Un compagno ha bisogno di aiuto

È un bel po’ che di questo blog non rimane che un archivio. Ma vi chiediamo un ultimo sforzo finale per uno di noi che se la sta passando molto male, e che ha bisogno di tutto l’aiuto possibile. Non possiamo fare altro che linkarvi il crowdfunding messo su dalle persone a lui più care e sperare nella solidarietà militante di cui ci facciamo parecchio vanto.

Salve a tutti. Siamo Elena, Varxh e Chiara, tre persone molto vicine a Den. Abbiamo deciso che quest’ultima se la cavava meglio con le parole, e le abbiamo chiesto di parlarvi di lui. 

È sempre strano cercare di strizzare in qualche riga tutto quello che si dovrebbe sapere di un essere umano, ma per amor di sintesi tenteró. Conosco Den da qualche anno, e mi è sempre sembrato una persona fantastica. È comprensivo, pirotecnico, folle il giusto, e curioso di tutto. In un giornata tipo lo si trova a divorare (metaforicamente) libri di Hawking o di qualunque altro astrofisico conosciuto (la grande passione), o variegati pezzi letterari e non di scibile umano, solitamente circondato da palle di pelo miagolanti. Ha solo 21 anni, e giá ha all’attivo vari articoli su giornali online (argomenti: intersezionalità, femminismo, critica sociale), unapartecipazione mensile su Radio Onda Rossa, vari interventi in eventi di centri sociali romani. Insomma, oltre a essere un umano fantastico è anche molto coinvolto socialmente, cosa che gli riesce benissimo. Scrittore insonne, ha anche un blog, dove trovate poesie e pezzi suoi, scritti probabilmente alle 4 del mattino in raptus creativi improvvisi (con immancabile essere micioso annesso). Beh, immaginate un Baudelaire giovane e post-moderno che al chiaro di luna batte a macchina fantasie meravigliose e avete piú o meno l’immagine che cerco di trasmettere (togliete l’assenzio e rimpiazzatelo con camomilla fumante). Qui e qua troverete il resto che fa. 

Venendo al punto saliente: perché aiutarlo? Se le immagini accattivanti descritte prima non bastassero come motivazione, ne aggiungerei una ulteriore. La vita, giá prima ma recentemente peggio, lo ha preso a sassate innumerevoli volte in molti ambiti diversi. È una persona che, con le adeguate risorse e possibilità sará grandi cose, senza dubbio. E il fatto che per casualità lui non le abbia non mi sembra un buon motivo per cui non dovrebbe riuscire a fare qualcosa di meraviglioso nella vita. Tutti noi quindi abbiamo deciso di aiutarlo, creando questa campagna, con un piccolo contributo da ognuno la situazione migliorerà di sicuro. Spero di avervi fatto conoscere almeno un pó la persona che conosco io.

Ritorniano a noi: aprire un crowdfunding implica avere una posizione precisa. È l’idea che il singolo non debba essere abbandonato a se stesso, che la partecipazione collettiva non debba ridursi a sporadici atteggiamenti di elemosina e pietismo, ma essere un sostegno attivo, permanente, reciproco, umanizzato, solidale: responsabilità verso gli altri. Vogliamo che gli scogli, gli ostacoli di ogni giorno non siano solo un problema di Den e le persone a lui immediatamente vicine.

Da molti anni soffre di gravi forme ansiose e depressive, non trattate perché nessuno si è mai accorto e in ogni caso, nessuno aveva risorse per farlo, ormai diventate ingestibili e pericolose. C’è urgentemente bisogno di un intervento immediato.  Si trova a venire a patti con varie problematiche fisiche – tra cui dolori neuropatici mai arrivati a attenzione medica – che uniti alla sua condizione di autistico annullano drasticamente le possibilità di spostarsi da casa senza un mezzo di trasporto idoneo, non posseduto. Non siamo più disposti a tollerare la marginalizzazione, l’indifferenza, il rimando, l’abilismo di servizi che si sottraggono al prenderlo in carico, individuando nel suo sostegno qualcosa di accessorio e in cui non investire: chiediamo partecipazione di tutti nel garantirgli una psicoterapia, un sostegno medico, mezzi di trasporto idonei, un computer che è l’unico mezzo con cui può lavorare. Tutte cose che non si può permettere viste le disastrose condizioni economiche della sua famiglia.

Speriamo vivamente nella vostra solidarietà <3 

Brioches, ormoni, lotta di classe – ovvero dell’annosa questione del menefreghismo

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Caratteristica comune tra quelle persone transessuali e transgender che esibiscono a vari livelli una forma di politicizzazione, è un dirompente cinismo verso il destino dell’organizzazione politica e sociale della propria categoria. Aprono bocca e senti odore di mandorle amare – è l’odore della disillusione. Eccolo, arriva: “Le persone trans non hanno nulla in comune, le persone trans sono individualiste e pensano solo a risolvere gli affari propri, le persone trans vogliono essere normalizzate, le persone trans non si curano di combattere un paradigma medico e psichiatrico che le patologizza.” Colpo di grazia: “Le persone trans non hanno nessuno scopo collettivo comune”.

È sorprendente notare come a nessun* sembri insensato affermare che la matrice di una lotta che non decolla sia da individuarsi esclusivamente nel proprio soggetto politico, e non negli errori, di analisi e di prassi, di chi, a parole, intenderebbe organizzarlo, nel senso di fornire strumenti – a sé e alla collettività di cui si è parte – per attuare mutuo aiuto, resistenza, e offensive verso le strutture della società che la rendono più che mai improrogabile. Sopratutto, affermarlo senza porsi interrogativi a riguardo. Perché questo accade? Dovrebbe essere una domanda centrale, ma non lo è.

La grande maggioranza di chi si occupa di questioni trans ha a cuore la posizione culturale della transessualità e transgenderismo, nella modalità più astratta possibile dalla posizione sociale ed economica di chi quei vissuti li incarna. Se una critica è essenziale, e lo è, non la si troverà certo in questo panorama desolante. Da una parte c’è l’opportunismo dell’associazionismo gay e lesbico che dà spazio alla lotta trans nei termini a esso più comodi: lontano dalla fascia protetta, subito dopo la torta nuziale. Di fatto, senza dubbi, le richieste della comunità sono soltanto un gettone di presenza, esplicitato qua e là con qualche poster o qualche affermazione, da chi ha i mezzi per permettersi di fare lobbying enormemente più rumorso circa altre cause – esemplificate in pieno dal matrimonio egualitario – che, come è evidente, ritiene prioritarie.  Dall’altra, è pieno di torri di polistirolo erette da chi, in fondo, le sostituirebbe volentieri con quelle d’avorio dell’elitarismo accademico, ma che finché non può o non vuole scalarle, si tiene stretto l’élite controculturale e frattanto, allora, gioca a fare il/la teoric* queer con il corpo, i sentimenti e le istanze, vere e presunte, degli altri e delle altre.

Una persona trans, non una di quelle che si suppone arrogantemente in base ai propri criteri come “politicamente consapevoli”, non una di quelle fortunate e sorridenti,vorrebbe, in primo luogo, non essere costretta a discriminazioni ai colloqui di lavoro o mobbing. Avere un nome e un sesso coerenti con la sua identità di genere – nella carta d’identità, nella tessera sanitaria nel conto corrente e in tutto il resto del mucchio di carta che si affronta di giorno in giorno – senza obbligo di operazione preventiva; averli ufficialmente in un registro di classe e in un libretto universitario. senza dover contare sui magheggi extraburocratici a discrezione di alleati che fanno il possibile, ma che potrebbero non esistere sempre e in ogni dove. Usufruire della sanità nazionale senza doversi esporre per forza anche soltanto per togliere una carie. La gratuità garantita delle prestazioni psicologiche, endocrinologiche, chirurgiche, legali che occorrono per il percorso che desidera intraprendere. Attraversare una strada senza avere gli occhi, se non direttamente le mani, addosso. Ed è molto stanca, dopo tutto questo, di prendere atto che la sua autodeterminazione sia considerata semplicemente una forma di autocentrata stupidità – e non è disposta a prendersi in carico il narcisismo di chi sventola la sua bandiere senza neanche chiedere il permesso.

Ragionevolmente il problema è situato qui, non nel completo disinteresse di una categoria, già socialmente svantaggiata e in piena crisi economica, per battaglie che non colgono l’urgenza del bisogno. Occorre una miopia politica davvero grave per non vederlo, e una strategica della stessa entità per non incominciare a sostenere proposte ponderate in base alle necessità reali, urgenti, quotidiane. Perché privilegio è anche questo: poter pensare che fare politica sia qualcosa di differente dal cercare sopravvivenza. E di brioche, si sa, non si sopravvive.

Quando gli avvoltoi volano su Battistini

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Non capita spesso di girare il chiavistello nella porta di casa e vedere gli avvoltoi. A pensarci bene accade poco, molto poco. Per vederli, però, non mi è servito alzare gli occhi al cielo. Erano tutti per strada a urlare. Diciamo che accade un po’ più spesso, se hanno la faccia di tutti i peggiori rigurgiti nazionalpopolari e dell’estrema destra. Tutti riuniti in una manifestazione, apolitica nella stessa maniera in cui possono esserlo gli enfatici strombazzamenti xenofobici di Salvini e seguaci.

Siamo di fronte a una narrazione tossica che più tossica non si può. Incentrata tutta sulla condanna di un orrore, etnicizzato due volte. La prima dalla frustrazione di chi sfoga la propria insoddisfazione circa la mancanza di prospettive in acritiche cacce al diverso, che diviene nei filtri distorcenti della percezione pubblica, vale a dire quella dell’opinione mediatica, un misterioso figuro ammantato di immeritate concessioni, le quali sarebbero ingratamente ripagate con delitti di ogni genere. La seconda volta dalla classe politica, che non esita a gettare fertilizzanti su quanto di terrificante è già stato seminato dalla televisione e dalle varie testate cartacee e digitali.

Si ha un ben parlare di tragedie annunciate, nessuno però sa indicare bene dove si trovava l’annuncio di questa tragedia in particolare, tanto orribile quanto casuale. A ragione, poiché bastasse la presenza di esseri umani ad avvalorare sospetti di reato, anche quando le condizioni di vita sono quelle considerate proprie del degrado, l’intera zona di Primavalle sarebbe un covo: i suoi abitanti, ottantamila criminali. Questo quartiere, a differenza di chi si fa vivo solo se c’è da cantare l’inno minacciando genocidi di periferia, c’è anche chi lo vive tutti i giorni e può parlare con cognizione di causa. Non esiste nessuna emergenza zingari, nessuna violenza rom. Esistono piuttosto l’emergenza reddito e l’emergenza abitativa, e molte altre, di natura economica, politica, culturale che è possibile continuare a citare per giorni e giorni. Esiste la violenza di vivere nella trappola di una stratificazione sociale sempre più stringente e asfittica, fatta passare in secondo piano con discorsi razzisti e fuffologici proclami antidegrado. Quando il saggio indica la luna, lo stolto guarda gli adesivi sui pali: stoltezza particolarmente infida, classista e razzista, se il degrado da eliminare cessa di essere l’ambiente e incomincia ad essere incarnato dalle persone – certi tipi di persone – e non dall’arredo urbano.

A ben vedere, i mostri singoli si sbattono in prima pagina solo quando sono bianchi e cittadini italiani. Se non lo sono, il giudizio individuale sparisce e lascia il posto al consolidamento di un mostro collettivo, rappresentato da tutte le persone appartenenti all’etnia di turno, presa di mira da un retroscena di anni di campagne antiziganiste e una versione distorta del principio di responsabilità collettiva. Questo è l’andazzo? Allora riformiamo l’intero diritto civile e penale. Quando un italiano fa qualcosa che non deve, fuoco sul suo condominio. Suona male, quando il mirino è puntato su di noi. Sembra una soluzione inconcepibilmente folle. Lo è. Come è folle che esista una marea emozionale che monta ininterrotta, totalmente avulsa dalla realtà dei fatti, esacerbata da livori accumulati in precedenza, legittimata da una gestione della cosa pubblica tutta ruspe e repressione ma che di politiche sociali proprio niente.

C’è chi proclama vendetta alla folla e alza fiaccole al vento mentre vende le case popolari, sgombera e sfratta. Poi c’è chi sta dalla parte di chi i diritti non ce li ha e li pretende insieme, e non da quella di chi per attività conservatrice verso le ultime molliche di pane si mette a calpestare esseri umani. Non sarà una limpida attività di sciacallaggio e ossessione legalitaria come si conviene ad ogni bravo cittadino, ma è meglio così.

 

 

La locomotiva, round two

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Se esiste una cosa che accomuna l’umanità tutta, è la defecazione. Un servizio igienico può essere di porcellana o d’oro zecchino, ma la cacca è la seconda grande livellatrice sociale, subito dopo la morte e poco prima della pioggia.

Siedo da ore allo stesso posto. Ho finito di leggere tutti i libri che ho con me. Congetturo che il servizio di una compagnia di trasporti non si possa davvero definire completo se non include anche la noia. Dopo poco, il mio sistema digerente mi ricorda un improrogabile impegno biologico. Opto dunque per una rapida escursione nei servizi igienici ivi presenti alla distanza di metri cinque. Entro, a passo svelto. Mi appresto a eseguire il basilare compito di espulsione scorie. Mi siedo. Una ventina di secondi dopo, sento bussare. A voce alta, rispondo «Occupato!». Altri venti secondi dopo, viene addirittura aperta parzialmente la porta. Sussulto. Mi sbrigo a richiudere. Visto la scarsa stabilità laterale del treno sospetto una brusca sterzata. Porto a termine la missione nel giro di un minuto e mi detergo in un istante. Esco.

Aperta la porta, scoperto l’inganno. Di fronte a me, la controllora che mezz’ora prima aveva verificato che io possedessi un biglietto, mi fissa strizzando gli occhi iniettati di sangue. Cerco di capire meglio.
«Scusi?» chiedo. «Che succede?»
«Sei qui dentro da cinque minuti» sibila.
«Pare di sì. Quindi?»
«È da cinque minuti che sono qui fuori!» stavolta urla. Mi faccio serio.
«Non mi pare, ma anche se fosse qual è esattamente il problema?»
«Cosa facevi lì dentro?»
«Cosa fanno secondo lei le persone, quando ad intervalli regolari in una giornata vanno al bagno?»
«Ho aperto la porta e l’ha richiusa!» urla di nuovo. Incomincio ad innervosirmi davvero.
«Certo!» ringhio. «Cosa avrei dovuto fare?»
«Aprire!» urla di nuovo.
«Devo dedurre che lei suole consentire l’accesso a chiunque ritenga opportuno contemplarle le emorroidi senza nemmeno averglielo chiesto?»
«Fa’ poco lo spiritoso. Tu non sai chi sono io.»
«Sì, certo. Ha ragione lei.»
Tento il ritorno, ma occupa tutto il corridoio per non farmi passare. Continua a ripetermi la stessa patetica frase con un tono di voce sempre più alto. Il mio aplomb svanisce.
«Ooooh, e levate! Uno vòle cacà e deve sopportà ‘a psicopatia d’aaa prima cacacazzi che incontra! Sparisci! Famme tornà al mio posto! Porcoiddio!»
Con uno spintone la sposto a lato e me ne torno importunando gli dei sul sedile vicino al finestrino. Mi accomodo, finalmente, non senza una punta di rodimento di culo per l’insensato avvenimento. Ora comunque è finita, e  attendo di scendere a Roma Termini.

Qualche istante dopo, una manciata di file più in là, la vedo di nuovo. Parla con una signora ingioiellata e impellicciata. Le sorride anche.
«Signora, il bagno è libero se ne ha bisogno.»

Scordate tutto quello che ho detto sulla cacca come livellatrice sociale. Non vale se sei un pezzo di merda che esce dagli sfinteri della borghesia.

Come riconoscere un anarcomachista

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Illustrazione di Suzy X

L’anarcomachista è aggressivo, competitivo fino all’eccesso. Elitario, paternalista; più puro dei puri e più forte dei forti. Riesce misteriosamente ad essere dogmatico pur professando il suo odio per ogni dogma. Persegue la coerenza in maniera totalizzante e obnubilante, ignorando che in un mondo di contraddizioni sociali tale perfezione non può esistere. Insegue l’alienazione delle politiche che porta avanti nella stessa maniera in cui egli pensa di porsi di fronte all’esistente: senza compromessi.

L’anarcomachista è misogino ma può non sembrarlo. La sua pericolosità è direttamente proporzionale alla sua capacità di mimetizzarsi come “bravo compagno” o come individuo non stereotipicamente maschilista. Può essere qualunque uomo. E di tanto in tanto, persino qualunque donna.

L’anarcomachista rincorre la logica del martirio e pensa che sia giusto e necessario che chiunque faccia altrettanto. Non tutt* vogliono o possono essere picchiat* e incarcerat*, ma a lui non importa. Perché pensare all’orizzontalità e all’incolumità altrui quando si può godere di un trip testosteronico con lo scontro di piazza fine a sé stesso, tatticamente inutile? Non si pone mai il problema di aver sovradeterminato le decisioni e le voci altrui: non lo farà né per il destino di una manifestazione, né per altro.

L’anarcomachista pensa di vivere in una bolla di sapone al di fuori della società, immune alle influenze aliene dei contesti oppressivi da cui emerge, pertanto sente di non avere alcuna responsabilità nell’aumentare la consapevolezza dei suoi privilegi e oppressioni e men che meno quella di combatterli. Ove necessario, ne nega l’esistenza – o peggio ancora, si proclama fintamente suo nemico, ingannando compagne e compagni di lotta. I quali non se ne accorgeranno per molto ancora: si dice che i fatti contano più delle parole, ma se i fatti contraddicono l’immagine idealizzata che si ha dell’ambiente sovversivo e dei suoi abitanti, allora le parole pare proprio vadano più che bene.

L’anarcomachista è emozionalmente impedito, e arroccato nella sua corazza di cinismo e distanza emotiva, prova una profonda paura di ogni cosa che non sia lineare, razionale, e risolvibile con due punti sull’ordine del giorno. Non sbaglia, non si scopre e non si mette mai in discussione: la sua lotta è sempre e comunque votata alla superficialità.

L’anarcomachista non si fida di nessuno, specialmente delle esperienze delle persone su cui ha potere, alle quali risponde in maniera dismissiva e trivializzante.

L’anarcomachista è un capolavoro di narcisismo. Si sente legittimato a colonizzare ogni discorso, ogni spazio, ogni sentimento, ogni corpo. Vuole essere ascoltato, ma non è disposto ad ascoltare: non è infrequente vederlo palesemente scocciato e annoiato quando gli si parla di questioni che crede non lo riguardino. Basta una vaga avvisaglia di critica politica per farlo andare sulla difensiva.

L’anarcomachista dimostra spesso, nelle sue interazioni sociali, una propensione a battute e linguaggi sessualizzanti (nei confronti delle donne) e omotransfobici. I gruppi, collettivi, organizzazioni a cui partecipa sono caratterizzati da un altissimo ricambio di persone, le quali fuggono esauste e infastidite da lui, dai suoi comportamenti e dai silenzi collettivi che ne consolidano la posizione. Talvolta i componenti di questi gruppi, collettivi, organizzazioni si domandano il perché di questi esodi, ma sembrano non accorgersi del fatto che essi sono compiuti principalmente da persone svantaggiate in qualche asse di privilegio.

L’anarcomachista prende posizione: o sei la soluzione o sei parte del problema. Questo soltanto finché il problema è fuori dalla sua portata. Se un suo amico, parente, compagno abusa verbalmente, emozionalmente, psicologicamente, fisicamente o sessualmente di qualcun*, questa sua capacità improvvisamente sparisce e lascia il posto a una silenziosa, pacifica, violenta equidistanza. Non comprende che non credere alla vittima significa in automatico abbracciare la versione di chi l’ha resa tale.

L’anarcomachista riesce a riempire intere ore assembleari di lotte intestine, discussioni inutili e lunghe digressioni inappropriate piene di fuffa. Parla di teoria quando serve agire, e di azione quando serve pensare.

Riconosci ed estirpa l’anarcomachista che è in te e negli altri!

#ioleggoperché non mi piace

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In questi giorni si sente parlare di #ioleggoperché, iniziativa nata per mano dell’Associazione Italiana degli Editori. Ammirevole, no? Qualcuno si preoccupa dello stato della cultura in Italia. Un po’ come se la Monsanto organizzasse una convention di tre giorni sul mangiar sano con tanto di stand atti alla diffusione di intingoli vari: un vero e proprio festival dell’assenza del conflitto d’interesse. Questa giornata sembrerebbe glissare senza ritegno sul perché le persone in Italia non leggono; si limita a dare la non-lettura come dato assodato. Qualcuno si domanderà se uno, per costruire iniziative, debba necessariamente preoccuparsi di massimi sistemi. La risposta è sì, per forza, specie quando nel farlo si diffonde la retorica subliminale che l’atto di non acquistare carta implica necessariamente non acculturarsi in nessuna maniera, che in qualche maniera la quantità dei libri venduti sia un dato di importanza equivalente alla qualità degli stessi e che l’assenza di passione letteraria collettiva origina da una specie di bifolcaggine innata propria degli autoctoni della penisola. Italiani e italiane non leggono, ok, ma per quali motivi?

Perché non possono, direi. I costi dell’editoria sono decisamente eccessivi per le tasche vuote e semivuote. Sto forse dicendo che editing, traduzione e grafica editoriale non dovrebbero essere attività retribuite? Certo che no, ma il problema è che non lo sono neanche con i prezzi disumani che ci sono ora, visto che il grosso della moneta va alla distribuzione: qualcosa non va. Per quanto il privilegio economico, considerevole o relativo, imponga le fette di prosciutto su occhi orecchie ed empatia, ebbene sì, esiste chi si trova in questa situazione, e non si tratta nemmeno di un paio di persone. Fino a qualche tempo fa genitori e parenti facevano da ammortizzatore sociale consentendo un regime di economia ristretto ma non troppo che lascia spazio al tomo occasionale; adesso che il lavoro l’hanno perso anche loro viene meno anche questa possibilità. Un cosiddetto lettore forte col portafogli in buona salute spenderebbe senz’altro, ma quando si ritrova a vivere con altre tre persone barcamenandosi con l’unico reddito esistente presso quel domicilio, una pensione da 800 euro, tolti 600 di bollette e pendenze economiche di varia natura ne rimangono sì e no 200 che dovranno sopperire alla necessità di cibarie, medicinali, spese accessorie. Il nostro “lettore forte” inevitabilmente smette di acquistare libri, poiché costretto a scegliere tra Carlo Emilio Gadda e un piatto di pasta, riconosce quest’ultimo come più funzionale alla sua sopravvivenza fisiologica, necessità non soddisfatta in modo alcuno da etti di cellulosa inchiostrata. Le conseguenze sono evidenti: il nostro “lettore forte” passa dall’acquisto di una quindicina di volumi l’anno a zero, al massimo uno, due, forse tre. Replicando la stessa situazione su scala industriale ne conveniamo che parlare dei bilanci dell’editoria senza tenere conto del contesto economico in cui quella si muove è cosa profondamente insensata. Non possono anche perché coloro che tutto sommato hanno la vaga fortuna di non essere ancora ritornati a casa di mamma e papà a sfogliare compulsivamente siti di annunci alternando ore di ripetizioni e attacchi di panico, di solito hanno un qualche impiego, immancabilmente precario, che porta via loro una quantità folle di tempo ed energie. Dopo ore e ore di servizio ai tavoli, di attività da promoter e di sollevamento scatoloni in magazzino, l’istinto vitale tende a trasportare corpi verso il divano, non verso la Feltrinelli.

Perché non vogliono, aggiungerei. Fin dalla più tenera età l’avvicinamento alla lettura lo si subisce senza neanche remotamente viverlo in maniera autentica e men che meno goderselo. La scuola italiana è particolarmente efficace nell’educare (nel senso di “infilare nei crani approcci al vivere malsani ma socialmente accettati”) e disciplinare (verbo che, tradotto dal burocratese all’italiano, significa “trattare come dei carcerati”) ma non si può dire lo stesso della sua attività di accensione di scintille culturali. Non ho mai conosciuto finora nessun essere vivente avvicinatosi all’ossessione narrativa o saggistica tramite l’acquisizione cognitiva di pagine nozionistiche sui classici della letteratura italiana di qualche secolo fa. L’effetto sortito, di norma, è invece la nascita di intenzioni omicide nei confronti delle proprie letture obbligate, che non hanno sfogo solo perché nei programmi scolastici sembrano avere cittadinanza quasi soltanto autori già decomposti. I quali, a rigor di logica, non possono decedere per più di una volta. Ma solo biologicamente: l’attività di uccisione spirituale è pratica quotidiana, di demanio e competenza del ministero dell’istruzione.

“Pronti a tutto per conquistarvi”, dicono. Anche a cambiare i presupposti del paese e del mondo in cui vivete? Anche a smettere di piangere miseria se Amazon ha un bilancio più roseo del solito, specie se in alternativa gli proponete altre grandi catene, quindi nulla di sostanzialmente diverso, e non le librerie indipendenti? Anche a farla finita col feticismo elitario e gratuito per l’odore della carta, come se la piattaforma su cui si legge fosse qualcosa di davvero rilevante? Anche a dichiarare guerra al classismo editoriale? In attesa di una risposta, vado a leggere.

La miseria del sovversivismo

 

Fonte dell'immagine:  http://bit.ly/1Bspv1F
Fonte dell’immagine: http://bit.ly/1Bspv1F

Si creano spesso polemiche su quali scelte siano rivoluzionarie, o quantomeno le più sovversive da farsi, e viceversa. Credo che questo dibattito non abbia niente di politicamente produttivo e abbia tutto di alienante per ogni parte coinvolta. La “sovversività” di qualcosa dipende dal contesto in cui quel qualcosa viene agito – e perciò si può attribuire ad un azione o un discorso un carattere sovversivo soltanto in una contigenza ben precisa, poiché questi sono un prodotto storico e culturale di determinante circostanze; queste stesse circostanze ne determinano il significato e, ne consegue, l’eventuale divergenza dallo stato di cose presenti e dall’egemonia culturale attuale.

Adottare uno sguardo intersezionale mette in luce l’inconsistenza di questa idea, dal momento che ne smaschera la pretesa di universalità. Come si può dire ad esempio cosa è sovversivo per una donna fare se già soltanto tenendo in considerazione la diversità tra donne bianche e quelle che non lo sono l’esperienza cambia profondamente e con lei anche l’ipotetico da farsi rivoluzionario? Per le bianche è stato sovversivo uscire dalle mura di casa e farsi strada nel sociale, nel pubblico; per le non bianche si può dire altrettanto, quando la schiavitù coloniale andava a colpirle proprio recidendo ogni tipo di legame familiare?

L’idea di una scelta sovversiva mi richiama alla mente, nella sua ingenua socialdemocraticità, un’altra idea, che è anche una pratica: quella del consumismo etico. Entrambe postulano prima di ogni cosa che sia possibile scegliere e che dal momento che è possibile scegliere, la scelta da fare è quella che viene posizionata come eticamente (e quindi politicamente) auspicabile.  Ci sono buoni motivi per dubitare che questa possibilità di scelta esista e ce ne sono altrettanti per sconfessare l’imprescindibilità di certe scelte, e cito quella che mi sembra più significativa: il rischio ahimè piuttosto concreto di una critica che continui a vertere inutilmente sul gesto individuale senza tenere minimamente conto né delle sue ragioni né del contesto in cui si svolge, perseguendo un ideale fascista di coerenza più vicino al martirio che alla lotta contro ogni forma di oppressione.

Il sovversivismo non è un -ismo per come lo concepiamo di solito, cioè  discriminazione, oppressione, ostilità aperta o sottile e molto altro che riguarda una specifica categoria di soggetti umani o non umani in maniera sistematica. È più un modo di pensare teso alla trasgressività compulsiva. Julia Serano in Whipping Girl lo definisce in maniera molto più precisa e contestuale all’ambiente femminista e queer: il sovversivismo è la pratica di esaltazione di certi generi, certe espressioni sessuali e certe identità semplicemente perché sono non convenzionali o non conformi. Serano dice:

In superficie, il sovversivismo dà l’apparenza di ospitare una serie apparentemente infinita di generi e sessualità, ma questo non è proprio il caso. Il sovversivismo ha confini molto specifici; ha un “altro”. Glorificando identità e le espressioni che sembrano sovvertire o sfocare i binari di genere, il sovversivismo crea automaticamente una categoria reciproca di persone le cui identità di genere e sessuali e le espressioni sono di default intrinsecamente conservatrici,  addirittura “egemoniche”, perché sono viste come rinforzo o naturalizzazione del sistema del binarismo di genere.

Julia Serano, nel suo libro, lo usa per descrivere come gli atteggiamenti sovversivisti si manifestino negli spazi queer e trans contemporanei, in cui i maschi / le identità transmaschili sono visti come più sovversivi rispetto a quelle femminili / transfemminili , e dove le identità e le espressioni (ad esempio le pratiche legate al drag, l’essere genderqueer) che sfocano il genere sono viste come più sovversive di quelle identità considerate binarie (ad esempio, donne e uomini transessuali).

Un altro esempio di questo atteggiamento è costituito dall’esclusione delle persone bisessuali, giustificata per l’appunto con argomentazioni risibili quali il rafforzamento del binarismo di genere, il quale deriva dall’errata considerazione che l’interpretazione letterale dell’etim0logia di una parola ne indica il significato odierno. Se bisessuale è un esercizio di binarismo per via del fatto che bi significa due, allora le lesbiche provengono dall’isola di Lesbo, percependo salari in cloruro di sodio. Bisessuale, proprio come omosessuale e transessuale, è una parola nata nel contesto medico e reclamata dalla comunità arcobaleno, perciò il suo binarismo vero o presunto non è affibbiabile alla c0munità, agli individui che ne fanno parte e all’identità romantico-sessuale che rappresenta, specie se una parte considerevole delle organizzazioni e comunità di persone bisessuali adottano una definizione di bisessualità che binarista non è. Se pensiamo altrimenti, dovremmo accusare coloro che si definiscono omosessuali di autopatologizzarsi. C’è un binarismo di genere, certo, ma  le accuse di rinforzo arrivano a una comunità piuttosto marginalizzata. È curioso che tutti si preoccupino di chi per davvero o per finta rafforza il binarismo senza preoccuparsi di chi, in primo luogo, l’ha edificato nei corpi e nelle esperienze. Questi censori sono funzionali alla guerra intracomunitaria, al mantenimento del mortifero dominio eterosessista, e sono considerevolmente responsabili dell’indisturbato proseguire delle ingiustizie inquadrate dalle agghiaccianti statistiche che riguardano le persone bisessuali. Ma ritorniamo a noi.

Quello del “rinforzo” è un mito, prodotto proprio dal binarismo di radicalità/non-radicalità, il sovversivismo appunto, attuato da soggettività che nel tentativo di abbattere gerarchie ne costruiscono altre, generando un’altra diversità, un nuovo “altro da sé”, che si suppone conservatore e per questo è considerato cattivo; inoltre, un grosso pericolo del sovversivismo risiede nel fatto che esso genera un processo di esclusione di ciò che sembra meno trasgressivo, atipico, non convenzionale e poi si rende complice della sussunzione neoliberista della gettonata controparte “sovversiva” commerciandola, perciò  depoliticizzandola e depotenziandola nelle sue già scarse potenzialità. Infine, esso si accompagna quasi inevitabilmente alla ricerca della purezza militante individuale, un mostro  che trasforma la solidarietà in competizione e l’azione diretta in mania di protagonismo, cuocendo ogni potenzialità di cambiamento sociale nel brodo di un più che disumano ultraindividualismo celolunghista. E questo è quanto mi basta per rifiutarlo con tutto me stesso.

Cosa significa essere produttiv*?

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In quanto individuo che ha a che fare con la fatica perpetua datami dall’ansia, una delle punizioni verbali più creative e dannose che mi sono solertemente rivolto finora, è quella di non essere abbastanza produttivo – sentendomi di conseguenza travolto dai sensi di colpa. Questa convinzione possiede una discreta popolarità presso moltissime altre persone, in particolare coloro che hanno a che fare con il disagio psichico, o persone con disabilità. Lasciatemi dire che si tratta di un concetto ad alto tasso di balordaggine.

La nozione della produttività è radicata nelle idee capitaliste ed abiliste sul valore di un individuo. È assolutamente importante che si sia produttiv*, e non solo al lavoro, ma ogni maledetto istante. E cosa significa essere produttiv*? Quando siamo sever* con noi stess* per non essere produttiv* abbastanza, che significa? Possiamo provare a definire cosa significa la produttività per noi su un livello individuale, ma qualunque sia tale definizione mi riesce difficile separarla dalle già citate idee oppressive.  Penso che questa sia una delle maniere più subdole, comuni e incontrastate di internalizzare l’ideologia borghese e perpetuarla verso noi e gli altri.

Definire cosa significa produttività potrebbe essere un attimino più semplice se guardiamo a cosa non è. Stare online tutto il giorno, videogiocare, guardare un film, dormire, rilassarsi, compiere qualsiasi azione considerata passiva; sono tutte cose frequentemente bollate come non produttive, quando vediamo della gente autocriticarsi per come usano il proprio tempo non-lavorativo, non strutturato. Cose che non hanno un obiettivo predefinito. Sembra che non avere una lista delle cose da fare, cosa che peraltro io ho e aggiorno pedissequamente per via di una mia certa tendenza ossessiva alla pianificazione, sia una specie di crimine contro l’umanità nel peggiore dei casi e una imperdonabile perdita di tempo nel migliore.

Produttività, per alcun*, potrebbe significare impegnarsi in uno o molteplici interessi e passatempi, fare delle commissioni. Potrebbe significare lavorare senza sosta per quattro lavori diversi, ognuno con meno garanzie e più sfruttamento dell’altro; potrebbe significare fare ricerca, o avere moltissimi progetti in corso, organizzare e partecipare a manifestazioni, condurre un workshop dopo l’altro, scrivere articoli, mettere a posto l’armadio. Essere produttiv*, però, non include mai quella serie di gesti, azioni e comportamenti legati alla cura di sé.  Vedo molte, moltissime persone (creative in particolare) essere particolarmente dure nei loro confronti per non produrre abbastanza, specie se la ragione per cui ciò accade ha a che fare con le lotte che loro stesse ingaggiano per mantenere una buona salute fisica e mentale. Come fossimo catene di montaggio in miniatura, che subconsciamente si paragonano a fabbriche per la produzione di massa, che però non riusciremo mai a replicare per via delle ovvie, intrinseche limitazioni dell’essere un singolo individuo.

Il capitale è così profondamente immerso negli ingranaggi delle nostre vite che non capiamo nemmeno cosa diciamo davvero quando diciamo di volerci costringere a essere più produttiv*, o quando ci vergogniamo per non esserlo stat* abbastanza. Ci dimentichiamo di prendere tutto il tempo che ci serve per rilassarci e farci del bene perché siamo occupat* a raggiungere la quota immaginaria di produttività giornaliera. Perché i rituali quotidiani di cura di sé sono in opposizione ai nostri ideali di quella che è la produttività? Perché non è produttivo badare alle nostre necessità di animali umani?

Basta spingerci oltre ogni nostro limite, basta con la nozione della produttività e basta con l’idea che il nostro valore stia in ciò che riusciamo ad aver terminato a fine giornata. Il rispetto per noi stess* non è a cottimo. Cominciamo a lavorare sull’amarci quando ci diamo respiro.

Il tabù della povertà, l’angoscia e il silenzio che non sopporto più

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Ho un problema. Anzi, ne ho molti, che alla fine ritornano tutti alla stessa origine: soldi, o meglio mancanza di. Sono nella stessa situazione (o forse in una peggiore, per certi versi, a causa di alcune mie particolari condizioni, alcune esistenziali ed altre patologiche) di moltissime altre persone che vivono in Italia, in Europa e in ogni altro paese del pianeta Terra: sono affetto da un caso letale di pezze ar culo.

Mio padre faceva l’operaio in un magazzino adibito alla vendita di materiale edile, luogo che a Roma prende il nome di smorzo. Suo principale era un soggetto dotato dei più deleteri tratti dell’umana persona:  piccolo borghese tuttavia privo di qualsivoglia capacità imprenditoriale,  soleva tenere in soggiorno un busto del duce, del quale si prendeva cura con la stessa alacrità che lo stereotipo sessista della casalinga di Voghera riserverebbe al suo servizio da té. Bene: caso – ma soprattutto economia – vuole che lo smorzo dove il mio genitore paterno ha lavorato per un paio di decenni abbia chiuso i battenti esattamente un anno fa. Non prima di averlo costretto per mesi a ricevere buste paga nanoscopiche e assolutamente inadeguate al mantenimento di una famiglia di quattro persone; l’odio di classe è una cosa che va fatta per bene, e nessuno può saperlo meglio di un padrone.

Quest’estate, dopo un anno e mezzo di depressione galoppante, ho avuto modo di incominciare una psicoterapia (che attualmente proseguo, ma non riesco a pagare) che mi ha dato modo di far luce su un po’ di cose di me e del contesto, sia familiare che scolastico, in cui ho avuto modo di far crescere con varie storture di percorso i miei tessuti organici, muscolari-scheletrici e cerebrali. Colto da illuminazione, realizzo che di fare grafica pubblicitaria – scuola che avevo abbandonato senza alcun rimorso – non m’è mai importato più di tanto e che la mia strada è totalmente altrove. Corro dunque ad iscrivermi alle serali di un ITIS dotato, con mia somma gioia, dell’indirizzo elettronica e telecomunicazioni. Faccio piccoli passi per riprendere in mano, nella misura in cui mi è possibile, le redini della mia esistenza. Ma veniamo ad oggi. Fra un mese finiscono i soldi dell’INPS, e sono qui davanti a uno schermo che cerco di non schiattare immantinente, schiacciato dal peso di tutti i bisogni vitali che ho e non sono in grado di soddisfare.

Ad esempio sono affetto da quella che molto probabilmente è la sindrome dell’intestino irritabile, la quale porta con sé vari regali. Il suo dono più recente sono emorroidi prolassate che mi tengo da più di un mese e mezzo, e che noto, tattilmente, essersi ingrossate. Soffro di psoriasi, ansia e attacchi di panico. Molto probabilmente ho l’ovaio policistico, o qualcosa di analogo, viste le mestruazioni totalmente irregolari, nel tempo e nella quantità, e delle carie che non posso rimuovere. Vorrei perdere peso in quanto ampissimamente al di sopra del mio peso forma, ma vallo a trovare un nutrizionista gratis; starei anche cercando di andare in palestra, che continuo a pagare tramite un finanziamento precedentemente stipulato, ma a causa del mio abnorme calo di energie dovuto alla mia situazione psicologica sono di fronte all’impossibilità materiale di farlo ora; in ogni caso, le finanze prestatemi per fare elettrocardiogramma e certificato sono state investite in spese di sopravvivenza relative a cibo di discutibile qualità e basso prezzo, nonché cure veterinarie per uno dei miei gatti, il cui malore ha determinato un’emozione nel sottoscritto che, sempre a Roma, è nota ai più come coccolone. Inoltre, essere un ragazzo transessuale implica, per il mio benessere mentale, l’atto di procurarmi un endocrinologo e un avvocato che faccia gratuito patrocinio, per poter dapprima accedere alla possibilità di operarmi e in seguito ottenere dei documenti senza i quali ogni interazione sociale a sfondo anche lievemente burocratico-formale è l’inferno in terra. Nel caso non fosse già evidente, non ho soldi per fare niente di quello che mi servirebbe; aggiungo che, nonostante sia passato un bel po’ di tempo da quando è venuta a mancare la principale fonte di reddito del mio nucleo familiare, non risultiamo ancora nei database della gente papabile per l’esenzione, il che va a determinare un tragico paradosso dai connotati grossolanamente kafkiani: non posso usufruire né del servizio sanitario nazionale (dai tempi che rimangono in ogni caso eterni, e dalla qualità sempre più bassa) né di quello privato.

Non ho neanche modo di procurarmelo da solo, il reddito. I miei genitori hanno rispettivamente la terza media e la quinta elementare, e in un lasso temporale in cui è difficile farsi assumere anche qualora si avessero nel curriculum vitae due lauree con annessi master, corsi professionalizzanti più ogni altra esperienza formativa concessa in giro per le terre emerse italoparlanti, potete immaginare cosa significa. Le mie forze sono già divise perlopiù tra la mia ansia debilitante e il percorso di studi appena intrapreso, perciò non posso lavorare granché, e anche le volte in cui sono in grado, reperire chi abbisogna le mie prestazioni non è così semplice: specie per qualcuno che non ha mai messo piede nel mondo del lavoro, né subordinato né autonomo. Un livello aggiuntivo di difficoltà è rappresentato dal fatto che essere trans porta inevitabilmente, in questa società, conseguenze di carattere anche relativo all’impiego (non è un caso che la percentuale di disoccupazione sia così elevata tra le persone trans). È ancora più difficile tenendo conto del fatto che mi mancano persino i mezzi con cui offrirle, le prestazioni – sono infatti privo di un computer di mia proprietà che risponda alle caratteristiche necessarie per l’utilizzo in questo senso. Vivo peraltro sotto un tetto che, se venisse attuato il decreto Renzi-Lupi, non avrei più, poiché si tratta di una casa popolare. Tutto ciò mi uccide, nel significato più letterale di questa espressione. Perché condurre un’esistenza priva della più vaga parvenza di dignità è un potentissimo incentivo al desiderio di schiattare; che in realtà non avrei nemmeno, perché voglio vivere. Solo non ho intenzione di farlo in questa maniera.

Per quanto il tono utilizzato possa darne l’idea, non sto scrivendo la lettera di un suicida. Intendevo dire qualcos’altro: mi sono fratturato i coglioni, e non voglio sentirmi dire povero, o essere compatito. Non ne posso più del silenzio tombale collettivo che avvolge l’esistenza delle persone povere, disoccupate, proletarie e sottoproletarie; esperienze delle quali non posseggo certo l’esclusiva. Sono stufo del fatto che certe grida debbano esaurirsi in angosciate chiacchiere tra di noi, dove noi corrisponde al proprio circolo di amicizie, amori e compagneria assortita. È mai possibile che qui si viva una violenza sociale di un’estensione mai vista e che si tratti l’argomento come se fosse un imbarazzante pettegolezzo di condominio? È ridicolmente triste e ingiusto. Può non sembrare così, ma la presente è un’accusa che rivolgo in primis a me stesso. Sono il primo a vergognarsi di chiedere aiuto, in qualsiasi forma: ci ho messo un mese per esprimere il pensiero che sto esprimendo adesso. Mi viene detto che non sono l’unico, ma questo non mi fa stare meglio, mi fa stare peggio: sento il peso della responsabilità militante su di me e mi chiedo cosa facciamo, anzi, cosa non facciamo. In virtù del fatto che una delle poche cose che sono certo di fare bene è usare le parole, racconto di quello che mi è attorno nella speranza che inizi davvero a smettere di essere l’unico, perché se delle esperienze non si parla e non si sa nulla, quelle finiscono per non esistere.

Questa è guerra e nessuno sembra agire di conseguenza, se non il nemico. Servono case, mense, ambulatori, scuole e doposcuola, biblioteche, lavanderie, internet point e ogni forma possibile di spazio sociale e culturale autogestito.  Servono compagne e compagni che si occupino di fornire allacci di acqua, gas ed elettricità a chi non può più permetterseli. Dopo le lacrime per gli imprenditori impiccati bisogna tirarsi su le maniche per chi, acqua al collo, non può concedersi cerebralmente nemmeno per un secondo quell’ipotesi. Dove siamo, dove siete? Io aspetto, qui, una soluzione per me ma non soltanto per me, chiedendomi quando arriverà. Ora provo a dormire, insonnia permettendo.

La libertà trans non ha riferimenti politici?

L'immagine è tratta dal webcomic  roostertailcom
L’immagine è tratta dal webcomic Rooster Tails

 

Repubblica ha scritto, giusto un paio di giorni fa, cose interessanti. Non perché scritte da tale giornale, ma per il modo in sono state scritte.

Vediamo: immaginate di svegliarvi e notare che sul portone d’ingresso della basilica di San Paolo di Milano c’è una frase, vergata con bomboletta spray: 20/11, notte di vendetta trans.  Non sono in molti ad avere cognizione di causa circa l’esperienza di vita transessuale e transgender, costellata di ogni esempio di sovradeterminazione, soprusi psicologici, medici e legali in addizione a molti ostacoli legati all’appartenere, molto spesso, a una classe sociale bassa, ove non bassissima. La pur crescente visibilità di questa realtà è ancora molto limitata: tuttavia, soltanto qualcuno privo di ogni percezione sensoriale e di un qualsiasi modo di esperire la realtà che lo circonda può non essersi accorto di alcuni avvenimenti ed essere in grado di affermare che non c’è alcun tipo di riferimento politico.

In Italia, con molta fatica e con molte difficoltà, si sta costituendo pian piano un movimento trans, per ora poco organizzato ma senz’altro effervescente di idee e passione politica.  Ieri diverse persone hanno costituito la prima vera manifestazione trans, la Trans Freedom March, dopo decenni di assenza in seguito alle lotte che hanno portato all’istituzione della legge 164 nel lontano 1982. Che la comunità trans dopo questo lasso di tempo incominci a farsi vedere per le strade proprio in giorni contigui all’evento internazionale dedito al ricordo delle persone transessuali e transgender uccise, il TDoR, dovrebbe essere un evento degno di nota, che sembra segnare il passaggio dalla retorica della vittimizzazione a quella della rivendicazione.

Nel frattempo al Maurice di Torino, proprio oggi, c’è un convegno in cui si parlerà delle prospettive di modifica della legge che attualmente regola i procedimenti relativi alla rettifica anagrafica del sesso. Ci saranno presidenti di organizzazioni che ormai varie persone trans sospettano servano esclusivamente a fare gli interessi della casta degli psichiatri e degli psicologi, troppo spesso esecutori di psicoterapie obbligatorie quando il presupposto di una psicoterapia davvero funzionale al benessere psicologico è la volontà di perseguirla (notate qualche dissonanza?) e l’assenza di squilibri di potere, squilibri previsti e unanimemente considerati legittimi dal protocollo più usato in Italia, quello elaborato dall’ONIG (in opposizione alle linee guida WPATH internazionali, decisamente più liberali in tal senso). Uno di questi è il potere di veto dello psicologo sulla potenzialità della persona di intraprendere la transizione (atto che, negli ambienti trans anglofoni, viene chiamata gatekeeping), squilibrio che rende la relazione terapeutica impossibile e che spinge la persona a mentire o darsi a pericolosi fai-da-te con conseguenze orribili per la salute. Lo scopo di queste psicoterapie obbligatorie è far ottenere perizie, le quali sono nient’altro che un pezzo di carta che serve a spiegare al giudice i motivi della necessità di intervenire chirurgicamente e anagraficamente su di sé, indispensabili al fine di proseguire legalmente il percorso di transizione. L’elargizione di queste avviene per mezzo di salati pagamenti: si parla, nei casi meno catastrofici, di qualcosa come cinquecento euro a documento; evenienza che si interseca diabolicamente, e sinergicamente, con i disgustosi tagli alla sanità.  Queste stesse figure producono (presunte) verità. Dicono che ci serve la loro figura e che ci servono diagnosi per verificare l’effettiva presenza di disforia di genere, perché la condizione trans sarebbe affine alla schizofrenia, rafforzando pregiudizi stigmatizzanti di fronte a verità macroscopiche, e cioè il fatto che le due cose non si assomigliano da nessun punto di vista: una persona trans reagisce con malessere a una situazione oggettiva. Ammantano sé stessi di un’immagine terapeutica, ma non sono che dei mediatori tra lo stato di cose esistenti e i bisogni individuali della singola persona. Non curano (non c’è nulla da curare), ma creano il discorso della malattia  per sembrare autorevoli e autorità. Non v’è traccia attualmente di psicologi rispettosi dell’altrui determinazione, ma non sono gli unici.

Ci saranno avvocati a caccia di parcelle. Ci saranno persone che scrivono, analizzano, elucubrano, fanno profitto e propaganda su di noi, dal punto di vista legale, sociologico, psicologico, politico e chi più ne ha più ne ha metta. Ci sarà chiunque a parlare di noi, fuorché noi: nessuna delle persone invitate a colloquiare è una persona trans. Ripeto: nessuna di questa persone è una persona transessuale o transgender. Si tratta di una decisione politica altamente discutibile di chi ha organizzato l’evento. E la scritta sulla basilica, checché ne dica la stampa, è l’atto politico di chi vuole chiudere con tutto questo. Mai più vittime, mai più fantocci, mai più oggetti, mai più pazienti. Non ci dispiace.