Il problema “femminista”

ignoranza

A me pare evidente: questo paese ha un problema col femminismo. Ma mica inteso come movimento politico, magari: significherebbe che viene considerato, dai più, come tale. Qui c’è proprio il problema del pronunciare la parola “femminista”.

Cominciamo con un bell’esempio recente. Su Samantha Cristoforetti è stato detto di tutto e di più. Per me la cosa più sbalorditiva rimane questo articolo apparso su La Stampa in digitale, nel blog Obliqua-mente di Gianluca Nicoletti, che vorrebbe essere anche un elogio dell’astronauta italiana. Titolo e sottotitolo dicono già tutto:

 

IL MITO #ASTROSAMANTHA CHE SEPPELLIRA’ BOTOX E TACCO 12
La donna astronauta contro una legione di super femmine costruite sul tavolo chirurgico, la perfetta risposta alle emule di Belen, ma anche al baffo politico e il rogo del reggiseno

Leggo tutto ciò abbastanza costernato, e mi chiedo, tanto per cominciare: ma perché Cristoforetti dovrebbe seppellire qualcun’altra? Perché essere una scienziata di livello mondiale dovrebbe nuocere a supposte super femmine costruite sul tavolo chirurgico? Nicoletti le mette in contrapposizione senza dire il perché. Nell’articolo non c’è traccia del motivo per cui Samantha e Belen dovrebbero essere una contro l’altra: evidentemente è dato per scontato, è ovvio.

Com’è ovvio che una donna che studia e che si fa valere nel mondo della scienza non è – appunto – una donna: da stereotipo qual è (perché contrapposta a un’altra donna-stereotipo, Belen Rodriguez), Samantha è ipercazzuta. Samanta ce l’ha grosso – infatti è nominata ingegnerE, ecco perché è tanto diversa da Belen, che notoriamente invece ha la farfallina.

Farfallina che, sostiene Nicoletti cavalcando i luoghi comuni che evidentemente galoppano molto lontano, è anche lei poco femminile ormai, anzi poco umana: Belen è l’esempio di prodotti umanoidi. Non è più neanche un essere umano.

Ricapitolando, un uomo descrive una supposta lotta per l’esistenza (“seppellire“) tra donne in questo modo: una non-donna mette sottoterra un non-essere umano. Complimenti. Ma come ha fatto? Ecco la spiegazione:

in lei si è riflessa quella parte del paese che non ha mai accettato come unità di misura del successo femminile i centimetri di tacco, ma nemmeno la fierezza dei baffi e il rogo dei reggiseni.

Cioè Samantha è una donna – anche se con un grosso pisellone ed è ingegnere – NON FEMMINISTA. Non corrisponde allo stereotipo della femminista: non ha i baffi (?) e non brucia il reggiseno. Ecco perché ha battuto la farfallina, dice Nicoletti.

Ora, il problema sociale che articoli come questo sollevano non è certo la cultura di genere di Nicoletti, che si presenta da sola e non vale la pena commentare. Il problema è che questa roba ha raccolto, tanto per fare un esempio, più di quindicimila condivisioni su un social network. Cioè è un buon esempio di quello che pensano lettori e lettrici – dato il giornale, dato il blog, dato l’autore – di cultura quantomeno media in Italia.

Di questo si ha riscontro anche nella chiacchiera quotidiana. Qualunque femminista che non si vergogna di professarsi tale si scontra con persone che a quella parola si sentono in dovere di sottolineare che si tratta di qualcosa di profondamente negativo. Racconta Lola sul suo sempre ottimo “Ci riprovo”:

Ieri ho parlato un po’ con un uomo dell’età di mio padre. Ad un certo punto gli ho detto che spesso usa un linguaggio fortemente sessista, e che quando ride di me che glielo faccio notare o si lancia in ardite spiegazioni sul perché è possibile dare della “troia” ad una donna che non ci piace mi manda in bestia.
“Mi sembri una di quelle…” “Sono una di quelle”. E da qui due ore a parlare. Quello che ho capito di tutto quel discorso è che la cosa fondamentale per poter permettere ad una femminista di parlare è che lei non si dichiari mai tale e che il femminismo non venga mai nominato.

Puoi dire quello che vuoi – basta che tu non sia FEMMINISTA. Puoi arrivare a tutti i traguardi che vuoi – basta che tu lo faccia NON DA FEMMINISTA.

mentre-cucinaEvidentemente, in questo caso a me “ha detto culo”: in tutto il mondo io sarei un feminist, e mica me ne vergogno. Però in Italia io sono un antisessista, perché se mi dicessi “femminista” tantissimi uomini riderebbero a crepapelle pensando che io sia parecchio strano o molto checca (il che non sarebbe un male di per sé, ma non corrisponderebbe nemmeno a verità), e fior di donne si offenderebbero – a parte ridere di gusto forti di una loro supposta superiorità (anche questo, per quanto incredibile, mi è successo). Tutto ciò, oltre a confermare in vario modo la legge di Lewis (“I commenti a qualsiasi articolo sul femminismo giustificano il femminismo”), dimostra che qui in Italia in molti e molte hanno dei grossi problemi con questa parola. Ma grossi, eh.

Per esempio, abbiamo quell* che credono a uno o più dei tanti luoghi comuni sulle femministe. Abbiamo anche un gruppo di musiciste che porta avanti un progetto musicale “a favore delle donne vittime di violenza”, dichiarando a destra e manca che non sono femministe. Abbiamo gruppi di donne che non hanno problemi a dire che loro sono più femministe di altre. (Fuori, intanto, non è che vada tanto meglio, se ci sono media internazionali che si divertono a giocare con la parola “femminista”).

Uomini e donne che, semplicemente, non hanno idea di cosa significhi femminista. Hanno il grosso problema di non poter accettare che un/a femminista è, come da definizione, “una persona che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica tra i sessi”. Perché?

Da una parte, molti e molte credono di essere “una persona che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica tra i sessi”, MA non direbbero mai “tra i sessi”, perché a sentire loro non hanno importanza: esistono solo “le persone”. Cioè esistono solo le loro capacità, indipendentemente dai loro corpi; e infatti la stessa Cristoforetti non è femminista, dato che disse, poco tempo fa, che

per me non c’è differenza tra maschi e femmine. L’unica differenza è tra chi è competente e chi, invece, non lo è.

Tanto per dire: che milioni di donne non siano nelle condizioni minime per avere o usare le loro competenze, e che milioni di uomini siano automaticamente socialmente avvantaggiati da tutto ciò, non sembra essere per lei di grande importanza. Complimenti anche a lei.

D’altra parte, in molt* credono che quella “uguaglianza sociale, politica ed economica” sia già raggiunta, a forza di leggi paritarie, quote rosa, divorzi vantaggiosi e altre fantasiose amenità legislative che dimostrerebbero chissà cosa – rendendosi colpevoli, almeno, di ignoranza e ipocrisia. I dati sulla disparità di genere, sull’attivo e funzionante patriarcato discriminante, ci sono, e non sarà certo una legge a cambiarli a breve termine.

Un problema culturale? Direi proprio di sì. Che comincia dall’alto:

Fino al 2000 le studiose femministe hanno fatto ricerca e insegnato ‘sotto mentite spoglie’, prive di nome, impossibilitate a esibire la propria carta d’identità. Gli studi delle donne li abbiamo dovuti non solo inventare, ma anche continuare a reinventare un anno dopo l’altro, come se ogni volta fosse stato necessario presentare di nuovo i documenti per dimostrare la validità di nome, data di nascita e domicilio di residenza.
Prima che si chiamassero «di genere», per indicare molte altre cose, oppure anche soltanto essere utilizzati come sinonimo dall’apparenza ‘perbene’, gli studi delle donne li abbiamo insegnati en travesti. Ciascuna di noi agiva come un agente segreto mascherato dentro, dietro e sotto un’altra denominazione ufficiale; la quale poteva essere: letteratura italiana, economia politica, antropologia, sociologia, storia moderna, filosofia medievale o storia della scienza. Il documento d’identità legalmente autorizzato per la pratica didattica serviva a coprire i riferimenti a oscuri e disdicevoli commerci sessuali e politici che avrebbero fatto un’oscena irruzione se si fosse usato il loro vero nome.

E pure dal basso:

Scuotono la testa con decisione non appena sentono il termine femminismo. Si stringono forte al proprio compagno mentre dichiarano di essere femminili, non femministe, come a volerlo rassicurare. Se interrogate sul significato del termine affermano che: «Non sono superiore al mio uomo, ognuno ha il proprio ruolo e io sono una donna».
A dirlo sono in tante, tantissime, forse milioni di donne. Sono laureate, casalinghe, giovanissime e meno giovani, occupate, disoccupate o inoccupate, ma anche donne in carriera e di successo. Più che il titolo di studio, l’età o il tipo di lavoro svolto, la differenza lo fa l’ambiente sociale che frequentano, ancora molto maschilista e misogino e che loro, in un modo o nell’altro, avallano.

Aggiungendoci anche qualche vero e proprio delirio:

oggi, guadagnati e fatti salvi quei diritti civili grazie a sacrosante battaglie di idee (cito una campionessa per tutte: Simone de Beauvoir), è ormai antistorico e anacronistico continuare a procedere nella stessa direzione, cercare un accanimento antifemminile che di fatto non esiste e non è mai esistito, inventarsi una persecuzione sessuale che di fatto non esiste e non è mai esistita (a proposito: ma chi crede davvero al femminicidio?), perpetuare l’idea di una presunta contrapposizione sessista che da tempo dovrebbe [avere, ndr] fatto il suo tempo.

In tutto ciò, non c’è davvero di che preoccuparsi per i maschilisti d’Italia. Finché questi problemi di cultura – io preferisco dire di ignoranza, ma so’ io, non ci fate caso – continueranno ad averceli tanti uomini e tante donne, di femminista in giro ci sarà sempre ben poco.

(Grazie a Lola e a Chiara per l’ispirazione)