittano emotivamente e fisicamente delle donne senza alcuna conseguenza, come può una cagna redimersi?

Può prendere posizione e rifiutarsi di essere trattata come una stupida senza cervello. Nonostante la natura misogina della nostra società, resta il fatto che la fica è ancora potere. E il sesso vende sempre. Le brave ragazze non sono le uniche a realizzarsi. Vendere sesso può essere il modo in cui gli uomini imparano a trattare le donne. E in cui le donne possono comprendere il loro proverbiale valore.

Quando ci si stanca della corsa all’inseguimento di amore e di denaro, una soluzione è quella di tagliarsi le vene – l’altra è ricorrere alla prostituzione. La prima volta che ci si vende ricorda la prima dose di eroina, o il risveglio spirituale di coloro che hanno perso la fede. Ci si rende conto che esiste un potere tra le cosce, nella loro consistenza – nella loro stessa presenza. Si diventa testimoni della guarigione delle anime solitarie che attraversano le nostre porte, anche quando tutto quello che vogliono è una sveltina, e non si avrà mai un’altra occasione di incontrarli.

Si impara a dire di no a situazioni che non si ritengono degne dei propri sforzi perché, puntuale come un orologio, qualcosa di meglio arriva sempre. Si impara che alcuni dei ragazzi più belli non sono sempre i migliori a letto. E che anche i ragazzi più belli pagano per averti.

Cresce in te un amore più grande per te stessa, la fiducia trabocca. Non solo ottieni i mezzi per vivere, ma mentre una volta ti credevi brutta, scopri che molte, molte persone ti trovano così attraente che sono disposte a spendere soldi per te.

Impari che dispensare energia sessuale è un dono che nasce dentro di te. Anche se la società sostiene che sia un modo indegno di guadagnarsi da vivere, ti senti un’onesta cittadina ogni volta che spalanchi le gambe. E capisci che ci sono molti modi di dare energia e che in un modo o nell’altro, siamo tutt* in vendita.

Ti rendi conto dell’importanza del sesso protetto – più che mai. Perché quando uscivi solamente con una persona, spesso ti comportavi da incosciente. Ma ora che il sesso è il tuo mestiere, sei prudente con i tuoi numerosi partner. In quale altro modo potresti pagarti le bollette se fossi affetta da una patologia sessuale che avresti potuto evitare?

Mentre un tempo eri insicura e permettevi all’interesse amoroso del momento di calpestarti, ora ti rendi conto di avere potere – perché hai molte scelte. Perché quasi all’improvviso, puoi ottenere denaro. Ti rendi conto che quando una persona ti paga, è più incline a rispettarti. Comprare sesso dà luogo a una dinamica diversa rispetto a quando viene offerto gratuitamente.

Prima di diventare una puttana eri una bimbetta insicura, regalavi gratis quello che poteva liberarti.
Non eri una donna allora. Ma, accidenti, se lo sei ora!

L’adagio del maschio italiano

Immagine da "In Italia sono tutti maschi", Kappa edizioni
Immagine da “In Italia sono tutti maschi”, Kappa edizioni

È passato un po’ di tempo, così le facili polemiche e i luoghi comuni sulle parole che Roberto Formigoni ha speso per spiegare – lo ha spiegato, non lo ha giustificato – il suo comportamento al gate Alitalia ce le possiamo risparmiare. Fermiamoci a riflettere, mettendo in fila un po’ di eventi di cronaca, su una delle tante occasioni perse, da tanti uomini in questo paese, per fare qualcosa di meno maschilista e patriarcale di quello che invece fanno. Potrei rifare questo articolo, tale e quale, tra un mese, cambiando solo i link e i riferimenti a quei fatti di cronaca. Perché? Perché il maschio italiano non cambia tanto facilmente.

Partiamo dall’articolo del Corriere con le parole di Formigoni, e fermiamoci su qualcuna di queste parole. «Gli italiani mi danno ragione. Incredibile quanti siano i cittadini che hanno subito soprusi che mi telefonano per dirmi “bravo, finalmente qualcuno ha detto ad Alitalia quello che si merita”». Perché in Italia chi vede lesi i propri diritti non manifesta, non si organizza: aspetta che qualcuno dica parolacce e minacci violenza contro persone e beni, per poi dirgli bravo.

«Ho subito un sopruso». Non è vero, e a raccontarlo è lui stesso. Ha provato a prendere non il suo aereo, ma quello precedente che era in ritardo, perdendo così anche il suo. Ha solo subito le conseguenze di un goffo tentativo, molto italiano anch’esso, di fare il furbo. E non è neanche la prima volta che ci prova, e che gli va male.

Poi, la chicca, alla faccia del torto marcio per la furbata non riuscita: «ho utilizzato le parole che userebbe qualsiasi italiano maschio che nei momenti di rabbia perde la pazienza». Sull’«italiano» torneremo dopo, ora fermiamoci un po’ sul «maschio».

Il maschio, quando si arrabbia, perde la pazienza, dice Formigoni, e aggredisce, urla, insulta, spacca roba. È un maschio che già conosciamo, no? È il maschio del raptus. È il maschio della cultura del raptus. È il maschio che perde la pazienza: per esempio non gli va di aspettare l’autobus, prende un taxi guidato da una donna e la stupra. Così fa il maschio, no? Notate l’accuratezza con cui nell’articolo si eviti la parola “raptus” anche se è ciò che viene descritto: «esplosione di rabbia», «la sfuriata», «perde il controllo». E che facciamo, lo chiamiamo raptus come quello dello stupratore, del femminicida? No, Formigoni non ha fatto violenza a nessuno – a parte ai suoi interlocutori e a chi assisteva, ma son quisquilie, vero? – quindi va bene la sua descrizione: ha agito come «qualsiasi italiano maschio».

Ha detto – spontaneamente, figuriamoci se ha ragionato – «maschio» e non “uomo”. Maschi sono anche i bambini. Maschio lo si è per natura, uomo per educazione. «Maschio» rende bene la naturalezza di un comportamento, il suo essere innato e ovvio, il suo fare parte delle caratteristiche del maschio, quell’animalità dalla quale si prendono sempre le distanze come fosse qualcosa di vergognoso, salvo quando torna comoda per indicare supposti valori quali virilità, ragione del più forte, potere primitivo, mancanza di lucidità. Quel concetto manipolabile di ‘insopprimibile istinto naturale’ con il quale si vuole mascherare il potere di una classe sociale, l’arroganza di una abitudine politica: lo avete riconosciuto? È lo stesso potere «maschio» che fa dire a un altissimo dirigente sportivo «basta non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche».

È lo stesso potere maschio, quello che non chiede scusa anche se ha provato a fare il furbo, quello che non si dimette malgrado la “gaffe” (notate anche qui i giornali come sono stati carini: chiamano “gaffe” quello che non è altro che uno spregevole insulto sessista e omofobo), quello che se ne frega di capire da quali privilegi proviene e di quali privilegi gode, quello che rende prigionieri di illusioni gli stessi maschi, quello che ha sempre una giustificazione plausibile per la propria violenza: la chiama raptus. Per rendere possibili e plausibili queste violenze ci vuole un potere e una cultura pervasivi e accettati da tutti – cioè da tutti gli altri maschi.

E qui veniamo alla parola «italiano». Al maschio italiano tutto ciò sta evidentemente bene, perché non ho visto – a parte le chiacchiere sul web – ‘sta gran voglia di protestare, di scendere in piazza a fare casino perché uno che agisce come Formigoni si è permesso di dirsi uguale a «qualsiasi italiano maschio». Non vedo grosse agitazioni quando un dirigente sportivo insulta in maniera sessista e omofoba migliaia di praticanti quello sport che dovrebbe tutelare – lo sport più amato dai maschi italiani; non le vedo quando un qualsiasi maschio italiano stupra, poi dice che ha avuto un raptus e che “si pente” venti comodi giorni dopo. Eppure sono maschi, e stanno dicendo qualcosa a tutti gli altri maschi.

Ah, già, dimentico sempre il tipico adagio del maschio italiano: «i problemi sono altri».

 

Scopiamo fino a innamorarci

Dal nuovo libro di Ana Elena Pena, Vamos a follar hasta que nos enamoremos

Autoprodotto, curato fin nei minimi dettagli, pieno di rabbia, emozione, passione e poesia.

La prima cosa che penso leggendo questo libro, riflettendo sulla mia iniziale diffidenza, è che usare la parola “amore” non deve essere facile, un termine contenitore svuotato di un valore proprio, quasi sicuramente fraintendibile. Eppure sono proprio queste premesse caotiche a renderlo perfetto per esperimenti di risignificazione. Ana Elena Pena non si formalizza troppo nel farlo e lo riempie di se stessa.

Lancia invettive contro l’ideale di amore romantico che rende marionette e in cui si perdono le forme, i colori, il desiderio. Si schiera contro la ricerca di perfezione emozionale che si trasforma in superficialità, contro quell’ideale che rappresenta l’amore come una esperienza che non sporca, non macchia, non ferisce e che soprattutto non trasforma il nostro modo di vivere nuove relazioni.

Una condivisione di metafore e vissuto in cui ritrovare qualche pezzetto del proprio, per ricordare dove abbiamo fatto proprio l’opposto di quello che era prendersi cura di sé, non lasciando spazio ad alternative.

Riflessione sfaccettata sulle ansie e le delusioni di vivere il sesso come antitesi della complicità, attraverso schemi altrettanto predefiniti che mettiamo in atto come fossimo sconosciut*, lontan*, barricat* con le nostre paure o insoddisfazioni dietro maschere di indifferenza. Sesso che indebolisce e mutila i corpi.

Spunti poetici per risvegliarci dall’apatia individualista o dall’autolesionismo e per ricordarci che scopando si costruiscono affetti liberi o amore, che dir si voglia.

Il libro, insieme alle precedenti pubblicazioni (tutte in spagnolo) lo trovate qui. La versione originale di Vamos a hacerlo è invece pubblicata sul blog.

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Facciamolo lentamente
senza urgenza né pause,
senza rabbia e senza paura.
Facciamolo di fretta, con furia e con forza,
scricchiolando le ossa.
Spensierati e increduli, a colpi e a baci, senza scuse né pretesti,
sul cofano di un’auto, nel letto, sul pavimento,
tra grida laceranti, ma anche in silenzio. Come bambini che giocano, come
pazzi, come malati, con vizio e con lascivia, come animali in calore,
con piacere e godimento.
In un modo selvaggio,
delicato, sporco, lento, e fino all’agonia.
Vieni, andiamo a farlo…
Andiamo a scopare fino a innamorarci.

Ana Elena Pena, traduzione di lafra

Per Baruda

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La verità oggettiva, ormai lo sappiamo da un pezzo, è un’invenzione valida solo per le scienze più astratte. Non appena c’entrano le storie, i corpi, le vite, la verità è sempre parziale, e per fortuna, perché è la parzialità a spazzare via l’ipocrisia delle violenze, dei fascismi, delle varie forme di oppressione, che vorrebbe sempre imporsi come unica verità assoluta.

Il blog di Baruda, Polvere da sparo, è una di queste verità. Da molti anni racconta verità scomode, ricorda fatti che molti ipocriti fanno finta di dimenticare, parla chiaro a quei sordi che non vogliono sentire, urla quello che tante oppressioni vorrebbero silenziare.

E, come sempre, Baruda parla di una storia che ha vissuto sulla sua pelle, quando racconta l’assurda vicenda del suo sfratto. Storia che chi vive il dramma della casa in Italia – una casa non di proprietà – conosce bene, soprattutto a Roma dove le speculazioni edilizie e la collusione con i sistemi di potere che appoggiano i proprietari riescono anche, come si dice da queste parti, “a manna’ l’acqua all’incontrario”.

Leggete Baruda sotto sfratto: storia di una truffa per capire di cosa stiamo parlando.

Udienza fissata per il prossimo 10 giugno 2015, presso il tribunale civile di Roma.
Il 3 giugno, invece, si presenterà alla nostra porta un ufficiale giudiziario accompagnato da un fabbro, per il rilascio dell’appartamento.
Batte un bel sole su questo terrazzo, che ancora per molto mi ospiterà visti i guai in cui mi ha cacciato il padrone di casa.
Il 3 giugno si presenteranno alla nostra porta, alle 8 di mattina.
Vi aspetto quindi per una festosa colazione antisfratto.

Intersezioni, in qualche modo, quella mattina ci sarà.

Forti con i deboli

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Il 21 maggio è stato vandalizzato il canile ENPA di Torino.

La condanna di quanto successo, soprattutto vista la violenza subita, seppur indirettamente, dagli animali non umani presenti all’interno della struttura, è doverosa.

Meno accettabile è il comunicato pubblicato dall’ENPA Torino su Facebook, connotato da una condanna razzista dei fatti che ha dato fiato alle trombe del popolino – che aspetta avidamente queste occasioni per tirare fuori i forconi dalla cantina e le ruspe dai garage.

Leggi tutto “Forti con i deboli”

Solidarietà al Rojava e ai/alle compagn* in stato di fermo

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Stasera ore 18:00 a Torino in Piazza Castello presidio in solidarietà con il Rojava e contro le frontiere che uccidono!

Ancora una volta viene confermata l’ipocrisia turca di una difesa di confini utili a tutelare i poteri forti, sfruttando lo spauracchio dell’avanzata dell’ISIS per continuare un embargo vergognoso nei confronti del popolo Curdo.

Ancora una volta viene legittimata una pratica repressiva collaudata nei decenni, silenziosamente mutuata dall’opinione pubblica europea e italiana.

Di seguito un resoconto di quanto accaduto.

Rompiamo l’embargo da parte del governo turco che accerchia il Rojava!
LIBERTÀ PER LE/I COMPAGN*!
BIJI KOBANE!

Il privilegio di non riconoscere il proprio privilegio

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“Il privilegio è insidioso”, afferma pattrice jones nel corso dell’intervento a cui questo articolo vuole essere una sorta di introduzione o riflessione. La trappola in cui cadono molt*, e particolarmente chi si dedica all’attivismo, umano o non umano, è quello di identificarsi con chi si trova in una, o all’incrocio di più condizioni di oppressione.

Questo accade per svariati motivi: sicuramente perché ognun* di noi ha vissuto delle oppressioni da cui ha desiderato ardentemente liberarsi, o ha visto agite su altr* dinamiche di potere, e in cuor suo ne ha magari preso sinceramente le distanze. L’intersezionalità, anche in questo caso, si rivela un utile strumento di critica e, ancor di più, di autocritica: perché esiste un rischio assolutamente reale e da non sottovalutare, che è quello di sottostimare il proprio privilegio e di sovradeterminare coloro delle/i quali vogliamo supportare le rivendicazioni nella – più o meno autentica – convinzione di sapere cosa sia meglio per loro.

Riconoscere il proprio privilegio è un primo, fondamentale passo: essere consapevoli di non poter, in tutta onestà, sapere cosa significhi essere una scrofa in una gabbia da gestazione, una persona di colore (qualsiasi colore eccetto il bianco) in un mondo razzista, una persona transessuale in un mondo rigidamente binario, una persona povera che  – per quanti sforzi faccia –  non riesce a risollevarsi dalla propria condizione di indigenza in un mondo che monetizza qualunque cosa, persino gli affetti e le relazioni… ci mette nelle condizioni di poter “gestire” il privilegio, rinunciandoci per quanto possibile, assumendo un atteggiamento critico e consapevole nei confronti di qualsiasi vantaggio che noi consideriamo scontato (di muoversi, di poter esprimere i propri pensieri ed emozioni, di vivere e di vivere dignitosamente, di poter godere in ogni caso di maggiore libertà rispetto ad altr*, perché anche poter dichiarare il proprio attivismo politico o la propria “devianza” rispetto alla norma stabilita non è un privilegio da prendere con leggerezza) e sostenendo con il nostro privilegio chi ne è priv*.

Il sistema ci opprime tutt*? Vero, ma assolutamente non allo stesso modo. E questa consapevolezza ci deve far capire che una delle fatiche più grandi di chi fa attivismo è quella di comprendere come poter essere alleat* efficaci ed evitare di sovradeterminare le lotte, anche quelle nelle quali, per un motivo o per l’altro, ci sentiamo protagonist*.

E’ quello che succede nel femminismo quando alcune, che non riconoscono i propri privilegi (ad esempio quelli di classe e razza, ma non solo) arrivano a privare altre donne della propria agency (le sex worker, le donne trans o le musulmane ad esempio) dichiarandole inconsapevolmente colluse col sistema patriarcale, e pertanto vittimizzandole e togliendo loro autorevolezza e autodeterminazione; nell’antirazzismo, ogni volta che l’agenda è dettata non da chi la discriminazione la subisce in prima persona, ma da chi si riconosce nel ruolo di ‘salvator* degli oppressi’ e cala dall’alto strategie buone in altri contesti evitando il confronto, a volte perché scomodo o difficile, con le persone alle quali si vorrebbe dimostrare solidarietà; nell’antispecismo, quando ci si dipinge come ammantati di ogni virtù nella convinzione di essere il non plus ultra dell’attivismo, o peggio quando ci si riconosce così tanto nei soggetti non umani oppressi da dimenticare di far invece sicuramente parte della categoria umana e di poter quindi agire il proprio privilegio su altri (animali), umani e non.

Tenendo ben presente che tutt*, volenti o nolenti, colludiamo e siamo allo stesso tempo vittime del sistema che vorremmo rovesciare, quello che ci resta da fare è sforzarci di dare voce a chi non ne è privo, ma è  – consapevolmente o meno – tacitato da chi ha maggior possibilità di esprimersi, o viene maggiormente ascoltato. Buona visione!

Quando l’unico aborto legale è quello accidentale

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Se l’unico aborto legale è quello accidentale, allora procurarsi un accidente è l’unico modo che una donna ha per terminare una gravidanza, che sia indesiderata o pericolosa per la sua vita e quella del feto.
Questo è il provocatorio, ma non nuovo, concetto di fondo della campagna per la depenalizzazione dell’aborto promossa da Miles, un’organizzazione non governativa che si occupa dei diritti sessuali e riproduttivi in Cile, dal 2010.
L’organizzazione si fa promotrice di una proposta di legge, che si può leggere qui, nel quale si chiede la depenalizzazione dell’aborto terapeutico e volontario in caso pericolo di vita per sé e per il feto (o grave malformazione strutturale di quest’ultimo), con la predisposizione degli strumenti atti all’accertamento di questi pericoli, e in caso di stupro, ponendo l’attenzione anche alle minori di 14 anni. Nel quadro di riferimento del diritto alla salute e a una vita degna, puntualizzando i dati del ricorso all’aborto clandestino e della mortalità materna e neonatale.

L’obiettivo è quindi parziale, non si chiede la depenalizzazione completa dell’aborto volontario. Nel progetto di legge si contempla anche l’obiezione di coscienza per quei medici che non vogliono praticare l’intervento abortivo, previa dichiarazione scritta. Pratica alla quale non possono però sottrarsi in caso di immediato pericolo per la paziente.

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Sono stati prodotti tre tutorial che spiegano come provocarsi un aborto accidentale, in tutti e tre la donna rischia la vita per mettere fine alla gravidanza. Se rischio di morire a causa della gravidanza, perché non rischiare di morire a causa dell’aborto?

Una logica che, in fondo, è condivisa da tutte le donne che rischiano la vita con un aborto clandestino.

I video sono semplici, diretti e agghiaccianti.

Nel primo viene spiegato come abortire, lanciandosi nel traffico di un incrocio.

Nel secondo si spiega come procurarsi un aborto rompendo il tacco di una scarpa e sbattendo contro un idrante.

Nel terzo la protagonista spiega come provocarsi un aborto cadendo dalle scale.

Non è la prima campagna provocatoria realizzata in Cile, alcuni anni fa un’altra associazione, rintracciabile presso questo sito internet donaporunabortoilegal.wordpress.com,  aveva promosso una campagna di donazione per consentire alle donne un aborto illegale.

Le cantanti dichiaratamente femministe fanno tendenza

Pubblichiamo la traduzione di un articolo apparso su la-critica.org che tratta di rapper e cantautrici che si dichiarano apertamente femministe, sono artiste in lingua spagnola che mescolano senza timore ma, anzi, con fierezza e poesia, musica e militanza.
Traduzione di Serbilla.

Le cantanti dichiaratamente femministe fanno tendenza
Di L Herrera

Negli ultimi anni, sono comparse voci nuove e diverse nelle regioni dell’America Latina e di altre parti del mondo, che utilizzando vari generi musicali cantano rivolte ad altre donne le modalità di resistenza a differenti oppressioni. Di seguito alcune di quelle che, senza timore di definirsi femministe, alzano la voce con ritmo.

rebecalane1. Rebeca Lane. E’ una rapper guatemalteca che nel 2013 ha lanciato il suo primo album intitolato “Canto”. Le sue canzoni si caratterizzano, tra gli altri temi sociali trattati, per l’analisi dei dettami di genere e per la denuncia del genocidio guatemalteco. Ha partecipato a eventi femministi e calcato i palcoscenici in El Salvador, Nicaragua, Mexico e Guetemala.
Nell’intervista con la rivista “Casi literal“, ha dichiarato: “ll fatto che sono femminista e anarchica, certamente è qualcosa che viene fuori dai testi e che io anche voglio trasmettere e spiegare, pertanto le persone alle quali non interessano questi temi li interpretano sistematicamente come  caos, lotta non necessaria o cose inutili per il sistema”.

2. Mare Advertencia Lirika. Rapper nata nello stato messicano di Oaxaca e di origini zapoteche, nei suoi testimaread-300x199 canta contro il maschilismo, a favore dell’indipendenza delle donne e denuncia le disuguaglianze sociali che si vivono in Messico. Ha partecipato a eventi in Guatemala, negli Stati Uniti d’America del Nord e Messico.
E’ la protagonista del documentario “Cuando Una Mujer Avanza” e fondatrice del gruppo Advertencia Lirika.
Il 12 agosto di quest’anno ha scritto sulla propria pagina facebook: “Solo quando ho capito tutto ciò che il patriarcato mi ha tolto, solo allora, ho potuto rivendicarmi come femminista…non mi sorprende quindi che tant* non capiscano neppure minimamente di cosa si tratta”.

lasconchudas2-300x2003. Las Conchudas. Gruppo argentino cumbiachero diventato famoso tra le femministe latinoamericane nel 2014. In due mesi hanno accumulato quasi ventunomila visite al video del loro singolo “Las pibas chongas”, un manifesto lesbofemminista con un mix di cumbia e rap. “Antipatriarcale, femminista, lesbica, caraibica, latinoamericana, mi connetto con la Madre Terra, rivoluzionando la strada e il letto.
Ed essere una frocia non è solo parlare di sesso, questo è parte di tutto un manifesto, la mia politica ha molto peso, inciampando, mi rialzo e ti bacio”.

https://youtu.be/mNopC9eKcig

4. Furia Soprano. Rapper spagnola nella cui biografia su Twitter non manca di definirsi femminista radicale:furias-300x184 “Rap feminazi, pattini, gomma rosa, se mi tocchi ti rompo”. Il suo album si chiama “No hay clemencia”, le canzoni di Furia si scagliano contro il capitalismo eteropatriarcale e riflettono sulle differenze e similitudini delle oppressioni che vivono le donne.
Nella sua canzone “No hai clemencia”, del disco omonimo, Furia canta con forza: “Streghe dell’inferno, il nostro motto è la difesa, femminismo attivo, nemmeno un’aggressione senza risposta, facciamo sentire la protesta quando il grosso del sistema lo alimenta e lo sostenta, fine, macete alla mano…non venimmo come carne né per piacerti, non siamo perfette, non siamo bambole, non siamo umili, delicate né piccole..né dio né padrone, né marito né partito, non c’è clemenza”.

luasinpua-217x3005. Lua. E’ una cantante spagnola anarchica e apertamente femminista. Nelle sue canzoni tratta differenti tematiche che accompagna con la sua chitarra, vanno dalla critica al patriarcato, agli spazi di sinistra, all’amore romantico. Le sue composizioni sono state molto condivise attraverso internet e le reti sociali.
Di fronte alla domanda se si riconosce come femminista, nel sito El Hombre Percha, Lua risponde: “Apertamente, anche se questo comporta le facce sorprese e indignate di alcun*. Di fatto, e per meglio specificare, femminista autonoma, libertaria: non voglio governare né essere governata. Il femminismo deve essere orizzontale e autogestito.
Nasce da noi e per noi ed è dalla base che deve prendere forma. Il femminismo è emancipazione e noi siamo le prime che dobbiamo avere chiaro questo (ma non le uniche)”.

6. Gaby Baca. Cantautrice femminista e lesbica del Nicaragua. “La Boca Loca”, come anche si è fatta chiamare, gabybaca-225x300ha sperimentato diversi generi musicali, è considerata una rocker alternativa e sperimentale. Nel 2011 ha registrato il brano “Todas juntas, todas libres”, e nel 2012 ha lanciato il singolo “Con la misma moneda”, che
è stato ben accolto dal pubblico femminista.
Quando le si è chiesto riguardo al femminismo, nel sito Puntos.org, Beca ha risposto: “Forse non ci rendiamo conto che le donne sono la maggioranza? Politicamente siamo una forza enorme, il nostro voto unito può buttare già qualsiasi stronzo al potere. Io mi dichiaro femminista perché è fantastico essere donna e voglio che si
rappresentino i miei diritti, è una questione di equità”.

cayecayejera-300x1927. Caye Cayejera. E’ una rapper dell’Ecuador. Dal 2009 canta rap transfemminista, si è presentata soprattutto sulla scena musicale di Quito. Collaborando con collettivi partecipa come attivista alle piattaforme: Acción Arte, Intervenciones Trans Cayejeras y Artikulación Esporádika.
il suo video “Puro Estereotipo” è un breve tutorial di autodifesa femminista, che accompagna con un testo potente: “Generi rigidi, perfetto meccanismo, desideri e piaceri fissi, puri stereotipi. Al margine si trova l’essenza selvaggia, il ricatto, il boicottaggio, il sabotaggio del patriarcato…”.