Un compagno ha bisogno di aiuto

È un bel po’ che di questo blog non rimane che un archivio. Ma vi chiediamo un ultimo sforzo finale per uno di noi che se la sta passando molto male, e che ha bisogno di tutto l’aiuto possibile. Non possiamo fare altro che linkarvi il crowdfunding messo su dalle persone a lui più care e sperare nella solidarietà militante di cui ci facciamo parecchio vanto.

Salve a tutti. Siamo Elena, Varxh e Chiara, tre persone molto vicine a Den. Abbiamo deciso che quest’ultima se la cavava meglio con le parole, e le abbiamo chiesto di parlarvi di lui. 

È sempre strano cercare di strizzare in qualche riga tutto quello che si dovrebbe sapere di un essere umano, ma per amor di sintesi tenteró. Conosco Den da qualche anno, e mi è sempre sembrato una persona fantastica. È comprensivo, pirotecnico, folle il giusto, e curioso di tutto. In un giornata tipo lo si trova a divorare (metaforicamente) libri di Hawking o di qualunque altro astrofisico conosciuto (la grande passione), o variegati pezzi letterari e non di scibile umano, solitamente circondato da palle di pelo miagolanti. Ha solo 21 anni, e giá ha all’attivo vari articoli su giornali online (argomenti: intersezionalità, femminismo, critica sociale), unapartecipazione mensile su Radio Onda Rossa, vari interventi in eventi di centri sociali romani. Insomma, oltre a essere un umano fantastico è anche molto coinvolto socialmente, cosa che gli riesce benissimo. Scrittore insonne, ha anche un blog, dove trovate poesie e pezzi suoi, scritti probabilmente alle 4 del mattino in raptus creativi improvvisi (con immancabile essere micioso annesso). Beh, immaginate un Baudelaire giovane e post-moderno che al chiaro di luna batte a macchina fantasie meravigliose e avete piú o meno l’immagine che cerco di trasmettere (togliete l’assenzio e rimpiazzatelo con camomilla fumante). Qui e qua troverete il resto che fa. 

Venendo al punto saliente: perché aiutarlo? Se le immagini accattivanti descritte prima non bastassero come motivazione, ne aggiungerei una ulteriore. La vita, giá prima ma recentemente peggio, lo ha preso a sassate innumerevoli volte in molti ambiti diversi. È una persona che, con le adeguate risorse e possibilità sará grandi cose, senza dubbio. E il fatto che per casualità lui non le abbia non mi sembra un buon motivo per cui non dovrebbe riuscire a fare qualcosa di meraviglioso nella vita. Tutti noi quindi abbiamo deciso di aiutarlo, creando questa campagna, con un piccolo contributo da ognuno la situazione migliorerà di sicuro. Spero di avervi fatto conoscere almeno un pó la persona che conosco io.

Ritorniano a noi: aprire un crowdfunding implica avere una posizione precisa. È l’idea che il singolo non debba essere abbandonato a se stesso, che la partecipazione collettiva non debba ridursi a sporadici atteggiamenti di elemosina e pietismo, ma essere un sostegno attivo, permanente, reciproco, umanizzato, solidale: responsabilità verso gli altri. Vogliamo che gli scogli, gli ostacoli di ogni giorno non siano solo un problema di Den e le persone a lui immediatamente vicine.

Da molti anni soffre di gravi forme ansiose e depressive, non trattate perché nessuno si è mai accorto e in ogni caso, nessuno aveva risorse per farlo, ormai diventate ingestibili e pericolose. C’è urgentemente bisogno di un intervento immediato.  Si trova a venire a patti con varie problematiche fisiche – tra cui dolori neuropatici mai arrivati a attenzione medica – che uniti alla sua condizione di autistico annullano drasticamente le possibilità di spostarsi da casa senza un mezzo di trasporto idoneo, non posseduto. Non siamo più disposti a tollerare la marginalizzazione, l’indifferenza, il rimando, l’abilismo di servizi che si sottraggono al prenderlo in carico, individuando nel suo sostegno qualcosa di accessorio e in cui non investire: chiediamo partecipazione di tutti nel garantirgli una psicoterapia, un sostegno medico, mezzi di trasporto idonei, un computer che è l’unico mezzo con cui può lavorare. Tutte cose che non si può permettere viste le disastrose condizioni economiche della sua famiglia.

Speriamo vivamente nella vostra solidarietà <3 

Di pippe all’asilo, ideologia gender e comici norvegesi

Non so se lo sapete – il tipico inizio di chi presuppone che i suoi lettori siano già d’accordo con chi scrive, ed è per questo che vi amo così tanto – ma da qualche tempo pare che ‘sta polemica sul “gender” abbia passato un po’ il limite. Anzi, ne ha passati diversi, perché come insegna il buon Carlo Cipolla, «sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione». E questo ha delle conseguenze, soprattutto se, com’è facile dimostrare, a trarne vantaggio sono sempre i soliti banditi – per usare ancora la terminologia di Cipolla.

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L’extracomunitario stupido in divisa (avvisate Salvini)

In questa immagine potete vedere l’inizio di una comunicazione che un parroco di Cerveteri ha pensato bene di diffondere sul suo territorio, presa da questo luogo virtuale su facebook. Leggiamo che:

…i vostri figli saranno istigati all’omosessualità […] saranno invitati alla masturbazione precoce fin dalla culla […] obbligati ad assistere alla proiezione di filmati pornografici […] obbligati ad avere rapporti carnali con bambini dello stesso sesso.

Il tutto, secondo questo genio, accadrebbe in corsi presenti nel Piano di Offerta Formativa della scuola, cioè in un documento ufficiale di una struttura pubblica. E in più, il suo delirio di stupidità non è proiettato al futuro, ma è storia ed esperienza, perché

Queste cose sono già accadute nelle scuole in cui il gender è stato sperimentato, Italia compresa, producendo nei minori pianti, svenimenti e danni psicologici irreparabili!

Ovviamente, nessuna prova a riguardo. Perché prove non ce ne possono essere, dato che si parla di una cosa che non esiste né è mai esistita. Un qualunque avvocato, anche non particolarmente esperto di questi argomenti, potrebbe facilmente convincere il genitore ingenuo ma ancora fedele alla parrocchia che:
1) quel parroco si è reso colpevole del reato di diffamazione verso tutte quelle persone che lavorano nella scuola e per la scuola alla costruzione del P.O.F., dato che non può provare nulla di quanto afferma gravemente, gettando così discredito sulla sua persona e sull’istituzione che rappresenta (che poi questo non interessi manco alla suddetta istituzione è un altro discorso, ma vabbè);
2) il parroco non capisce niente di leggi e cita a vanvera le norme nazionali e internazionali sul diritto all’istruzione scelto dai genitori: una volta che hai iscritto la prole a una scuola, hai esercitato il diritto. Punto. Questo non si estende direttamente agli argomenti e ai contenuti, altrimenti ai miei figli avrei prescritto almeno cinque ore settimanali di storia dell’A.S. Roma.

Di solito a un extracomunitario in divisa che pensa di capirci qualcosa di questioni di genere e di diritto all’istruzione – e invece è solo, nei termini cipolliani, uno “stupido” perché col suo agire arreca danno a sé a agli altri – rispondo abbastanza esagitato che “l’ideologia gender non esiste” passando ad argomentare punto per punto le sue castronerie.
Ma così facendo rischio di essere stupido anche io. Passiamo a un argomento più serio. Dura poco, promesso.

Ma ‘sta ideologia gender esiste o no?

marescialli2Dice molto saggiamente l’amico Alessandro Lolli che sia “ideologia” che “gender” sono diventate parolacce a causa del loro uso politico da parte di una ben precisa cerchia di persone, che avevano e hanno ancora un interesse specifico affinché queste parole, sia separatamente che insieme, siano connotate negativamente – a questo tipo di persona affibbio il nome cipolliano di “banditi”.

E tuttavia quello che affermano gli studi di genere è una visione del mondo, di un mondo non presente, una visione rivoluzionaria di un mondo a venire. Non dobbiamo credere alle paranoie delle maggioranze accerchiate, questa immagine è falsa e offensiva. È terribilmente offensiva perché i nazisti, che sul tema erano sicuramente più vicini alle posizioni di Miriano e delle Sentinelle in piedi rispetto a quelle dei movimenti LGBT, hanno sterminato migliaia di omosessuali. È palesemente falsa perché la società occidentale è ancora dominata dal maschio bianco eterosessuale e le sue categorie strutturano le menti delle donne e degli uomini. La maggior parte delle persone crede che ci sia qualcosa di naturalmente maschile come la determinazione, l’aggressività e la passione per gli sport e qualcosa di naturalmente femminile come la dolcezza, la remissività e la mania dello shopping. Quello che De Beauvoir, Belotti e Butler, pensano delle donne e degli uomini, e di conseguenza quello che Chiara Lalli, Pasquale Videtta e Simona Regina riassumono nei loro articoli, è tutt’oggi enormemente distante da ciò che ne pensano le donne e gli uomini comuni.

In effetti tutti quegli stupidi che straparlano di gender senza averci mai capito niente si fanno rispondere che, come ho detto anche io spesso, la teoria del gender non esiste. Questo però tecnicamente non è esatto, perché anche quella proposta e difesa dalla chiesa cattolica è una ideologia gender, una delle tante possibili: “la natura ci fa uomini e donne eterosessuali, il resto è un’offesa al creato cioè a Dio, vallinferno punto”. Dire che non esiste è una tattica produttiva?

Ma se sono delle tattiche bisogna capire se funzionano, se raggiungono gli obiettivi. Forse localmente questa tattica è vincente, forse negare la propria radicalità per entrare nelle scuole, nei festival, negli ospedali, nelle istituzioni è efficace; ma ho dubbi sulla bontà strategica di questa ritirata nella non-esistenza. Mi ricorda una delle mosse che ha fatto la sinistra italiana per raggiungere la propria estinzione negli ultimi vent’anni.

Méttece ‘na pezza… (per gli esterni al GRA, la traduzione è: “non è facile da confutare, questo punto di vista”). E a proposito di pezze, a sostenere che l’ideologia gender non esiste si corre un altro rischio, come sottolineano Federico Zappino e Deborah Ardilli:

Sarebbe poco interessante replicare alle argomentazioni di ciascun negazionista, così interessato a sostituire idraulicamente la teoria del gender con gli irenici “studi di genere”, o con i programmi scolastici di “educazione alle differenze” volti alla decostruzione degli stereotipi o alla promozione di un maggior rispetto per le “diversità”, o a bacchettare col dito alzato sulla parola “teoria”, sostituendola con il plurale “teorie”, o con il rocambolesco “teorizzazione”. Sarà sufficiente digitare su qualunque motore di ricerca “la teoria del gender non esiste” per avere una panoramica sufficientemente ampia dell’allucinato dibattito in corso. Quale che sia il nostro giudizio sugli “studi di genere”, sulle “teorie” al plurale, sulle equilibriste “teorizzazioni”, sulla bontà della decostruzione degli stereotipi o sull’auspicabilità di una società più rispettosa, reputiamo innanzitutto più importante rinunciare a fare atto di sottomissione ai termini del discorso così com’è impostato, poiché attraverso questo discorso l’eteronormatività tenta di mettere una pezza ai problemi che essa stessa ingenera.

E anche questo è vero: a furia di dire che non esiste si assume come valido il paradigma discorsivo di chi il gender non lo vuole, e certo non si fa un favore a quel modo di vedere il mondo liberatorio e auspicabile per tutt* che invece l’eteronormatività continua a volere per sé, “concedendolo” più o meno e in vario modo a chi eteronormale non è. Rimane il fatto che non si può parlare allo stesso modo col parroco di Cerveteri e con Marzano e Muraro, che negano – loro sì – l’esistenza di qualunque gender non corrisponda alla loro ideologia. E allora?

Diceva qualcuno: tattica ed etica

Faccio un esempio personale, a proposito di esistenza o meno di ideologia gender.norwegian_glbt_pride_flag_postcard-r85f11401be624623bdb6c8ed413a7044_vgbaq_8byvr_512

Qualche settimana fa trovo sul solito gruppo facebook di difensori della famiglia naturale e di tutte le altre cose belle della chiesa loro ma non delle altre un link a questo documentario norvegese, nel quale il comico Harald Eia avrebbe fornito prove per le quali «il governo norvegese ha ritirato il finanziamento al Nordic Gender Institute nato a sostegno dell’ideologia del gender». Facciamo finta che queste parole abbiano un senso, e chiediamoci: mo’ che faccio?

Io ho fatto una cosa credo molto sensata: ho chiesto a una persona affidabile che sa il norvegese perché vive in Norvegia di aiutarmi a capire se quello che viene detto nel documentario, e ciò che si racconta di esso, è vero ed è andato proprio così. Con facebook è facile eh, è fatto apposta per conoscere gente. Non lo usate solo per farvi gli affari degli altri, ogni tanto usatelo per fare anche i vostri. Ne è risultato che, parole di Cinzia Marini che ringrazio per l’aiuto,

il centro di ricerca interdisciplinare per gli studi di genere non è stato chiuso. Nel 2012 il Consiglio nazionale per le Ricerche norvegese ha tagliato temporaneamente i fondi ad uno specifico programma di ricerca di genere, integrandolo in un programma di ricerca più generale. Il centro è ancora aperto e attivo come vedi dalla versione inglese del loro sito. Dopo il programma di Eia, che era tendenzioso nella scelta degli interlocutori ma ben fatto, sono divampate le polemiche. Quello che ha evidenziato sono debolezze non negli studi di genere tout court, ma indubbiamente in certi ricercatori, nelle loro attitudini e nel modo di esprimersi, che naturalmente hanno portato all’assurdo certe differenze di paradigma. Le critiche fatte in Norvegia sono soprattutto riferite all’impenetrabilità di certa ricerca e al linguaggio usato, oltre che alla mancanza di aperture verso il paradigma biologico, ma non hanno mai messo in discussione l’esistenza e la necessità degli studi di genere. Cathrine Egeland e Jørgen Lørentsen, i due ricercatori intervistati, sostengono che Eia ha tagliato passaggi centrali dalle loro interviste. Secondo me non ci fanno una bella figura. Cathrine Egeland lavora oggi all’istituto per al ricerca sul Lavoro dell’Università di Oslo, sempre su studi di genere. Nel 2012, dopo il programma, ha tra le altre cose pubblicato questo rapporto. Jørgen Lørentzen, l’altro ricercatore, ha fatto ricorso al Comitato etico dei Giornalisti accusando Eia di aver tagliato e redatto gran parte della sua intervista. Su questo sito, purtroppo in norvegese, puoi vedere i due spezzoni (quello intero e quello redatto) a confronto: Dette sa Lorentzen til «Hjernevask». Lørentzen parla ad esempio molto del fatto che alcune teorie riducono l’essere umano al suo genere, mentre la faccenda è molto più complicata. Registri, emozioni, capacità di cui veniamo privati. Dice anche chiaramente, a proposito di domande precise sulla biologia, “questo non lo so, non è il mio campo”.

L’ideologia gender esiste anche se forse i due ricercatori norvegesi non l’hanno sostenuta molto bene, e anche se un comico con grossi pregiudizi – il suo documentario era certamente orientato verso una tesi da dimostrare a tutti i costi – prova a sostenerne l’infondatezza. L’uso strumentale, arbitrario e in evidente malafede della faccenda è un’ovvia conseguenza, quando si hanno amici politici come il parroco di Cerveteri.

In questo caso ci vuole un po’ di attrezzatura in più del solito – compresa un’onesta amica che vive in Norvegia – ma rimane il fatto che chi costruisce discorsi oppressivi alla fine viene fuori chi è, anche se invece di inventarsi balle, diffamare e parlare a vanvera oppure cantilenare ipocrisie perché sta in cattedra fa un bel documentario tecnicamente perfetto e apparentemente oggettivo.

norway_gay_pride_tshirt-r1dc9e7c2e76646e789d5ac7f557d2c6c_8nhmm_512Bene, la critica l’ho capita e starò più attento: invece di dire l’ideologia gender non esiste dirò «queste stronzate che vai dicendo sono solo pietose difese, non sai neanche di che stai parlando quando usi quell’espressione», oppure «non provare a rigirare le cose come ti fa più comodo, sai solo manipolare le chiacchiere», o anche «egregi* professor* non provi a nascondere o a dedurre cose perché non ci casco, lei è un* ipocrita»Il tutto seguito da argomenti convincenti non su qualcosa che non esiste, ma su qualcosa che esiste e che evidentemente è molto fastidiosa per chi ha un qualche potere patriarcale.

Anche io, in fondo, sono un ideologo del gender.

La risposta, amica mia, sta latrando nel vento

dandelion-blowing-in-wind1resizedVicino a casa c’è un terreno recintato, un frutteto direi, se non fosse che un’alta siepe mi impedisce di vedere chiaramente attraverso. Nel frutteto ci sono due cani, che, contro ad ogni logica, sono tenuti a catena. Un beagle, ne sono certa dal modo di abbaiare, e un cagnone non meglio identificato che ho intravisto una volta affacciarsi in uno spiraglio del muro vegetale. Sono soli tutto il giorno, alla catena, e il beagle in particolare, abbaia di continuo. Da quando vivo qui, mi sono fatta mille domande: qual è il senso di tenere a catena due cani in un terreno recintato, tenuto a prato e alberi da frutto? Soli, ma nemmeno liberi di muoversi, di giocare insieme, di stringersi l’uno all’altro durante un temporale? Conosco già la trafila che non porta a niente: negli anni ho tentato di tutto in questi casi, soluzioni ufficiali e meno ufficiali, ma – il più delle volte – chi ha il tarlo della catena, anche quando gli porti via un cane in capo a qualche settimana ne mette uno nuovo allo stesso posto. E così subisco questa tortura quotidiana.

Ogni giorno la crudeltà umana mi sveglia, e ogni sera mi impedisce di dormire. La crudeltà latra, latra di continuo, è la sirena che ogni giorno mi prepara ad altre crudeltà a venire. E che ogni sera mi augura di non riposarmi bene, perché anche l’apparentemente pacifica notte in questo pianeta rotondo è un giorno crudele da qualche altra parte.

A farci caso, la crudeltà umana è varia e multiforme, e non si ferma dinanzi a nulla.

La vedi nelle piccole cose come in quelle più grandi. La vedi nell’indifferenza alla sofferenza, come nel godimento dissimulato per le disgrazie altrui. E non soltanto verso gli animali, o verso le persone sconosciute. La vedi nei colleghi di lavoro quando a vedersi fatt* fuori dopo anni di precariato sono altr* e non loro. La vedi nei vicini di casa frustrati, che si ingegnano in guerre di logoramento per i motivi più banali. La vedi nello sguardo di disprezzo per chi tende una mano verso un finestrino ad un semaforo, o in quello di indifferenza di un pescatore che tiene un corpo vivo, che si contorce e soffoca, tra le mani.

E’ forse questa la banalità del male? Di quali e quanti atti spaventosi possono macchiarsi le persone “normali”?

Rivendico la mia anormalità. La crudeltà mi annichilisce e mi ossessiona, e del personale ho dovuto fare politico per non uscire di senno. Perché attraverso la consapevolezza, la crudeltà si dispiega in tutta la sua potenza di fronte ai miei occhi. Scegliendo di vedere, non di raccontarmi favole o giustificazioni capaci di tacitare la mia coscienza, mi sono trovata circondata di crudeltà, e dell’indicibile sofferenza che porta con sé. Ogni giorno.

Ho dovuto fare i conti con le mie quotidiane crudeltà: il compito non è facile, ma nemmeno impossibile, e soprattutto non è mai finito.In questo sforzo personale ho trovato il senso di un agire politico che tenta di smascherare quella crudeltà che ci hanno insegnato a considerare “normale”.

Normale è una parola così violenta, non è vero? Ciò che è normale non è giusto, non è etico, non è equilibrato. Conforme alla consuetudine e alla generalità, regolare, usuale, abituale, questo è normale. E se la consuetudine è violenta, se è razzista, se è misogina, se è crudele… allora tutto questo è perfettamente “normale”, ma aberrante per chi riesce a vederlo.  Per chi vuole vederlo.

E così ti dibatti nella situazione paradossale di essere tu, che vedi tutta questa crudeltà e tenti di combatterla e di smascherarla, ad essere “estremista”, “terrorista”, “intransigente”.

Sei ipersensibile perché non vuoi più vedere fiumi di sangue di non umani e umani scorrere, per il “piacere” di addentare un panino o per l’ultimo modello di smartphone disponibile. Sei naif, perché “così vanno le cose, così devono andare”. Sei inopportun*, perché “con tanti problemi, prova a pensare alle cose realmente importanti”.

Ma lo faccio, dannazione, ogni maledetto giorno! Cosa c’è di più urgente della lotta alla normalizzazione della crudeltà?

Quella che fa più male non è la persona che vede la crudeltà e ne è indifferente, ma quella che non la vuole vedere. Quella che addenta un panino al prosciutto e in quell’atteggiamento assolutamente schizofrenico ma completamente “normale”, di fronte ad un maialino sospira di tenerezza, e di fronte ad un’immagine del mattatoio distoglie lo sguardo perché “quelle cose non le posso vedere”.

“Quelle cose” raccapriccianti, che sono diretta conseguenza della carne rosea che fa capolino tra le fette di pane? Carne rosea strappata ad un essere vivo e indifeso, quando se ne poteva fare a meno, perché si può essere felici anche senza causare tutto questo dolore.

Quella crudeltà (e stupidità) che, di fronte ad una collega di più di quarant’anni, lasciata a casa senza un lavoro,  mormora  – tra un sospiro di sollievo e l’altro, rincuorata per non essere stata vittima dello stesso destino –  che “in fondo se l’è cercata, con quel carattere orribile”, solidarizzando con chi sfrutta e gioca con le vite altrui e con la propria.

Stupendosi poi dell’indifferenza che un giorno, con tutta probabilità, dovrà attraversare dopo aver subito lo stesso trattamento.

Quella crudeltà e stupidità e conformismo che si sente migliore di qualunque “diversità”, nell’illusione o speranza di essere più simile a chi ha costruito a tavolino gerarchie di “consumabilità” per parassitizzare chiunque non faccia parte dell’élite autodefinitasi tale… tutt* coloro che si affannano per farne parte, e che il resto si fotta, invece di unirsi per demolirne le fondamenta.

E nonostante la consapevolezza di tutto ciò sia a tratti annichilente, quando imbocchi questa strada coltivi sempre una speranza… perché sai che in fondo, è tutto così complicato ma anche così semplice.

Prende le mosse da un desiderio animale, un desiderio di libertà e felicità, vera, tangibile, concreta, anormale. Eccedente gli angusti spazi di manovra delle “libertà” e “felicità” concesse, una libertà che non vuole nuocere ad altr*, perché sa che per essere felici non ce n’è bisogno. Una libertà che vuole essere contagiosa, non esclusiva. Una libertà che sa che non può esistere autentica felicità quando tutto intorno ci sono solo cadaveri e grida e morte e lacrime e sofferenza.

Una libertà che richiede prima di tutto uno sforzo di verità: una verità scomoda, ma essenziale. Una verità che non limita, come alcun* sembrano suggerire, ma amplifica.

Quella verità che rende liber*, e che dimostra di riuscire a far capolino anche nei peggiori dispositivi di potere e di oppressione, perché la libertà è il bene più grande per ogni animale e il fondamento della felicità… anche per quelle “scimmie fuori controllo” che siamo.

Soprattutto, quella libertà che nel liberarci è capace di liberare anche chi ci sta intorno, che cammini a 2 o 4 zampe, che abbia ali o pinne o tette o pelle dei colori dell’arcobaleno.

La libertà è contagiosa, ma richiede una certa dose di coraggio in tempi così intrisi di oppressione e privilegio. Quel coraggio che possiamo trovare nel confrontarci con la crudeltà che per quanto diffusa, per quanto dissimulata, per quanto normale non riesce a spegnere i latrati dell’anelito ad una vita degna di questo nome. Basta volerli ascoltare.

Del mangiar cani

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“E’ veramente mostruoso che un individuo abbia fame di esseri che ancora muggiscono, insegnando di quali animali ci si debba nutrire, mentre questi sono ancora in vita ed emettono la propria voce, e stabilendo determinati modi di condire, cuocere e imbandire le loro carni. Bisognerebbe cercare chi per primo diede inizio a pratiche simili, non colui che troppo tardi vi pose fine.”

Plutarco, De esu carnium

Al Festival della carne di cane di Yulin – che si tiene ogni anno in occasione del solstizio d’estate – hanno massacrato tra ieri e oggi circa 10.000 cani. I cani, oggetto di un commercio illegale, a volte addirittura rubati alle proprie famiglie umane per essere venduti dai commercianti di carne di cane, vengono stipati in gabbie stracolme, e dopo viaggi estenuanti vengono uccisi in modo spesso estremamente crudele: strangolati, picchiati a morte,  scuoiati e/o bolliti ancora vivi.

Dal momento che il cane è nella maggior parte dei paesi occidentali – ma non solo, considerata la gentrificazione di ampi strati della popolazione cinese – il pet per eccellenza (“il migliore amico dell’uomo” come viene sovente definito), l’orrore nei confronti di tale pratica non ha tardato a farsi sentire a livello internazionale.
Anno dopo anno,  sempre più persone ingrossano le fila di chi denuncia questa pratica abominevole, chiedendone a gran voce la fine – e spesso, purtroppo, scadendo nel razzismo qualunquista che condanna, per gli usi e costumi di alcun*, un intero popolo.

La denuncia in sé è certamente condivisibile, ma quello che dà adito a tremendi dubbi è il fatto che, tra le persone che levano alte grida e si battono il petto contro questa odiosa pratica, molte – anzi moltissime – sono le stesse che non si fanno problema alcuno a mangiare maiali, agnelli, polli, conigli, mucche, cavalli… insomma, per costoro l’unico valido scrupolo nei confronti della pratica di cibarsi dei corpi di altri animali, è quello in grado di tutelare la vita dei cani.

Will Saletan (giornalista e, per inciso, carnivoro) in un articolo su Slate afferma che, per molte persone “il valore di un animale dipende dal modo in cui viene considerato.  Se lo allevi per la compagnia, allora è un amico. Se lo allevi per mangiarlo, allora è cibo. Questo relativismo è più pericoloso dell’assolutismo dei vegani o dei carnivori convinti. Si può scegliere di astenersi dal mangiar carne perché si è convinti che le capacità mentali degli animali siano troppo simili a quelle degli umani. O di mangiarla perché si pensa che non sia così. In ambedue i casi, si utilizza un criterio di coerenza. Ma se ci si rifiuta di mangiare soltanto la carne degli animali “da compagnia” – trangugiando pancetta e nel contempo affermando che i coreani non possono stufare dalmata – si sta affermando che la “moralità” di un’uccisione dipende dall’abitudine, o addirittura dal capriccio. Il ridicolo della situazione è che fino a pochi anni fa, i cani in Corea non erano considerati “animali da compagnia”. Perciò dal punto di vista del criterio del pet, è perfettamente legittimo che possano essere mangiati.”

In un altro articolo dedicato all’argomento aggiunge: “Gli psichiatri la chiamano “dissonanza cognitiva”. Mastichi un pezzo di pancetta e poi coccoli il tuo cane, rabbrividisci alla vista di un cavallo azzoppato ma continui a masticare il tuo hamburger […] Amiamo gli animali, ma amiamo anche mangiarli e non vogliamo dover scegliere .”

Personalmente, più che dissonanza cognitiva, mi piace definirla malafede. Le motivazioni che rendono i cani meno sacrificabili dei maiali, tanto per fare un esempio, sono ridicole e senza alcun fondamento: la maggior parte delle persone che dice che i maiali non stimolano la stessa empatia dei cani sono quelle che non hanno mai visto un maiale da vicino in vita loro – ma che probabilmente al cinema tifavano per Babe, maialino coraggioso e piangevano copiose lacrime mentre si ingozzavano di panini al prosciutto. Sono quelle persone per cui i vegani sono “estremisti che mettono sullo stesso piano i cani e le zanzare” (piace giocare facile, eh?), e per cui evidentemente la tensione alla coerenza è un valore abdicabile.

E’ questo il motivo per il quale, seppure canara e antispecista, quest’anno sto soffrendo molto meno del massacro di Yulin… o per meglio dire, sto soffrendo come al solito, come ogni giorno nel quale penso a tutti quegli splendidi animali uccisi e divorati per i “piaceri del palato”. Per quanto ami visceralmente i cani, non posso in tutta coscienza sentirmi più addolorata della loro morte rispetto a quella di una mucca, di un maiale o di un pollo, morti delle stesse orribili morti dei cani di Yulin.

Gli animali non umani hanno un proprio valore peculiare che prescinde da quanta empatia riusciamo a provare per loro, da cosa rappresentano per noi, dalla relazione che si viene a creare tra loro e noi. L’empatia ha degli aspetti controversi che non possono essere ignorati: l’empatia può non essere motivante all’azione, può spingere a trattamenti di favore, può dipendere da fattori non essenziali (a volte anche da aspetti secondari quali la percepita “coccolosità”) ed essere manipolata, può essere altamente selettiva, focalizzandosi su quei soggetti che sentiamo a noi più simili o più vicini, ed essere limitata al momento nel quale ci troviamo di fronte ad una particolare situazione, per poi dimenticarcene appena l’evento scatenante si allontana dalla nostra esperienza e percezione.

Etica ed empatia non sono la stessa cosa, anche se per alcune persone la prima è direttamente correlata alla seconda. Ma l’etica ricerca i criteri che consentano all’individuo di gestire adeguatamente la propria libertà nel rispetto di chi ha intorno – non solo però di chi è a noi più simile, o più vicino… Chiunque abbia intorno, mi permetto di aggiungere io.

In assenza di un’etica di questa portata, che richiede una presa di posizione politica su cosa sia il bene che si intende realizzare e che permetta di tradurre in azioni sociali quello che il nostro sentire morale ci suggerisce, che cosa ci scandalizza del mangiar cani?

Il problema “femminista”

ignoranza

A me pare evidente: questo paese ha un problema col femminismo. Ma mica inteso come movimento politico, magari: significherebbe che viene considerato, dai più, come tale. Qui c’è proprio il problema del pronunciare la parola “femminista”.

Cominciamo con un bell’esempio recente. Su Samantha Cristoforetti è stato detto di tutto e di più. Per me la cosa più sbalorditiva rimane questo articolo apparso su La Stampa in digitale, nel blog Obliqua-mente di Gianluca Nicoletti, che vorrebbe essere anche un elogio dell’astronauta italiana. Titolo e sottotitolo dicono già tutto:

 

IL MITO #ASTROSAMANTHA CHE SEPPELLIRA’ BOTOX E TACCO 12
La donna astronauta contro una legione di super femmine costruite sul tavolo chirurgico, la perfetta risposta alle emule di Belen, ma anche al baffo politico e il rogo del reggiseno

Leggo tutto ciò abbastanza costernato, e mi chiedo, tanto per cominciare: ma perché Cristoforetti dovrebbe seppellire qualcun’altra? Perché essere una scienziata di livello mondiale dovrebbe nuocere a supposte super femmine costruite sul tavolo chirurgico? Nicoletti le mette in contrapposizione senza dire il perché. Nell’articolo non c’è traccia del motivo per cui Samantha e Belen dovrebbero essere una contro l’altra: evidentemente è dato per scontato, è ovvio.

Com’è ovvio che una donna che studia e che si fa valere nel mondo della scienza non è – appunto – una donna: da stereotipo qual è (perché contrapposta a un’altra donna-stereotipo, Belen Rodriguez), Samantha è ipercazzuta. Samanta ce l’ha grosso – infatti è nominata ingegnerE, ecco perché è tanto diversa da Belen, che notoriamente invece ha la farfallina.

Farfallina che, sostiene Nicoletti cavalcando i luoghi comuni che evidentemente galoppano molto lontano, è anche lei poco femminile ormai, anzi poco umana: Belen è l’esempio di prodotti umanoidi. Non è più neanche un essere umano.

Ricapitolando, un uomo descrive una supposta lotta per l’esistenza (“seppellire“) tra donne in questo modo: una non-donna mette sottoterra un non-essere umano. Complimenti. Ma come ha fatto? Ecco la spiegazione:

in lei si è riflessa quella parte del paese che non ha mai accettato come unità di misura del successo femminile i centimetri di tacco, ma nemmeno la fierezza dei baffi e il rogo dei reggiseni.

Cioè Samantha è una donna – anche se con un grosso pisellone ed è ingegnere – NON FEMMINISTA. Non corrisponde allo stereotipo della femminista: non ha i baffi (?) e non brucia il reggiseno. Ecco perché ha battuto la farfallina, dice Nicoletti.

Ora, il problema sociale che articoli come questo sollevano non è certo la cultura di genere di Nicoletti, che si presenta da sola e non vale la pena commentare. Il problema è che questa roba ha raccolto, tanto per fare un esempio, più di quindicimila condivisioni su un social network. Cioè è un buon esempio di quello che pensano lettori e lettrici – dato il giornale, dato il blog, dato l’autore – di cultura quantomeno media in Italia.

Di questo si ha riscontro anche nella chiacchiera quotidiana. Qualunque femminista che non si vergogna di professarsi tale si scontra con persone che a quella parola si sentono in dovere di sottolineare che si tratta di qualcosa di profondamente negativo. Racconta Lola sul suo sempre ottimo “Ci riprovo”:

Ieri ho parlato un po’ con un uomo dell’età di mio padre. Ad un certo punto gli ho detto che spesso usa un linguaggio fortemente sessista, e che quando ride di me che glielo faccio notare o si lancia in ardite spiegazioni sul perché è possibile dare della “troia” ad una donna che non ci piace mi manda in bestia.
“Mi sembri una di quelle…” “Sono una di quelle”. E da qui due ore a parlare. Quello che ho capito di tutto quel discorso è che la cosa fondamentale per poter permettere ad una femminista di parlare è che lei non si dichiari mai tale e che il femminismo non venga mai nominato.

Puoi dire quello che vuoi – basta che tu non sia FEMMINISTA. Puoi arrivare a tutti i traguardi che vuoi – basta che tu lo faccia NON DA FEMMINISTA.

mentre-cucinaEvidentemente, in questo caso a me “ha detto culo”: in tutto il mondo io sarei un feminist, e mica me ne vergogno. Però in Italia io sono un antisessista, perché se mi dicessi “femminista” tantissimi uomini riderebbero a crepapelle pensando che io sia parecchio strano o molto checca (il che non sarebbe un male di per sé, ma non corrisponderebbe nemmeno a verità), e fior di donne si offenderebbero – a parte ridere di gusto forti di una loro supposta superiorità (anche questo, per quanto incredibile, mi è successo). Tutto ciò, oltre a confermare in vario modo la legge di Lewis (“I commenti a qualsiasi articolo sul femminismo giustificano il femminismo”), dimostra che qui in Italia in molti e molte hanno dei grossi problemi con questa parola. Ma grossi, eh.

Per esempio, abbiamo quell* che credono a uno o più dei tanti luoghi comuni sulle femministe. Abbiamo anche un gruppo di musiciste che porta avanti un progetto musicale “a favore delle donne vittime di violenza”, dichiarando a destra e manca che non sono femministe. Abbiamo gruppi di donne che non hanno problemi a dire che loro sono più femministe di altre. (Fuori, intanto, non è che vada tanto meglio, se ci sono media internazionali che si divertono a giocare con la parola “femminista”).

Uomini e donne che, semplicemente, non hanno idea di cosa significhi femminista. Hanno il grosso problema di non poter accettare che un/a femminista è, come da definizione, “una persona che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica tra i sessi”. Perché?

Da una parte, molti e molte credono di essere “una persona che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica tra i sessi”, MA non direbbero mai “tra i sessi”, perché a sentire loro non hanno importanza: esistono solo “le persone”. Cioè esistono solo le loro capacità, indipendentemente dai loro corpi; e infatti la stessa Cristoforetti non è femminista, dato che disse, poco tempo fa, che

per me non c’è differenza tra maschi e femmine. L’unica differenza è tra chi è competente e chi, invece, non lo è.

Tanto per dire: che milioni di donne non siano nelle condizioni minime per avere o usare le loro competenze, e che milioni di uomini siano automaticamente socialmente avvantaggiati da tutto ciò, non sembra essere per lei di grande importanza. Complimenti anche a lei.

D’altra parte, in molt* credono che quella “uguaglianza sociale, politica ed economica” sia già raggiunta, a forza di leggi paritarie, quote rosa, divorzi vantaggiosi e altre fantasiose amenità legislative che dimostrerebbero chissà cosa – rendendosi colpevoli, almeno, di ignoranza e ipocrisia. I dati sulla disparità di genere, sull’attivo e funzionante patriarcato discriminante, ci sono, e non sarà certo una legge a cambiarli a breve termine.

Un problema culturale? Direi proprio di sì. Che comincia dall’alto:

Fino al 2000 le studiose femministe hanno fatto ricerca e insegnato ‘sotto mentite spoglie’, prive di nome, impossibilitate a esibire la propria carta d’identità. Gli studi delle donne li abbiamo dovuti non solo inventare, ma anche continuare a reinventare un anno dopo l’altro, come se ogni volta fosse stato necessario presentare di nuovo i documenti per dimostrare la validità di nome, data di nascita e domicilio di residenza.
Prima che si chiamassero «di genere», per indicare molte altre cose, oppure anche soltanto essere utilizzati come sinonimo dall’apparenza ‘perbene’, gli studi delle donne li abbiamo insegnati en travesti. Ciascuna di noi agiva come un agente segreto mascherato dentro, dietro e sotto un’altra denominazione ufficiale; la quale poteva essere: letteratura italiana, economia politica, antropologia, sociologia, storia moderna, filosofia medievale o storia della scienza. Il documento d’identità legalmente autorizzato per la pratica didattica serviva a coprire i riferimenti a oscuri e disdicevoli commerci sessuali e politici che avrebbero fatto un’oscena irruzione se si fosse usato il loro vero nome.

E pure dal basso:

Scuotono la testa con decisione non appena sentono il termine femminismo. Si stringono forte al proprio compagno mentre dichiarano di essere femminili, non femministe, come a volerlo rassicurare. Se interrogate sul significato del termine affermano che: «Non sono superiore al mio uomo, ognuno ha il proprio ruolo e io sono una donna».
A dirlo sono in tante, tantissime, forse milioni di donne. Sono laureate, casalinghe, giovanissime e meno giovani, occupate, disoccupate o inoccupate, ma anche donne in carriera e di successo. Più che il titolo di studio, l’età o il tipo di lavoro svolto, la differenza lo fa l’ambiente sociale che frequentano, ancora molto maschilista e misogino e che loro, in un modo o nell’altro, avallano.

Aggiungendoci anche qualche vero e proprio delirio:

oggi, guadagnati e fatti salvi quei diritti civili grazie a sacrosante battaglie di idee (cito una campionessa per tutte: Simone de Beauvoir), è ormai antistorico e anacronistico continuare a procedere nella stessa direzione, cercare un accanimento antifemminile che di fatto non esiste e non è mai esistito, inventarsi una persecuzione sessuale che di fatto non esiste e non è mai esistita (a proposito: ma chi crede davvero al femminicidio?), perpetuare l’idea di una presunta contrapposizione sessista che da tempo dovrebbe [avere, ndr] fatto il suo tempo.

In tutto ciò, non c’è davvero di che preoccuparsi per i maschilisti d’Italia. Finché questi problemi di cultura – io preferisco dire di ignoranza, ma so’ io, non ci fate caso – continueranno ad averceli tanti uomini e tante donne, di femminista in giro ci sarà sempre ben poco.

(Grazie a Lola e a Chiara per l’ispirazione)

La stalla sexy

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Uno degli aspetti della cultura patriarcale più difficili da affrontare e gestire, sul piano politico come nel personale, è quello della pervasività dello sguardo maschile reificante. Vorrei però subito sgombrare il campo dagli equivoci, sottolineando come tale modo di guardare – che si impone e prevarica l’esperienza soggettiva del corpo vivente – non appartenga solo a quegli individui identificati in quanto ‘maschi biologici’; non è, d’altro canto, difficile notare le tragiche analogie esistenti in questo specifico modo di guardare le donne e gli animali non umani (in particolare, ma non solo, di sesso femminile).

Partiamo da questo articolo – ma soprattutto dal servizio video che ne è all’origine. Nel pezzo in questione sono ben evidenziati molti aspetti critici – i doppi sensi usati in maniera assolutamente strumentale e consapevole (il servizio si intitola non a caso “La vacca più bella del Trentino”, non “la mucca più bella del Trentino”), i movimenti di macchina dal basso verso l’alto, e, dulcis in fundo, affermazioni assurde al limite dell’imbarazzante (“anche in stalla eleganza e sensualità non guastano”?!?!?!).

L’intenzione è chiara: le due vacche – quella umana agghindata come una coniglietta (l’abitino corto e sberluccicante pare più in stile sexy oktoberfest che tradizionale trentino!) e quella non umana, oggetto della “competizione di bellezza” (è quasi esilarante, se non fosse tragica, la capacità della cultura patriarcale di rendere fruibili i corpi, in primis quelli femminili, umani e non, che si trovano perennemente sotto alla lente di un desiderio coatto) –  sono offerte in maniera assolutamente simmetrica sull’altare del consumo  maschile (chi trovasse azzardato il parallelo in chiave sensuale donna-mucca, può vederlo messo in opera in direzione opposta ma simmetrica sulla pagina facebook di un giornale di settore che s’intitola Cowsmopolitan: le mammelle lucide e le code spazzolate e lucenti delle mucche offerte allo sguardo ricordano in maniera esplicita analoghe parti di corpi femminili!)

Un consumo che parte proprio dagli occhi, che scelgono di guardare due esseri senzienti, donna e mucca, nell’unico valore a loro riconosciuto di corpi consumabili. Non interessa la loro sensualità, nel senso di capacità sensoriale e sensibilità, ma solo quella che definisce il compiacimento, visivo prima e fisico poi, di un godimento personale ed egoistico.

E’ d’altro canto necessario spendere alcune parole sull’altra protagonista del video, la mucca Jolly, la quale, come candidamente e tragicamente afferma la sua padrona (poiché Jolly non è che una schiava, dopotutto) “ha 5 anni ed è alla terza lattazione”. Questa affermazione, resa maggiormente intelligibile, significa tante cose: partendo dal dato di fatto che una mucca può vivere 20 anni, che anche se “da latte” viene macellata intorno ai 5 anni (appena la produzione comincia a calare), che la pubertà bovina insorge intorno all’anno e, soprattutto, che non c’è produzione senza riproduzione, possiamo tradurre la frase “innocente” così: Jolly ha l’età equivalente di una ragazza di vent’anni, che appena entrata nella pubertà è stata stuprata (da un umano che l’ha inseminata artificialmente) tre volte, ha sostenuto tre gravidanze e tre parti, ha già vissuto tre volte la disperazione di vedersi portare via i propri figli dopo poche ore dalla loro nascita, e… sta per morire.

Tutto questo orrore spiegato con tranquillità e naturalezza da un’altra femmina, umana, che aderisce in maniera talmente acritica – e anzi, complice –  al diktat dello sguardo maschile reificante, da applicarlo con assoluta naturalezza su quella “vacca” a lei tanto simile perché a disposizione dell’uso e consumo maschile  (ma anche nella propria realtà  – misconosciuta e negata – di essere senziente, capace di generare –  ma non per questo costretta a farlo –  di provare attaccamento per la propria prole  – e pertanto dolore atroce nel momento in cui ne venga crudelmente separata – ma anche di autodeterminarsi, in maniera unica ma sempre valida).

Che lo sguardo maschile non sia una prerogativa dei maschi biologici è evidente nel video che pubblichiamo qui di seguito, una pubblicità di vini friulani destinata al mercato russo che ha sollevato diverse polemiche.

La regista, Iris Brosch, pare sia “conosciuta a livello internazionale per aver restituito dignità e forza all’immagine femminile nella fotografia”. Almeno così dicono, questo è il video:

Dove sarebbe qui la millantata “forza delle donne” (lasciamo perdere la dignità!)? A corpi patinati di baccanti in atteggiamenti saffici che non fanno nulla se non offrirsi al consumo altrui, risulta difficile riconoscere tale qualità.

Qualità riconoscibile in altri progetti, che raccontano storie di forza e coraggio di fronte alla sofferenza e all’oppressione, e che restituiscono  soggettività ed agency ad individui che ne sono stati violentemente privati: quelli di Jo-Anne McArthur – che ha realizzato WeAnimals o più recentemente UnboundProject, nei quali esplora rispettivamente il complicato rapporto tra animali umani e non umani e celebra l’impegno delle donne nell’attivismo antispecista – o di Carrie Mae Weems  – esemplare in questo senso il progetto From here I saw what happened and I cried nel quale viene smascherato il potere dello sguardo bianco (patriarcale e proprietario) di rendere inferiori e consumabili i corpi degli schiavi di colore, allo scopo di giustificarsi e autoassolversi eticamente di una pratica tanto abominevole.

Come vivete le vostre esistenze sotto la lente maschile? La subite o ne siete (consapevolmente o meno) complici? Riuscite a riconoscere quello sguardo che tutto divora nei vostri occhi?

L’adagio del maschio italiano

Immagine da "In Italia sono tutti maschi", Kappa edizioni
Immagine da “In Italia sono tutti maschi”, Kappa edizioni

È passato un po’ di tempo, così le facili polemiche e i luoghi comuni sulle parole che Roberto Formigoni ha speso per spiegare – lo ha spiegato, non lo ha giustificato – il suo comportamento al gate Alitalia ce le possiamo risparmiare. Fermiamoci a riflettere, mettendo in fila un po’ di eventi di cronaca, su una delle tante occasioni perse, da tanti uomini in questo paese, per fare qualcosa di meno maschilista e patriarcale di quello che invece fanno. Potrei rifare questo articolo, tale e quale, tra un mese, cambiando solo i link e i riferimenti a quei fatti di cronaca. Perché? Perché il maschio italiano non cambia tanto facilmente.

Partiamo dall’articolo del Corriere con le parole di Formigoni, e fermiamoci su qualcuna di queste parole. «Gli italiani mi danno ragione. Incredibile quanti siano i cittadini che hanno subito soprusi che mi telefonano per dirmi “bravo, finalmente qualcuno ha detto ad Alitalia quello che si merita”». Perché in Italia chi vede lesi i propri diritti non manifesta, non si organizza: aspetta che qualcuno dica parolacce e minacci violenza contro persone e beni, per poi dirgli bravo.

«Ho subito un sopruso». Non è vero, e a raccontarlo è lui stesso. Ha provato a prendere non il suo aereo, ma quello precedente che era in ritardo, perdendo così anche il suo. Ha solo subito le conseguenze di un goffo tentativo, molto italiano anch’esso, di fare il furbo. E non è neanche la prima volta che ci prova, e che gli va male.

Poi, la chicca, alla faccia del torto marcio per la furbata non riuscita: «ho utilizzato le parole che userebbe qualsiasi italiano maschio che nei momenti di rabbia perde la pazienza». Sull’«italiano» torneremo dopo, ora fermiamoci un po’ sul «maschio».

Il maschio, quando si arrabbia, perde la pazienza, dice Formigoni, e aggredisce, urla, insulta, spacca roba. È un maschio che già conosciamo, no? È il maschio del raptus. È il maschio della cultura del raptus. È il maschio che perde la pazienza: per esempio non gli va di aspettare l’autobus, prende un taxi guidato da una donna e la stupra. Così fa il maschio, no? Notate l’accuratezza con cui nell’articolo si eviti la parola “raptus” anche se è ciò che viene descritto: «esplosione di rabbia», «la sfuriata», «perde il controllo». E che facciamo, lo chiamiamo raptus come quello dello stupratore, del femminicida? No, Formigoni non ha fatto violenza a nessuno – a parte ai suoi interlocutori e a chi assisteva, ma son quisquilie, vero? – quindi va bene la sua descrizione: ha agito come «qualsiasi italiano maschio».

Ha detto – spontaneamente, figuriamoci se ha ragionato – «maschio» e non “uomo”. Maschi sono anche i bambini. Maschio lo si è per natura, uomo per educazione. «Maschio» rende bene la naturalezza di un comportamento, il suo essere innato e ovvio, il suo fare parte delle caratteristiche del maschio, quell’animalità dalla quale si prendono sempre le distanze come fosse qualcosa di vergognoso, salvo quando torna comoda per indicare supposti valori quali virilità, ragione del più forte, potere primitivo, mancanza di lucidità. Quel concetto manipolabile di ‘insopprimibile istinto naturale’ con il quale si vuole mascherare il potere di una classe sociale, l’arroganza di una abitudine politica: lo avete riconosciuto? È lo stesso potere «maschio» che fa dire a un altissimo dirigente sportivo «basta non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche».

È lo stesso potere maschio, quello che non chiede scusa anche se ha provato a fare il furbo, quello che non si dimette malgrado la “gaffe” (notate anche qui i giornali come sono stati carini: chiamano “gaffe” quello che non è altro che uno spregevole insulto sessista e omofobo), quello che se ne frega di capire da quali privilegi proviene e di quali privilegi gode, quello che rende prigionieri di illusioni gli stessi maschi, quello che ha sempre una giustificazione plausibile per la propria violenza: la chiama raptus. Per rendere possibili e plausibili queste violenze ci vuole un potere e una cultura pervasivi e accettati da tutti – cioè da tutti gli altri maschi.

E qui veniamo alla parola «italiano». Al maschio italiano tutto ciò sta evidentemente bene, perché non ho visto – a parte le chiacchiere sul web – ‘sta gran voglia di protestare, di scendere in piazza a fare casino perché uno che agisce come Formigoni si è permesso di dirsi uguale a «qualsiasi italiano maschio». Non vedo grosse agitazioni quando un dirigente sportivo insulta in maniera sessista e omofoba migliaia di praticanti quello sport che dovrebbe tutelare – lo sport più amato dai maschi italiani; non le vedo quando un qualsiasi maschio italiano stupra, poi dice che ha avuto un raptus e che “si pente” venti comodi giorni dopo. Eppure sono maschi, e stanno dicendo qualcosa a tutti gli altri maschi.

Ah, già, dimentico sempre il tipico adagio del maschio italiano: «i problemi sono altri».

 

Per Baruda

ANTI-SFRATTO2

La verità oggettiva, ormai lo sappiamo da un pezzo, è un’invenzione valida solo per le scienze più astratte. Non appena c’entrano le storie, i corpi, le vite, la verità è sempre parziale, e per fortuna, perché è la parzialità a spazzare via l’ipocrisia delle violenze, dei fascismi, delle varie forme di oppressione, che vorrebbe sempre imporsi come unica verità assoluta.

Il blog di Baruda, Polvere da sparo, è una di queste verità. Da molti anni racconta verità scomode, ricorda fatti che molti ipocriti fanno finta di dimenticare, parla chiaro a quei sordi che non vogliono sentire, urla quello che tante oppressioni vorrebbero silenziare.

E, come sempre, Baruda parla di una storia che ha vissuto sulla sua pelle, quando racconta l’assurda vicenda del suo sfratto. Storia che chi vive il dramma della casa in Italia – una casa non di proprietà – conosce bene, soprattutto a Roma dove le speculazioni edilizie e la collusione con i sistemi di potere che appoggiano i proprietari riescono anche, come si dice da queste parti, “a manna’ l’acqua all’incontrario”.

Leggete Baruda sotto sfratto: storia di una truffa per capire di cosa stiamo parlando.

Udienza fissata per il prossimo 10 giugno 2015, presso il tribunale civile di Roma.
Il 3 giugno, invece, si presenterà alla nostra porta un ufficiale giudiziario accompagnato da un fabbro, per il rilascio dell’appartamento.
Batte un bel sole su questo terrazzo, che ancora per molto mi ospiterà visti i guai in cui mi ha cacciato il padrone di casa.
Il 3 giugno si presenteranno alla nostra porta, alle 8 di mattina.
Vi aspetto quindi per una festosa colazione antisfratto.

Intersezioni, in qualche modo, quella mattina ci sarà.

Una cultura dello stupro, una cultura del raptus

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Lo sappiamo da tempo, e l’ultimo fatto di cronaca non fa che ribadirlo: il raptus è tanto usato perché fa comodo, perché impedisce a un discorso non svolto dalla parte dell’oppressore di genere di svilupparsi. Tutto qui. Quando è lo stupratore a dirsi “vittima” di un raptus, è ovvio che il cerchio patriarcale si è chiuso da un pezzo, per tenere ben chiuso dentro il suo abbraccio dispotico qualunque tentativo di evaderne.

Che il raptus fosse sostanzialmente la parola assolutoria nei casi di violenza lo sappiamo da un pezzo, e a conferma dell’ultimo caso di cronaca ci sono anche le parole della madre del reo confesso, che non giustifica ma spiega – così dice lei – la non mostruosità del figlio: con una serie di abbandoni da parte di donne. Altra vecchia storia: anche se subisce violenza, la donna non è mai innocente; almeno è complice, o in persona o come genere.

Per quanto si voglia spiegare, per quanto si voglia ricostruire, una cultura non si cambia neanche con l’evidenza, perché l’utilità di un costrutto sociale vincerà sempre anche sulla più evidente realtà: finché fa comodo al potere vigente, il raptus continuerà a esistere. Le competenze non contano. Chiunque sia minimamente impegnato professionalmente in questioni psicologiche sa che il raptus è anche questo: «impulso improvviso e incontrollato che, in conseguenza di un grave stato di tensione, spinge a comportamenti parossistici, per lo più violenti», come dice Treccani. Dico anche perché chiunque, come detto, ha un approccio professionale a questi problemi sa che è una definizione insufficiente, perché il comportamento è iscritto, anche quando appare improvviso, in una rete di pensieri sentimenti e questioni consce e inconsce che ne rende ragione, e perché si arriva a commettere un atto, anche non programmato e improvviso, dopo una serie di eventi psichici collegati tra loro.

Questo vuol dire che l’elemento mediaticamente interessante – e socialmente reazionario – del raptus è proprio quello più discutibile: la sorpresa, la sua parte improvvisa e inopinabile. Il patriarcato imperante tiene soprattutto a questo elemento imprevedibile, e per due ragioni: comunica efficacemente l’impossibilità di fermare la violenza (sulle donne, di genere), e ne comunica quindi anche la supposta “naturalezza”, il suo far parte di una inevitabile “animalità” dell’uomo – generalmente negata, ma poi tirata fuori esclusivamente nella accezione negativa di “bestialità”.

Queste due caratteristiche rendono il raptus spendibile in tanti argomenti della comunicazione di massa. Tutto un mondo si muove per raptus, anche se non è nominato ma solo descritto. È un raptus quello dello sportivo che perde la testa in campo; è un raptus quello del politico che in aula si avventa contro l’oppositore; sono raptus quelli sui quali si costruiscono talk show politici, spacciandoli per approfondimenti; è il raptus a permettere di non avere il minimo senso del ridicolo, arrivando a scrivere per un plurimoicidio-suicidio che «per capire come mai lui possa avere all’improvviso premuto il grilletto, potrebbe rivelarsi determinante il fatto che l’uomo da tempo soffrisse di una grave patologia intestinale»; sono descritti come raptus quei commenti sui social che augurano uno stupro a chi scrive qualcosa di antirazzista. Parentesi assolutoria e spettacolare, il raptus è breve, efficace, scioccante e intimidatorio: insomma, perfetto per tutti i media commerciali.

Per chi prova a riflettere e a far riflettere, per affrontare la complessità dei problemi sociali, non c’è speranza, perché il raptus è troppo allettante per un suo uso strumentale. Non a caso per il raptus di Kabobo non ci si è spesi tanto, ma per Simone Borgese – italiano trentenne e belloccio – la madre sostanzialmente lo scusa e nessuno ha da dire nulla, anzi, sui social si sprecano i commenti alla “povero ragazzo”. Quando una cultura intera lavora affinché i fenomeni siano sempre isolati tra loro, siano sempre episodi slegati e imprevedibili, alimentando sia il panico sociale sia il complottismo più becero (quest’ultimo degno contraltare di un potere sistematico), ecco che stupro e raptus sono felicemente alleati: l’uno è lo strumento e l’altro il comodo racconto per uno stesso odioso potere.

Alla cultura del raptus, cioè alla cultura dello stupro, ci si può opporre, ma non da soli. Altrimenti sembrerà un altro raptus.

A Gentleman’s Guide to Rape Culture

I maschi e la cultura dello stupro che avvelena tutti noi

Che cos’è la rape culture

Rape culture is when…

Pramada Menon: Perché la famiglia occupa così tanto i nostri pensieri?

Pramada-Menon

 

Famiglia o famiglie? 

Abbiamo deciso di tradurre questa intervista a Pramada Menon (attivista queer e femminista che si occupa di giustizia sociale, genere, sessualità e diritti umani) perché va a toccare uno dei topoi tabù che attraversano in maniera universale l’esperienza umana, ovvero quello della famiglia. Il concetto di famiglia, propagandato come univoco e immutabile, conosce invece al momento attuale svariate declinazioni che ne dilatano il senso, ne ridisegnano i confini e spesso li abbattono nelle pratiche – anche quando queste ultime si trovano a scontrarsi con le resistenze sempre più ostinate di un’ideologia che fa della “Famiglia” un motore immobile attorno al quale orbitano tutte le limitazioni e oppressioni con le quali si cerca di soffocare qualsiasi alternativa al sistema integrato di irreggimentazione (ben esemplificato nel trittico dio-patria e, appunto, famiglia) dal quale tentiamo di liberarci.
Consapevoli che partire dal personale è sempre difficile e problematico, e che nonostante ciò la nostra politica non può farne a meno, proponiamo questo dialogo capace di evidenziare l’attuale movimento dall’idea unica di Famiglia ai tentativi – dalle alterne fortune ma sempre anticipatori di nuovi orizzonti umani – di sperimentare nuovi modi di essere ‘famiglie’, di ‘fare famiglia’ al di là dei vincoli apparentemente imposti dal sangue.

PRAMADA MENON: PERCHE’ LA FAMIGLIA OCCUPA COSI’ TANTO I NOSTRI PENSIERI?
Traduzione di feminoska

Pramada Menon è un’attivista femminista e queer che analizza tutte le questioni che ritiene più complesse. Quando non è impegnata a riflettere e procrastinare, lavora come consulente sulle questioni di genere e sessualità e sui diritti delle donne, e saltuariamente si esibisce in Fat, Feminist and Free, una performance a ruota libera su immagine corporea, sessualità ed esistenza.

Radhika Chandiramani: ‘La Famiglia’. Che ne pensi, Pramada?
Pramada Menon: Perché la famiglia occupa così tanto i nostri pensieri? Perché cerchiamo ossessivamente la comprensione e il supporto dei membri della famiglia, e vogliamo che conoscano ogni nostro pensiero? Forse è perché ci insegnano che queste famiglie biologiche sono noi e noi siamo loro? Cosa succederebbe se non sapessimo nemmeno chi sono i nostri genitori, le nostre zie e i nostri zii, i nostri fratelli e sorelle – proveremmo lo stesso un profondo attaccamento per loro, e cercheremmo ancora la loro approvazione? Me lo domando perché quasi sempre ci viene chiesto di mettere la famiglia prima di ogni altra cosa e la nozione di famiglia è chiaramente definita come quella biologica – una madre naturale, un padre la cui paternità non è mai in discussione, e fratelli e sorelle concepiti da questi genitori. Recentemente questa nozione di famiglia biologica ha lentamente cominciato a cambiare per via della pratiche dell’adozione, della tecnologia riproduttiva e della maternità surrogata. Ma resta centrale l’idea di un nucleo familiare guidato da ‘istinti’ materni o paterni. Una famiglia protettiva, attenta, amorevole e solidale, ma anche punitiva se e quando contestata o tradita.

RC: Consideri la famiglia un’alleata o un’istituzione in opposizione alla libertà sessuale personale?
PM: Le norme e i regolamenti della maggior parte delle nostre famiglie originano dal mondo in cui viviamo, dai costumi dei gruppi o della comunità di provenienza, l’apprendimento dei quali può aver spinto molti di noi a sfidare i codici che ci sono stati tramandati. E le trasgressioni all’interno della famiglia accadono per via delle differenze tra le persone che ne sono parte e delle diverse concezioni del mondo intorno a noi, e delle differenti modalità di interazione con ciò che ci circonda. E’ la famiglia che fornisce ai propri membri una serie di regole da rispettare, riguardo ai corpi e all’espressione della propria sessualità. Queste regole sono codificate, perlomeno nelle teste dei patriarchi della famiglia, e rompere completamente con queste norme non è un compito facile. Le regole di per sé sono molto semplici e si conformano a ciò che la società/cultura dispensa a chiunque: il matrimonio socialmente approvato da consumarsi all’interno della casta/ceto religioso o sociale di appartenenza, preferibilmente combinato; la gravidanza deve seguire il matrimonio; nessuna sperimentazione sessuale durante l’infanzia o la giovinezza; nessun fidanzato/a e ovviamente nessuna relazione romantica o sessuale con una persona dello stesso sesso. Questa è solo una serie di regole. Tutte le altre vengono poco prima o dopo – gli abiti che si possono indossare, dove si può andare, che cosa si può fare in pubblico, gli orari nei quali si può uscire di casa, ecc. Queste regole sono restrittive e sfidarle o trasgredirle risulta quasi sempre nella perdita della propria identità, e in casi estremi, della vita. Se una persona è in qualche modo disabile poi, le regole sono molto più rigorose e controllanti. E, naturalmente, questo discorso ignora quasi sempre il tema del consenso della persona all’interno della famiglia. La sessualità è complicata… tanto più che le nostre decisioni al riguardo sono decisioni individuali. Queste decisioni sono guidate dalla nostra comprensione di ciò che è accettabile per noi e ciò che non lo è, e sono influenzate dagli spazi che occupiamo nella comunità, dalla nostra educazione e dai valori coi quali siamo cresciut* da giovani. Gran parte di tutto ciò cambia anche con il tempo a causa delle interazioni con le persone intorno a noi, i film che vediamo, i libri che leggiamo, le immagini a cui siamo esposti e le storie delle quali facciamo parte. Quello che trovo interessante è come tante delle nostre idee riguardanti la sessualità siano influenzate dalle informazioni che abbiamo ricevuto nella nostra infanzia, e perlopiù l’influenza principale in quel momento è quella della famiglia. La famiglia interpreta ciò che è consentito o meno nelle modalità che meglio si adattano alla stabilità dell’istituzione della famiglia. Non cerca consapevolmente di limitare la libertà dei membri della famiglia, ma solamente di mantenere in vita e ‘pura’ l’istituzione sociale. Con ‘pura’ intendo dire che le famiglie non vogliono in alcun modo esporsi ad un mondo che le critica o le fa sentire carenti in qualcosa. Da ciò deriva tutto il monitoraggio delle attività, comportamenti, pensieri e azioni.

RC: Esistono anche regole riguardo al tacere di alcune cose…
PM: La famiglia considera la sessualità una minaccia, soprattutto quando espressa da giovani al di fuori dei confini delle modalità socialmente accettabili. Eppure la questione degli abusi non è quasi mai sollevata all’interno della famiglia, dal momento che l’autore è quasi sempre qualcuno che la famiglia conosce. I casi di abuso di ragazzi e ragazze rimangono tabù e non se ne può parlare, e la persona responsabile dell’atto non consensuale, molto spesso, continua ad avere accesso al membro della famiglia che ha subito violenza. Non credo che il silenzio sugli abusi abbia a che fare con l’incredulità rispetto al racconto della vittima, ma molto più a che fare con la vergogna e una certa riluttanza a rendere pubblica la storia per paura che la colpa ricada sulle vittime.
Molte famiglie hanno anche un ‘posto segreto’ in casa in cui nascondere tutte le storie percepite come ‘devianti’ rispetto alla norma. Quelle storie pacificamente note ma al tempo stesso celate del figlio gay, la figlia lesbica, lo zio bisessuale, il cugino ‘femminile’ nel proprio comportamento, il cugino che si è sposato al di fuori della comunità, la nonna che lasciò il suo primo marito, la zia ‘zitellona’, il parente che ‘gioca’ con i bambini – la lista è infinita. Queste storie sono magari note a livello privato, ma viene fatto ogni sforzo per nasconderle ad ogni costo nella storia di famiglia.

RC: Pensi che la tua idea di famiglia sia cambiata nel corso del tempo?
PM: Con l’età, si comprende meglio la censura della propria famiglia sulle questioni relative alla sessualità. Parte di ciò ha a che fare con il fatto che le nostre interazioni con la società, le persone e le istituzioni che ci circondano ci spingono a riconsiderare i modi nei quali definiamo noi stess* in quanto esseri sessuali. D’altra parte, molt* di noi hanno rielaborato la propria idea di famiglia, alterandone i caratteri e comprendendo al suo interno persone che in genere non sono percepite come membri della famiglia.

RC: Al giorno d’oggi, né il matrimonio né la procreazione sono essenziali e, inoltre, non devono necessariamente essere inscindibili. Può esistere una famiglia che non sia fondata sul sesso? Una famiglia amicale?
PM: Oggi viviamo in un mondo nel quale strutture familiari ‘altre’ vengono create ogni giorno. Sono finiti i giorni dei bambini nati biologicamente, dei matrimoni esclusivamente pilotati dall’approvazione dei genitori, delle famiglie costruite sulla premessa del matrimonio. Ciò che è cambiato è il modo in cui la gente vuole interagire con le persone intorno a sé, gli intimi, coloro con le/i quali condividono una visione comune del mondo e che sono dispost* a spingere e sfidare presunte norme sociali e culturali. Questo ha portato a nuove relazioni e nuove forme di interazione. Persone dalle preferenze sessuali e identità di genere differenti convivono in relazioni intime e sessuali senza che alcun riconoscimento legale venga ricercato (e in alcuni casi, cercato e ottenuto). Relazioni d’amicizia nell’ambito delle quali creare il proprio gruppo di sostegno sulla base dell’ amore, della cura e della condivisione delle responsabilità. Queste famiglie destabilizzano il concetto convenzionale di ‘famiglia’. Allontanandosi dalla nozione tradizionale, queste forme di interazione ci costringono a riconsiderare ciò che intendiamo come famiglia, chi escludiamo e chi includiamo al suo interno. Sfidano inoltre tutte le norme conosciute di ‘purezza’ e le rendono irrilevanti perché queste famiglie sono create sulla base di amore e comprensione, piuttosto che sulle norme sociali di classe, casta, religione ecc.

RC: Qual è la tua idea di ‘famiglia’?
PM: La mia idea di famiglia si è sempre estesa ben oltre la famiglia biologicamente determinata. Inoltre non ho mai cercato l’approvazione dalla famiglia perché per quanto mi riguarda, i valori che mi hanno instillato mentre crescevo erano proprio ciò che mi ha aiutato a mettere in discussione tutte le nozioni esistenti di giusto e sbagliato secondo le norme socialmente e culturalmente stabilite. I miei genitori sono cresciuti insieme a me, perché sono stati da me costantemente messi in discussione su tutte le questioni relative alla sessualità, e a loro volta, poiché mi amavano, si sono permessi di imparare. Ho combattuto ma anche imparato quando fare marcia indietro. Famiglia per me ha sempre significato i miei genitori, i miei fratelli e sorelle e le amicizie che sono presenti con il loro amore, sostegno e cura per me come io faccio per loro.
Nel mondo di oggi, tutti noi abbiamo bisogno di riconsiderare quello che  intendiamo con il termine famiglia. Si tratta di una nuova era, un’era tecnologica. Si possono avere delle/i figli*, senza mai avere un rapporto. Si ha più bisogno di un laboratorio e di una capsula di Petri, piuttosto che del sesso! C’è stato un tempo in cui l’amore era per sempre e finché morte non ci separi, ora ci si separa per molti motivi e pochissimi hanno a che fare con la morte. Le nostre idee in merito all’intimità sono cambiate con l’uso di Internet, le nostre idee sull’amore sono cambiate, nel mondo di oggi sorelle/fratelli sono adottat* o sono le nostre amicizie, i genitori possono essere un uomo e una donna, un uomo e un uomo, una donna e una donna, due uomini e una donna, e così via – perché dunque facciamo difficoltà a riconsiderare le nostre idee sulla famiglia? Forse se ci lasciassimo la possibilità di immaginare, potremmo sognare diverse mutazioni e combinazioni per creare la nostra famiglia, e poi forse impareremmo a guardare con soddisfazione a quella biologica, e a cercare comunque il sostegno, la cura e la comprensione di quella non biologica. Questo per me rappresenterebbe una nuova era!