La liberazione sarà animale (o non sarà!)

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A tutt* quell* che oggi festeggiano la liberazione dal nazifascismo,  a tutt* quell* che lottano contro i regimi, le dittature, le gabbie, le catene, a tutt* quell* che si sentono schierat* contro il potere che mastica e maciulla vite, a tutt* quell* che stimo immensamente senza se e senza ma, per mettere i propri corpi e le proprie vite in gioco ogni giorno, nelle azioni, nelle scelte, nelle pratiche piccole e grandi di sovversione dell’ordine costituito: a tutt* voi, che non avete scelto la via più facile o più comoda in tanti aspetti delle vostre esistenze, voglio fare un augurio che suona anche come un’esortazione a non lasciare incompiuto il vostro sforzo: perché l’unica liberazione sarà animale, o non sarà affatto.

Fino a quando ci saranno gabbie ci saranno animali prigionieri, e quegli animali non saranno mai “solo” non umani: le gabbie sono gabbie, e gli umani troppo animali per non finirci dentro. E anche fossero davvero un giorno “solo” animali (non umani) ad esservi rinchiusi, potremmo davvero pensare di aver sconfitto il sopruso, la violenza, la sopraffazione? Davvero sentirci divers* da chi, per indifferenza o autentico odio, rinchiude, tortura e uccide i propri simili? Potremmo mai, in un mondo che continuasse a rinchiudere, torturare e macellare miliardi di non umani, sentire di aver “sconfitto il sistema”? Davvero in tutta coscienza potremmo illuderci, in un mondo ancora pieno di catene, coltelli, sangue e grida, di aver sconfitto quel paradigma del privilegio contro il quale ci scagliamo con tanta risolutezza?

Forse che gli animali non umani non possiedono come noi corpi, affetti, sensazioni, emozioni? Forse che la differenza che tanto osanniamo in quanto “ricchezza” vale solo per quegli animali che siamo? E le altre differenze dunque, per il solo fatto di non essere intelligibili alla nostra limitata esperienza, sono nulla, zero, ininfluenti?

Io credo che la sofferenza animale, quella umana che riconosciamo e quella non umana che derubrichiamo, sia esattamente la medesima, poiché animali siamo e animali resteremo, anche se tanto ci è piaciuto immaginare divinità ultraterrene di cui essere “figli* predilett*”.

Ma noi non nasciamo da divinità distanti, bensì da corpi urlanti e sanguinanti, perché i nostri corpi sanguinano e si lacerano come i loro, e i nostri corpi animali galleggiano sul mare dell’orrore.

Ed è sempre quello il compito più arduo di tutti, con il quale mai possiamo smettere di confrontarci:  dire “basta!” al fascista che ci portiamo dentro, che concepisce la libertà come il privilegio del sopruso sull’altr* – l’altro differente e perciò svalutabile, disprezzabile, smontabile –   e non come libertà di vivere e lasciar vivere, nelle proprie peculiarità, nelle proprie gioie e nei propri affanni, nella propria personalissima ricerca della felicità.

A tutt* i non umani che oggi saranno sacrificati per festeggiare l’altrui liberazione, va il mio pensiero e la tristezza che sento nel cuore: continuerò a combattere perché arrivi presto anche per voi l’agognata liberazione, perché finché voi non sarete liber*, non lo saremo davvero nemmeno noi.

 

 

Distruggendo l’Arca

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Cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti,
e si direbbe proprio compiaciuti!
Voi vi buttate sul disastro umano
col gusto della lacrima in primo piano!

Giorgio Gaber, Io se fossi Dio

Mi è difficile scrivere qualcosa dopo aver visto quei corpi galleggiare. Ancora più difficile dopo aver assistito allo scaricabarile dei politicanti sugli scafisti, comodi capri espiatori di responsabilità politiche da togliere per sempre il sonno, nonché alle aberranti dichiarazioni di quella fetta di popolino incline all’adozione di slogan d’odio, che non vede per nulla in conflitto con la contemporanea dichiarazione di fede, religiosa o laica poco importa, intrisa d’amore per l’Uomo, quello con la U maiuscola.

E’ proprio questo mondo umano, troppo umano, che pone le condizioni per le infinite tragedie di cui siamo, nostro malgrado, complici e testimoni. L’antropocentrismo è ciò che ci condanna inesorabilmente, umani e non, a questa eterna lotta per la dignità di esistere. Se l’Uomo è misura di tutte le cose, qual è questo “Uomo” che ha diritto di esistenza, di desiderio, di consolazione, di lutto?
Se possiamo uccidere il Capro, se esiste qualcuno che si può privare di ogni cosa, degli affetti, della libertà, della stessa vita, chi ci può ragionevolmente assicurare che non si tratti di chiunque, umano o non umano, uomo o donna, bianco o non bianco… La logica dell’eccezionalità umana spiana la strada alla banalità del male.

E’ un aspetto che appare evidente ogni qual volta accade una tragedia di queste proporzioni, e sul quale è fondamentale aprire una riflessione che sia seria, e onesta: davvero ha senso appellarsi all’umanità di chi non c’è più, per avere la speranza di salvare chi sicuramente verrà dopo, sugli stessi barconi, a reclamare il proprio diritto alla vita?

“L’indifferenza riduce l’Altro a un’astrazione… in un certo senso, essere indifferente alla sofferenza rende l’essere umano inumano” sosteneva Elie Wiesel. Un’affermazione rivelatrice, suo malgrado, poiché la grande verità che porta in sé è celata in un fraintendimento di fondo del suo senso profondo. Che non è, come potrebbe apparire ad una lettura superficiale, la necessità della presa di coscienza del valore intrinseco dell’ “umanità” ma il suo esatto opposto, ovvero: fino a quando sarà consentito uccidere un capro e si potranno “stipare bestie nella stiva”, fintantoché esisterà un Uomo misura di tutte le cose e si potrà essere indifferenti alla sofferenza tout court – ogni qual volta si eviti, consapevolmente o meno, di identificarsi con chi quella sofferenza la vive (ovvero quando non è quella provata dall’Essere Umano certificato con la U maiuscola…) – fino a quel dannato giorno, nessun essere senziente, che sia uomo o donna o cagna o vacca o altra favolosità, potrà essere al sicuro dal rischio di diventare numero spendibile, sacrificabile sull’altare delle “necessità Umane”, o peggio delle sue casualità.

Quei corpi dunque, quei corpi che galleggiano sul mare, sono lì dove sono anche grazie a noi. A noi, ogni volta che invochiamo l’umanità come ‘conditio sine qua non’ della dignità di esistere. A noi, e alla nostra perenne infatuazione per l’uomo vitruviano. A noi, che abbiamo paura di chiunque superi i confini di genere, classe, specie, e non solo quelli nazionali.

Svestire i panni di quell’Uomo “simile a un dio” indifferente e irraggiungibile, riscoprirsi capaci di com-patire la sofferenza altrui, piangere la morte di una lucertola sul ciglio di una strada e non trovare le parole per l’ennesimo naufragio del sogno di un mondo diverso in cui vivere. Decostruire la favola orrenda che ci hanno cucito addosso, e ricostruirci esseri chimerici e contaminabili.

Soprattutto, lasciar vivere: abbandonare l’indifferenza che uccide e smetterla di ragionare sulle dimensioni dell’arca, sempre troppo piccola di fronte ad un eterno diluvio universale.

L’amante migliore

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Ph Ana Alvarez-Errecalde
L’amante migliore, traduzione di Elena Zucchini, revisione di lafra e feminoska.
Pubblichiamo la conversazione su maternità e sessualità intercorsa tra Helena Torres e María Llopis per l’antologia Relatos marranos (Racconti Marrani). Tra gli altri argomenti, si discute di piacere ed erotismo durante la gravidanza, il parto, l’allattamento e la relazione fisica con il bebé.

Traduzione di un dialogo skype tra María Llopis (1) e Helena Torres. María è un’artista multimediale che propone una visione alternativa dell’identità sessuale e del genere – a partire dalla decostruzione del soggetto del femminismo –  per avvicinarsi al femminismo pro sex o al transfemminismo. I suoi video, performance, interviste, workshop e libri spaziano tra i temi dell’orgasmo e la violenza, della sessualità degli anziani, del sesso virtuale e della performatività di genere. Attualmente porta avanti un progetto sulla maternità sovversiva e sul parto orgasmico. Le note alla fine dell’articolo sono commenti alla conversazione di Aida I. Prada, coeditora di Relatos Marranos.

Helena Torres: Raccontami del tuo progetto sulle maternità sovversive.

Maria Llopis : Sono lanciatissima sul tema della maternità e della sessualità (2). Ho appena tenuto un seminario sulle maternità sovversive ad Olba, vicino Castellón, e si sono presentate tutte le madri punk e hippie neo-rurali con le loro creature e la loro nascita orgasmica, l’allattamento orgasmico, le gravidanze orgasmiche… tutto orgasmico! Io volevo realizzare per gioco una sorta di guida alla nascita orgasmica (dico per gioco, perché è qualcosa di molto più complesso rispetto al seguire specifici passi per arrivare ad un obiettivo), e anche se lo abbiamo fatto, è stato molto diverso da ciò che avevo immaginato. Inoltre sto facendo interviste su parto e orgasmo e stanno venendo fuori molti allattamenti orgasmici. Anche io ora sto allattando al seno e lo sto apprezzando immensamente.

H. Quello che non mi torna del [parto] orgasmico è che si tratta di un’esperienza che non riguarda tutte, per mille motivi che non dipendono solo da noi. Il mio parto, per esempio, era stato preparato tutto nel dettaglio: stavo partorendo in casa e per questo so che è vera questa cosa dell’orgasmo, perché l’ho vissuta, ma sono finita in ospedale e di orgasmico non c’era più nulla. Mentre ero in casa le prime contrazioni mi hanno sorpresa, perché non ho mai sofferto di dolori mestruali e non capivo cosa stesse succedendo, da dove venissero, cosa fare. Ho iniziato a respirare come avevo imparato a fare facendo Kundalini e mi sono dissolta, ho iniziato a volare, improvvisamente mi trovavo da qualche altra parte e non c’erano più dolore, né rumore. Sapevo che c’erano persone e suoni, solo che io non ero lì. Suppongo che questa sensazione sia quella che rende possibile avere un orgasmo e che il dolore si trasformi in piacere. Per questo ciò che trovo più frustrante sentendo parlare di parto orgasmico è che venga vissuto quasi come un obbligo.

M. Sì, capisco, sembra quasi sia obbligatorio averlo, come se non fosse sufficientemente cool partorire senza venire. Se la vedi in questa maniera, è come se dovessi essere Wonder Woman: ogni volta che scopi devi venire e ogni volta che vieni devi eiaculare. Ne abbiamo parlato durante il workshop e una delle cose che abbiamo fatto è stata cambiare il nome in “parto estatico”, invece che “parto orgasmico”. Di fatto esistono molti parti in cui le donne non arrivano a sperimentare un orgasmo, ma durante i quali si trovano in uno stato di estasi, di piacere, che le mantiene sulla soglia del dolore (3). È come fare una scopata fantastica senza venire. È stata una brutta scopata? Assolutamente no! Per questo sto prendendo in considerazione l’idea di cambiare nome al libro. Il parto non deve portare all’orgasmo per essere un’esperienza sessualmente soddisfacente. Forse dovremmo toglierci questa pressione dell’orgasmo, non solo per quel che riguarda il parto, ma anche per quel che riguarda le relazioni”.

H: L’importante è sottolineare che nel parto, come nelle relazioni sessuali, esiste il piacere e che la percezione del dolore, se ci sono le condizioni perché sia un parto estatico, non ha niente a che vedere con la percezione del dolore in un altro stato. In questo momento hai un’altra sensibilità, un altro odore, vedi in maniera diversa, con un’altra intensità… Per questo per me è necessario definire il parto come atto sessuale (4), non solo come orgasmo.

M: Esatto. Capire che fa parte della tua sessualità. Quando ho partorito tutta la parte della dilatazione è stata meravigliosa, mi sono connessa con questa sensualità, con questa sessualità. Stavo a quattro zampe come un’orsa, con Dani sotto, sul letto e io sopra, mordendolo, succhiandolo, godendo e dilatando… Dopo però mi hanno raccontato che lui usciva per prendere aria e rinfrescarsi la faccia, perché mettevo il riscaldamento al massimo e lo tenevo immobilizzato al letto. Avevo letto che dilatare la mandibola fa bene, perché aiuta ad aprire la vagina, l’utero e il collo dell’utero, così io lì, giù di morsi! Insomma, io tutta questa parte me la sono goduta moltissimo, anche se non mi ricordo niente.
Però c’è stato un momento, il cosiddetto “Vaso di Pandora”, che è quando sei completamente dilatata ed entri nella fase dell’espulsione. A quanto pare questo è il momento in cui vengono fuori i leoni, le belve, le farfalle o qualsiasi cosa ti tieni dentro senza saperlo. In questo momento ho avuto la visione di un uomo, da lontano, che era l’Uomo cattivo. Ho iniziato a dire: “È arrivato l’Uomo cattivo” e Dani mi ha raccontato che le ostetriche, che fino a quel momento erano molto sicure di quello che stavano facendo, sono rimaste tipo: “Ahi! E adesso che facciamo? Questo non c’era sul manuale!”. Fortunatamente c’era anche una doula fricchetonissima e fantastica, che è venuta e mi ha detto: “Ok, adesso tiriamo fuori l’Uomo cattivo” e con l’Uomo cattivo è arrivato il dolore, un dolore estremo, allucinante… Quel dolore di: “Ci siamo, ecco la testa del bambino” e tu: “Ma cosa stai dicendo? Che bambino e bambino d’Egitto! Aiuto!”. Ma si trattava della spinta finale: non è durato molto, una o due ore a dire tanto ed ecco che Roc era nato.
Adesso sto intervistando molte donne che hanno avuto parti estatici, in cui hanno provato molto piacere, come sarebbe successo a me se non fosse venuto l’Uomo cattivo, che io interpreto come il Signor Patriarcato. Ci sono donne che sono arrivate a venire dal piacere, però non un venire qualsiasi, l’orgasmo del secolo! Questo ha cambiato la loro sessualità e la loro vita. Adesso c’è un prima e un dopo.

H: Adesso che lo dici penso che anche se non ho partorito è stato a partire dal non-parto (n.d.t.: Helena Torres è ricorsa ad un parto cesareo, per questo afferma di “non aver partorito”, pur avendo un figlio) che ho cambiato completamente il mio modo di vivere la sessualità. Non mi riferisco a con chi scopavo o no, non si tratta di una questione identitaria (quella è venuta dopo), ma al mio modo di sentire il mio corpo e di concepire l’orgasmo. È stato tre anni dopo il mio non-parto che ho iniziato a eiaculare come una fontana. All’inizio non sapevo neanche di cosa si trattasse, col tempo mi sono resa conto che mi succedeva anche quando ero adolescente ma che, per vergogna, lo avevo represso.
Allora è uscito quello che potremmo definire il mio lesbismo segreto, perché me la facevo con le ragazze, ma politicamente non mi sentivo lesbica, non mi sembrava una cosa mia, era fuori dalla mia giurisdizione. In realtà quello che stavo facendo era reprimere la mia sessualità, perché non la stavo vivendo come avrei voluto realmente. Solo che allora non lo sapevo.

M: È molto interessante quello che stai dicendo, perché è una delle cose che sono venute fuori durante il workshop e che mi sembra un tema chiave: il fatto che essere madre, aver fatto quest’esperienza (partorendo o meno) ti fa scopare in maniera diversa.

H: È che il rapporto che hai con il tuo corpo, o meglio, la maniera in cui lo senti, cambia completamente. In una settimana tutto il mio corpo aveva iniziato a cambiare. Non solo le tette, tutto… i fluidi, il modo in cui si muoveva il sangue… Non ho avuto un parto orgasmico, ma la mia gravidanza è stata un orgasmo permanente… scopavo tutti i giorni… e lo stesso con l’allattamento. Il primo anno di bebé non volevo scopare. Non potevo. All’inizio la cosa era frustrante, non la capivo, non mi era mai successa. Parlavo con altre madri e mi dicevano: “Benvenuta nel club!”. Allora mi sono resa conto che non volevo scopare, perché stavo già scopando… con il bebé! Ed era una relazione monogama! Nessun altro poteva toccarmi le tette. Ero completamente innamorata. Stavo ore a guardarlo estasiata. Adesso quando guardo le foto di quando era neonato non lo riconosco. Io vedevo un essere che comprendeva tutto nella sua bellezza e fragilità… È come quando stai con qualcuno con cui hai scopato: si tratta di un altro corpo, ma è anche il tuo corpo (5), è una sensazione che non si capisce molto bene.
Un’amica, un paio di mesi dopo aver partorito, quando ci siamo viste per la prima volta dopo il suo parto, dopo un forte e lungo abbraccio, ha cercato i miei occhi e tra le lacrime ha detto: “È devastante!”. Durante il primo anno questa compenetrazione, questi sguardi, questo capirsi, crea momenti in cui se anche c’è un padre, si tratta di un essere a parte, al di fuori di questa relazione… molti padri si sentono rimpiazzati, perché è come se tu passassi da loro al bebé e neanche il bebè ha realmente bisogno di loro, non come ha bisogno di te e del tuo corpo… insomma, io ero come nella mia bolla e ci sono rimasta per tre anni…

M: Chiaro, il periodo dell’allattamento.

H: Quando ho smesso di allattare ho iniziato a scoparmi anche le pietre… E allora ho capito che è questo che ci tengono nascosto: che quando partorisci hai una relazione sessuale con tuo figlio.

M: Una relazione sessuale soddisfacente. Una relazione sessuale con amore infinito (6)

H: Infinito, sì!

M: Sei innamoratissima, il piacere è massimo, l’altra persona è pazza di te: è la relazione perfetta! Mi ha fatto molto riflettere sulle relazioni romantiche che ho avuto nella mia vita e penso a quanto tempo ho perso con l’amore romantico e con queste relazioni! Era questo che cercavo, questa sensazione di completezza!

H: L’amore è questo! (pum! un colpo sulla tastiera)

M: Stiamo uscendo di testa, Helena, stiamo uscendo di testa! Ci chiameranno biomadri! Ci chiameranno con qualsiasi etichetta! (pum! pum! pum! adesso è un libro sulla scrivania)

H e M: Hahahahaha!!!

M: Tornando al tema dell’allattamento c’è una tradizione che si è persa e che è molto importante, che è la condivisione. Noi lo facciamo con il gruppo di madri con le quali ci siamo riunite, in paese. Io sono stata operata quando Roc aveva quattro mesi e non potevo avere contatti con lui, allora ho pensato: che sia qualcun’altra a dargli la tetta! Ma, come esiste la monogamia nelle relazioni sessuali, esiste la monogamia della tetta.

H: Un tempo c’erano le balie…

M: Ma era diverso. Le signore ricche che non volevano allattare pagavano le balie, sì. Era un servizio sessuale, erano mercenarie dell’amore e del latte. La signora che non voleva avere questa relazione con il suo bebé, perché era molto verginale e molto vittoriana, pagava una puttana che gli desse affetto, sesso, piacere e latte. È un tipo di servizio sessuale che è caduto in disuso. Adesso invece di pagare una balia gli dai un biberon pieno di latte Nestlé.

H: (Quello che segue non lo trascrivo perché più che marrano è politicamente scorretto (7). In breve, abbiamo discusso animatamente della negazione dell’allattamento materno come piacevole atto sessuale, come diritto e non dovere, come possibilità e scelta che non tutte possono o vogliono fare.)

H:Credo che questa relazione amorosa così intensa di cui abbiamo parlato è la base di ciò che verrà dopo, per poi poter iniziare a separarsi. Perché non starai tutta la vita così, questo sarebbe un danno per tutti. Se però questa connessione iniziale è stata molto forte, non scemerà, ma si trasformerà. Impari a lasciar andare. Da questo dovremmo imparare che si tratta di un amore autentico perché non hai più bisogno di stare con l’altra persona: sei già con lei. La possibilità di lasciarti e lasciar andare è in questa connessione. Sempre in questo sta la comprensione che esiste solo con le persone con cui hai avuto una relazione molto intensa e ti capisci molto oltre le parole. Se c’è stata una connessione così forte non è solo che tu, in quanto madre, la capisci, l’altra persona anche ti capisce, anche lei ti conosce.

M: A questo non avevo pensato…

H: È che io lo sto vivendo in questo momento… (snif da entrambe le parti).

M: Occhio a quello che dici, perché allora sembra che una donna che non vuole o non può diventare madre non può sapere cosa sia l’amore… Forse la riflessione da fare è che ognuno nella vita trova le cose in un modo o nell’altro e che la maternità può portare a questo, ma può anche non farlo. Si tratta di non negare nessuna realtà. È importante rispettare le decisioni delle persone, ma non è che per rispettarle neghiamo altre realtà.

H: Esatto. Lo stesso vale per il parto orgasmico: non stiamo impostando modelli o guide di comportamento, ma solo possibilità o esperienze… Non tutte le madri devono amare i loro figli o le loro figlie. Possono crescerli con affetto senza essere perdutamente innamorate. Può succedere, oppure no, non bisogna negare nessuna di queste possibilità. I modelli sono sempre frustranti, lasciano sempre qualcosa fuori. Che succede se provi un senso di rifiuto? Se non sopporti questa creatura berciante, se odi la tua pancia gigante, i passi pesanti e i culi da pulire? Ti fanno a pezzi come fanno a pezzi quella che allatta fino ai tre anni…

M: È che i modelli standard di svezzamento, almeno nella Spagna mediterranea, partono dalla negazione della possibilità di questo innamoramento. Secondo questi modelli di svezzamento al più tardi all’anno inizierà l’asilo nido e quanto prima inizierà la scolarizzazione, tanto meglio. Come se l’obiettivo fosse liberarsi del bambino il prima possibile (8). È un argomento molto delicato. Io credo che tutti i problemi dello svezzamento e della maternità abbiano come origine la relazione di coppia stabile e monogama che non funziona in maternità. Ci sono società in cui esistono altri tipi di relazione e che funzionano meglio in questo contesto.

H: È questo modello relazionale di coppia stabile monogama che ha bisogno di negare la sessualità durante la maternità, ma non solo in questo momento, dopo viene la negazione della sessualità durante l’infanzia. Se ci fai caso quanto ti chiedono quando hai avuto la tua prima esperienza sessuale ti stanno chiedendo del coito, della prima scopata con qualcuno, perché si suppone che prima di questo non esista nessuna sessualità. E poi c’è l’esplorazione dei corpi tra la madre e il bebè… toccarsi, coccolarsi, scoprirsi…

M: Questo fa molta paura… Ho una collega che è terapeuta, si occupa di medicina cinese, ha un figlio e mi raccontava di queste interazioni sessuali con lui, in cui lascia che esplori il suo corpo e le tocchi la fica, insomma… Lei dice che la gente non fa differenza tra chi soddisfa i propri desideri sessuali su un bambino indipendentemente dai suoi desideri, senza nessun riguardo, e chi permette che quest* bambin* esplori la sessualità, aiutandol*. Tra queste due posizioni c’è un mondo. C’è la stessa differenza che c’è tra una relazione sessuale consensuale, in cui tutte le parti si tengono in considerazione, e una soddisfazione del proprio desiderio sessuale calpestando tutte le volontà che non sono la mia. Questo è stupro.

H: È importante anche non perdere mai di vista il contesto. Intendo dire quando la situazione è complicata perché sia la madre sia il figlio vivono in una società in cui questo accompagnamento alla scoperta della sessualità è considerato un’aberrazione. Allora bisogna fermarsi o fare molta attenzione, perché questa persona che stai accompagnando è molto piccola e potrebbe andare in giro a dire che vuole scoparsi sua madre senza capire che il mondo penserà che si tratta di una perversione imperdonabile.

M: C’è un’autrice molto interessante, che parla di crescita e svezzamento, si chiama Aletha Solter, a me piace molto e tratta proprio questo tema. Lei dice che se stai con tuo figlio o con tua figlia e provi il desiderio di abusare di lui o di lei (e dico abusare, che non è la stessa cosa di cui stavamo parlando), non devi aver paura, ma chiedere aiuto, perché è molto probabile che tu abbia subito abusi da piccola. Si tratta di eliminare questo tabù, perché ne consegue la perpetrazione dell’occultare, mentire e tenere sotto silenzio. Quest’autrice afferma anche che, se in preda alla rabbia, ti viene voglia di alzare le mani, non devi flagellarti. Punto 1: non picchiare. Punto 2: chiedi aiuto. È probabile che tu sia stata picchiata da piccola. Pensa a come sarebbe diverso il mondo se potessi andare al bar e dire: “Oggi ho sentito l’impulso di picchiare il mio piccolo… devo affrontare questa cosa, lavorarci su”.
Io credo che l’abuso sessuale, la violenza sessuale in generale, siano molto diffusi durante l’infanzia e sarebbe molto diverso se invece di nasconderlo, se ne parlasse apertamente (9).

H: Per questo il tuo libro è così importante, perché si tratta di dare visibilità a queste esperienze…

M: Ah, che bella è stata questa specie di intervista o come la vogliamo chiamare… mi aspettava un giorno di quelli con dentista, caldo, tutto molto poco glamour… e adesso mi è cambiata la giornata…

H: Potremmo chiamarla così: “Come trasformare una giornata poco glamour parlando dell’ amante migliore.

M: Ahahah! Sì! L’ amante migliore! È questo il titolo!

H: Dici?

M: Senza alcun dubbio! Dai, vado ad allattare.

H: A presto, bellezza.

M: Ciao (10).

Note a piè di pagina di Aida I. de Prada
1 http://www.mariallopis.com/  http://mariallopisdesnuda.com/
2 Mentre scriviamo questo libro, un embrione, che ora si può già dire feto, sta crescendo nel mio utero. È una gravidanza desiderata, un punto di partenza molto importante, e per fortuna non sento nessuno dei malesseri temuti, fisici o psichici. In un primo momento attendevo con impazienza l’annunciata estasi ormonale, come quando si prova una droga per la prima volta e si attende con ansia che salga, ma lo sballo che immaginavo non arrivava mai, perché si tratta di qualcosa di diverso, qualcosa di molto diverso da quello che avevo vissuto finora. Non mi sento sballata, né euforica, ma come se mi trovassi in una capsula protettiva, come nei videogiochi. Mi sento mostruosa, guardo e tocco il mio corpo più che mai, perché diventare un mostro mi dà una sensazione piacevole ed estrema: ora ho due teste, due cuori, 40 unghie e magari anche un micropene.Ho anche due sistemi nervosi e non so se è per questo, ma tutto si amplifica. La percezione è diversa. Non voglio vivere il parto come se fosse un intervento chirurgico ad alto rischio e sto preparandomi per evitarlo, ma non voglio farmi troppe illusioni, come hanno già detto non dipende da come io lo vorrei, anche se si verifica a casa. E mi chiedo: e se non raggiungo il piacere e mi invade questo dolore sconosciuto? Può questo dolore essere comunque soddisfacente?
3 Da quello che dite sembra che questo dolore peculiare sarà sempre presente, estatico o meno. Tuttavia, ciò che cambia in entrambe le situazioni è la percezione del dolore. Se la percezione di quel dolore non ha nulla a che fare con la percezione del dolore nell’altro stato, immagino che la stessa cosa accada con il piacere… e mi chiedo potrebbe essere stato il cocktail di dolore e di ormoni che mi ha portato a uno stato di estasi, che ha reso il parto un’esperienza sessuale estrema? Ciò che mi colpisce è che rimango tranquilla mentre faccio un patto con il dolore. Se il mio utero viene represso da una società patriarcale che rende difficile venire nell’atto di espellere un corpo con la mia fica, adotterò anche io questa prospettiva… e se il piacere non arriva, riuscirò a trovare nel dolore un alleato e non una punizione divina? Per ora, ho cominciato a mangiare un sacco di mele.
4 Alle visite all’Asl mi trattano come se fossi in uno stato ad alto rischio, pericolo! Pericolo! Per fortuna, l’ostetrica che mi visita parallelamente, lo identifica come parte della mia sessualità e non come parte di una malattia, il che cambia completamente il quadro. Tenere a mente che ciò che il mio corpo produrrà durante il parto saranno le stessa cose che potrebbero risultare da una scopata piena di felicità (estrogeni) e amore (ossitocina) è molto diverso dal pensare che stanno per sequestrare il mio corpo e che l’unica salvezza saranno iniezioni di ormoni sintetici e l’anestesia spinale iniettata nel mio midollo.
5 A volte sento di avere “un passeggero”, come cantavano i Parálisis Permanente. D’altra parte, so che non si tratta di un altro corpo, è il mio. Per ora non voglio pensare a me stessa come a due, perché penso che questo approccio prima ancora di favorire la logica cosiddetta “pro-life” potrebbe anche contenere lo scollamento tra la maternità e la sessualità, perché se non si capisce che quel corpo è – o è stato – una parte del tuo, è facile intendere questa sessualità come qualcosa di negativo… Ma ecco un tema troppo grande per me, che dire di quelle maternità che non sono passate attraverso una gravidanza? Come la vivono le madri che non partoriscono, le madri che non si riproducono? Questi argomenti non servono… ci deve essere altro… giusto?
6 Questo per ora non mi tocca, ciò che è chiaro è che già durante la gravidanza, il legame tra maternità e sessualità è una lotta. Tutti mi toccano, e questo mi piace, ma di solito si concentrano sul ventre, ed è un po’ strano che ti parlino guardandoti l’ombelico. I sorrisi degli sconosciuti, anche se mi fanno sentire un po’ un’incubatrice, non mi dispiacciono. Ora, questo sì, tutte queste interazioni le sento totalmente desessualizzate. Io non sono un corpo desiderabile, la cosa buona è la paura degli idioti di turno, ma rende anche difficile collegare la maternità e la sessualità. La bellezza del mostruoso è caratterizzata dai cliché, lo sconosciuto che ti dà la precedenza nei posti a sedere, o il fatto che sia più facile trovare un reggiseno per l’allattamento in un negozio di articoli ortopedici che in un negozio di intimo. E poi, con mio grande rammarico, ho addosso il marchio nazionalcattolico. Esistono molti più riferimenti atti a pensare la maternità come altruismo, purezza e decenza, piuttosto che come sessualità e piacere.  Per fortuna i femminismi mi aiutano a smascherare pratiche e discorsi egemonici.
7 Ultimamente mi capita di restare rapita a guardare chi allatta. Ho notato che, spesso, i bambini cercano l’altro seno con la manina e, a volte, con il pollice e l’indice… strizzano il capezzolo!!! Questa immagine mi rimanda ad un’altra, e sì, mi fa andare in cortocircuito… perché, anche se il latte dalle mammelle può essere un feticcio sessuale, sento che le tette smettono di essere qualcosa di sensuale per diventare distributori di cibo, e che il contrario sarebbe perverso. Forse se non ci fosse questo tabù, se il legame tra sessualità e allattamento al seno fosse politicamente corretto, non sussulterei nel vedere un bambino pizzicare un capezzolo, e allo stesso modo i brividi che mi causa un bambino attaccato alla mia tetta. D’altra parte, penso che non mi piace sempre essere toccata sulle tette… e se mi sentissi lo stesso quando allatto al seno? So che l’ossitocina è coinvolta, ma questa cosa degli ormoni non la capisco…
8 Già prima della nascita, – perché una volta che si resta incinte sembra che il tuo corpo diventi pubblico e tutti hanno voce in capitolo e possono esprimere i propri giudizi – mi ha raggiunto questo avvertimento con frasi come: “hai intenzione di portarlo in uno zaino porta-bimbo? Lo rovinerai, è meglio abituarlo a non essere sempre con te ” ” L’allattamento al seno, senza orari programmati? Lo farai diventare un tiranno! ” ” Hai intenzione di dormire con lui? Oops! Che viziato!”. Leggere i vostri pensieri mi fa pensare che forse queste reazioni sono fotografie della forma egemonica di intendere l’amore come scontro e concorrenza, piuttosto che complicità e cooperazione.
9 Da lì in poi cambia tutto, e anche poterlo dare alla luce tranquillamente, senza aver timore di quello che ti è successo da piccola, perché non tutte le persone che abusano hanno subito abusi, e non tutti coloro che sono stati abusati, diventano abusanti.
10 E’ stato un piacere leggere la vostra conversazione, non tanto per la sua “eccezionalità”, ma piuttosto in quanto strumento per modificare e costruire nuovi sistemi con i quali fissare nuovi parametri.

Come riconoscere un anarcomachista

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Illustrazione di Suzy X

L’anarcomachista è aggressivo, competitivo fino all’eccesso. Elitario, paternalista; più puro dei puri e più forte dei forti. Riesce misteriosamente ad essere dogmatico pur professando il suo odio per ogni dogma. Persegue la coerenza in maniera totalizzante e obnubilante, ignorando che in un mondo di contraddizioni sociali tale perfezione non può esistere. Insegue l’alienazione delle politiche che porta avanti nella stessa maniera in cui egli pensa di porsi di fronte all’esistente: senza compromessi.

L’anarcomachista è misogino ma può non sembrarlo. La sua pericolosità è direttamente proporzionale alla sua capacità di mimetizzarsi come “bravo compagno” o come individuo non stereotipicamente maschilista. Può essere qualunque uomo. E di tanto in tanto, persino qualunque donna.

L’anarcomachista rincorre la logica del martirio e pensa che sia giusto e necessario che chiunque faccia altrettanto. Non tutt* vogliono o possono essere picchiat* e incarcerat*, ma a lui non importa. Perché pensare all’orizzontalità e all’incolumità altrui quando si può godere di un trip testosteronico con lo scontro di piazza fine a sé stesso, tatticamente inutile? Non si pone mai il problema di aver sovradeterminato le decisioni e le voci altrui: non lo farà né per il destino di una manifestazione, né per altro.

L’anarcomachista pensa di vivere in una bolla di sapone al di fuori della società, immune alle influenze aliene dei contesti oppressivi da cui emerge, pertanto sente di non avere alcuna responsabilità nell’aumentare la consapevolezza dei suoi privilegi e oppressioni e men che meno quella di combatterli. Ove necessario, ne nega l’esistenza – o peggio ancora, si proclama fintamente suo nemico, ingannando compagne e compagni di lotta. I quali non se ne accorgeranno per molto ancora: si dice che i fatti contano più delle parole, ma se i fatti contraddicono l’immagine idealizzata che si ha dell’ambiente sovversivo e dei suoi abitanti, allora le parole pare proprio vadano più che bene.

L’anarcomachista è emozionalmente impedito, e arroccato nella sua corazza di cinismo e distanza emotiva, prova una profonda paura di ogni cosa che non sia lineare, razionale, e risolvibile con due punti sull’ordine del giorno. Non sbaglia, non si scopre e non si mette mai in discussione: la sua lotta è sempre e comunque votata alla superficialità.

L’anarcomachista non si fida di nessuno, specialmente delle esperienze delle persone su cui ha potere, alle quali risponde in maniera dismissiva e trivializzante.

L’anarcomachista è un capolavoro di narcisismo. Si sente legittimato a colonizzare ogni discorso, ogni spazio, ogni sentimento, ogni corpo. Vuole essere ascoltato, ma non è disposto ad ascoltare: non è infrequente vederlo palesemente scocciato e annoiato quando gli si parla di questioni che crede non lo riguardino. Basta una vaga avvisaglia di critica politica per farlo andare sulla difensiva.

L’anarcomachista dimostra spesso, nelle sue interazioni sociali, una propensione a battute e linguaggi sessualizzanti (nei confronti delle donne) e omotransfobici. I gruppi, collettivi, organizzazioni a cui partecipa sono caratterizzati da un altissimo ricambio di persone, le quali fuggono esauste e infastidite da lui, dai suoi comportamenti e dai silenzi collettivi che ne consolidano la posizione. Talvolta i componenti di questi gruppi, collettivi, organizzazioni si domandano il perché di questi esodi, ma sembrano non accorgersi del fatto che essi sono compiuti principalmente da persone svantaggiate in qualche asse di privilegio.

L’anarcomachista prende posizione: o sei la soluzione o sei parte del problema. Questo soltanto finché il problema è fuori dalla sua portata. Se un suo amico, parente, compagno abusa verbalmente, emozionalmente, psicologicamente, fisicamente o sessualmente di qualcun*, questa sua capacità improvvisamente sparisce e lascia il posto a una silenziosa, pacifica, violenta equidistanza. Non comprende che non credere alla vittima significa in automatico abbracciare la versione di chi l’ha resa tale.

L’anarcomachista riesce a riempire intere ore assembleari di lotte intestine, discussioni inutili e lunghe digressioni inappropriate piene di fuffa. Parla di teoria quando serve agire, e di azione quando serve pensare.

Riconosci ed estirpa l’anarcomachista che è in te e negli altri!

Compagn@ è una parola vuota

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I compagni, le compagne, siamo compagn@… compagn@ è una parola vuota, anzi una parola svuotata, però fa molto figo usarla per definirsi in rapporto alle/agli altr@ attivist@.

Siamo compagn@, oh sì che lo siamo, siamo così compagn@ che non solo non ci poniamo alcun problema a sbranare costolette di fronte alle/ai compagn@ antispecist@, prendendol@ pure, e nemmeno velatamente, per i fondelli, ‘st@ sensibilon@, ‘st@ mollaccion@, ma soprattutto ‘st@ cagacazzi! O magari usiamo l’approccio ‘politicamente corretto’, quello del “ohmaguardachenoic’abbiamol’alternativavegana”, che ci fa sentire taaanto comprensiv@ nei confronti dei pover@ disagiat@, che insomma oh, ma fossero questi i problemi del mondo… che poi di ascoltare una volta tanto, di ragionare, di metterci il cuore e tutta la bella compagnitudine non ci passa per l’anticamera del cervello – che forse forse quel privilegio che ci stanno facendo notare, quello per cui maciulliamo vite tra i denti senza rimorso, mentre ci sentiamo taaanto virtuos@, taaanto militant@, un pò ci infastidisce, eh, ma giusto poco poco…

Alla fin fine, per quale motivo ci dovremmo rinunciare? Tanto quegli esseri inferiori che sono gli altri animali non ce li ammazzano davanti  (occhio non vede, cuore non duole!). E anzi quando possiamo e ci sentiamo particolarmente ispirat@ una bella battutona acida su faccialibro, a ‘st@ spocchios@ gentrificat@ veg non ce la facciamo mai mancare! Poi beh, ovvio che anche i veg anticapitalist@ che si dedicano all’autoproduzione sono sciroccat@, ma ti pare che con tutta la militanza che c’è da fare c’abbiamo il tempo di farci il tofu? Essù, eddai!

Siamo compagn@, oh sì che lo siamo, e siamo taaaanto antisessist@, così tanto che quando le compagne ci propongono la serata postporno ah, sì che siam d’accordo, w il postporno! Alla fin fine lo sappiamo, si vede la fica no, quello mica ci spiace, poi va be’,  siamo tutt@ poliamoros@, però lo sai che quella ci prova con quell’altro mentre ‘sta con il terzo, beh chiaramente è una “gran troia”, però insomma, siamo antisessist@, certo, guarda io al corteo mi vesto pure di ROSA, adooooro il bike smut. Oh, però, scusa mi viene da parlarti al maschile anche se ti fai chiamare Anna, cioè, va bé, mica è un problema no, mica sei suscettibile come ‘sti finocchi…

Siamo compagn@, eccome no!? E’ perchè siamo compagn@, tanto compagn@, che se non ti presenti agli appuntamenti militonti con un’altr@ compagn@ certificat@ non sei un cazzo di nessun@, cioè magari sì, ti ho visto ogni tanto ai cortei o alle serate,  beh anche più di qualche volta, anzi, forse avevamo pure fatto un volantino insieme, che era venuto figo, sì sì ricordo…sì ma alla fine…CHI CAZZO SEI? E come cazzo ti permetti di dire la tua, cioè forse ti sei fatt@ delle idee, ma non sei NESSUNO. Perché per essere qualcun@ devi mangiare tanta merda, un pò di sano nonnismo militante tempra gli animi e seleziona solo i più puri, quell@ che saranno davvero compagn@, senza se e senza ma.

Car@ compagn@, che pronunciate più voi la parola ‘compagn@’ che le/i quindicenn@ la parola ‘cioè’, voi siete tutto tranne che compagn@: poi vi chiedete, ogni tanto, in un barlume di coscienza, come mai si è sempre in 4 stronz@ alle iniziative… beh, fatevi una domanda e datevi una risposta.

Anzi, oggi la risposta ve la suggerisco io: perché siete davvero tanto stronz@ e ipocrit@.

 

#ioleggoperché non mi piace

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In questi giorni si sente parlare di #ioleggoperché, iniziativa nata per mano dell’Associazione Italiana degli Editori. Ammirevole, no? Qualcuno si preoccupa dello stato della cultura in Italia. Un po’ come se la Monsanto organizzasse una convention di tre giorni sul mangiar sano con tanto di stand atti alla diffusione di intingoli vari: un vero e proprio festival dell’assenza del conflitto d’interesse. Questa giornata sembrerebbe glissare senza ritegno sul perché le persone in Italia non leggono; si limita a dare la non-lettura come dato assodato. Qualcuno si domanderà se uno, per costruire iniziative, debba necessariamente preoccuparsi di massimi sistemi. La risposta è sì, per forza, specie quando nel farlo si diffonde la retorica subliminale che l’atto di non acquistare carta implica necessariamente non acculturarsi in nessuna maniera, che in qualche maniera la quantità dei libri venduti sia un dato di importanza equivalente alla qualità degli stessi e che l’assenza di passione letteraria collettiva origina da una specie di bifolcaggine innata propria degli autoctoni della penisola. Italiani e italiane non leggono, ok, ma per quali motivi?

Perché non possono, direi. I costi dell’editoria sono decisamente eccessivi per le tasche vuote e semivuote. Sto forse dicendo che editing, traduzione e grafica editoriale non dovrebbero essere attività retribuite? Certo che no, ma il problema è che non lo sono neanche con i prezzi disumani che ci sono ora, visto che il grosso della moneta va alla distribuzione: qualcosa non va. Per quanto il privilegio economico, considerevole o relativo, imponga le fette di prosciutto su occhi orecchie ed empatia, ebbene sì, esiste chi si trova in questa situazione, e non si tratta nemmeno di un paio di persone. Fino a qualche tempo fa genitori e parenti facevano da ammortizzatore sociale consentendo un regime di economia ristretto ma non troppo che lascia spazio al tomo occasionale; adesso che il lavoro l’hanno perso anche loro viene meno anche questa possibilità. Un cosiddetto lettore forte col portafogli in buona salute spenderebbe senz’altro, ma quando si ritrova a vivere con altre tre persone barcamenandosi con l’unico reddito esistente presso quel domicilio, una pensione da 800 euro, tolti 600 di bollette e pendenze economiche di varia natura ne rimangono sì e no 200 che dovranno sopperire alla necessità di cibarie, medicinali, spese accessorie. Il nostro “lettore forte” inevitabilmente smette di acquistare libri, poiché costretto a scegliere tra Carlo Emilio Gadda e un piatto di pasta, riconosce quest’ultimo come più funzionale alla sua sopravvivenza fisiologica, necessità non soddisfatta in modo alcuno da etti di cellulosa inchiostrata. Le conseguenze sono evidenti: il nostro “lettore forte” passa dall’acquisto di una quindicina di volumi l’anno a zero, al massimo uno, due, forse tre. Replicando la stessa situazione su scala industriale ne conveniamo che parlare dei bilanci dell’editoria senza tenere conto del contesto economico in cui quella si muove è cosa profondamente insensata. Non possono anche perché coloro che tutto sommato hanno la vaga fortuna di non essere ancora ritornati a casa di mamma e papà a sfogliare compulsivamente siti di annunci alternando ore di ripetizioni e attacchi di panico, di solito hanno un qualche impiego, immancabilmente precario, che porta via loro una quantità folle di tempo ed energie. Dopo ore e ore di servizio ai tavoli, di attività da promoter e di sollevamento scatoloni in magazzino, l’istinto vitale tende a trasportare corpi verso il divano, non verso la Feltrinelli.

Perché non vogliono, aggiungerei. Fin dalla più tenera età l’avvicinamento alla lettura lo si subisce senza neanche remotamente viverlo in maniera autentica e men che meno goderselo. La scuola italiana è particolarmente efficace nell’educare (nel senso di “infilare nei crani approcci al vivere malsani ma socialmente accettati”) e disciplinare (verbo che, tradotto dal burocratese all’italiano, significa “trattare come dei carcerati”) ma non si può dire lo stesso della sua attività di accensione di scintille culturali. Non ho mai conosciuto finora nessun essere vivente avvicinatosi all’ossessione narrativa o saggistica tramite l’acquisizione cognitiva di pagine nozionistiche sui classici della letteratura italiana di qualche secolo fa. L’effetto sortito, di norma, è invece la nascita di intenzioni omicide nei confronti delle proprie letture obbligate, che non hanno sfogo solo perché nei programmi scolastici sembrano avere cittadinanza quasi soltanto autori già decomposti. I quali, a rigor di logica, non possono decedere per più di una volta. Ma solo biologicamente: l’attività di uccisione spirituale è pratica quotidiana, di demanio e competenza del ministero dell’istruzione.

“Pronti a tutto per conquistarvi”, dicono. Anche a cambiare i presupposti del paese e del mondo in cui vivete? Anche a smettere di piangere miseria se Amazon ha un bilancio più roseo del solito, specie se in alternativa gli proponete altre grandi catene, quindi nulla di sostanzialmente diverso, e non le librerie indipendenti? Anche a farla finita col feticismo elitario e gratuito per l’odore della carta, come se la piattaforma su cui si legge fosse qualcosa di davvero rilevante? Anche a dichiarare guerra al classismo editoriale? In attesa di una risposta, vado a leggere.

Attenzione alla genderdittatura – Deconstructing Zecchi

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Sì lo so, è facile divertirsi a decostruire “Avvenire”. In questo caso non so veramente resistere: Stefano Zecchi ha scritto cose molto belle sulle quali ho studiato – roba di Estetica, non vi state a preoccupare – e poi ha scelto un rincretinimento mainstream adatto a una carriera televisiva tutta fuffa e letteratura amena. Il suo esempio mi è molto utile: dimostra come anche un ordinario di filosofia riesca a dire delle panzane clamorose se il suo obiettivo – piacere a un vasto pubblico – è sufficientemente ipocrita. L’articolo è questo.

Zecchi: «Vigilare sui figli
Il gender è la nuova dittatura»

Si dice «d’accordissimo» che l’educazione comprenda anche il tema dell’omosessualità e che nessuna discriminazione sia accettabile, soprattutto a scuola, «ma [lo avete riconosciuto? E’ il noto “non sono razzista ma”] il trasformare questa convinzione in una battaglia politica è mistificatorio è violento nei confronti dei bambini [certo, non va fatta diventare una battaglia politica. Sono cose che ti devi tenere per te: sei favorevole alla parità dei diritti? Tienitelo per te]. Occorre reagire, là dove è possibile bisogna creare argini di confronto pacifico [notate bene, pacifico, perché di solito chi si batte per i diritti di tutti è violento. Visto quanto ci vuole poco a fare passare un’idea falsa e tendenziosa?]». Tra i genitori sconcertati dalle linee guida dell’Unar (i tre ormai famigerati volumi dedicati alle scuole elementari, medie e superiori, poi ritirati dal web) e dall’ideologia del gender imposta come indottrinamento fin dalla tenera età [ma sì, diciamolo, chissenefrega se è vero], c’è Stefano Zecchi, ordinario di Filosofia alla Statale di Milano e scrittore, ma anche [ma anche, attenzione, ciò che lo qualifica a parlare di un fantomatico “gender” è questo] padre di un bimbo di 10 anni.

Fiabe gay alle materne, problemini di aritmetica con personaggi omosessuali alle elementari, narrativa e film transgender alle superiori, la parole padre e madre cancellate dai moduli… Come si arriva a questo? A chi giova? [ma soprattutto: una cosa detta male e tre panzane, come si arriva a qualificarsi giornalisti potendo fare domande così?]
Ci sono due livelli di ragionamento [attenzione eh, vi voglio svegli. Pronti? Via]. Il primo è culturale filosofico, il secondo più pedagogico. Oggi in politica c’è una forte difficoltà a dare un senso culturale alle proprie differenziazioni [che cacchio vuol dire? Che sono ordinario di filosofia, quindi i paroloni non li spiego], così il laicismo proprio della sinistra ha trasportato il suo armamentario ideologico [il laicismo è una ideologia? Ho capito bene, Zecchi?] nel tema dell’abolizione dei generi [abolizione dei generi? Magari! Ma quando mai? Al massimo si parla della loro esistenza – Zecchi, sicuro di avere le idee chiare?]. Dire che i generi non sono più maschio e femmina ma addirittura 56 tipi diversi diventa la battaglia per un’identità politica [premesso che nessuno dice che non sono più quelli, ma forse che ce ne sono altri, certo che se parlo di persone di cui solitamente s’ignorano i diritti faccio una battaglia per un’identità politica: quello gli viene negato, mica è colpa loro!]. Come prima credevano sinceramente che il comunismo salvasse il genere umano e si riconoscevano nella moralità ineccepibile, così oggi sostengono che il gender salva dall’abbrutimento [complimenti per il sillogismo e per la catena causale, e per la corretta identificazione del laicismo proprio della sinistra]. Ma così la politica diventa biologismo, selezione della specie, darwinismo deteriore. Basta leggere i loro testi [quali? Loro di chi? Nomi, titoli? Se lo ricorda come si fa un testo attendibile, vero Zecchi, e come ci si riferisce correttamente alle cose altrui. Qui su Avvenire non vale?].

E sul piano pedagogico? La scuola è particolarmente nel mirino di queste folli ideologie. [il perché sono folli lo dovreste aver letto sopra eh]
È giusto che l’educazione comprenda anche l’omosessualità e soprattutto il rispetto delle differenze, ma senza portare il tema sotto le bandiere mistificatorie che vedo oggi. Una cosa è il dato biologico, altro è la sovrastruttura culturale: un giorno arriveremo a difendere il pedofilo, in fondo è un uomo che persegue una sua preferenza sessuale, e addirittura l’incesto… [queste quattro righe vanno lasciate così, senza commento, complimentandosi per lo sfoggio di vile ignoranza e di sinistra volontà di mistificare – sì, le uniche bandiere mistificatorie che si vedono in giro sono quelle di questi tizi ossequiosi a un potere che gli fa comodo]

La libertà di educazione per i propri figli è un principio costituzionale. Eppure oggi è minato da una “educazione di Stato” che gli ideologi del gender vorrebbero imporre. [notate il metodo: ciò che andrebbe dimostrato è dato per acquisito nelle domande. Quali ideologi? Quale imposizione? Non è mai detto, basta dare per scontato che esistono entrambi]
È chiaro che più si sa e meglio è, è persino banale dirlo, ma chi deve sapere? I docenti. Devono essere formati bene per prevenire ogni forma di bullismo, che crea vere tragedie personali [notate ancora: in mezzo si buttano argomenti con i quali è impossibile non essere d’accordo, come la lotta al bullismo], e fare mediazione tra le sensibilità della classe. Ma lasciate in pace i bambini: su di loro si sta esercitando un’ideologia violenta che non dovrebbe nemmeno lambirli [di nuovo: dove? Come? Come se fosse stato già dimostrato. Invece no]. D’altra parte è tipico dei regimi, che come prima cosa si appropriano delle scuole: questo sta diventando un regime [EH? Un regime gay? E dove sono le milizie armate di boa di struzzo che marciano al suono di You make me feel mighty real?] e infatti tutti hanno paura di reagire, anche solo dire che il padre è un uomo e la madre una donna è diventato un atto di “coraggio” [com’è noto, le milizie gay sono ovunque pronte a colpire con i loro dildoni d’ebano i poveri etero che tentano di sopravvivere]. Siamo al grottesco [sì, se un ordinario di filosofia spara ‘ste scemenze e ci crede pure, sì, siamo al grottesco].

Eppure alcune scuole si adeguano subito: via le fiabe perché il principe ama la principessa, via anche la festa del papà (chissà perché della mamma no)… [come al solito, non vi aspettate link: a saperle davvero, le cose, si scoprirebbe che non sono andate proprio così. Ma che ce frega, siamo il giornale della Cei, se Google ci contraddice noi lo scomunichiamo]
È il frutto di una demolizione della figura del padre che arriva da lontano, dagli anni ’70, quando si è cominciato a distruggere la famiglia dal “capo” [il discorso era un pochino più complicato, ma gli ordinari di filosofia in vena di ingraziarsi un pubblico fanno così: paroloni a cacchio e semplificazioni storiche a proprio vantaggio. So’ bòni tutti, Zecchi]. Sfasciata la famiglia è chiaro che dopo puoi sfasciare anche i due diversi ruoli di padre e madre, e che oggi sia a pezzi lo dice la facilità con cui si sciolgono i matrimoni [proverò a dirla alla francese: ma che cazzo c’entra?]: quando si accetta una visione così “allegra” di famiglia, aperta, senza legami, tutto diventa possibile. Annientare la madre è più difficile perché è la figura biologica [e te pareva], anche se affitti un utero è ancora femminile, finché almeno la tecnologia non riuscirà in cose mostruose [tranquillo Zecchi, gli ordinari di filosofia non è facile farli nascere a comando], e allora saremo di nuovo al nazismo [ci mancava, vero, lo spettro del nazismo? Adesso le truppe gay hanno anche divise di colore pastello]. Ma io non credo si arriverà a tanto [mah, guarda, se si è arrivati a ordinari di filosofia che pur di vendere qualche copia in più appoggiano pseuoricostruzioni storiche tra il ridicolo e l’opportunista…].

Lei è ottimista? La storia insegna che nei regimi si cade senza avvedersene. [la tipica storiella dei collaborazionisti: ci siamo svegliati ed eravamo fascisti, nessuno ha potuto farci niente. Del ruolo dei quotidiani e degli intellettuali tipo gli ordinari di filosofia, non ne parliamo]
Ormai la nostra società ha consolidato un forte individualismo [tipica caratteristica  dell’omosessualità, e degli altri 56 tipi diversi, no?], la teoria del gender non diventerà un fenomeno di massa, lascerà il tempo che trova: io non sono terrorizzato, sono disgustato, che è diverso [è più nobile – che uomo, che maschio!]. Tuttavia bisogna avere delle attenzioni, attrezzarsi perché i nostri figli possano crescere in una dimensione – religiosa o laica che sia – di libertà [sulla dimensione religiosa di libertà si è già espresso George Carlin]. Mia madre era maestra [e ti pare che non ci mettiamo in mezzo la mamma?] e per una vita ha insegnato nella scuola statale, io ho studiato e insegnato sempre nello Stato, lo stesso fa mia moglie… ma mio figlio studia in una scuola paritaria [eh, mica scemo]: lì ho la garanzia che cresca libero dall’arroganza degli “inappuntabili moralmente” [non essere omofobi è un difetto, secondo Zecchi. Complimenti]. Lo ripeto, non voglio crociate, dobbiamo creare argini di confronto pacifico [avete visto come si creano, no? Sparando stronzate e calunniando senza uno straccio di prova] e informare i docenti, ma non fare violenza sui piccoli. Chi ha autorità morale – oltre alla Chiesa anche la politica – si faccia sentire, la buona sinistra [la buona sinistra: quella che la pensa come me, detta più semplicemente] parli, dica la sua, ne abbiamo bisogno.

Esattamente quanto avremmo bisogno di ordinari di filosofia meno ignoranti e più onesti, Zecchi.

Cosa significa essere produttiv*?

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In quanto individuo che ha a che fare con la fatica perpetua datami dall’ansia, una delle punizioni verbali più creative e dannose che mi sono solertemente rivolto finora, è quella di non essere abbastanza produttivo – sentendomi di conseguenza travolto dai sensi di colpa. Questa convinzione possiede una discreta popolarità presso moltissime altre persone, in particolare coloro che hanno a che fare con il disagio psichico, o persone con disabilità. Lasciatemi dire che si tratta di un concetto ad alto tasso di balordaggine.

La nozione della produttività è radicata nelle idee capitaliste ed abiliste sul valore di un individuo. È assolutamente importante che si sia produttiv*, e non solo al lavoro, ma ogni maledetto istante. E cosa significa essere produttiv*? Quando siamo sever* con noi stess* per non essere produttiv* abbastanza, che significa? Possiamo provare a definire cosa significa la produttività per noi su un livello individuale, ma qualunque sia tale definizione mi riesce difficile separarla dalle già citate idee oppressive.  Penso che questa sia una delle maniere più subdole, comuni e incontrastate di internalizzare l’ideologia borghese e perpetuarla verso noi e gli altri.

Definire cosa significa produttività potrebbe essere un attimino più semplice se guardiamo a cosa non è. Stare online tutto il giorno, videogiocare, guardare un film, dormire, rilassarsi, compiere qualsiasi azione considerata passiva; sono tutte cose frequentemente bollate come non produttive, quando vediamo della gente autocriticarsi per come usano il proprio tempo non-lavorativo, non strutturato. Cose che non hanno un obiettivo predefinito. Sembra che non avere una lista delle cose da fare, cosa che peraltro io ho e aggiorno pedissequamente per via di una mia certa tendenza ossessiva alla pianificazione, sia una specie di crimine contro l’umanità nel peggiore dei casi e una imperdonabile perdita di tempo nel migliore.

Produttività, per alcun*, potrebbe significare impegnarsi in uno o molteplici interessi e passatempi, fare delle commissioni. Potrebbe significare lavorare senza sosta per quattro lavori diversi, ognuno con meno garanzie e più sfruttamento dell’altro; potrebbe significare fare ricerca, o avere moltissimi progetti in corso, organizzare e partecipare a manifestazioni, condurre un workshop dopo l’altro, scrivere articoli, mettere a posto l’armadio. Essere produttiv*, però, non include mai quella serie di gesti, azioni e comportamenti legati alla cura di sé.  Vedo molte, moltissime persone (creative in particolare) essere particolarmente dure nei loro confronti per non produrre abbastanza, specie se la ragione per cui ciò accade ha a che fare con le lotte che loro stesse ingaggiano per mantenere una buona salute fisica e mentale. Come fossimo catene di montaggio in miniatura, che subconsciamente si paragonano a fabbriche per la produzione di massa, che però non riusciremo mai a replicare per via delle ovvie, intrinseche limitazioni dell’essere un singolo individuo.

Il capitale è così profondamente immerso negli ingranaggi delle nostre vite che non capiamo nemmeno cosa diciamo davvero quando diciamo di volerci costringere a essere più produttiv*, o quando ci vergogniamo per non esserlo stat* abbastanza. Ci dimentichiamo di prendere tutto il tempo che ci serve per rilassarci e farci del bene perché siamo occupat* a raggiungere la quota immaginaria di produttività giornaliera. Perché i rituali quotidiani di cura di sé sono in opposizione ai nostri ideali di quella che è la produttività? Perché non è produttivo badare alle nostre necessità di animali umani?

Basta spingerci oltre ogni nostro limite, basta con la nozione della produttività e basta con l’idea che il nostro valore stia in ciò che riusciamo ad aver terminato a fine giornata. Il rispetto per noi stess* non è a cottimo. Cominciamo a lavorare sull’amarci quando ci diamo respiro.

Tanti fuochi, un giorno, dovranno pure ardere all’unisono

shutterstock_224210650Vorrei che il 2015 portasse via la precarietà, sarebbe bello se bastasse davvero un desiderio, un rintocco di lancette per spalare via tutta questa merda ma non è così, nessun cambiamento è mai arrivato in modo semplice ed indolore.

Alla fine dell’estate scorsa ho perso il lavoro. Non ne andavo fiera. Lavoravo a nero e con uno stipendio che sfiora l’assurdo, ma l’ho accettato perché non potevo dire di no. Essere indipendenti, ma rettificherei scrivendo “provandoci ad esserlo”, non è facile se attorno a te non trovi che sfruttatori/trici che fanno leva sul tuo bisogno per proporti lavori ad orari e stipendi assurdi. Quando ho provato a parlare della mia condizione c’è stato chi mi ha capito, chi si è mostrat@ solidale e chi, invece, mi ha detto che era colpa mia, che, infondo, me lo meritavo perché, accettando, avevo alimentato il mercato del lavoro a nero. Credo che si tratti delle stesse persone che, se vieni stuprata, ti dicono che te la sei cercata, come quando il poliziotto che ti ha spaccato il muso e rotto la testa ti dice che “se stavi a casa tua questo non succedeva”. E’ sempre colpa della vittima, lo abbiamo capito.

Da quando ho perso il lavoro ho provato a mantenere la calma e fare mente locale su tutte le possibilità che avevo a disposizione. E’ iniziata così la ricerca estenuante di un lavoro. Ho risposto a non so quanti annunci, messo non so quanti volantini per strada, ma ben poche sono state le chiamate ricevute.

Mi hanno chiamata per dare ripetizioni a due bambini per 50 euro al mese ciascuno, ma, almeno in questo caso, la famiglia era davvero con le pezze al culo quindi il prezzo era tale per impossibilità. Poi è stato il turno di una donna che pretendeva la stessa cosa nonostante non fosse per nulla indigente. Ho rifiutato entrambe le “proposte”, ma, non mi vergogno a dirlo, solo per la prima ho provato dispiacere.

I mesi passano e i pochi soldi che avevo risparmiato iniziano a decimarsi. Ero così al verde che ho dovuto chiedere al mio compagno, con cui ho una storia a distanza, di accettare il fatto che, per alcuni mesi, fosse solo lui a venire a Napoli a trovarmi perché non potevo più neanche permettermi il regionale per raggiungerlo.

Leggi tutto “Tanti fuochi, un giorno, dovranno pure ardere all’unisono”

Attenzione a non confondere gli ipocriti con gli ignoranti

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Immancabile, come sempre quando un efferato evento di cronaca nera vede coinvolta in qualche modo la rete o i social, spunta il genio della comunicazione virtuale, con il suo curriculum sbalorditivo, a commentare sulla rivista più ganza del momento che bisogna stare attenti a non fare di tutta l’erba un fascio. Vi prego di leggere:

http://www.wired.it/internet/social-network/2014/12/02/caso-pagnani-attenzione-non-confondere-carnefice-gli-imbecilli/

Ahimé al nostro erudito commentatore manca evidentemente la minima competenza in questioni di genere, e si vede. Perché non ci vuole molto a capire che la prima cosa da fare sarebbe, proprio in virtù della competenza in comunicazione, evitare la polarizzazione degli argomenti, puntando al solito scontro bianco/nero, colpevole/innocente, tu/io, di qua/di là, carnefice/imbecille, per cui nel caso di Pagnani che scrive su Facebook “Sei morta, troia”, alludendo alla moglie che ha da poco ammazzato, la questione si ridurrebbe a:

L’hai ammazzata tu? No,

quindi puoi mettere il tuo “mipiace” a quello status, condividerlo allegramente con una bella battuta, o anche esprimere lì sotto il tuo consenso sessista: sarai solo un imbecille, non sarai colpevole di niente.

Come se, tra l’estrema innocenza dell’imbecille e la certa colpevolezza del femminicida in questione, non ci fossero sfumature, possibilità, altre cose da valutare. Dice infatti il nostro pluridecorato dall’enorme curriculum, a proposito della sopracitata frase:

Si può davvero pensare che qualcuno dei trecento, leggendola, magari distrattamente sul proprio smartphone, abbia capito che il carnefice esultava per la mattanza della moglie e che chiedeva approvazione e condivisione del suo orrendo trionfo?
Si può davvero credere che, cliccando su “mi piace” quei trecento, abbiano inteso urlare al loro “amico” qualcosa tipo: “bravo, hai fatto bene ad ammazzare la tua ex moglie”?
Personalmente, lo escluderei.

E non me ne stupisco: questo è un commento tipico di chi non ha niente a che spartire con questioni di genere, che invece forse in un femminicidio un pochino c’entrano. Perché chi se ne occupa anche marginalmente, ha in mente questo facile disegnino esplicativo, riguardo i tipi di violenza sulle donne, col quale inquadrare la relazione tra quei commenti e l’assassinio della donna (qui l’originale in spagnolo):

triangolon - Copia

Oh, certo, non è che questo basta a condannare giuridicamente nessuno. Però indica chiaramente che chi commenta in quel modo, o usa quella frase per un proprio ilare commento, fa parte di una stessa cultura, di uno stesso modo di vedere i rapporti tra generi, la violenza sulle donne, e tante altre cosette, in comune con chi l’ha scritta. Certamente quei gesti e quelle parole su un social network non sono né “prove” né “indizi”, a farli e a scriverli non si ha nessuna colpa sanzionabile dalla legge – ma responsabilità di fronte a tutti sì, eccome. E non serve certo a nulla sapere se davvero lei era morta ammazzata o no, quando si è commentato, condiviso o cliccato “mi piace”: in quella piccola frase ci sono abbastanza sessismo e violenza per farmi credere – a me dal curriculum striminzito – che nessuno dovrebbe comunque condividerla, apprezzarla o sottoscriverla. E che chi lo fa non andrebbe premiato certo con l’innocua etichetta di imbecille, deresponsabilizzante come poche.

Perché tutti quelli probabilmente, attraverso un social network, non hanno detto a Pagnani “bravo, hai fatto bene ad ammazzare la tua ex moglie”, ma di certo gli hanno detto “ehi Pagnani, anche io sono un po’ come te”. Che indubbiamente non indica alcun reato – ma fa schifo lo stesso, pure sotto la simpatica e innocua etichetta di imbecille.

Ancora complimenti a tutti – anche agli specificatori di colpe pluridecorati e dal curriculum enorme ma, a mio parere, piuttosto lacunoso.