Elefanti nella stanza: la discussione politica su suicidio e disagio psichico che non c’è (ma dovrebbe esserci)

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Ci sono diverse immagini di questi giorni: io che piango a dirotto per ore abbracciato da uno dei miei partner, io che sono nella mia stanza, in un angolino del mio letto raggomitolato e con le mani nei capelli, mentre fisso il vuoto con gli occhi spalancati, con mio padre che si sveglia e notandomi visibilmente stravolto mi fa una camomilla e chiacchieriamo un po’, poi ci sono io che chiamo il mio partner e la sua ragazza perché mi sento uno schifo e non me la sento di uscire e glielo rendo noto, per poi piangere ancora altre ore afflitto dal senso di colpa di questo cambio di programma, io che privo il mio corpo fisico di ulteriore acqua per spendere lacrime ulteriori per tutte le mie paure che usualmente mi porto in giro senza dar loro voce, io che riverso angoscia in una decina di conversazioni diverse su whatsapp con ogni amicizia e con ogni persona che fa parte della mia rete sentimentale, io che sono attraversato dal pensiero di ammazzarmi e scoppio a piangere (di nuovo) perché anche questa è una delle cose che mi spaventano. I miei genitori mi suggeriscono l’idea che forse ho diminuito le gocce di ansiolitico troppo in fretta, e mi trovo mio malgrado a dar loro ragione, perciò le ho prese di nuovo, e stavolta diminuirò con molta più lentezza. Insomma, dopo le montagne russe mi godo per la prima volta uno status di mediocre normalità, dove per normalità si intende assenza di ansie particolarmente opprimenti ed esagerate.

Leggo che è morto un compagno, e posso sentire un malessere crescermi dentro ogni volta che incontro un necrologio virtuale per lui. Non perché non dovrebbe esserci a priori, ci mancherebbe. Il disagio è suscitato dal fatto che in particolare si tratta di un suicidio. Parlare, pensare e soprattutto sentire il suicidio mi mette a disagio in una maniera che non è così facile verbalizzare – sì, mette a disagio me, lo stesso tizio che prova a criticare, analizzare, mettere in discussione qualsiasi cosa. E qualcosa mi dice che questo ha a che fare con l’opera di rimozione e negazione collettiva che si fa nei confronti di queste tematiche. Di morte non si parla, perché moriamo tutti e vogliamo che sia più tardi possibile, se la morte ce la vogliamo procurare da soli è ancora più tabù, e di ansia nemmeno, perché l’ansia ci pervade e riconoscerla significa ammettere l’esistenza di un problema (un problema non immediatamente rimovibile, quindi l’ansia aumenta).

Mi arriva una sensazione fortissima di inevitabilità; il malessere, che è un cattivissimo consigliere e uno stronzo bugiardo, mi suggerisce che quello è il fato di tutti noi. Mi fa un male cane. Davvero tutto questo è inevitabile? Davvero l’unica via alla sopportazione passa per l’integrazione nel sistema affogando nelle miserie proprie e in quelle altrui, ove percepite e non ovattate da un mondo che disimpara l’empatia? Molti compagni e compagne concepiscono il suicidio come fosse un atto estremo di libertà, quando tutto soffoca; l’unica uscita antincendio in un mondo dato alle fiamme. Non lo è, o meglio lo è nella psiche di chi  è investit* dai suoi demoni, cosa che mi rende comprensibile il gesto; vorrei tanto però che smettessimo di dare un’aura di romanticismo sovversivo a un gesto che rappresenta soltanto la tragedia di ciò che ci circonda e la voglia, anch’essa piuttosto comprensibile, di sfuggirvi. Mi arriva quindi addosso tutta la nostra debolezza; non solo quella individuale, la cui espressione non abbiamo ancora imparato a legittimare e che è quindi strizzata in una serie di gesti estremi e incontrollabili, ma quella collettiva, che mi fa paura.

Ho paura, perché questo significa che come movimento che dovrebbe sbriciolare lo stato di cose presenti non abbiamo una rete di solidarietà reale che faccia fronte davvero agli stati peggiori delle nostre menti, così ipersensibili allo schifo del presente.  Non c’è, cazzo, non c’è, dovremmo essere unit* e forti dell’essere solidali, ma non accade e sento in cuor mio la responsabilità di queste morti. Forse dovremmo incominciare a sentirla tutte e tutti, questa responsabilità. Forse sarebbe il caso che tutti la finissero di dire resisti, devi avere le palle/ovaie, non essere codard*, non preoccuparti/deprimerti troppo, e altre frasette di circostanza che non danno alcuna forza ma spingono verso il baratro. Finisce qui. La forza ci deriva dall’esistenza di reti, ascolto, supporto, mutualismo. Quando ci siamo preoccupat* di scrivere un’analisi politica su questo? Quando? Persino il movimento antipsichiatrico, che per definizione è qualcosa che ha a che fare con l’esperienza del trauma e del dolore, non trova molto spazio per la narrazione di questi ultimi. Anzi. Ciò che ci è rimasto è soltanto la critica borghese e individualista verso chi cerca di gestire i propri malesseri tramite psicofarmaci (a volte l’erboristeria non basta), ma non andiamo a urlare per ottenere psicologi gratuiti per tutt*, mentre cerchiamo di sradicare le fonti di ciò che ci fa male. Siamo vulnerabili ed è ora di ammetterlo, con azioni concrete. L’abbiamo fatta mai un assemblea per parlare di attacchi di panico, di disordini alimentari, di depressione clinica? È ora. Ci portiamo il maalox per spruzzarlo negli occhi irritati dai lacrimogeni, ma le irritazioni che sfuggono alla vista non sono meno dannose. Il disagio psichico è reale, e il femminismo ci offre uno spunto importante e fondamentale in seno al movimento femminista stesso ma anche per la costruzione di qualsiasi altra cosa di sensato del mondo: il personale è politico. Quindi, lo psicologico è politico.

L’ansia generalizzata che ho è la stessa che mi impedisce di andare a un corteo senza sentirmi un senso di fortissima preoccupazione e costrizione al petto quando passo di fronte ai celerini. Eppure, sono convinto che quest’ansia, che contiene anche ansia di cambiamenti (economici ed esistenziali) che non arrivano e che mi pizzica, valga almeno un sampietrino. E tanta autocoscienza.

 

Facebook e la sua millantata apertura alle diversità

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Molti sapranno  già delle nuove opzioni di personalizzazione del sesso recentemente introdotte su ogni profilo. C’è già stata qualche critica, ma nulla di distante dalla noia brutale dei soliti noti che si lamentano perpetuamente  delle lettere che vengono, di tanto in tanto, aggiunte all’acronimo LGBT. Giustamente,  preferirebbero che la sigla rimanesse sempre GGGG. Ironia a parte, cosa stiamo festeggiando esattamente?

Ricapitoliamo. Un’azienda californiana fattura molti, moltissimi soldi. Questi introiti gli derivano principalmente dalla vendita di spazi pubblicitari situati sul sito stesso e scelti oculatamente in base alle caratteristiche rivelate dell’utente, come età, sesso, luogo di nascita e di residenza, interessi, hobbies, film, musica preferita e molto altro ancora. Considerando che ogni utente di tale piattaforma è letteralmente la gallina dalle uova d’oro di Zuckerberg, ne conveniamo che l’azienda trae ogni vantaggio possibile dal far sentire a proprio agio i propri dipendenti, ignari o consapevoli. Con tutto questo fiume di denaro, delle possibilità di autodescrizione un po’ meno in bianco e nero non sono poi possibilità così fantasmagoricamente progressiste. Con un po’ di milioni in meno,  si darebbe un certo apporto positivo a questioni “irrilevanti” come la possibilità per le persone trans di accedere alle prestazioni sanitarie che necessitano, arginare la disoccupazione dilagante con relativa assenza di reddito,  fornire servizi per persone trans senzatetto (le quali sono escluse dai già insufficienti servizi esistenti, in quanto spesso divisi per genere). Ma il profitto viene prima delle persone: è il capitalismo, baby.

Qualcuno mi spieghi, poi, l’assurdità per cui posso inserire ogni ipotesi identitaria che mi attraversi anche soltanto per sbaglio l’anticamera del cervello, ma non posso esprimere la mia eventuale attrazione nei confronti di chi la incarna, visto che nella casella delle attrazioni il binarismo di genere rimane: si possono spuntare solo uomini e donne. Oppure perché a realtà come Intersexioni  è impedito di pubblicare alcunché poiché segnalato come sito pericoloso in quanto segnalato come spam, ma veri capolavori di pattume ideologico come Sentinelle in Piedi e Manif Pour Tous sono più che graditi.

Non posso quindi fare a meno di sentirmi preso in giro da chi, in tutta serietà, plaude questo gesto di discutibile inclusione. Si chiama fidelizzazione del cliente (che poi è un dipendente). È marketing allo stato puro, e politicamente parlando, pinkwashing. Possiamo scegliere ben cinquantasei identità di genere diverse, oggi, ma chiediamoci quante di queste possano essere liberamente espresse al di fuori di un campo vuoto da riempire nel nostro diario, perché quando usciamo dal digitale, non possiamo cambiare le impostazioni di privacy della violenza altrui. Purtroppo.

Gomorra: la visibilità transessuale dove non te l’aspetti

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[ATTENZIONE! ATTENZIONE! ATTENZIONE! SPOILER! SPOILER OVUNQUE! ATTENZIONE, SPOILER!]

Prima ancora di iniziare, metto in chiaro che non prenderò sul serio nessuna considerazione di carattere meramente legalitarista che non tenga conto del fatto che stiamo parlando di una serie TV. Non sto sponsorizzando con questo apprezzamento le mafie, almeno non più di quanto non lo faccia il PD promuovendo le grandi opere: fatevene una ragione. Detto questo, è qualche tempo che seguo Gomorra – e devo dire che se il libro non mi è parsa cosa eccezionale, la fiction incontra decisamente il mio gusto. Oggi una novità: nella settima puntata di questa prima serie, c’è un ragazzo FTM.

Il padre di questo ragazzo ha un negozio di vestiti da sposa ed è nei pasticci perché deve dei soldi a uno strozzino. Va da questo  strozzino e gli chiede una proroga di un mese, ma si sente dare picche e di conseguenza, pressato dalla richiesta molto prossima di una ingente cifra, il padre si suicida. Questo ragazzo va a chiedere aiuto a Donna Imma – la capa mafiosa, per intenderci – e le chiede aiuto. Lei va dallo strozzino per fargli capire che deve smetterla, e gli chiede del padre del ragazzo: lo strozzino gli risponde che il ragazzo è una lesbica di merda e che suo padre è un poveraccio; il giorno dopo, per tutta risposta, fa pestare il ragazzo dai suoi scagnozzi. Donna Imma lo incontra e vedendolo con la faccia piena di sangue pesto decide di far ammazzare lo strozzino, che verrà liquidato con un paio di proiettili proprio di fronte a lui (non nascondo di aver provato estrema goduria nel vederlo crepare, alla luce della sua precedente affermazione omofoba, lesbofoba e transfobica). Con Donna Imma si recano poi a visitare il negozio del padre. Lei sottintende che lui potrebbe ereditare l’attività; lui risponde qualcosa di non troppo comprensibile ma che mirava a sottintendere che no, non è cosa per lui. Questo ragazzo insieme ad altri spaccia nel quartiere: in una sequenza successiva, lui porta il borsone di soldi da spartire con tutti coloro coinvolti nello spaccio. Qui succede una cosa interessante: gli altri gli chiedono se è maschio o femmina, come si chiama, e via dicendo. Lui risponde: Luca. Gli altri ridacchiano: tu Luca? ma non farmi ridere, ce l’hai il pesce? e Luca gli risponde: è sicuramente più piccolo il tuo, e subito dopo: …e comunque essere uomini è una cosa che hai nella testa, non è una questione di pesce. Più tardi ancora segue un’altra scena in cui vediamo Luca denudarsi (mostrando le fasce con cui si comprime il seno) e provarsi uno dei vestiti da sposa. Luca muore poco dopo, inseguito e poi ammazzato da alcuni malavitosi che non appartengono al giro di Donna Imma. Peccato.

Imma, peraltro, è un personaggio che mi ha colpito molto: suo figlio Gennaro, secondo le regole dell’ambito camorristico, dovrebbe tenere in salute, proseguendola, l’attività del padre che è costretto in carcere dal 41bis: ma almeno per quanto riguarda gli inizi della serie (più tardi non saprei) sembra evidente che Gennaro sia troppo immaturo per poter gestire in maniera ottimale gli affari dell’impero economico di famiglia. Così Imma prende de facto le redini, contro la volontà del marito, e di certo il suo eccezionale carisma e il suo polso la rendono adattissima al lavoro in questione. Gli occhiali viola che mi fanno vedere la realtà attraverso un’ottica irrimediabilmente femminista si sono ricoperti di brillantini per la gioia, devo dire.

Sono così stupito – è letteralmente la prima volta che vedo una rappresentazione in fiction di un ragazzo transessuale, almeno nel contesto specificatamente italiano. Spero soltanto che la serie continui su questi toni, continuando a mostrarci pezzi di realtà spesso ignorati (quella trans, non certo quella degli spacciatori trans!), continuando a dare un ruolo di spicco a Imma, e magari introducendo anche altre donne che abbiano un certo peso nello svolgersi della narrazione. La mia attesa sarà costellata di pop corn.

Ognun@ ha la sua opinione?

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Chi non ha sentito almeno una volta la frase: ‘Ognun@ ha la sua opinione’? Probabilmente è successo a chiunque.

È la frase favorita da discriminator@, oppressor@ e stronz@ di ogni risma per giustificare le proprie attività di rinforzo dell’idea dominante. Come anarchic@, antirazzist@, femminist@, persone lgbtqia, antispecist@ ci troviamo costantemente a fronteggiare atti di sopraffazione e violenza verbale liquidati con questa locuzione.

Come sbarazzersene definitivamente, purtroppo, non lo so. Ma decostruire i pensieri che sono alla base di questa mossa retorica è sicuramente il primo passo.

Libertà di parola per molt@ significa il diritto a dire la propria cazzata senza prendersene la responsabilità, e chiunque critichi questo concetto è un “fascista”, un “illiberale” e via dicendo: come se “libertà”, fosse libertà di opprimere. L’idea per cui occorre tollerare l’espressione di chiunque, perché ognun@ ha diritto a esprimersi è meravigliosa in teoria, ma terrificante nella pratica: l’effetto che produce è tollerare chiunque e qualunque cosa, comprese le tendenze reazionarie che di fatto impediscono di cambiare le cose e mantengono lo status quo. La chiave sta nel concetto di responsabilità, poiché il numero di coloro che si sperticano a difesa della libertà di parola – e non solo – e che sono poi dispost@, nell’eventualità, ad accogliere reazioni negative e addirittura a prendere atto di aver sbagliato, è così ridicolmente basso da sfiorare l’inesistenza. Ciò che si desidera, dunque, non è la libertà di parola, ma la libertà della propria parola.

Perciò accade, spesso, che chi si ritrova a ricoprire un ruolo subaltern@ è disciplinat@ assai severamente, molto più della controparte; e questa severità proviene proprio da coloro che per sé stess@ sventolano il vessillo della democrazia, della tolleranza, della libertà d’opinione e di parola, della neutralità, dell’imparzialità, dell’equidistanza. Tutte finzioni che hanno decisamente poco di libertario, propugnate da soggett@ che, pur affermando di rifuggire gli estremismi, finiscono per incarnarne uno: il fascismo.

Pur non essendo esplicitamente fascista, il paradosso democratico risiede nel fatto che per non negare sé stessa la democrazia deve tollerare, suo malgrado, chi finirà per distruggere la sua esistenza, e con lei chiunque tenti di criticare chi, nei fatti, la distruggerà. Questo è quanto mi basta per affermare, con orgoglio, che democratico non lo sono e non lo sarò mai.

Un’opinione, in realtà, non è mai un’opinione e soprattutto non è mai soltanto un’opinione. Opinione è quando dico che il gelato al pistacchio non mi fa impazzire, cosa contro cui sarebbe difficile e stupido argomentare; quando invece, fuori dai confini delle preferenze personali, parlo di ciò che mi circonda, le mie affermazioni non possono essere per nulla apolitiche, equidistanti, o neutrali,  ma situate e indubbiamente di parte.  Se un’affermazione è irrispettosa, dannosa e pericolosa, nessuna legge dell’universo conosciuto impone che vada preservata soltanto in quanto opinione: ognun@ ha il sacrosanto diritto di sputarci sopra. Se la cosa vi spaventa, ciò riguarda voi e il vostro segreto timore che il vostro privilegio e la vostra parzialità, di cui forse neanche voi siete a conoscenza, venga allo scoperto. Non il vostro interlocutore o interlocutrice.

Perciò: no, non avete diritto alla vostra opinione.

Un elenco semiserio di ragioni per cui potresti essere bisessuale

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Se hai dovuto fare coming out più di una volta con la stessa persona, potresti essere bisessuale.

Se il tuo orientamento sessuale è quanto basta agli altri per poter dare per scontata la tua promiscuità, potresti essere bisessuale.

Se la tua reazione alla quantità assolutamente scarsa di attenzione che riceve la comunità trans dalle organizzazioni “lgbt” mainstream è disgusto… seguito da gelosia perché tu non hai nemmeno quella, potresti essere bisessuale. Se invece la tua reazione è disgusto e rabbia perché si prende in considerazione soltanto metà della tua identità, potresti essere bisessuale. E trans.

Se media, attivisti e via dicendo pensano che la migliore maniera di categorizzare l’arcobaleno sia di nominare tutte le parti di esso meno la tua, potresti essere bisessuale.

Se la locuzione “gay, lesbiche, trans” alle tue orecchie arriva come “gay di sicuro, lesbiche forse, trans solo formalmente… e io non esisto” potresti essere bisessuale.

Se ogni volta che presenti un/a nuovo/a partner agli amici devi ripetere che la tua sessualità è sempre quella di prima, potresti essere bisessuale.

Se chiunque pensa di poter definire la tua sessualità meglio di te, potresti essere bisessuale.

Se sei sottoposto/a all’accusa di essere velato/a nonostante tu faccia una quantità spropositata di coming out al giorno o addirittura nonostante tu sia attivista, potresti essere bisessuale.

Se il tuo superpotere è l’invisibilità ed è così potente da estendersi ad ogni eventuale rappresentazione artistica e mediatica della tua comunità, potresti essere bisessuale.

Se hai perso più amici gay e lesbiche che etero quando ti sei dichiarato/a, potresti essere bisessuale.

Se tu non sei gay o lesbica ma il/la tua partner sì, potresti essere bisessuale.

Se qualcuno pensa che il tuo orientamento sessuale vada di moda – la discriminazione è trendy? – potresti essere bisessuale.

Se fai volontariato per la tua comunità e gli altri ti ringraziano per essere un alleato/a (invece che parte integrante della comunità), potresti essere bisessuale.

Se ti cascano le braccia ogni volta che un attivista gay si lamenta della lunghezza della sigla LGBTQIA (perché tanto la sua appartenenza ad essa non è mai stata messa in dubbio), potresti essere bisessuale.

Se la tua identità è stata considerata “una fase” da qualcuno che quando hai fatto coming out era ancora uno zigote, potresti essere bisessuale.

Se sei una figura storica, letteraria, politica, sociale estremamente famosa e ultradichiarata e tuttavia gli altri continuano lo stesso a usare la definizione sbagliata, potresti essere bisessuale.

Se sei la persona più monogama del globo terracqueo eppure chiunque ti vede come potenziale cornificatrice, potresti essere bisessuale.

Se sei poliamoroso/a e non hai voglia di definire il tuo orientamento sessuale per non correre il rischio di confermare uno stereotipo, potresti essere bisessuale.

Se ti identifichi come gay o lesbica per non dover dare spiegazioni in giro, potresti essere bisessuale.

Se sei perverso/a e polimorfo/a, potresti essere bisessuale.

Se non ti senti a tuo agio né nella comunità gay né in quella etero, potresti essere bisessuale.

Se gli altri ti vedono come “metà qualcosa” e “metà qualcos’altro” ma tu ti senti tutto/a intero/a, potresti decisamente essere bisessuale.

L’autodeterminazione è un diritto! #ddl405

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Non è un mistero che le persone transessuali, transgender e intersex subiscano costantemente discriminazioni e violenze. In Italia si può morire di transfobia per un crimine d’odio o per mano propria quando ci si suicida per bullismo transfobico, si può essere costrette/i a non proseguire gli studi per lo stesso motivo, si può fare la fame perché la discriminazione transfobica impedisce di trovarsi un lavoro, ci si può stressare per anni e anni con carta d’identità, patente e via dicendo che non rispecchiano la propria fisicità causando perpetui ed involontari outing, si può nascere con una delle tante forme di intersessualità e dover subire, coercitivamente, interventi che hanno tutto a che vedere con l’ossessione di questo mondo per il binarismo sessuale e ben poco con la salute; si può essere privi di qualsiasi diritto ufficialmente riconosciuto e nonostante questo essere additati come richiedenti di privilegi, si può piangere a reti unificate la morte dell’ennesima/o ragazzina/o  per omofobia, bifobia, transfobia e contemporaneamente negare a milioni di altri ragazzini/e un’esistenza non eccellente, ma almeno entro i limiti della decenza.  Per questo e per un lungo elenco di altri motivi, riteniamo importantissimo sostenere la campagna a favore del disegno di legge 405, il cui testo completo è disponibile qui. Queste sono, in pillole,  le innovazioni che porterebbe la sua approvazione:

  • Sparisce il tribunale dal percorso di transizione, con un netto risparmio in termini economici, di tempo, di uso della pubblica amministrazione. Nessuno è chiamato a giudicare. La procedura di modificazione dell’attribuzione di sesso e del nome di nascita andrà presentata al prefetto, che in 30 giorni dispone il cambio. Sarà possibile cambiare nome e sesso o anche solo il nome. Occorre solo la relazione di disforia di genere per richiedere il cambio anagrafico. Il cambio anagrafico viene richiesto quando il diretto interessato lo desidera, non quando lo concede il giudice (situazione attuale).
  • Resta il ricorso al tribunale per i minori che, non essendo maggiorenni, possono comunque usare questa via per accedere al percorso, al cambio anagrafico e all’operazione. Sarà possibile ricorrere ad un tutore speciale in caso i genitori si oppongano alla volontà del minore.
  • È specificato che, in caso di disforia di genere, l’asportazione di organi sani (apparato genitale) non rientra tra le mutilazioni, ma un normale procedimento di tutela della salute della persona. Non è più necessario ricorrere al giudice per l’autorizzazione all’intervento.
  • Il matrimonio non può più essere sciolto automaticamente ma segue la normale procedura di separazione/divorzio.
  • È vietato qualsiasi intervento chirurgico cosmetico, di riattribuzione forzata del sesso, sui bambini nati con genitali atipici (intersessuali).
  • Tutte le procedure e i trattamenti sono gratuiti
  • È attivato un programma di sensibilizzazione riguardo la transessualità per il personale sanitario.

Qui potete trovare sia le novità di cui sopra, sia il confronto con l’attuale situazione legislativa. È importante, fondamentale, e questa lotta non riguarda esclusivamente le persone transessuali, transgender e intersex, ma tutte e tutti. L’austerità diventa la scusa più utilizzata per opporsi alle lotte per l’autodeterminazione di tutti i corpi: di donna – cis e trans, intersex e di uomo/donna/persona trans in generale, e questo non può essere permesso; non possiamo permetterglielo, non possiamo permettercelo. Firmate la petizione, fatela circolare, twittate e retwittate sull’hashtag #ddl405 e seguite l’account @ddl405. Informazioni, storie e contatti li trovate su questo blog. L’autodeterminazione è un diritto!

 

 

Verso la fine delle politiche della rispettabilità

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Una donna sessualmente attiva che parla in maniera aperta e non morbosa di questo aspetto della sua vita viene prontamente etichettata come non-donna dalle altre (“quella non è una donna, è una femmina” è una frase che credo di aver sentito un miliardo di volte), una che rovina la categoria, perché non aderisce al ruolo di genere che le hanno confezionato su misura. Spesso persone LGBT si affrettano a denigrare il pride e la visibilità – le stesse cose che gli consentono, rispetto a qualche secolo fa, un’esistenza meno nascosta. Una persona trans è spinta ad adeguarsi a modelli di mascolinità e femminilità più irraggiungibili di quelli riservati a una persona cis, perché deve “provare” il suo genere (ma per molt* cis, il pensiero di fondo è che questo non sia valido a prescindere, con o senza prove, ammesso che esistano – beato cissessismo). Qual è stata la prima donna nera a non cedere il suo posto, protestando contro la segregazione razziale sugli autobus? Rosa Parks. Sbagliato. Si chiama Claudette Colvin. Se ne restò fermamente seduta ben nove mesi prima, ma era quindicenne, troppo scura di pelle, la sua famiglia viveva nella parte più povera di Montgomery e rimase incinta poco dopo, senza sposarsi. Una figura poco sponsorizzabile per il Civil Rights’ Movement (o qualsiasi altro movimento sociale).

Quello che hanno in comune tutti questi esempi sono le politiche della rispettabilità. Le politiche della rispettabilità  sono quelle politiche che lavorano per modificare l’immagine di un gruppo sociale oppresso facendogli assumere i connotati che sono considerati accettabili dal gruppo sociale oppressore (dalla cultura dominante).  L’approccio emerge quasi naturalmente: quando ti etichettano come altro, la tua prima idea è di rispondere che sei uguale. E allora chi hai di fronte ti risponde: ok, dimostramelo. È un tentativo di asserire la propria dignità d’esistenza, ma non per questo meno fallace. Perché?

Una comunità che finisse per rispondere in quella maniera, non necessariamente farebbe la cosa giusta, poiché nel farlo potrebbe appoggiare valori orribili – anche, e soprattutto, quelli alla base della propria oppressione (che non è per forza una soltanto).  Cosa che non andrebbe confusa con una qualunque attività di rinforzo della normatività esistente da parte di un gruppo dominante – perdio, un oppressore si chiama così perché opprime – e non si può fare un calderone gigante in cui infilare le responsabilità e renderle tutte uguali. Non lo sono: per chi è oppress*  si tratta di una forma (anche inefficace, anche controproducente) di difesa, mentre il dominio attacca e basta.

Se le politiche della rispettabilità nascono come regole/linee guida sociali, culturali, lavorative, sessuali, artistiche, ecc. da seguire per divenire umani, allora è automatica l’implicazione che chi fa questa richiesta non appartenga all’umanità, e che debba in qualche maniera meritarsela, come se non fosse già sua e gli fosse invece negata da altri. È proprio questa l’idea che va combattuta: che si debba audizionare per farsi riconoscere la capacità ad essere sé stessi, ad agire in una maniera ritenuta non-standard. Nessuno dovrebbe essere accettato o approvato, men che meno come modello da seguire per tutt* coloro con cui quel soggetto condivide delle caratteristiche. Ad un essere umano bianco, maschio, abile, eterosessuale e cisgender si riconosce il diritto all’unicità, ad essere individuo. Il resto del mondo è obbligato ad essere in qualche modo rappresentativo della sua categoria. Un comportamento atipico può diventare un’emarginazione ulteriore, stavolta dai propri simili, se ritenuto vergognoso per la comunità tutta.

Tali politiche – diffuse, ma non per questo meno elitarie – alienano il target di soggetti che vorrebbero liberare dal resto della società, rendendolo cattivo e irresponsabile in una maniera che con altri gruppi non ha luogo; in più, si prefigurano irrealisticamente di raggiungere uno status che non verrà mai autenticamente raggiunto, fintanto che sarà concesso, in quanto i  termini di una concessione li decide chi concede. In questa maniera, nessun obiettivo potrà mai essere portato a termine, perché il gruppo dominante continuerebbe perennemente ad alzare l’asticella rendendo impossibile arrivare a superarla.  Come oppress* e militanti per una società di eguali è necessario mettere da parte strategie come questa, perché non saranno mai rivoluzionarie: il loro scopo è privare i soggetti della loro capacità destabilizzante, di poter minacciare l’esistente, e sono esse stesse oppressive, perché li privano di autonomia e autodeterminazione nel nome della pubblica immagine.

 

 

Te la farò pagare. Le classi sociali nell’esperienza trans e autonomia dei corpi

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Quando ho fatto coming out ai miei genitori, rivelando il rapporto un tantinello apocalitticamente e insanabilmente conflittuale tra la mia identità di genere e il mio corpo sessuato, la risposta non è stata delle migliori. La cosa curiosa è che la prima frase che è uscita dalla loro bocca non è stata quella che mi aspettavo: «come ce lo permettiamo?». Le fragilissime accuse di essere contronatura e voler sfuggire all’omosessualità sono arrivate dopo e sono crollate miseramente, perché fin dal principio erano soltanto puntelli per distogliere l’attenzione dal problema principale: la mancanza di soldi. Non a caso una volta stati dalla psicologa, hanno capito benissimo che non intendevo (o intendo, visto che questo per me è ancora un presente) fuggire proprio da nulla se non da una sofferenza che con le persone che amo e/o faccio sesso non ha nulla a che vedere. Accusare tuo figlio di voler fare il finto etero è abbastanza ridicolo, se tuo figlio è la stessa persona che spiattella in giro la sua bisessualità come se non ci fosse un domani; e soprattutto, è un’argomentazione potenzialmente valida solo per una persona trans attratta esclusivamente da generi diversi da quello a cui sente di appartenere (e al quale, pertanto, appartiene). Categoria della quale indubbiamente non faccio parte.

Il denaro è parte integrante della vita in questa società: basta pensare al conto in banca, all’avere un lavoro, acquistare prodotti e via dicendo; il proprio contributo alla società è misurato esclusivamente in termini economici, e questo stabilisce quanto si è degni di esistere. Quel mucchio di gente che si trova ad essere forza-lavoro, in questo mondo ha dignità d’esistenza solo perché produce il plusvalore che capi/padroni estraggono e di cui campano, come parassiti. E ci riescono perfettamente: il miglior parassita è quello che non si palesa, continuando a parassitare l’organismo in cui si trova; e infatti le colpe della società classista finiscono per essere patrimonio degli immigrati e di altri soggetti sfruttati e oppressi. Tra la contraddizione capitale/lavoro e l’esperienza transessuale e transgender c’è un legame fortissimo, anche se non troppo evidente ai più, proprio per la certosina opera di invisibilizzazione che si compie ai danni delle istanze che una volta messe sul tavolo pongono domande scomode e sfuggono al disegno assimilazionista, eterocisnormativo e normalizzatore dell’attuale politica gay e lesbica mainstream. È un legame che si palesa in tanti aspetti.

Una persona transessuale e transgender in una condizione economica privilegiata, può sopperire più facilmente ai costi notevoli della transizione e compierla nei tempi che desidera, possibilmente molto rapidi, sperimentando per molto meno tempo l’incongruenza tra i propri documenti e la propria presentazione di genere. Può permettersi di transizionare nonostante la privatizzazione della sanità e i limiti della stessa. Può permettersi di fare percorsi di studio che gli/le consentono di avere i requisiti necessari per rientrare nelle politiche di diversity management e quindi lavorare, potendo quindi fare affidamento, in futuro, sul reddito che percepirà. Può sfuggire più facilmente alla casta dei gatekeepers, coloro che impongono rigide norme riguardo chi può o non può transizionare: norme che si possono tenere a bada, avendo soldi per poter pagare specialisti privati, o viaggiare per raggiungerli. Norme che le persone trans appartenenti al proletariato e al sottoproletariato hanno dovuto sapientemente aggirare (e devono continuare a farlo, ove necessario) tramite l’adozione di tecniche quali le trans narratives, cioè le narrazioni standardizzate preconfezionate sulla propria storia, la propria infanzia e via dicendo su misura per psicologi e psichiatri, allo scopo di poter passare tra le maglie di un sistema eteronormativo e cisnormativo; e in minor misura in Italia (ma discretamente presente altrove), vi sono altre pratiche come l’autosomministrazione di ormoni, che sono parte di transiti aventi luogo al di fuori del percorso di transizione ufficiale.

Il bypassamento dei gatekeepers risulta essere un fenomeno interessante, in termini storici, di resistenza trans al dominio cissessista; ma a parte questo, il gatekeeping presenta somiglianze con quanto si verifica per contraccezione, protezione dalle malattie sessualmente trasmissibili e aborto. Si negano servizi di sanità pubblica non alle donne in genere, ma esplicitamente alle donne cis lavoratrici, precarie, migranti; non si tolgono diritti a tutte quante, ma si rendono i diritti riproduttivi esclusivamente a portata delle donne cis, bianche e borghesi, le quali avrebbero comunque modo di accedervi. Sono entrambe parte, infatti, di un disegno più ampio: quello neoliberista. Non è un caso che la regressione dei vari diritti ci sia proprio in fase di austerity: le politiche di austerità rappresentano la scusa per acuire con politiche economiche terribilmente antiproletarie la differenza tra ricchi e poveri e per asservire chiunque al capitale ancora più di prima. Quello che si fa è spostare l’asticella dell’autonomia del corpo trans dalla parte di chi pretende di regolamentarlo rigidamente (nello specifico, l’istituzione medica – in particolar modo nella sua variante psichiatrica – e quella statale) e dare legittimità al suo transitare soltanto se al termine della transizione, questo andrà a posizionarsi nel mondo esclusivamente come maschio maschile o come femmina femminile, entrambi votati al binarismo sessuale e di genere e all’eterosessualità senza via d’uscita. Se non vuoi essere obbligatoriamente madre/padre, sei contronatura. Sei vuoi esserlo nei termini che decidi tu, sei contronatura lo stesso, perché cos’è natura lo decide la cultura: quella dominante, quella borghese. Se nasci intersex, dimostri che il binarismo sessuale è pura idiozia, quindi devi essere sottoposto/a a chirurgie che non hanno nessuno scopo, se non quello di adeguarti agli standard di una norma socialmente costruita.

Donne e uomini transessuali, persone transgender e favolosità affini sperimentano la corporeità in maniera differente e sfuggono dai loro percorsi prestabiliti, o si situano in toto al di fuori di questi percorsi; tutte/i quante/i pretendono di modificare i propri genitali oppure mantenerli, ma in una configurazione sessuata nuova, rimappata; sono persone spesso sterili, oppure genitori, sì, ma poco utili, perché con la loro stessa esistenza rappresentano l’atto di privilegiare il proprio desiderio e il proprio benessere sulla normatività di un mondo cisgender e sulle necessità dell’economia, produttiva e riproduttiva. Sono bombe a grappolo sul terreno della biopolitica, perché svelano l’inganno: i nostri corpi non appartengono a noi, ma all’ordine sociale capitalista che pretende di avere l’esclusiva non solo sui mezzi di produzione, ma anche su quelli di riproduzione, poiché ne garantiscono la perpetuazione. Se la riflessione femminista ha messo a nudo tutto ciò, una riflessione transfemminista come può non rilevare dell’altro? una donna transessuale non è vista come donna non perché la sua identità non sia quella e lei non si viva come tale, ma perché agli occhi del capitalismo donna è esclusivamente quell’incubatrice che si fa carico di generare futuri lavoratori e lavoratrici: in altre parole, il corpo trans è denaturalizzato perché non risponde alle necessità della creazione di valore, e nell’incapacità del corpo trans alla riproduzione, non vedo quella che per molti è una mancanza, ma qualcosa che andrebbe valorizzata: la potenzialità sovversiva dello sciopero umano.  La lotta  contro gli ingranaggi dell’oppressione di e del genere nelle nostre vite, è una forma di sabotaggio della macchina del capitale: materializziamola, festeggiamola.

La legge è (in)giustizia di classe. Ma noi lo sapevamo già

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Sei  una donna vittima di violenza domestica o di un qualsiasi altro comportamento abusante, una persona immigrata, precaria, che lavora a nero, una persona trans che deve rettificare i documenti in accordo col proprio genere,  un manipolo di attiviste/i  o militanti denunciate/i per un nonnulla  o un qualsiasi altro soggetto che non ha alcun potere economico? Per te nessuna difesa. È così, punto.
Dal comunicato di Giuristi Democratici apprendiamo che: “…nella nuova legge di stabilità sono state introdotte, e già approvate al Senato, alcune importanti variazioni economiche anche in materia di giustizia: innanzitutto la riduzione di un 30% dei compensi per i difensori (ma anche per i consulenti tecnici, gli ausiliari e gli investigatori autorizzati) dei soggetti ammessi al cosiddetto “gratuito patrocinio”. Le spettanze che possono essere liquidate per la difesa dei soggetti non abbienti, già ridotte perchè calcolate in base ai valori medi e decurtate del 50% subiscono così un’ulteriore dratica riduzione. Gli effetti sono facilmente prevedibili: sempre meno avvocati, consulenti, investigatori privati si renderanno disponibili a difendere chi si trova nelle condizioni per accedere al patrocinio a spese dello stato;  si parla di persone che possono vantare il non invidiabile primato di percepire un reddito lordo di poco più di 10.000 euro di reddito l’anno. Sempre meno difesa per chi non può, sempre meno garanzie, sempre meno diritti. Verso il basso, ovviamente.”

Insomma, ai tempi dell’austerità non si ha diritto proprio a niente di niente: la sanità funziona uno schifo, la scuola esiste e va benissimo (rincretinire e addestrare è il suo compito e ci riesce a meraviglia), il welfare non si sa più che cosa sia,  lavoro e reddito saranno a breve oggetto di una campagna di protezione da parte del WWF; politica sociale è uno di quei termini desueti – tipo desueto, eccetera eccetera.  Hanno sempre obiettato al mio desiderio di una società anarchica con tesi del tipo ma se vivi senza stato, poi x, y, z chi te li dà? dove per x, y, z si intendevano servizi di natura varia. Oggi come oggi penso di poter rispondere: beh, non me li dà nemmeno lo stato, mi pare che  sia il caso di toglierlo di mezzo questo parassita. Via, nel cestino col capitalismo. Raccolta indifferenziata per stavolta.

Diversity management: una critica anarcofemminista e trans

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Nell’ambiente queer radicale, si problematizza il diversity management, in quanto strumentalizzazione neoliberista che opera l’assimilazione frocia nel capitalismo, simulando quindi una liberazione che di liberante ha ben poco. Tuttavia vengono individuati alcuni lati positivi, rappresentati principalmente dall’inclusione di marginalità varie, in particolare le persone trans, nel mondo del lavoro salariato (evviva).

Intendo mettere in dubbio l’efficacia di questa presunta inclusione. Mi risulta che i progetti di diversity management abbiano risultati tangibili rispetto ad un numero ridotto di persone trans. Individuo i motivi di questa inefficacia principalmente nell’estrazione di classe e nell’esperienza relativa alla propria identità di genere (le quali tuttavia si influenzano, almeno in parte, vicendevolmente) e nell’intersezione di esperienze ulteriori di cui parlerò più tardi. Questi progetti includono sì transessuali e transgender, ma soffrono di una miopia assassina. Spesso le posizioni disponibili richiedono determinati titoli di studio, di un livello indubbiamente superiore rispetto al semplice diploma di terza media, che è in qualche maniera ancora accessibile più o meno a chiunque. Non è possibile ignorare la difficoltà per una persona trans di accedere a tali titoli.

Le scuole, che oggi come oggi non sono nient’altro che diplomifici, anche se dal mio punto di vista – cioè di qualcuno che sostiene l’idea e la pratica di pedagogia libertaria – lo sono sempre state (e non sarebbe neanche l’unica critica che si potrebbe porre loro,  ma non è il punto su cui mi concentro oggi), rappresentano il ponte (neanche troppo ben fatto) nell’abisso senza fondo del mondo del lavoro. E allora, verrebbe da dire? eh.

L’omotransfobia nelle scuole, fomentata e/o attuata tramite bullismi, innocenti battutine, ragazzate che casualmente finiscono in qualche suicidio (e poi si sa che la colpa non è mai di nessuno, e che uno si suicida per i suoi problemi: mai per quelli che gli causano gli altri) è una nebbia che si taglia col coltello.

Questo ha sul/la giovane trans un effetto negativo di proporzioni maggiori all’effetto subito dal/la giovane omosessuale; non parlo di bisessuali perché anche loro subiscono un’ostracizzazione ulteriore, sia da parte degli omosessuali sia da parte degli eterosessuali, anche se è lapalissiano che non necessariamente hanno a che fare con questioni riguardanti il proprio genere. Se l’omosessuale (e in misura maggiore il/la bisessuale, le cui speranze di integrarsi nella comunità di giovani omosessuali – e di conseguenza lenire la propria solitudine – sono ridotte, per i motivi di cui sopra) si ritrova ingabbiat* dalla costrizione di dover nascondere la propria vita affettiva e sessuale, la persona trans si ritrova ingabbiat* in quella di non poter esprimere neanche sé stessa.

Non è possibile vivere e viversi serenamente dovendo occultare parti importanti della propria identità, e la mancata possibilità di poterla esprimere acuisce la sofferenza della disforia di genere in quanto tale, ma non solo. Condizioni sociali di questo tipo fanno sì che all’esperienza della disforia finiscano per sommarsi altre esperienze, quali: depressione, traumi di vario tipo, ansia e quant’altro, che inficiano in maniera notevole non solo il rendimento scolastico, ma la volontà (e la fattibilità) di proseguire il proprio percorso di studi. Possibilità ad ogni modo in partenza limitata, se non addirittura negata, dalla classe sociale della propria famiglia (nel caso, in età giovanile, di un contesto scolastico meno ostile alle diversità); e, in età adulta, dalle condizioni economiche peggiori inevitabilmente derivanti dalla discriminazione transfobica in contesti lavorativi che non necessitino particolari qualifiche. Condizioni che non permettono di proseguire gli studi, acquisire qualifiche ulteriori, ed ampliare quindi le possibilità di assunzione. Il tutto in quello che dimostra de facto di essere un loop infinito di oppressione classista e transfobica.

Esistono anche problematicità ulteriori. Una donna trans è più svantaggiata rispetto alla controparte FtM, a causa della logica sessista e transmisogina per la quale una «donna» che diventa uomo aumenta il proprio prestigio sociale, mentre un «uomo» che diventa donna squalifica sé stesso. E se entra in gioco la variabile razza? nell’attività di genderizzazione della razza operata dalla società, un uomo straniero agli occhi dei media italiani, bianchi e occidentali, è sinonimo di «ladro», «stupratore» e più genericamente «criminale» e «violento», mentre una donna straniera è una figura debole e delicata, ed è sinonimo di «badante», «prostituta» (che nella variante dell’attivismo abolizionista diventa magicamente «vittima di tratta» sempre e comunque, come se non fosse mai esistita nella storia dell’umanità tutta un’emigrazione dedita alla ricerca di lavoro, sia esso sessuale o non).

In tutto ciò, una donna trans straniera racchiude in sé ogni fonte di discriminazione possibile. La parola trans in molte persone evoca immaginari relativi alla prostituzione, ma il connubio «trans straniera» ne evoca in chiunque, tanto che si potrebbe dire che la donna trans straniera sia in qualche maniera il motivo dell’appioppamento dell’etichetta «prostituta» alla comunità MtF nel suo complesso, e la diffusione di un certo sentimento razzista e anti-prostituzione fra molte trans bianche sembrerebbe confermare. Dove cercare l’origine di questo ruolo? In molte cose, direi, ma soprattutto nella morbosità che vede nel corpo trans razzializzato una molteplicità di «stranezze» che ne potenziano la carica erotica (mi riferisco sopratutto alla «sessualità esotica ed animalesca» che viene attribuita alle straniere in generale, che viene analogamente attribuita alla figura della donna trans non operata, bianca e non) e nella mancanza totale di opportunità diverse dalla strada per il risultato dell’interazione delle di razza, genere e classe il cui funzionamento è stato già almeno parzialmente descritto.

Alla luce di quanto detto, perché non immaginare un antilavorismo trans? è assurdo che in quanto persone transessuali e transgender il nostro finto riscatto (limitato peraltro in sostanza ad una schiacciante maggioranza di  uomini trans bianchi ed eterosessuali) debba passare necessariamente tramite la miseria dell’esistente e le sue ridicole concessioni. Forse rispetto alla disoccupazione imposta parlare di rifiuto del lavoro sembra un po’ ridicolo, ma si potrebbe pensare a rivendicare qualcosa come un «reddito per l’autodeterminazione» qui ed ora, ad esempio attraverso pratiche di neomutualismo dal basso, dal momento che richiedere qualcosa allo stato è come chiedere pane ed acqua al secondino, ed è evidente l’utilizzo del welfare come strumento di controllo. Con tutte le angherie subite mi pare proprio il minimo dei risarcimenti possibili; il tutto certamente non come soluzione, ma nell’ottica di liberarsi un giorno da ogni delirio possibile del capitale. Sul tavolo di una politica radicalmente frocia, e frociamente radicale, questa mi sembra una questione importante da porre.