Brioches, ormoni, lotta di classe – ovvero dell’annosa questione del menefreghismo

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Caratteristica comune tra quelle persone transessuali e transgender che esibiscono a vari livelli una forma di politicizzazione, è un dirompente cinismo verso il destino dell’organizzazione politica e sociale della propria categoria. Aprono bocca e senti odore di mandorle amare – è l’odore della disillusione. Eccolo, arriva: “Le persone trans non hanno nulla in comune, le persone trans sono individualiste e pensano solo a risolvere gli affari propri, le persone trans vogliono essere normalizzate, le persone trans non si curano di combattere un paradigma medico e psichiatrico che le patologizza.” Colpo di grazia: “Le persone trans non hanno nessuno scopo collettivo comune”.

È sorprendente notare come a nessun* sembri insensato affermare che la matrice di una lotta che non decolla sia da individuarsi esclusivamente nel proprio soggetto politico, e non negli errori, di analisi e di prassi, di chi, a parole, intenderebbe organizzarlo, nel senso di fornire strumenti – a sé e alla collettività di cui si è parte – per attuare mutuo aiuto, resistenza, e offensive verso le strutture della società che la rendono più che mai improrogabile. Sopratutto, affermarlo senza porsi interrogativi a riguardo. Perché questo accade? Dovrebbe essere una domanda centrale, ma non lo è.

La grande maggioranza di chi si occupa di questioni trans ha a cuore la posizione culturale della transessualità e transgenderismo, nella modalità più astratta possibile dalla posizione sociale ed economica di chi quei vissuti li incarna. Se una critica è essenziale, e lo è, non la si troverà certo in questo panorama desolante. Da una parte c’è l’opportunismo dell’associazionismo gay e lesbico che dà spazio alla lotta trans nei termini a esso più comodi: lontano dalla fascia protetta, subito dopo la torta nuziale. Di fatto, senza dubbi, le richieste della comunità sono soltanto un gettone di presenza, esplicitato qua e là con qualche poster o qualche affermazione, da chi ha i mezzi per permettersi di fare lobbying enormemente più rumorso circa altre cause – esemplificate in pieno dal matrimonio egualitario – che, come è evidente, ritiene prioritarie.  Dall’altra, è pieno di torri di polistirolo erette da chi, in fondo, le sostituirebbe volentieri con quelle d’avorio dell’elitarismo accademico, ma che finché non può o non vuole scalarle, si tiene stretto l’élite controculturale e frattanto, allora, gioca a fare il/la teoric* queer con il corpo, i sentimenti e le istanze, vere e presunte, degli altri e delle altre.

Una persona trans, non una di quelle che si suppone arrogantemente in base ai propri criteri come “politicamente consapevoli”, non una di quelle fortunate e sorridenti,vorrebbe, in primo luogo, non essere costretta a discriminazioni ai colloqui di lavoro o mobbing. Avere un nome e un sesso coerenti con la sua identità di genere – nella carta d’identità, nella tessera sanitaria nel conto corrente e in tutto il resto del mucchio di carta che si affronta di giorno in giorno – senza obbligo di operazione preventiva; averli ufficialmente in un registro di classe e in un libretto universitario. senza dover contare sui magheggi extraburocratici a discrezione di alleati che fanno il possibile, ma che potrebbero non esistere sempre e in ogni dove. Usufruire della sanità nazionale senza doversi esporre per forza anche soltanto per togliere una carie. La gratuità garantita delle prestazioni psicologiche, endocrinologiche, chirurgiche, legali che occorrono per il percorso che desidera intraprendere. Attraversare una strada senza avere gli occhi, se non direttamente le mani, addosso. Ed è molto stanca, dopo tutto questo, di prendere atto che la sua autodeterminazione sia considerata semplicemente una forma di autocentrata stupidità – e non è disposta a prendersi in carico il narcisismo di chi sventola la sua bandiere senza neanche chiedere il permesso.

Ragionevolmente il problema è situato qui, non nel completo disinteresse di una categoria, già socialmente svantaggiata e in piena crisi economica, per battaglie che non colgono l’urgenza del bisogno. Occorre una miopia politica davvero grave per non vederlo, e una strategica della stessa entità per non incominciare a sostenere proposte ponderate in base alle necessità reali, urgenti, quotidiane. Perché privilegio è anche questo: poter pensare che fare politica sia qualcosa di differente dal cercare sopravvivenza. E di brioche, si sa, non si sopravvive.

Il problema “femminista”

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A me pare evidente: questo paese ha un problema col femminismo. Ma mica inteso come movimento politico, magari: significherebbe che viene considerato, dai più, come tale. Qui c’è proprio il problema del pronunciare la parola “femminista”.

Cominciamo con un bell’esempio recente. Su Samantha Cristoforetti è stato detto di tutto e di più. Per me la cosa più sbalorditiva rimane questo articolo apparso su La Stampa in digitale, nel blog Obliqua-mente di Gianluca Nicoletti, che vorrebbe essere anche un elogio dell’astronauta italiana. Titolo e sottotitolo dicono già tutto:

 

IL MITO #ASTROSAMANTHA CHE SEPPELLIRA’ BOTOX E TACCO 12
La donna astronauta contro una legione di super femmine costruite sul tavolo chirurgico, la perfetta risposta alle emule di Belen, ma anche al baffo politico e il rogo del reggiseno

Leggo tutto ciò abbastanza costernato, e mi chiedo, tanto per cominciare: ma perché Cristoforetti dovrebbe seppellire qualcun’altra? Perché essere una scienziata di livello mondiale dovrebbe nuocere a supposte super femmine costruite sul tavolo chirurgico? Nicoletti le mette in contrapposizione senza dire il perché. Nell’articolo non c’è traccia del motivo per cui Samantha e Belen dovrebbero essere una contro l’altra: evidentemente è dato per scontato, è ovvio.

Com’è ovvio che una donna che studia e che si fa valere nel mondo della scienza non è – appunto – una donna: da stereotipo qual è (perché contrapposta a un’altra donna-stereotipo, Belen Rodriguez), Samantha è ipercazzuta. Samanta ce l’ha grosso – infatti è nominata ingegnerE, ecco perché è tanto diversa da Belen, che notoriamente invece ha la farfallina.

Farfallina che, sostiene Nicoletti cavalcando i luoghi comuni che evidentemente galoppano molto lontano, è anche lei poco femminile ormai, anzi poco umana: Belen è l’esempio di prodotti umanoidi. Non è più neanche un essere umano.

Ricapitolando, un uomo descrive una supposta lotta per l’esistenza (“seppellire“) tra donne in questo modo: una non-donna mette sottoterra un non-essere umano. Complimenti. Ma come ha fatto? Ecco la spiegazione:

in lei si è riflessa quella parte del paese che non ha mai accettato come unità di misura del successo femminile i centimetri di tacco, ma nemmeno la fierezza dei baffi e il rogo dei reggiseni.

Cioè Samantha è una donna – anche se con un grosso pisellone ed è ingegnere – NON FEMMINISTA. Non corrisponde allo stereotipo della femminista: non ha i baffi (?) e non brucia il reggiseno. Ecco perché ha battuto la farfallina, dice Nicoletti.

Ora, il problema sociale che articoli come questo sollevano non è certo la cultura di genere di Nicoletti, che si presenta da sola e non vale la pena commentare. Il problema è che questa roba ha raccolto, tanto per fare un esempio, più di quindicimila condivisioni su un social network. Cioè è un buon esempio di quello che pensano lettori e lettrici – dato il giornale, dato il blog, dato l’autore – di cultura quantomeno media in Italia.

Di questo si ha riscontro anche nella chiacchiera quotidiana. Qualunque femminista che non si vergogna di professarsi tale si scontra con persone che a quella parola si sentono in dovere di sottolineare che si tratta di qualcosa di profondamente negativo. Racconta Lola sul suo sempre ottimo “Ci riprovo”:

Ieri ho parlato un po’ con un uomo dell’età di mio padre. Ad un certo punto gli ho detto che spesso usa un linguaggio fortemente sessista, e che quando ride di me che glielo faccio notare o si lancia in ardite spiegazioni sul perché è possibile dare della “troia” ad una donna che non ci piace mi manda in bestia.
“Mi sembri una di quelle…” “Sono una di quelle”. E da qui due ore a parlare. Quello che ho capito di tutto quel discorso è che la cosa fondamentale per poter permettere ad una femminista di parlare è che lei non si dichiari mai tale e che il femminismo non venga mai nominato.

Puoi dire quello che vuoi – basta che tu non sia FEMMINISTA. Puoi arrivare a tutti i traguardi che vuoi – basta che tu lo faccia NON DA FEMMINISTA.

mentre-cucinaEvidentemente, in questo caso a me “ha detto culo”: in tutto il mondo io sarei un feminist, e mica me ne vergogno. Però in Italia io sono un antisessista, perché se mi dicessi “femminista” tantissimi uomini riderebbero a crepapelle pensando che io sia parecchio strano o molto checca (il che non sarebbe un male di per sé, ma non corrisponderebbe nemmeno a verità), e fior di donne si offenderebbero – a parte ridere di gusto forti di una loro supposta superiorità (anche questo, per quanto incredibile, mi è successo). Tutto ciò, oltre a confermare in vario modo la legge di Lewis (“I commenti a qualsiasi articolo sul femminismo giustificano il femminismo”), dimostra che qui in Italia in molti e molte hanno dei grossi problemi con questa parola. Ma grossi, eh.

Per esempio, abbiamo quell* che credono a uno o più dei tanti luoghi comuni sulle femministe. Abbiamo anche un gruppo di musiciste che porta avanti un progetto musicale “a favore delle donne vittime di violenza”, dichiarando a destra e manca che non sono femministe. Abbiamo gruppi di donne che non hanno problemi a dire che loro sono più femministe di altre. (Fuori, intanto, non è che vada tanto meglio, se ci sono media internazionali che si divertono a giocare con la parola “femminista”).

Uomini e donne che, semplicemente, non hanno idea di cosa significhi femminista. Hanno il grosso problema di non poter accettare che un/a femminista è, come da definizione, “una persona che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica tra i sessi”. Perché?

Da una parte, molti e molte credono di essere “una persona che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica tra i sessi”, MA non direbbero mai “tra i sessi”, perché a sentire loro non hanno importanza: esistono solo “le persone”. Cioè esistono solo le loro capacità, indipendentemente dai loro corpi; e infatti la stessa Cristoforetti non è femminista, dato che disse, poco tempo fa, che

per me non c’è differenza tra maschi e femmine. L’unica differenza è tra chi è competente e chi, invece, non lo è.

Tanto per dire: che milioni di donne non siano nelle condizioni minime per avere o usare le loro competenze, e che milioni di uomini siano automaticamente socialmente avvantaggiati da tutto ciò, non sembra essere per lei di grande importanza. Complimenti anche a lei.

D’altra parte, in molt* credono che quella “uguaglianza sociale, politica ed economica” sia già raggiunta, a forza di leggi paritarie, quote rosa, divorzi vantaggiosi e altre fantasiose amenità legislative che dimostrerebbero chissà cosa – rendendosi colpevoli, almeno, di ignoranza e ipocrisia. I dati sulla disparità di genere, sull’attivo e funzionante patriarcato discriminante, ci sono, e non sarà certo una legge a cambiarli a breve termine.

Un problema culturale? Direi proprio di sì. Che comincia dall’alto:

Fino al 2000 le studiose femministe hanno fatto ricerca e insegnato ‘sotto mentite spoglie’, prive di nome, impossibilitate a esibire la propria carta d’identità. Gli studi delle donne li abbiamo dovuti non solo inventare, ma anche continuare a reinventare un anno dopo l’altro, come se ogni volta fosse stato necessario presentare di nuovo i documenti per dimostrare la validità di nome, data di nascita e domicilio di residenza.
Prima che si chiamassero «di genere», per indicare molte altre cose, oppure anche soltanto essere utilizzati come sinonimo dall’apparenza ‘perbene’, gli studi delle donne li abbiamo insegnati en travesti. Ciascuna di noi agiva come un agente segreto mascherato dentro, dietro e sotto un’altra denominazione ufficiale; la quale poteva essere: letteratura italiana, economia politica, antropologia, sociologia, storia moderna, filosofia medievale o storia della scienza. Il documento d’identità legalmente autorizzato per la pratica didattica serviva a coprire i riferimenti a oscuri e disdicevoli commerci sessuali e politici che avrebbero fatto un’oscena irruzione se si fosse usato il loro vero nome.

E pure dal basso:

Scuotono la testa con decisione non appena sentono il termine femminismo. Si stringono forte al proprio compagno mentre dichiarano di essere femminili, non femministe, come a volerlo rassicurare. Se interrogate sul significato del termine affermano che: «Non sono superiore al mio uomo, ognuno ha il proprio ruolo e io sono una donna».
A dirlo sono in tante, tantissime, forse milioni di donne. Sono laureate, casalinghe, giovanissime e meno giovani, occupate, disoccupate o inoccupate, ma anche donne in carriera e di successo. Più che il titolo di studio, l’età o il tipo di lavoro svolto, la differenza lo fa l’ambiente sociale che frequentano, ancora molto maschilista e misogino e che loro, in un modo o nell’altro, avallano.

Aggiungendoci anche qualche vero e proprio delirio:

oggi, guadagnati e fatti salvi quei diritti civili grazie a sacrosante battaglie di idee (cito una campionessa per tutte: Simone de Beauvoir), è ormai antistorico e anacronistico continuare a procedere nella stessa direzione, cercare un accanimento antifemminile che di fatto non esiste e non è mai esistito, inventarsi una persecuzione sessuale che di fatto non esiste e non è mai esistita (a proposito: ma chi crede davvero al femminicidio?), perpetuare l’idea di una presunta contrapposizione sessista che da tempo dovrebbe [avere, ndr] fatto il suo tempo.

In tutto ciò, non c’è davvero di che preoccuparsi per i maschilisti d’Italia. Finché questi problemi di cultura – io preferisco dire di ignoranza, ma so’ io, non ci fate caso – continueranno ad averceli tanti uomini e tante donne, di femminista in giro ci sarà sempre ben poco.

(Grazie a Lola e a Chiara per l’ispirazione)

La stalla sexy

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Uno degli aspetti della cultura patriarcale più difficili da affrontare e gestire, sul piano politico come nel personale, è quello della pervasività dello sguardo maschile reificante. Vorrei però subito sgombrare il campo dagli equivoci, sottolineando come tale modo di guardare – che si impone e prevarica l’esperienza soggettiva del corpo vivente – non appartenga solo a quegli individui identificati in quanto ‘maschi biologici’; non è, d’altro canto, difficile notare le tragiche analogie esistenti in questo specifico modo di guardare le donne e gli animali non umani (in particolare, ma non solo, di sesso femminile).

Partiamo da questo articolo – ma soprattutto dal servizio video che ne è all’origine. Nel pezzo in questione sono ben evidenziati molti aspetti critici – i doppi sensi usati in maniera assolutamente strumentale e consapevole (il servizio si intitola non a caso “La vacca più bella del Trentino”, non “la mucca più bella del Trentino”), i movimenti di macchina dal basso verso l’alto, e, dulcis in fundo, affermazioni assurde al limite dell’imbarazzante (“anche in stalla eleganza e sensualità non guastano”?!?!?!).

L’intenzione è chiara: le due vacche – quella umana agghindata come una coniglietta (l’abitino corto e sberluccicante pare più in stile sexy oktoberfest che tradizionale trentino!) e quella non umana, oggetto della “competizione di bellezza” (è quasi esilarante, se non fosse tragica, la capacità della cultura patriarcale di rendere fruibili i corpi, in primis quelli femminili, umani e non, che si trovano perennemente sotto alla lente di un desiderio coatto) –  sono offerte in maniera assolutamente simmetrica sull’altare del consumo  maschile (chi trovasse azzardato il parallelo in chiave sensuale donna-mucca, può vederlo messo in opera in direzione opposta ma simmetrica sulla pagina facebook di un giornale di settore che s’intitola Cowsmopolitan: le mammelle lucide e le code spazzolate e lucenti delle mucche offerte allo sguardo ricordano in maniera esplicita analoghe parti di corpi femminili!)

Un consumo che parte proprio dagli occhi, che scelgono di guardare due esseri senzienti, donna e mucca, nell’unico valore a loro riconosciuto di corpi consumabili. Non interessa la loro sensualità, nel senso di capacità sensoriale e sensibilità, ma solo quella che definisce il compiacimento, visivo prima e fisico poi, di un godimento personale ed egoistico.

E’ d’altro canto necessario spendere alcune parole sull’altra protagonista del video, la mucca Jolly, la quale, come candidamente e tragicamente afferma la sua padrona (poiché Jolly non è che una schiava, dopotutto) “ha 5 anni ed è alla terza lattazione”. Questa affermazione, resa maggiormente intelligibile, significa tante cose: partendo dal dato di fatto che una mucca può vivere 20 anni, che anche se “da latte” viene macellata intorno ai 5 anni (appena la produzione comincia a calare), che la pubertà bovina insorge intorno all’anno e, soprattutto, che non c’è produzione senza riproduzione, possiamo tradurre la frase “innocente” così: Jolly ha l’età equivalente di una ragazza di vent’anni, che appena entrata nella pubertà è stata stuprata (da un umano che l’ha inseminata artificialmente) tre volte, ha sostenuto tre gravidanze e tre parti, ha già vissuto tre volte la disperazione di vedersi portare via i propri figli dopo poche ore dalla loro nascita, e… sta per morire.

Tutto questo orrore spiegato con tranquillità e naturalezza da un’altra femmina, umana, che aderisce in maniera talmente acritica – e anzi, complice –  al diktat dello sguardo maschile reificante, da applicarlo con assoluta naturalezza su quella “vacca” a lei tanto simile perché a disposizione dell’uso e consumo maschile  (ma anche nella propria realtà  – misconosciuta e negata – di essere senziente, capace di generare –  ma non per questo costretta a farlo –  di provare attaccamento per la propria prole  – e pertanto dolore atroce nel momento in cui ne venga crudelmente separata – ma anche di autodeterminarsi, in maniera unica ma sempre valida).

Che lo sguardo maschile non sia una prerogativa dei maschi biologici è evidente nel video che pubblichiamo qui di seguito, una pubblicità di vini friulani destinata al mercato russo che ha sollevato diverse polemiche.

La regista, Iris Brosch, pare sia “conosciuta a livello internazionale per aver restituito dignità e forza all’immagine femminile nella fotografia”. Almeno così dicono, questo è il video:

Dove sarebbe qui la millantata “forza delle donne” (lasciamo perdere la dignità!)? A corpi patinati di baccanti in atteggiamenti saffici che non fanno nulla se non offrirsi al consumo altrui, risulta difficile riconoscere tale qualità.

Qualità riconoscibile in altri progetti, che raccontano storie di forza e coraggio di fronte alla sofferenza e all’oppressione, e che restituiscono  soggettività ed agency ad individui che ne sono stati violentemente privati: quelli di Jo-Anne McArthur – che ha realizzato WeAnimals o più recentemente UnboundProject, nei quali esplora rispettivamente il complicato rapporto tra animali umani e non umani e celebra l’impegno delle donne nell’attivismo antispecista – o di Carrie Mae Weems  – esemplare in questo senso il progetto From here I saw what happened and I cried nel quale viene smascherato il potere dello sguardo bianco (patriarcale e proprietario) di rendere inferiori e consumabili i corpi degli schiavi di colore, allo scopo di giustificarsi e autoassolversi eticamente di una pratica tanto abominevole.

Come vivete le vostre esistenze sotto la lente maschile? La subite o ne siete (consapevolmente o meno) complici? Riuscite a riconoscere quello sguardo che tutto divora nei vostri occhi?

La fine dell’università e gli studi di genere. Cambia qualcosa per le donne?

Riceviamo da Paola Di Cori e volentieri pubblichiamo.*

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Sul fascicolo di “Internazionale” di questa settimana (22/28 maggio 2015) un articolo di Terry Eagleton, tradotto dal Chronicle of Higher Education e intitolato La fine dell’università eleva al cielo alti lai per la distruzione dei saperi umanistici. Il contributo di Eagleton – noto critico letterario marxista, di famiglia operaia, con studi a Oxford e Cambridge negli anni ’60 e ’70, noto per le prese di posizioni polemiche nei confronti delle correnti sperimentali più audaci della critica contemporanea – è pubblicato nello stesso numero della rivista il cui piatto forte viene annunciato dalla copertina che ritrae il disegno di un irsuto personaggio dalla cui barba fuoriescono omini neri armati di fucili, con il titolo “Lo stratega del terrore”. Il servizio giornalistico, tradotto dallo “Spiegel”, si interroga infatti sul disegno politico che sta dietro alla vittoriosa marcia dei jihadisti in Siria.

La pubblicazione di entrambi gli articoli nello stesso numero, forse  semplice coincidenza casuale, è una tentazione a immaginare una affinità esistente tra i due: come le truppe del Califfato stanno facendo a Palmira – mediante l’invasione violenta, le decapitazioni dei prigionieri e il proposito di radere al suolo quei monumenti che un tempo l’avevano resa celebre e i cui splendidi resti forse hanno vita breve – così agiscono i nuovi manager che ormai governano le università di tutto il mondo, trasformando quelli che un tempo erano luoghi privilegiati dei saperi “alti” in sedi decentrate affinché le élite prossimo-future acquisiscano le nuove competenze necessarie a consolidare l’egemonia della finanza internazionale. Gli antichi ideali di elevazione sociale, raffinatezza culturale, etica pubblica, vengono velocemente spazzati via dalla brutalità degli attuali responsabili di quell’insieme di pratiche informatiche, amministrazione e gestione burocratica che hanno trasformato le università in sedi deputate all’acquisizione di conoscenze di carattere tecnico-scientifico, dalle quali i saperi umanistici stanno scomparendo o hanno pochi anni di vita davanti. Ridotti drasticamente gli studi classici, tagliati i fondi ai settori letterari, filosofici, artistici in genere, depauperate le scienze sociali, che giacciono in stato di indigenza estrema, una nuova barbarie sta velocemente prendendo piede negli atenei. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: le ultime generazioni che escono con titoli ottenuti mediante sistemi di valutazione più indicati per misurare costi e ricavi di un’azienda che una acquisita maturità scientifica, intellettuale e culturale, sono ormai avviate verso forme di desolante  analfabetismo crescente.

Sono argomentazioni che – anticipate una ventina di anni fa da un grande libro del compianto Bill Readings, The University in Ruins (Harvard University Press) – da tempo risuonano di qua e di là dell’Atlantico negli interventi pubblici di accademici e studiosi di provenienze diverse, negli inserti di cultura dei quotidiani, riviste on-line e blog, destinati a denunciare gli effetti deleteri della riduzione di fondi e l’inarrestabile declino nella qualità della formazione scolastica e universitaria.

Difficile non concordare con buona parte di questi contributi, che  da prospettive svariate si interrogano sul destino imminente degli studi umanistici, e sulla qualità scadente della formazione avanzata in generale. Tuttavia, queste lamentazioni sono spesso scontate e purtroppo inevitabilmente inefficaci; come in parte anche le tesi sostenute da Eagleton, condite di un brillante stile Oxbridge ma in fondo poco saporite. Se poi guardiamo a quel che accade nel nostro paese, è facile constatare che l’accelerazione dei processi degenerativi in atto ha conseguenze ancora più gravi che altrove. In parte perché si finge di assistere a un disastro giunto all’improvviso, come quello del Vajont o il terremoto dell’Aquila. Non c’erano forse state tante avvisaglie negli ultimi venti o trent’anni? Nessuno dei sapientoni che soloneggiano dalle pagine del “Sole-24 ore”, del “Corriere” e di “Repubblica” si era mai accorto, se non per commentarli scuotendo la testa con qualche amico, dei baratri di formazione dei nostri laureati rispetto a quelli del resto d’Europa, delle decrepite strutture entro cui sono costretti a formarsi gli studenti?

Eppure l’imminente catastrofe era facilmente prevedibile all’indomani della riforma Berlinguer alla fine degli anni ’90, quando l’introduzione del famigerato percorso “3+2” accelerò l’inarrestabile crollo, i cui disastri furono subito sotto gli occhi di tutti. Ma nessuno protestò; non ci furono levate di scudo in massa da parte dei docenti più autorevoli, dei molti notissimi ‘liberi pensatori’ e intellettuali che ancora riempivano i senati accademici. Com’è consuetudine da queste parti del globo, si cercò di trarre vantaggi individuali e personali dalle pessime istruzioni ministeriali che si ammucchiavano sulle scrivanie dei presidi; soltanto l’improvviso successo nel 2007, del libro “La casta”, scritto da due giornalisti, sembrò rendere visibile la miserabile condizione dell’accademia italiana; tutti ne erano al corrente da tempo, ma nessuno si era preso il disturbo di denunciarla. E ora il terremoto annunciato ha scosso fin dalle fondamenta edifici secolari; una cupa rassegnazione è la paralizzante risposta a tanto disastro, mentre i giovani benestanti fuggono oltre i confini.
In questo apocalittico quadro di distruzione e povertà crescente, ha senso chiedersi cosa succederà agli studi di genere? Anche una modesta osservatrice si rende conto che non sono in molte a porsi il problema; e questo è forse il lato più malinconico dell’intera questione. Tuttavia, per quanto possa sembrare una domanda superflua le risposte sono forse meno scontate e deprimenti di quanto si possa pensare.

Per un verso, i cambiamenti non potranno incidere più che tanto in una situazione dai contorni sfuggenti a ogni tentativo di tracciarne il profilo, e il cui statuto disciplinare è incerto per definizione. Inoltre, a differenza del resto dell’Europa e del mondo, gli studi di genere hanno tradizionalmente goduto nel Belpaese di una esistenza malaticcia, frammentata, dispersa e disomogenea; fatta di qualche insegnamento di prima alfabetizzazione, con scarsa incidenza dei medesimi sull’insieme del piano formativo individuale; in breve: sono studi che hanno sempre goduto di una identità instabile. Alcune ottime esperienze qualificate – dottorati di storia delle donne e letterature a Napoli e a Roma, qualche convegno di settore, molte pubblicazioni di buon livello, associazioni con centinaia di iscritte, tante laureate e dottorate in questi temi nei decenni passati – si sono rivelate purtroppo di corto respiro, “senza sbocco al mare”, sia per il taglio dei fondi ma ancor di più per l’assenza di una specifica strategia politica concertata a livello nazionale e in collaborazione effettiva con la rete europea; a questo c’è da aggiungere un generalizzato disinteresse generale: i gruppi e le associazioni influenti del femminismo li hanno sempre guardati di malocchio; le docenti provenienti dai movimenti degli anni ’70 hanno spesso preferito prendere le distanze, aderire occasionalmente e con cautela a questa o quella iniziativa, senza mai impegnarsi in un confronto serio con le gerarchie accademiche. Più spesso si è trattato di percorsi solitari, talvolta veri e propri esercizi semi-clandestini di militanza, con pochissime sedi dove gli studi di genere risultano effettivamente inseriti nei programmi, uno scarso numero di dottorati attivi e – ancor più grave – con un atteggiamento radicato di estraneità, spesso ostentato distacco,  da parte di docenti che si richiamano al femminismo e che grazie ad esso hanno anche fatto carriera.

Sono state soprattutto le tante situazioni esterne all’università ad aver garantito la sopravvivenza e qualche briciolo di trasmissibilità delle esperienze e delle conoscenze relative alla condizione delle donne in Italia: centri delle donne, fondazioni, incontri e seminari estivi e invernali, riviste, pagine di quotidiani, blog e reti sociali, libri e librerie, case editrici, premi, dibattiti e laboratori, senza dimenticare naturalmente le reti sociali; ecc.; in poche parole, la società civile femminile attiva. Coloro che sono inserite stabilmente nelle istituzioni hanno sempre preferito assecondare lo status quo, ‘andare in trasferta’ presso le molte sedi del femminismo esterno invece che impegnarsi all’interno. Un intenso scambio tra dentro e fuori le università ha perciò sostituito in Italia insegnamenti istituzionali di base e corsi formativi modellati sugli esempi migliori a livello europeo (Utrecht, Gran Bretagna, Francia, ecc.).

Come noto, tranne poche eccezioni, non c’è mai stato nel nostro paese un aperto interesse da parte delle donne appartenenti ai gradi alti della docenza per inserire stabilmente gli studi di genere nei curricola, costruire solidi percorsi formativi di base, ingaggiare una negoziazione di breve e lungo periodo con l’establishment accademico. In questo, le italiane presenti nelle università hanno, abbiamo, lavorato male, poco, e peggio di come hanno fatto le altre europee, per non dire dell’impegno e degli esiti straordinari ottenuti in questo campo da parte delle donne attive in molti paesi del cosiddetto terzo mondo.
Di conseguenza, è un fatto che la quasi totalità delle giovani e meno giovani femministe inserite nelle università e nelle scuole, comprese docenti precarie e a tempo parziale, supplenti, volontarie, – oltre che attraverso la rete di centri esterna all’università – si sono formate fuori d’Italia, per poi proseguire con aggiornamenti su testi prevalentemente scritti da autrici non italiane. In linea con i tagli di fondi dei governi degli ultimi anni, e le pessime ministre che si sono succedute a presiedere e pianificare l’istruzione scolastica e universitaria, gli scarsi dottorati di un tempo non sono stati rifinanziati, al pari di quelli di molti altri settori; non più riattivati corsi e programmi insegnati anni fa; i seminari intorno ai ‘gender studies’ (inutile neanche menzionare il tristo destino di qualche rara sperimentazione LGBQT) si contano ormai sulle dita di una sola mano; i convegni sono rari o relativi a tematiche specialistiche. Palmira sei tutte noi, viene quasi da dire.

Non tutto il male viene per nuocere

Questo malinconico quadro di rovine fumanti non risponde tuttavia alla situazione reale. La quale versa certamente in acque melmose, ma non peggiori o diverse da quanto accadeva negli anni ’90 o nel decennio successivo. A differenza di quanto si lamenta in altri contesti, in Italia la situazione non è molto diversa da quella di un tempo. Sono in molte le docenti che ormai hanno incorporato nei propri corsi, ricerche e attività professionali, tematiche nate e cresciute grazie al luppo nei paesi di lingua inglese dei “gender studies” (la denominazione è sempre più imprecisa, ma utile, almeno in questo contesto); e in virtù della libertà di insegnare ciò che si vuole, ancora diffusa tra le pieghe delle discipline umanistiche negli italici atenei, anche se sono di fatto inesistenti sono curricula specifici ed è  risibile numero di posti di dottorato che premia questi studi, capita di veder sorgere qua e là verdi germogli “di genere”, la cui crescita ulteriore viene demandata alla buona volontà e alle risorse economiche delle giovani leve. Esistono di fatto in Italia un gran numero di insegnamenti dove le donne e le differenze sessuali sono al centro dei programmi approvati dai dipartimenti, talvolta anche insegnati da uomini; ma spesso si ha la sensazione di muoversi sul crinale di qualcosa che non è ben definito, inserito tra tematiche solo parzialmente legittime, con pochi crediti attribuiti. ‘Curricolabile’ solo in alcune circostanze e non in altre, la sua natura è piuttosto quella di abitare un territorio  pericolosamente ‘labile’. Come prima, meglio di prima, con qualche differenza. Ciò che prima era invisibile e nascosto, ora si vede e si sente, ma è povero e inadeguato.

Anche se questo quadretto assai nero e buio non invita a sperare in meglio, una esperienza come quella dei “gender studies all’italiana” potrebbe offrire qualche soluzione positiva. Tradizionalmente, si è detto, essi esistono fuori dai programmi, in numero scarso, sparsi, scollegati. In questo si manifesta coerenza con l’insieme della accademia nostrana, in particolare nel caso delle discipline umanistiche; basta pensare a quanto l’aggettivo ‘umano’, attaccato alle scienze abbia spesso in Italia una fisionomia incerta; al punto che certe volte viene scambiato con ‘sociale’ o utilizzato come fossero sinonimi. Per quanto sia assai difficile immaginare nel breve periodo un rovesciamento di segno – sentieri fioriti sullo sfondo di mari azzurri dove tuffarsi allegramente nella bella stagione – si potrebbero anche sfruttare alcuni lati positivi e utilizzare con profitto qualche ricchezza nascosta. Difficile immaginare che le italiche università mettano in poco tempo la testa a posto, che le subalternità femminili all’establishment si capovolgano per costituirsi in bellicose avanguardie resistenti, e nel breve giro di qualche mese di pragmatismo ‘renziano’ siano eliminati corruzioni, sprovvedutezze, superficialità, familismi, cortigianerie – unitamente alla sparizione di quell’egemonico, immutabile, odioso, violento stile patriarcale e paternalistico che continua a essere la nota prevalente nei nostri atenei.

Tuttavia, l’esperienza di un lavorio incessante tra il dentro e il fuori – tra il mondo reale esterno alle aule e ai dipartimenti da un lato, e i saperi accumulati in alcuni decenni in nome del femminismo dall’altro; tra pratiche politiche antisessiste e antirazziste, e le vecchie istituzioni che nel tentativo di rinnovarsi rimangono implacabilmente uguali o peggio di prima – potrebbe costituire un buon esempio anche per l’insieme dell’università, e non solo per i corsi di gender studies. Se le facoltà umanistiche – dove questi studi e chi li pratica sono stati maggiormente presenti – si sgretolano, ed è impossibile ricostruirli con risorse interne, forse qualche boccata d’ossigeno potrebbe venire attingendo alle risorse esterne, questa volta rovesciando le direzioni di marcia. Sono esigenze molto sentite da gran parte dei settori scientifici e delle scienze sociali nel loro insieme, quelle dirette ad avviare un rapporto sinergetico con centri di ricerca, istituzioni, associazioni, italiani e non italiani, esterni alle università; queste ultime si trovano  crudelmente imprigionate da burocrazie soffocanti, indifese e impotenti a scalfire la salda impalcatura di paralizzanti interessi corporativi che le avvolge.

Forse è giunto il momento di cominciare a pensare ai tanti modi con cui, per esempio, lo strumento interdisciplinare – su cui gli studi delle donne, quelli di genere ed LGBTQ si sono sviluppati – potrebbe trasformarsi in una strategia di lavoro trasversale: tra istituzioni accademiche e mondo esterno alle università; tra settori della conoscenza chiusi in autoritratti monocolori e il resto del mondo; tra lingue diverse e non solo in dialogo esclusivo con l’inglese; tra donne e uomini intesi come esseri percorsi da una molteplicità di tensioni e pulsioni identitarie diverse, invece che considerati come riflesso di sessualità naturali prestabilite. La proposta di pratiche conoscitive e politiche entre-deux potrebbe contribuire intanto allo svecchiamento del femminismo italiano; e chissà, forse anche l’università nel suo insieme sarebbe in grado di usufruirne ed emettere qualche segnale di vita. La conclamata interdisciplinarietà – per non parlare della comparazione, vera e propria araba fenicie della ricerca- che per l’insieme degli insegnamenti impartiti negli atenei italiani continua a rappresentare un impossibile miraggio ma anche uno dei problemi più assillanti, è una via obbligata da sempre percorsa dagli studi di genere e dai suoi ancor più sfortunati compagni LGBQT; uno strumento indispensabile di crescita intellettuale e di militanza politica, spesso mortificata dalle ansie di legittimazione istituzionale che hanno ingessato tante pratiche di genere interne all’accademia.
Paradossalmente, ciò che per tanto tempo ha costituito il punto debole dei gender studies all’italiana, è forse una risorsa ancora da sfruttare a fondo. Sarebbe possibile avviare esperienze a metà strada tra università e mondo esterno – peraltro già sperimentate lungo gli anni, e molte ancora in vigore – purchè siano garantite alcune condizioni: una maggiore disponibilità effettiva da parte di chi occupa posizioni privilegiate e ha accumulato conoscenze e pratiche; la proposta di obiettivi politici mirati, meno settari e ideologici di quelli che hanno dominato nei decenni trascorsi; un coinvolgimento comune effettivo nella costruzione di percorsi formativi.

E’ un dato di fatto che buona parte dei temi ‘caldi’ che hanno animato il dibattito femminista – a livello teorico e di ricerca – anche se avviati da qualcuna inquadrata nelle istituzioni, pur rimasti ai margini di più roboanti argomenti, si sono sviluppati  prevalentemente fuori dalle università e sono stati promossi da esponenti di quella società civile femminile attiva, o per iniziativa di giovani che studiano e lavorano fuori d’Italia: da quello intorno alla trasformazione (dissoluzione? evaporazione?) della parola “gender” e alle mobilitazioni per frenare gli attacchi clerico-patriarcali intorno a una presunta “teoria del gender”, fino alle prospettive riguardanti l’intersezionalità; dalle tante manifestazioni relative alla galassia “queer” – mostre, convegni, incontri, collane editoriali, ricerche; tutte iniziative rigorosamente extra-murarie – alle questioni divenute drammaticamente attuali legate al ruolo e rappresentazione delle donne nei più recenti fronti di guerra in Asia e medio-Oriente; alle migrazioni e al razzismo. Se la marginalità e la carenza di risorse materiali soffoca progettualità ed energie di chi sta fuori, dentro le università i saperi legati agli studi di genere si sbriciolano, e i soggetti che li avevano coltivati e cresciuti tornano all’invisibilità. Per continuare a svilupparsi, agli uni e agli altri è indispensabile rendere più dinamici i passaggi tra dentro e fuori, capire che in tempi di crisi è vantaggioso rafforzare le alleanze con situazioni e luoghi di sperimentazioni vitali; laddove sia possibile, conviene infatti da entrambe le parti: da un lato, attenuare rigidità e sbarramenti in nome di improbabili ideali di scientificità; dall’altro, pretendere l’adesione a formule politiche invecchiate, fantasiose e illusorie.
Sopravvivere a stento tra le macerie, o continuare faticosamente a praticare esperienze marginali di invenzione?

(Con ringraziamenti a Francesca, Marilena, Roberta.)

Le cantanti dichiaratamente femministe fanno tendenza

Pubblichiamo la traduzione di un articolo apparso su la-critica.org che tratta di rapper e cantautrici che si dichiarano apertamente femministe, sono artiste in lingua spagnola che mescolano senza timore ma, anzi, con fierezza e poesia, musica e militanza.
Traduzione di Serbilla.

Le cantanti dichiaratamente femministe fanno tendenza
Di L Herrera

Negli ultimi anni, sono comparse voci nuove e diverse nelle regioni dell’America Latina e di altre parti del mondo, che utilizzando vari generi musicali cantano rivolte ad altre donne le modalità di resistenza a differenti oppressioni. Di seguito alcune di quelle che, senza timore di definirsi femministe, alzano la voce con ritmo.

rebecalane1. Rebeca Lane. E’ una rapper guatemalteca che nel 2013 ha lanciato il suo primo album intitolato “Canto”. Le sue canzoni si caratterizzano, tra gli altri temi sociali trattati, per l’analisi dei dettami di genere e per la denuncia del genocidio guatemalteco. Ha partecipato a eventi femministi e calcato i palcoscenici in El Salvador, Nicaragua, Mexico e Guetemala.
Nell’intervista con la rivista “Casi literal“, ha dichiarato: “ll fatto che sono femminista e anarchica, certamente è qualcosa che viene fuori dai testi e che io anche voglio trasmettere e spiegare, pertanto le persone alle quali non interessano questi temi li interpretano sistematicamente come  caos, lotta non necessaria o cose inutili per il sistema”.

2. Mare Advertencia Lirika. Rapper nata nello stato messicano di Oaxaca e di origini zapoteche, nei suoi testimaread-300x199 canta contro il maschilismo, a favore dell’indipendenza delle donne e denuncia le disuguaglianze sociali che si vivono in Messico. Ha partecipato a eventi in Guatemala, negli Stati Uniti d’America del Nord e Messico.
E’ la protagonista del documentario “Cuando Una Mujer Avanza” e fondatrice del gruppo Advertencia Lirika.
Il 12 agosto di quest’anno ha scritto sulla propria pagina facebook: “Solo quando ho capito tutto ciò che il patriarcato mi ha tolto, solo allora, ho potuto rivendicarmi come femminista…non mi sorprende quindi che tant* non capiscano neppure minimamente di cosa si tratta”.

lasconchudas2-300x2003. Las Conchudas. Gruppo argentino cumbiachero diventato famoso tra le femministe latinoamericane nel 2014. In due mesi hanno accumulato quasi ventunomila visite al video del loro singolo “Las pibas chongas”, un manifesto lesbofemminista con un mix di cumbia e rap. “Antipatriarcale, femminista, lesbica, caraibica, latinoamericana, mi connetto con la Madre Terra, rivoluzionando la strada e il letto.
Ed essere una frocia non è solo parlare di sesso, questo è parte di tutto un manifesto, la mia politica ha molto peso, inciampando, mi rialzo e ti bacio”.

https://youtu.be/mNopC9eKcig

4. Furia Soprano. Rapper spagnola nella cui biografia su Twitter non manca di definirsi femminista radicale:furias-300x184 “Rap feminazi, pattini, gomma rosa, se mi tocchi ti rompo”. Il suo album si chiama “No hay clemencia”, le canzoni di Furia si scagliano contro il capitalismo eteropatriarcale e riflettono sulle differenze e similitudini delle oppressioni che vivono le donne.
Nella sua canzone “No hai clemencia”, del disco omonimo, Furia canta con forza: “Streghe dell’inferno, il nostro motto è la difesa, femminismo attivo, nemmeno un’aggressione senza risposta, facciamo sentire la protesta quando il grosso del sistema lo alimenta e lo sostenta, fine, macete alla mano…non venimmo come carne né per piacerti, non siamo perfette, non siamo bambole, non siamo umili, delicate né piccole..né dio né padrone, né marito né partito, non c’è clemenza”.

luasinpua-217x3005. Lua. E’ una cantante spagnola anarchica e apertamente femminista. Nelle sue canzoni tratta differenti tematiche che accompagna con la sua chitarra, vanno dalla critica al patriarcato, agli spazi di sinistra, all’amore romantico. Le sue composizioni sono state molto condivise attraverso internet e le reti sociali.
Di fronte alla domanda se si riconosce come femminista, nel sito El Hombre Percha, Lua risponde: “Apertamente, anche se questo comporta le facce sorprese e indignate di alcun*. Di fatto, e per meglio specificare, femminista autonoma, libertaria: non voglio governare né essere governata. Il femminismo deve essere orizzontale e autogestito.
Nasce da noi e per noi ed è dalla base che deve prendere forma. Il femminismo è emancipazione e noi siamo le prime che dobbiamo avere chiaro questo (ma non le uniche)”.

6. Gaby Baca. Cantautrice femminista e lesbica del Nicaragua. “La Boca Loca”, come anche si è fatta chiamare, gabybaca-225x300ha sperimentato diversi generi musicali, è considerata una rocker alternativa e sperimentale. Nel 2011 ha registrato il brano “Todas juntas, todas libres”, e nel 2012 ha lanciato il singolo “Con la misma moneda”, che
è stato ben accolto dal pubblico femminista.
Quando le si è chiesto riguardo al femminismo, nel sito Puntos.org, Beca ha risposto: “Forse non ci rendiamo conto che le donne sono la maggioranza? Politicamente siamo una forza enorme, il nostro voto unito può buttare già qualsiasi stronzo al potere. Io mi dichiaro femminista perché è fantastico essere donna e voglio che si
rappresentino i miei diritti, è una questione di equità”.

cayecayejera-300x1927. Caye Cayejera. E’ una rapper dell’Ecuador. Dal 2009 canta rap transfemminista, si è presentata soprattutto sulla scena musicale di Quito. Collaborando con collettivi partecipa come attivista alle piattaforme: Acción Arte, Intervenciones Trans Cayejeras y Artikulación Esporádika.
il suo video “Puro Estereotipo” è un breve tutorial di autodifesa femminista, che accompagna con un testo potente: “Generi rigidi, perfetto meccanismo, desideri e piaceri fissi, puri stereotipi. Al margine si trova l’essenza selvaggia, il ricatto, il boicottaggio, il sabotaggio del patriarcato…”.

Chi ha paura dell’asterisco?

asterisco

Non raramente capita, negli ultimi tempi, di sentire messa in discussione l’opportunità e l’importanza dell’uso dell’asterisco o dell’@, al posto delle declinazioni di genere nella scrittura; abbiamo così deciso di esplicitare i motivi per i quali noi,  invece, ne promuoviamo e incoraggiamo l’uso. 

***

“Incatenare le sillabe e frustare il vento sono entrambi peccati d’orgoglio”,  dalla prefazione al Dizionario di S. Johnson, 1755.

Cos’è un asterisco? Una stella che luccica in fondo ad una parola, il piccolo scoppio che segue una detonazione di vocali, un’anomalia agrammaticale che punta le sue piccole dita all’omissione consapevole di tutt* coloro che non sono compres* nell’ideologico “neutro universale”, ovvero il privilegio del maschile.

Un asterisco moltiplica le possibilità, invece di frazionarle come fa una barretta (i/e) – esplicita la variabile alla norma duale, sottolinea l’obbligatorietà di fermarsi a riflettere: perché salutando un gruppo di donne in cui è presente un solo uomo, si dice “ciao a tutti”   – e questo è ‘normale’ – ma se si dice allo stesso gruppo “ciao a tutte” l’uomo in questione terrà a rimarcare la sua estraneità alla desinenza femminile? E che dire di tutte le favolosità che non sentono di rientrare nelle i e nelle e? O di rientrare in entrambe? L’asterisco non fa distinzioni, abbraccia tutt* con lo stesso entusiasmo, e da tutt* può essere abbracciato!

Un asterisco non è leggibile, obiettano poi molt*, e allora che si fa? Già, che si fa? E perché mai l’asterisco dovrebbe essere la soluzione al problema? L’asterisco evidenzia il problema, e nella forma scritta è inclusivo di qualsivoglia soggettività, perciò dal canto suo ha già fatto tanto sporco lavoro.  E quando poi ci si trova a doverlo pronunciare, ci si sente spiazzat*: si comincia a farfugliare, a mescolare maschile e femminile, ad evitare le desinenze.

Ben venga il turbamento causato dall’asterisco, e fintantoché non si palesi anche nella lingua parlata una svolta davvero antisessista, ogni regola vale: i maschili universali allora saranno affiancati ai femminili universali senza che nessun* debba risentirsi! Potremo decidere di usare la -u, che non ha connotazioni di genere (fa strano dire “Ciao a tuttu?” Solo perchè nessunu ci è abituatu!), di passare fluidamente da un genere all’altro senza considerarlo un errore grammaticale.

La lingua è plastica per definizione, è uno strumento di descrizione della realtà e in sé non ha forma perché la sua forma è dettata dalla sua sostanza in perenne evoluzione; e proprio per questo il mutamento linguistico non è questione di poco conto, poiché la lingua dialoga con la realtà: ciò che non può essere nominato, non esiste, e il successo di una lingua o di determinate forme linguistiche hanno tutto a che vedere con il potere di chi la parla. A questo punto occorre domandarsi: chi esiste e chi non esiste nell’italiano con la I maiuscola? Chi detiene il potere prescrittivo, regolamentare e sanzionatorio delle desinenze?

La lingua deve fare gli interessi di coloro che la parlano,  e chi la parla è una vasta gamma di soggettività che hanno tutte egualmente diritto ad esistere, nel mondo come nelle sue parole;  non certo gli interessi culturali e politici di chi per malcelato conservatorismo, di destra o di sinistra, vorrebbe proteggere e coccolare l’idea, estremamente elitaria, di una lingua italiana ufficiale e perfetta elevata a divinità – etichettando di conseguenza qualsiasi sua variante meticcia e plebea  come peggiore dei mali possibili.

Il concetto di prescrittivismo grammaticale è innatamente reazionario, visto che predica il ritorno a uno ‘stato precedente’ di presunta correttezza grammaticale universale di fronte al trasformarsi (o, secondo la prospettiva dei suoi sostenitori, all’imbastardirsi) di una lingua. Riesce difficile pensare come chiunque si posizioni genuinamente contro lo stato di cose presenti possa voler sostenere una visione simile, senza contare che – non esistendo un modo oggettivo di stabilire cosa suoni bene e cosa no – le critiche, quand’anche presentate come puramente fonetiche, sono critiche politiche. Se una lingua è allora riformata sempre in senso ideologico, che sia l’ideologia di chi costruisce la libertà, non quella di chi la nega.

L’asterisco è una modifica grammaticale accettabile e coerente nel paradigma corrente di approccio normativo al linguaggio? Probabilmente no. Il problema è proprio questo, non l’uso atipico della punteggiatura e men che meno altre proposte di riforma linguistica in direzione antisessista. A chi è più cruschista della Crusca, la quale circa l’utilizzo di forme linguistiche più aperte e rispettose dei passi in avanti li sta compiendo, non rimane che accaparrarsi la tessera di Forza Nuova.

frantic & feminoska

* l’immagine usata nell’articolo (addizionata di immancabile asterisco) è di Araki, Tokyo Lucky Hole.

Come riconoscere un anarcomachista

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Illustrazione di Suzy X

L’anarcomachista è aggressivo, competitivo fino all’eccesso. Elitario, paternalista; più puro dei puri e più forte dei forti. Riesce misteriosamente ad essere dogmatico pur professando il suo odio per ogni dogma. Persegue la coerenza in maniera totalizzante e obnubilante, ignorando che in un mondo di contraddizioni sociali tale perfezione non può esistere. Insegue l’alienazione delle politiche che porta avanti nella stessa maniera in cui egli pensa di porsi di fronte all’esistente: senza compromessi.

L’anarcomachista è misogino ma può non sembrarlo. La sua pericolosità è direttamente proporzionale alla sua capacità di mimetizzarsi come “bravo compagno” o come individuo non stereotipicamente maschilista. Può essere qualunque uomo. E di tanto in tanto, persino qualunque donna.

L’anarcomachista rincorre la logica del martirio e pensa che sia giusto e necessario che chiunque faccia altrettanto. Non tutt* vogliono o possono essere picchiat* e incarcerat*, ma a lui non importa. Perché pensare all’orizzontalità e all’incolumità altrui quando si può godere di un trip testosteronico con lo scontro di piazza fine a sé stesso, tatticamente inutile? Non si pone mai il problema di aver sovradeterminato le decisioni e le voci altrui: non lo farà né per il destino di una manifestazione, né per altro.

L’anarcomachista pensa di vivere in una bolla di sapone al di fuori della società, immune alle influenze aliene dei contesti oppressivi da cui emerge, pertanto sente di non avere alcuna responsabilità nell’aumentare la consapevolezza dei suoi privilegi e oppressioni e men che meno quella di combatterli. Ove necessario, ne nega l’esistenza – o peggio ancora, si proclama fintamente suo nemico, ingannando compagne e compagni di lotta. I quali non se ne accorgeranno per molto ancora: si dice che i fatti contano più delle parole, ma se i fatti contraddicono l’immagine idealizzata che si ha dell’ambiente sovversivo e dei suoi abitanti, allora le parole pare proprio vadano più che bene.

L’anarcomachista è emozionalmente impedito, e arroccato nella sua corazza di cinismo e distanza emotiva, prova una profonda paura di ogni cosa che non sia lineare, razionale, e risolvibile con due punti sull’ordine del giorno. Non sbaglia, non si scopre e non si mette mai in discussione: la sua lotta è sempre e comunque votata alla superficialità.

L’anarcomachista non si fida di nessuno, specialmente delle esperienze delle persone su cui ha potere, alle quali risponde in maniera dismissiva e trivializzante.

L’anarcomachista è un capolavoro di narcisismo. Si sente legittimato a colonizzare ogni discorso, ogni spazio, ogni sentimento, ogni corpo. Vuole essere ascoltato, ma non è disposto ad ascoltare: non è infrequente vederlo palesemente scocciato e annoiato quando gli si parla di questioni che crede non lo riguardino. Basta una vaga avvisaglia di critica politica per farlo andare sulla difensiva.

L’anarcomachista dimostra spesso, nelle sue interazioni sociali, una propensione a battute e linguaggi sessualizzanti (nei confronti delle donne) e omotransfobici. I gruppi, collettivi, organizzazioni a cui partecipa sono caratterizzati da un altissimo ricambio di persone, le quali fuggono esauste e infastidite da lui, dai suoi comportamenti e dai silenzi collettivi che ne consolidano la posizione. Talvolta i componenti di questi gruppi, collettivi, organizzazioni si domandano il perché di questi esodi, ma sembrano non accorgersi del fatto che essi sono compiuti principalmente da persone svantaggiate in qualche asse di privilegio.

L’anarcomachista prende posizione: o sei la soluzione o sei parte del problema. Questo soltanto finché il problema è fuori dalla sua portata. Se un suo amico, parente, compagno abusa verbalmente, emozionalmente, psicologicamente, fisicamente o sessualmente di qualcun*, questa sua capacità improvvisamente sparisce e lascia il posto a una silenziosa, pacifica, violenta equidistanza. Non comprende che non credere alla vittima significa in automatico abbracciare la versione di chi l’ha resa tale.

L’anarcomachista riesce a riempire intere ore assembleari di lotte intestine, discussioni inutili e lunghe digressioni inappropriate piene di fuffa. Parla di teoria quando serve agire, e di azione quando serve pensare.

Riconosci ed estirpa l’anarcomachista che è in te e negli altri!

Il femminismo è stato sequestrato dalle donne bianche borghesi

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Questa è la trascrizione del discorso tenuto da Myriam Francois-Cerrah in occasione di un dibattito tenuto alla Oxford Union il 12 febbraio, in cui ha sostenuto la mozione approvata “Questa Camera è persuasa che il femminismo sia stato sequestrato dalle donne bianche borghesi“.

Myriam Francois-Cerrah, ricercatrice alla Oxford University, studia i movimenti islamici in Marocco e si occupa di Medio Oriente e di attualità in Francia. E’ giornalista, anche televisiva e  radiofonica, ed oltre a collaborare con testate quali  The Guardian, New Statesman, The Independent, Middle East Eye e Al Jazeera English, anima dibattiti televisivi su Sky News, BBC Newsnight, Channel 4 news, etc.

L’originale del suo intervento qui. Traduzione collettiva con La Pantàfika e Jinny Dalloway.

Signore e signori, è un piacere essere qui con voi stasera.
Lo so, lo so – l’apparente ironia della mia condizione di donna bianca borghese che ritiene che il femminismo sia stato sequestrato dalle donne bianche borghesi non vi sfuggirà, ne sono certa. Ma è sotto molto punti di vista una rivendicazione della mia condizione. Dopotutto, rappresento una minoranza nella mia comunità di appartenenza – non rappresentativa delle donne musulmane, né qui, né nel sud del mondo, né dal punto di vista del mio profilo socio-economico o etnico – nonostante molto spesso io venga chiamata a parlare proprio a partire da tale soggettività.

Prima di presenziare oggi, ho riflettuto a lungo e duramente se fosse il caso di lasciare il mio posto ad una delle mie molte eroine, donne di colore le cui voci sono spesso zittite non solo dalla narrazione bianca, ma anche dal privilegio bianco che, per quanto sia mitigato, per certi aspetti, dal velo che porto sulla testa, cionondimeno incarno. Alla fine ho deciso di partecipare per un motivo fondamentale, e cioè per sottolineare che la critica al femminismo bianco – o, in senso più ampio, alla cultura bianca – non è una discussione in merito alla razza – ma ad una categoria politica, che implica uno squilibrio di potere tra la cultura bianca dominante e le identità subalterne.

L’espressione “le/i bianch@” non si riferisce al colore della pelle delle persone, quanto piuttosto all’identificazione di queste ultime con le relazioni di potere dominanti che continuano ad assoggettare le persone di colore in una condizione di seconda classe, e a relegare le donne di colore proprio al punto più basso della piramide sociale. Non posso e mi rifiuto di parlare per le donne musulmane – io parlo solamente in quanto donna, femminista e musulmana, la cui solidarietà va in primo luogo al sud del mondo. E parlo in quanto femminista intersezionale che crede che la razza, la classe e il genere siano cruciali per il dibattito femminista.

Arundhati Roy ha affermato in un’occasione: “Non esiste chi è ‘senza voce’, solo chi è deliberatamente zittit@ e preferibilmente inascoltat@.” Quando si tratta di concezioni alternative di femminismo, il movimento femminista oppone una resistenza ostinata all’inclusione di voci altre. E per inclusione non intendo il mero riconoscimento che ai margini esistano voci “altre”, un cenno di benevolenza a chi non si conforma pienamente alle “nostre modalità”. Non intendo nemmeno l’epidermica molteplicità di visi differenti – ma la sostanziale differenza nelle svariate concezioni della “realizzazione femminile”. Mi riferisco all’accettazione del fatto che la cornice concettuale bianca, laica e liberale, non è l’unica prospettiva dalla quale le donne possano esprimere le proprie battaglie.

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Al posto di avallare l’assunto predominante secondo il quale le voci femministe alternative stanno cercando di raggiungere il più “avanzato” femminismo occidentale, intendo far comprendere che femminismo non significa “salvare” le donne del sud del mondo, ma imparare da loro, in quanto pari in una battaglia condivisa. Sebbene questo riconoscimento stia lentamente facendosi strada, spesso è troppo simbolico e alle volte profondamente condiscendente.

Il mio dottorato di ricerca riguarda il Marocco, paese nel quale molte delle donne che ho intervistato si identificano come credenti religiose impegnate: nella loro società, rappresentano l’avanguardia nella battaglia per la reinterpretazione dei testi religiosi in una luce egualitaria e combattono l’idea di supremazia maschile o di somma autorità, ma allo stesso modo – in molti casi – rigettano il termine “femminismo” in quanto concetto occidentale che mal si adatta ai loro bisogni di donne marocchine musulmane, un’idea d’importazione che una donna ha descritto come “un’altra forma di imperialismo culturale, concepito per alienare le donne native dalla reale fonte del proprio potere”, cioè la propria cultura di appartenenza.

Mentre, in quanto femminista musulmana, sono ben consapevole delle battaglie per l’uguaglianza nell’ambito della mia fede, riconosco anche che il problema della disuguaglianza di genere non è responsabilità esclusiva della religione. Infatti, la povertà e l’autoritarismo – condizioni non esclusive del mondo islamico, e derivanti dalle interconnessioni globali che implicano anche l’occidente – sono spesso le più decisive.

Il femminismo di cui mi sento parte, il femminismo a cui mi ispiro, è il femminismo di donne che resistono all’imperialismo, allo sfruttamento, alla guerra e al patriarcato – è il femminismo delle donne indiane che lottano contro la cultura dello stupro, delle palestinesi che resistono all’occupazione israeliana, delle bengalesi che reclamano condizioni minime di sicurezza nelle fabbriche dove producono vestiti per le false femministe alla moda – le innumerevoli donne delle primavera araba e la loro resistenza ancora in corso!

Quando affermo che il femminismo è stato sequestrato dalle donne bianche, intendo dire che la cultura bianca continua a dominare la narrazione in tutti i campi e riduce i punti di vista alternativi a pittoreschi contributi, funzionali alla conferma dell’eterna verità della supremazia bianca. Mi riferisco alla strumentalizzazione delle Malala Yousafzais del mondo, eroine locali trasformate in pedine politiche usate per giustificare le guerre e le occupazioni in corso, che alla fine colpiscono le donne ancor più duramente. La questione dell’educazione delle donne viene rielaborata allo scopo di giustificare l’imperialismo occidentale.L’esempio di Malala è solamente utile a ratificare le priorità del femminismo bianco e la percezione delle donne ‘altre’ quali bisognose di aiuto, come grate destinatarie di interventi esterni.

Malgrado tutte le giustificazioni femministe del saccheggio dell’Afghanistan, il tasso di morte delle madri afgane oggi è fra i più alti del mondo. Un recente rapporto delle Nazioni Unite individua la causa nei decenni di conflitti laceranti che si sommano alle attitudini repressive verso le donne.

Lo stesso schema viene replicato altrove: quando in Nigeria 200 studentesse vengono rapite da Boko Haram, piuttosto che focalizzare l’attenzione sulla ricerca delle ragazze, la storia è usata per giustificare la ‘guerra globale al terrore’ in corso. Una guerra che, tra l’altro, non sembra sia ancora servita a far ritornare le ragazze. Esistono molte ricerche sull’impatto della guerra sulle donne, che sono annoverate tra le vittime principali, non solo in termini di vittime effettive di guerra, ma anche nella propria lotta per l’autonomia, perché ciò che in realtà avviene in caso di conflitto è la polarizzazione dei ruoli di genere: la mascolinità diventa più aggressiva e le donne vengono idealizzate quali “vestali di un’identità culturale” – e i corpi delle donne diventano campi di battaglia. Questo avviene sia nella Repubblica democratica del Congo che in Afghanistan.

Ed è qui che il femminismo bianco continua a non rispondere al richiamo di una reale solidarietà femminista, non facendosi carico delle critiche che gli arrivano dai margini. C’è, da sempre, troppo poca autocritica, troppa reticenza a mettere in discussione la supremazia bianca. Le bianche hanno partecipato attivamente al sistema schiavistico americano, di cui sono state proponenti e beneficiarie, così come degli imperi coloniali, e verosimilmente continuano a essere beneficiarie dell’imperialismo e dello sfruttamento.
I vestiti che compriamo a basso costo, il petrolio con cui riforniamo le nostre macchine, i diamanti che desideriamo, sono tutti legati alla lotta femminista perché, per parafrasare bell hooks, se il femminismo cerca di rendere le donne pari agli uomini, allora ciò è impossibile perché la società occidentale non considera gli uomini tutti uguali.

Non ci può essere parità fra uomini e donne fino a quando non ci sarà una compensazione della inequità globale che pone la bianchezza all’apice della gerarchia umana e conseguentemente fa delle donne bianche borghesi lo standard per l’emancipazione femminile.
Ed è per questo motivo che gruppi come Femen sono parte del problema – quando fanno affermazioni quali “come società, non siamo stat* in grado di sradicare la nostra mentalità araba nei confronti delle donne”, perché è idea comune che TUTTI gli Arabi odino le donne, vero?

In risposta alla campagna delle donne musulmane per denunciare le Femen come razziste e paternaliste, Inna Shevchenko – che ci onora della sua presenza stasera, ha risposto: “Scrivono nei loro manifesti che non hanno bisogno di essere liberate, ma nei loro occhi c’è scritto ‘aiutatemi’.” Qualcun@ soffre del complesso della salvatrice bianca?
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Questa specie di pseudofemminismo che perpetua l’idea delle donne di colore quali passive, senza voce e bisognose di essere salvate dai propri uomini, se non da loro stesse, non è un femminismo che riconosco. Le donne del sud del mondo combattono contro i problemi portati dal patriarcato?

Certo che sì! Oltre a tutti gli altri problemi alimentati da un sistema capitalista fondato sulla disuguaglianza, combattono anche contro le varianti locali del problema virtualmente universale del patriarcato. Coloro che si sforzano di proclamare una solidarietà femminile onnicomprensiva devono cominciare ad affrontare la complicità continua di molte donne bianche nelle più generali condizioni di assoggettamento – militare ed economico – che opprimono le loro cosiddette “sorelle” del sud del mondo.

Un’attivista sudafricana ha detto una volta: “Entra nel mio spazio, rispetta le persone che ci vivono (…) non venire a sovradeterminare”.
Se il mio privilegio bianco è necessario per amplificare questo messaggio, almeno sarà servito ad un fine positivo nella più ampia lotta per l’uguaglianza dell’umanità.

L’intersezionalità non è un tubino nero

little_black_dress_-1-1E’ in giorni come questo, quando mi appresto a leggere un articolo che penso possa interessarmi e trovarmi concorde e poi capito su certi abomini, che davvero perdo il lume della ragione. L’articolo in questione, capace di farmi avere un rigurgito di bile (l’ennesimo) della giornata è questo. E sì che l’ho cominciato pieno di speranza, trattandosi della critica all’atteggiamento miope di certo femminismo bianco alle istanze di categorie umane dallo stesso nemmeno contemplate come esistenti in galassie lontane.

Già gongolavo al rimando critico al sistema di polizia e carcerario statunitense e alla sua predilezione per l’arresto o l’omicidio di persone di colore, quando la riga dopo, in grassetto leggo “[…]quei giorni, ve li ricordate? Erano quelli in cui in Italia si parlava solo dell’Orsa Daniza.”

Proseguo l’articolo, già schiumante di rabbia, ed ecco che arriva la chicca, un rimando in chiusura all’intersezionalità!

Laura, o BettieCage come ti firmi su twitter, forse è ora che apri qualcuna delle gabbie mentali che nemmeno sai di avere, e ti rendi conto che quello di cui accusi Patricia Arquette lo stai facendo anche tu, proprio allo stesso modo! Sai, nella galassia femminista (o attivista) esistono delle femministe che si dichiarano, tra le altre cose, antispeciste. E non solo, dichiarano di riconoscersi in quella parola, intersezionalità, che tu hai usato davvero a sproposito, poiché l’intersezionalità è guardare alla comunanza d’oppressione che condividiamo non solo con le altre donne, ma con altri  individui (in virtù delle discriminazioni relative a razza, abilismo,  genere, orientamento sessuale, aspetto, età, classe) e… tadaaaan, anche con gli animali non umani, che sono oppressi in virtù della loro ‘animalità’ (concetto costruito ad arte sul quale forse potrebbe interessarti leggere questo articolo).

E diciamolo, non è che siamo proprio 4 gatte – nel senso letterale del termine – ma spesso ci troviamo di fronte altre femministe,  o attivist@ in genere, che sputano sulle nostre convinzioni, sui nostri sforzi, sulle nostre lotte, alle quali crediamo e diamo tutte noi stesse… un pò come Patricia Arquette fa nei confronti delle istanze che evidentemente o non conosce, o non la toccano più di tanto. Peraltro, questo gioco ad accusare altr@ attivismi, che magari non ci interessano direttamente, come sassolini nelle scarpe della grande rivoluzione, è davvero meschino e non porta ad un atteggiamento di critica costruttiva che possa dar conto delle difficoltà che attraversano i movimenti in generale, oltre che essere davvero il contrario di quello che significa avere un atteggiamento intersezionale.

Seguendo l’articolo che è linkato nella riga sopra citata, quella relativa all’orsa uccisa, mi trovo di fronte un nuovo atteggiamento scandalizzato per l’attenzione data alla morte dell’orsa, rispetto a quella di un ragazzo nero, Michael Brown.

Ora: esistono attivist@, INCREDIBILE!, che si addolorano per entrambe le morti, che hanno abbastanza lacrime per piangerle entrambe, o abbastanza rabbia per scriverne. Che sanno soffrire per Daniza e i suoi cuccioli come per Michael e i suoi familiari. Che non vogliono allargare il cerchio del privilegio a più categorie, ma vogliono abbatterlo, perchè credono fortemente che ciò sia non solo possibile, ma essenziale per scardinare davvero il sistema oppressivo nel quale viviamo.

Basterebbe affrontare l’argomento senza pregiudizi (bianchi o specisti), con la mente aperta a ciò che non ci è ancora familiare, con un atteggiamento realmente intersezionale. Non è quello che traspare dalle vostre pagine, che grazie a questi continui riferimenti a scale di valori – gli umani più dei non umani – ricalcano esattamente altrui scale di valori che non esitate a criticare con forza – quelle di Patricia Arquette ad esempio.

Non solo dunque dimostrate nei fatti di non aver capito granché dell’intersezionalità, che non è un abitino pret-à-porter per ogni stagione ma una teoria, nonché una pratica includente e dialogante che si mette in relazione con e non sceglie esclusivamente le oppressioni che si  sentono più vicine – ma riuscite in tal modo, invece di creare sinergie tra attivist@, a frammentare ancora di più le relazioni, le possibili pratiche e orizzonti di collaborazione con chi avete più vicino. Un doppio autogol e una pesante ed evidente mancanza di argomentazioni. Peccato, un’altra occasione persa.

 

Compagn@ è una parola vuota

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I compagni, le compagne, siamo compagn@… compagn@ è una parola vuota, anzi una parola svuotata, però fa molto figo usarla per definirsi in rapporto alle/agli altr@ attivist@.

Siamo compagn@, oh sì che lo siamo, siamo così compagn@ che non solo non ci poniamo alcun problema a sbranare costolette di fronte alle/ai compagn@ antispecist@, prendendol@ pure, e nemmeno velatamente, per i fondelli, ‘st@ sensibilon@, ‘st@ mollaccion@, ma soprattutto ‘st@ cagacazzi! O magari usiamo l’approccio ‘politicamente corretto’, quello del “ohmaguardachenoic’abbiamol’alternativavegana”, che ci fa sentire taaanto comprensiv@ nei confronti dei pover@ disagiat@, che insomma oh, ma fossero questi i problemi del mondo… che poi di ascoltare una volta tanto, di ragionare, di metterci il cuore e tutta la bella compagnitudine non ci passa per l’anticamera del cervello – che forse forse quel privilegio che ci stanno facendo notare, quello per cui maciulliamo vite tra i denti senza rimorso, mentre ci sentiamo taaanto virtuos@, taaanto militant@, un pò ci infastidisce, eh, ma giusto poco poco…

Alla fin fine, per quale motivo ci dovremmo rinunciare? Tanto quegli esseri inferiori che sono gli altri animali non ce li ammazzano davanti  (occhio non vede, cuore non duole!). E anzi quando possiamo e ci sentiamo particolarmente ispirat@ una bella battutona acida su faccialibro, a ‘st@ spocchios@ gentrificat@ veg non ce la facciamo mai mancare! Poi beh, ovvio che anche i veg anticapitalist@ che si dedicano all’autoproduzione sono sciroccat@, ma ti pare che con tutta la militanza che c’è da fare c’abbiamo il tempo di farci il tofu? Essù, eddai!

Siamo compagn@, oh sì che lo siamo, e siamo taaaanto antisessist@, così tanto che quando le compagne ci propongono la serata postporno ah, sì che siam d’accordo, w il postporno! Alla fin fine lo sappiamo, si vede la fica no, quello mica ci spiace, poi va be’,  siamo tutt@ poliamoros@, però lo sai che quella ci prova con quell’altro mentre ‘sta con il terzo, beh chiaramente è una “gran troia”, però insomma, siamo antisessist@, certo, guarda io al corteo mi vesto pure di ROSA, adooooro il bike smut. Oh, però, scusa mi viene da parlarti al maschile anche se ti fai chiamare Anna, cioè, va bé, mica è un problema no, mica sei suscettibile come ‘sti finocchi…

Siamo compagn@, eccome no!? E’ perchè siamo compagn@, tanto compagn@, che se non ti presenti agli appuntamenti militonti con un’altr@ compagn@ certificat@ non sei un cazzo di nessun@, cioè magari sì, ti ho visto ogni tanto ai cortei o alle serate,  beh anche più di qualche volta, anzi, forse avevamo pure fatto un volantino insieme, che era venuto figo, sì sì ricordo…sì ma alla fine…CHI CAZZO SEI? E come cazzo ti permetti di dire la tua, cioè forse ti sei fatt@ delle idee, ma non sei NESSUNO. Perché per essere qualcun@ devi mangiare tanta merda, un pò di sano nonnismo militante tempra gli animi e seleziona solo i più puri, quell@ che saranno davvero compagn@, senza se e senza ma.

Car@ compagn@, che pronunciate più voi la parola ‘compagn@’ che le/i quindicenn@ la parola ‘cioè’, voi siete tutto tranne che compagn@: poi vi chiedete, ogni tanto, in un barlume di coscienza, come mai si è sempre in 4 stronz@ alle iniziative… beh, fatevi una domanda e datevi una risposta.

Anzi, oggi la risposta ve la suggerisco io: perché siete davvero tanto stronz@ e ipocrit@.