Di pippe all’asilo, ideologia gender e comici norvegesi

Non so se lo sapete – il tipico inizio di chi presuppone che i suoi lettori siano già d’accordo con chi scrive, ed è per questo che vi amo così tanto – ma da qualche tempo pare che ‘sta polemica sul “gender” abbia passato un po’ il limite. Anzi, ne ha passati diversi, perché come insegna il buon Carlo Cipolla, «sempre e inevitabilmente ognuno di noi sottovaluta il numero di individui stupidi in circolazione». E questo ha delle conseguenze, soprattutto se, com’è facile dimostrare, a trarne vantaggio sono sempre i soliti banditi – per usare ancora la terminologia di Cipolla.

parrocchiaCerveteri

L’extracomunitario stupido in divisa (avvisate Salvini)

In questa immagine potete vedere l’inizio di una comunicazione che un parroco di Cerveteri ha pensato bene di diffondere sul suo territorio, presa da questo luogo virtuale su facebook. Leggiamo che:

…i vostri figli saranno istigati all’omosessualità […] saranno invitati alla masturbazione precoce fin dalla culla […] obbligati ad assistere alla proiezione di filmati pornografici […] obbligati ad avere rapporti carnali con bambini dello stesso sesso.

Il tutto, secondo questo genio, accadrebbe in corsi presenti nel Piano di Offerta Formativa della scuola, cioè in un documento ufficiale di una struttura pubblica. E in più, il suo delirio di stupidità non è proiettato al futuro, ma è storia ed esperienza, perché

Queste cose sono già accadute nelle scuole in cui il gender è stato sperimentato, Italia compresa, producendo nei minori pianti, svenimenti e danni psicologici irreparabili!

Ovviamente, nessuna prova a riguardo. Perché prove non ce ne possono essere, dato che si parla di una cosa che non esiste né è mai esistita. Un qualunque avvocato, anche non particolarmente esperto di questi argomenti, potrebbe facilmente convincere il genitore ingenuo ma ancora fedele alla parrocchia che:
1) quel parroco si è reso colpevole del reato di diffamazione verso tutte quelle persone che lavorano nella scuola e per la scuola alla costruzione del P.O.F., dato che non può provare nulla di quanto afferma gravemente, gettando così discredito sulla sua persona e sull’istituzione che rappresenta (che poi questo non interessi manco alla suddetta istituzione è un altro discorso, ma vabbè);
2) il parroco non capisce niente di leggi e cita a vanvera le norme nazionali e internazionali sul diritto all’istruzione scelto dai genitori: una volta che hai iscritto la prole a una scuola, hai esercitato il diritto. Punto. Questo non si estende direttamente agli argomenti e ai contenuti, altrimenti ai miei figli avrei prescritto almeno cinque ore settimanali di storia dell’A.S. Roma.

Di solito a un extracomunitario in divisa che pensa di capirci qualcosa di questioni di genere e di diritto all’istruzione – e invece è solo, nei termini cipolliani, uno “stupido” perché col suo agire arreca danno a sé a agli altri – rispondo abbastanza esagitato che “l’ideologia gender non esiste” passando ad argomentare punto per punto le sue castronerie.
Ma così facendo rischio di essere stupido anche io. Passiamo a un argomento più serio. Dura poco, promesso.

Ma ‘sta ideologia gender esiste o no?

marescialli2Dice molto saggiamente l’amico Alessandro Lolli che sia “ideologia” che “gender” sono diventate parolacce a causa del loro uso politico da parte di una ben precisa cerchia di persone, che avevano e hanno ancora un interesse specifico affinché queste parole, sia separatamente che insieme, siano connotate negativamente – a questo tipo di persona affibbio il nome cipolliano di “banditi”.

E tuttavia quello che affermano gli studi di genere è una visione del mondo, di un mondo non presente, una visione rivoluzionaria di un mondo a venire. Non dobbiamo credere alle paranoie delle maggioranze accerchiate, questa immagine è falsa e offensiva. È terribilmente offensiva perché i nazisti, che sul tema erano sicuramente più vicini alle posizioni di Miriano e delle Sentinelle in piedi rispetto a quelle dei movimenti LGBT, hanno sterminato migliaia di omosessuali. È palesemente falsa perché la società occidentale è ancora dominata dal maschio bianco eterosessuale e le sue categorie strutturano le menti delle donne e degli uomini. La maggior parte delle persone crede che ci sia qualcosa di naturalmente maschile come la determinazione, l’aggressività e la passione per gli sport e qualcosa di naturalmente femminile come la dolcezza, la remissività e la mania dello shopping. Quello che De Beauvoir, Belotti e Butler, pensano delle donne e degli uomini, e di conseguenza quello che Chiara Lalli, Pasquale Videtta e Simona Regina riassumono nei loro articoli, è tutt’oggi enormemente distante da ciò che ne pensano le donne e gli uomini comuni.

In effetti tutti quegli stupidi che straparlano di gender senza averci mai capito niente si fanno rispondere che, come ho detto anche io spesso, la teoria del gender non esiste. Questo però tecnicamente non è esatto, perché anche quella proposta e difesa dalla chiesa cattolica è una ideologia gender, una delle tante possibili: “la natura ci fa uomini e donne eterosessuali, il resto è un’offesa al creato cioè a Dio, vallinferno punto”. Dire che non esiste è una tattica produttiva?

Ma se sono delle tattiche bisogna capire se funzionano, se raggiungono gli obiettivi. Forse localmente questa tattica è vincente, forse negare la propria radicalità per entrare nelle scuole, nei festival, negli ospedali, nelle istituzioni è efficace; ma ho dubbi sulla bontà strategica di questa ritirata nella non-esistenza. Mi ricorda una delle mosse che ha fatto la sinistra italiana per raggiungere la propria estinzione negli ultimi vent’anni.

Méttece ‘na pezza… (per gli esterni al GRA, la traduzione è: “non è facile da confutare, questo punto di vista”). E a proposito di pezze, a sostenere che l’ideologia gender non esiste si corre un altro rischio, come sottolineano Federico Zappino e Deborah Ardilli:

Sarebbe poco interessante replicare alle argomentazioni di ciascun negazionista, così interessato a sostituire idraulicamente la teoria del gender con gli irenici “studi di genere”, o con i programmi scolastici di “educazione alle differenze” volti alla decostruzione degli stereotipi o alla promozione di un maggior rispetto per le “diversità”, o a bacchettare col dito alzato sulla parola “teoria”, sostituendola con il plurale “teorie”, o con il rocambolesco “teorizzazione”. Sarà sufficiente digitare su qualunque motore di ricerca “la teoria del gender non esiste” per avere una panoramica sufficientemente ampia dell’allucinato dibattito in corso. Quale che sia il nostro giudizio sugli “studi di genere”, sulle “teorie” al plurale, sulle equilibriste “teorizzazioni”, sulla bontà della decostruzione degli stereotipi o sull’auspicabilità di una società più rispettosa, reputiamo innanzitutto più importante rinunciare a fare atto di sottomissione ai termini del discorso così com’è impostato, poiché attraverso questo discorso l’eteronormatività tenta di mettere una pezza ai problemi che essa stessa ingenera.

E anche questo è vero: a furia di dire che non esiste si assume come valido il paradigma discorsivo di chi il gender non lo vuole, e certo non si fa un favore a quel modo di vedere il mondo liberatorio e auspicabile per tutt* che invece l’eteronormatività continua a volere per sé, “concedendolo” più o meno e in vario modo a chi eteronormale non è. Rimane il fatto che non si può parlare allo stesso modo col parroco di Cerveteri e con Marzano e Muraro, che negano – loro sì – l’esistenza di qualunque gender non corrisponda alla loro ideologia. E allora?

Diceva qualcuno: tattica ed etica

Faccio un esempio personale, a proposito di esistenza o meno di ideologia gender.norwegian_glbt_pride_flag_postcard-r85f11401be624623bdb6c8ed413a7044_vgbaq_8byvr_512

Qualche settimana fa trovo sul solito gruppo facebook di difensori della famiglia naturale e di tutte le altre cose belle della chiesa loro ma non delle altre un link a questo documentario norvegese, nel quale il comico Harald Eia avrebbe fornito prove per le quali «il governo norvegese ha ritirato il finanziamento al Nordic Gender Institute nato a sostegno dell’ideologia del gender». Facciamo finta che queste parole abbiano un senso, e chiediamoci: mo’ che faccio?

Io ho fatto una cosa credo molto sensata: ho chiesto a una persona affidabile che sa il norvegese perché vive in Norvegia di aiutarmi a capire se quello che viene detto nel documentario, e ciò che si racconta di esso, è vero ed è andato proprio così. Con facebook è facile eh, è fatto apposta per conoscere gente. Non lo usate solo per farvi gli affari degli altri, ogni tanto usatelo per fare anche i vostri. Ne è risultato che, parole di Cinzia Marini che ringrazio per l’aiuto,

il centro di ricerca interdisciplinare per gli studi di genere non è stato chiuso. Nel 2012 il Consiglio nazionale per le Ricerche norvegese ha tagliato temporaneamente i fondi ad uno specifico programma di ricerca di genere, integrandolo in un programma di ricerca più generale. Il centro è ancora aperto e attivo come vedi dalla versione inglese del loro sito. Dopo il programma di Eia, che era tendenzioso nella scelta degli interlocutori ma ben fatto, sono divampate le polemiche. Quello che ha evidenziato sono debolezze non negli studi di genere tout court, ma indubbiamente in certi ricercatori, nelle loro attitudini e nel modo di esprimersi, che naturalmente hanno portato all’assurdo certe differenze di paradigma. Le critiche fatte in Norvegia sono soprattutto riferite all’impenetrabilità di certa ricerca e al linguaggio usato, oltre che alla mancanza di aperture verso il paradigma biologico, ma non hanno mai messo in discussione l’esistenza e la necessità degli studi di genere. Cathrine Egeland e Jørgen Lørentsen, i due ricercatori intervistati, sostengono che Eia ha tagliato passaggi centrali dalle loro interviste. Secondo me non ci fanno una bella figura. Cathrine Egeland lavora oggi all’istituto per al ricerca sul Lavoro dell’Università di Oslo, sempre su studi di genere. Nel 2012, dopo il programma, ha tra le altre cose pubblicato questo rapporto. Jørgen Lørentzen, l’altro ricercatore, ha fatto ricorso al Comitato etico dei Giornalisti accusando Eia di aver tagliato e redatto gran parte della sua intervista. Su questo sito, purtroppo in norvegese, puoi vedere i due spezzoni (quello intero e quello redatto) a confronto: Dette sa Lorentzen til «Hjernevask». Lørentzen parla ad esempio molto del fatto che alcune teorie riducono l’essere umano al suo genere, mentre la faccenda è molto più complicata. Registri, emozioni, capacità di cui veniamo privati. Dice anche chiaramente, a proposito di domande precise sulla biologia, “questo non lo so, non è il mio campo”.

L’ideologia gender esiste anche se forse i due ricercatori norvegesi non l’hanno sostenuta molto bene, e anche se un comico con grossi pregiudizi – il suo documentario era certamente orientato verso una tesi da dimostrare a tutti i costi – prova a sostenerne l’infondatezza. L’uso strumentale, arbitrario e in evidente malafede della faccenda è un’ovvia conseguenza, quando si hanno amici politici come il parroco di Cerveteri.

In questo caso ci vuole un po’ di attrezzatura in più del solito – compresa un’onesta amica che vive in Norvegia – ma rimane il fatto che chi costruisce discorsi oppressivi alla fine viene fuori chi è, anche se invece di inventarsi balle, diffamare e parlare a vanvera oppure cantilenare ipocrisie perché sta in cattedra fa un bel documentario tecnicamente perfetto e apparentemente oggettivo.

norway_gay_pride_tshirt-r1dc9e7c2e76646e789d5ac7f557d2c6c_8nhmm_512Bene, la critica l’ho capita e starò più attento: invece di dire l’ideologia gender non esiste dirò «queste stronzate che vai dicendo sono solo pietose difese, non sai neanche di che stai parlando quando usi quell’espressione», oppure «non provare a rigirare le cose come ti fa più comodo, sai solo manipolare le chiacchiere», o anche «egregi* professor* non provi a nascondere o a dedurre cose perché non ci casco, lei è un* ipocrita»Il tutto seguito da argomenti convincenti non su qualcosa che non esiste, ma su qualcosa che esiste e che evidentemente è molto fastidiosa per chi ha un qualche potere patriarcale.

Anche io, in fondo, sono un ideologo del gender.

Ipocrisia alta a Venezia – Deconstructing Brugnaro

sidivertono La vicenda dei libri per bambini e del sindaco di Venezia immagino che la sappiate già:

«L’avevo promesso in campagna elettorale e l’ho fatto», ha spiegato Brugnaro, «ho dato ordine agli uffici che vengano ritirati tutti i libri con genitore 1 e genitore 2 dalle scuole, ma non dalle biblioteche, dove c’è libertà di scelta». Per Brugnaro sono «i genitori a doversi occupare di educare i figli su queste cose, non la scuola. Noi non vogliamo discriminare i bambini, a casa i genitori possono farsi chiamare papà 1 e papà 2 ma io devo pensare a quella maggioranza di famiglie dove ci sono una mamma e un papà».

Queste le alate parole del sindaco. Nei fatti è andata ancora peggio, perché la lista dei libri ritirati è parecchio grande.

Non staremo a fermarci troppo sulla figura del sindaco, che come tutti quelli che dicono di essere né di destra né di sinistra, nei fatti è di destra. Non ci soffermeremo sulla totale incompetenza in merito di chi decide una cosa del genere – non è solo lui, immagino i fior di professionisti della formazione interrogati in proposito – né sulla banale osservazione che tutto ciò s’inserisce perfettamente nel quadro della propaganda cattolica contro la sua stessa invenzione, la teoria del gender. Ci faremo invece due risate amare sul comunicato che il sindaco ha voluto fare “in risposta” alle polemiche sollevate dalla sua decisione. Ecco il link e il testo.

http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/84108

Denunciamo la polemica inerente quelli che sono stati definiti i libri sulla teoria gender. Ne è nata una speculazione culturale che non ci intimorisce.

Ah, la speculazione culturale la farebbe chi protesta, e non chi ritira i libri dalle scuole? Per rispondere alla domanda “cos’è una speculazione culturale” basterebbe andare a vedere chi li ha definiti libri sulla teoria gender. Libri scelti poi, si suppone, da professionisti dell’insegnamento: i quali vengono così deliberatamente accusati di non saper fare il loro lavoro. Ma sì, tanto agli insegnanti in Italia si può fare tutto, chissenefrega: c’hanno tre mesi di vacanza all’anno, ci manca pure che possano capire qualcosa. E poi il sindaco non si fa intimorire – notate come lui, come tutti i sostenitori della fuffa gender, si pone subito dalla parte di chi subisce qualcosa, di chi si deve difendere, di chi tutela una libertà violata. Quale? Non si sa.

Non potendo avere una visione completa ed esaustiva della questione, si è preferito ritirare tutti i libri distribuiti dalla precedente Amministrazione in modo da poter verificare serenamente e con piena cognizione di causa quali siano, e soprattutto quali non siano, adatti a bambini in età prescolare.

Il sindaco ammette che né lui né la sua amministrazione sono in grado di avere una visione completa ed esaustiva della questione, quindi invece di fidarsi della professionalità altrui – chi ha scelto i libri – li ritirano tutti e via così. Non sappiamo quali medicine fanno davvero bene e quali male, chiudiamo le farmacie. Non sappiamo quale cibo sia più o meno avvelenato da porcherie chimiche, quindi chiudiamo i supermercati. Queste sono assurdità, mentre ritirare i libri no. Chi è che farebbe, allora, una speculazione culturale? E poi, oh: solo quelli distribuiti dalla precedente amministrazione. Questa non sarebbe, invece, una speculazione politica? Allora perché non tutti? Cosa assicura che due amministrazioni fa i libri distribuiti non parlino di zozzerie che fanno piangere Gesù?

Il vizio di fondo è stata l’arroganza culturale con cui una visione personalistica della società è stata introdotta nei nidi e nelle scuole per l’infanzia unilateralmente, in forma scritta e senza chiedere niente a nessuno, in particolar modo alle famiglie.

Notate la scelta lessicale: vizio. Non errore, né sbaglio, né abuso: vizio. Cosa ricorda in un paese cattolico la parola vizio? Il vizio sarebbe stato introdurre ai bambini discorsi sulla diversità, che notoriamente è una visione personalistica della società. Quindi secondo Brugnaro più difendo la diversità di genere più sono egoista. Ma sì, contraddiciamoci pure, chi vuoi che se ne accorga? Io non sono né di destra né di sinistra e ho vinto le elezioni, quindi IO posso fare le cose senza chiedere niente a nessuno. Qualcuno ha idea della burocrazia necessaria a far adottare un libro a scuola? Di questa decisione ne devono essere a conoscenza un esercito di persone e c’è da imbrattare un sacco di carta. Invece secondo il sindaco ci sono egoisti in paillettes e boa di piume che entrano nottetempo negli asili a piazzare libri peccaminosi all’insaputa dei genitori – tra l’altro, se fosse così, come avrebbe potuto il sindaco produrre una lista tanto precisa? Evidentemente, la cosa era nota e approvata da tempo dall’amministrazione, e quei libri erano nelle scuole da un pezzo. Perché adesso è un problema e prima no?  Dov’erano i genitori all’insaputa, prima?

I genitori dei piccoli devono, invece, avere voce in capitolo su aspetti determinanti che riguardano l’educazione dei loro figli e non esserne aprioristicamente esclusi.

Aprioristicamente esclusi? Ma questo non è il paese dove per far venire i genitori alle riunioni non si sa più che inventarsi? Questo non è il paese dove fare il rappresentante di classe è considerato una rottura di scatole seconda solo a una ispezione di Equitalia? Questo non è il paese dove i genitori temono come la peste i messaggi del gruppo Wazzup con gli altri genitori di classe e la maestra, per paura che ci sia un lavoro da fare o qualche euro da dare per i servizi primari della scuola? Questo sarebbe il paese che esclude i genitori dalla vita della scuola?

E’ quindi nostra intenzione esaminare con cura e obiettività i testi, non distribuendo quelli inopportuni per i più piccoli, che pure restano liberamente consultabili da parte degli adulti nelle biblioteche.

E chi li esaminerebbe? Con quali criteri smentire la distribuzione già fatta? Inopportuni perché, dato che rimangono nelle biblioteche? E perché consultabili da parte degli adulti, dato che sono libri per bambini e anche loro vanno in biblioteca? Ma qualcuno che ha una minima preparazione in queste questioni lo ha riletto questo comunicato?

Molti libri, che trattano i temi legati alla discriminazione fisica, religiosa e razziale, sono notoriamente straordinari e verranno certamente ridistribuiti, come ad esempio le opere di Leo Lionni “Piccolo blu e piccolo giallo” e “Guizzino”. Le riserve riguardano, invece, alcuni testi come “Piccolo uovo” di Francesca Pardi o “Jean a deux mamans” di Ophelie Texier.

Sì, qualcuno che ci capisce lo ha letto, evidentemente, dato che alcuni nomi sembrerebbero esclusi – anche se per ora sono ritirati come tutti gli altri, la cui pericolosità è stata ben individuata. Allora i criteri li hai o no? Perché dire ancora che c’è da valutare? La lista l’hai fatta, sindaco, ormai quelli li ho buttati! Adesso mi dici che qualcuno invece andava bene? Attenzione: vanno bene quelli che trattano i temi legati alla discriminazione fisica, religiosa e razziale. Della discriminazione sessuale, del sessismo, del maschilismo, dei diritti LGBTQI, non si deve far sapere niente soprattutto ai bambini. E’ su questo che genitori e sindaco sono all’erta. Solo su questo.

Sarà un lavoro di analisi fatto con cura e attenzione, anche approfittando del periodo estivo e delle vacanze scolastiche, valutando quali siano le persone più adatte a questa selezione ed evitando, così, ulteriori diatribe e strumentalizzazioni di un argomento che, ad oggi, ha fatto anche troppo parlare di sé.

Facciamo le cose d’estate, che nessuno ne ne accorge, e poi di questo argomento si è anche parlato troppo – però che politica nuova che fa il sindaco della lista civica, davvero un rivoluzionario. Come farebbe poi una amministrazione che sulla lista dei libri da ritirare ci ripensa in pochi giorni a saper valutare quali siano le persone più adatte rimane un mistero. Ma mica tanto misterioso: basterà scegliere tra genitori all’insaputa e dottissimi sostenitori della fuffa gender. Non vedo l’ora di sapere. Intanto gira tra estremisti cattolici e cattolici in divisa questo simpatico modulo da usare per il prossimo anno scolastico:

DichiarazioneGender

Questo lo firmeranno quei genitori che per riparare il loro impianto idraulico esigono professionalità; per la loro salute esigono trasparenza; per la gestione dei loro risparmi esigono trasparenza e convenienza; per i loro acquisti esigono la qualità e il risparmio. Per decidere dell’istruzione dei loro figli no, bastano loro.

Complimenti.

La mignotta nella testa

new_zoe_rainbow_fade_back__21708__10771_std

Bene, finita la mania dell’arcobaleno? Per carità, c’è da essere contenti che un uomo nero dichiari legale il matrimonio gay da presidente del suo paese, e che quel paese sia la guida economica – e non solo – di tutto l’occidente.  Non è male, ma la strada è ancora molto lunga, e non è detto che quella imboccata sia la direzione giusta.

Il matrimonio è comunque un contratto che fa parte di una gamma di istituzioni tipicamente patriarcali, strettamente connesso con un certo concetto di famiglia, certi dispositivi legali di diritto ereditario, un preciso modo di concepire e regolare i rapporti tra i generi… insomma sì, va bene, beati monoculi in terra caecorum, ma non è che il tutto sia scevro di critiche. Anche perché il silenzio tombale su libertà di aborto, per dire, non è che prometta niente di buono per il futuro.

Prima di tutto c’è il solito dubbio, sui provvedimenti sociali calati dall’alto, che questi siano una bella operazione di facciata e/o di opportunismo politico: rainbow washing(ton)? Forse sì, in un paese dove già ci si lamentava dell’eccessivo marketing arcobaleno in tempi non sospetti. Poi ci sarebbe – ripeto, pur nella dovuta gioia per chi aspettava comunque da decenni un minimo traguardo di civiltà – da fare un raffronto tra paesi, prima di essere contenti. Qui è stato facile farsi invadere da tante mode USA, ma per questa temo che ci sarà qualche ostacolo in più rispetto al jeans, al rock’n’roll, e così via.

No, perché intanto che milioni di italiani si sono arcobalenizzati il profilo facebook, in Italia si continua non solo a stuprare, ma a dare la colpa a chi viene stuprata. E a pensare alla castrazione come a una soluzione al problema. Sì, la castrazione, la versione chirurgica delle ruspe salviniane: la rimozione fisica della “causa visibile” del problema. L’incontrollabile libido dello stupratore, l’incontrollabile alloggio del nomade. Entrambi da spazzare via, da annullare. Non a caso entrambe le soluzioni arrivano proposte dalla stessa parte politica.

Forse dipende dal fatto che qui, sempre dall’alto, è calata una fantasmatica “teoria del gender” per costruire una nuova propaganda contro ogni forma di educazione sessuale? Forse perché in questo paese un pensiero omofobo e patriarcale come il cattolicesimo permea così tanto il senso comune da rendere credibile che la “famiglia tradizionale” sia in pericolo – la stessa famiglia che viene accusata di lasciare in giro una sedicenne a mezzanotte? Forse questa micidiale miscela di ipocrisie ha come risultato – uno dei tanti – che un tizio pagato dal paese che non spende una lira in educazione sessuale, ma milioni di euro in educazione militare (“i nostri marò!”), stupri una sedicenne spacciandosi per un altro tizio in divisa, e un numero schifosamente grande di persone pensa che lei se la sia cercata?

Difendiamoci pure, noi con milioni di profili con l’arcobaleno, pensando la solita storia del malato, dell’eccezione, dello schifoso-gliela-farei-vedere-io. Come già detto in occasione del poliziotto che tortura (che dite, ci sarà un legame pure tra cultura patriarcale e difesa della violenza di Stato?), non è una mela marcia: è l’albero che ha qualcosa che non va.

alberodimerda

Ci sarebbe anche da dire, date le migliaia di commenti che danno alla sopravvissuta allo stupro – ricordo, minorenne di anni 16 – della “zoccola”, che di fronte a questi esempi di cultura popolare forse le discussioni sul sex working sono un po’ premature, in Italia – anche se comunque necessarie. Nel senso che se anche domattina, per un magico caso del destino, venisse approvata una splendida legge che con un colpo solo combatta efficacemente la tratta internazionale, smantelli il regime di schiavitù di migliaia di prostitute a forza e permetta a chi vuole di prostituirsi legalmente – avremmo cambiato qualcosa per le milioni e milioni di “mignotte” nella testa degli italiani e delle italiane?

No. Quelle saranno sempre lì, pronte a saltar fuori al prossimo incrocio, al prossimo divorzio, al prossimo stupro, pronte per il maschio italico e i suoi nobili istinti. E attenzione: i suoi sono nobili, perché se sono di uno non al 100% italiano nell’aspetto o nel sangue, allora: a casa! Linciaggio! Ruspa! Castrazione!

Ah, a proposito di leggi: dice che non basta mica fare le leggi, perché ci sono pure i tribunali da cui difendersi. Eh sì, difendersi, perché se sei una sedicenne stuprata da amici in gruppo, ti può succedere che

tu vai avanti, ti fai la tua battaglia in Tribunale, ti sottoponi a perizie e controperizie, parli con psichiatri, psicologi e magistrati. Racconti la tua storia e provi a non ondeggiare nella fiducia: ti crederanno, tu sai che stai dicendo la verità. E in qualche modo lo crede anche il giudice che per le infinite pagine della motivazione della sentenza, che assolverà i tuoi stupratori, riconosce l’onestà delle tue parole. Solo che non ci sono le prove: “Se è vero che il comportamento passivo della vittima – si legge nelle motivazioni della sentenza – e il fatto che scivolasse nella doccia avrebbero dovuto indurli a sospettare che la stessa avesse perso la lucidità necessaria per presentare un valido consenso all’atto sessuale è altrettanto vero che l’assenza di azioni di respingimento e di invocazioni di aiuto avrebbero potuto ingenerare la convinzione che la 16enne fosse consenziente”.

No, ma non è un problema culturale, no no. Ci vuole la legge. Certo, come no.

Ripeto: ben felice che altrove qualche traguardo – anche se discutibile – venga raggiunto, anche se dall’alto e tramite una legge. Però preferirei che qualcosa cambiasse anche da queste parti, dal basso e nel sentire comune. E’ molto più faticoso, ma i risultati sono sicuramente più duraturi. Sarà il caso di cominciare presto, dalle scuole, dai centri antiviolenza (anche maschili)… o no?

Ignoranza di genere #2

poracci

Diciamocelo: la recente manifestazione reazionaria e razzista messa in scena in Piazza San Giovanni a Roma, ironicamente chiamata dai diabolici organizzatori Family day, ha avuto l’indiscusso merito di far venire alla luce – non ce n’era gran bisogno, ma pazienza – un nutrito gruppo di intellettualoni capaci di sparare ciclopiche sciocchezze. Su cosa? Ma sui grandi sconosciuti della cultura italiana: gli studi di genere.

Visto che non vogliamo far torto a nessun*, rispetto alla prima puntata di “Ignoranza di genere” stavolta saranno perlopiù gli amici maschietti a tenere la scena, e scelti dal fior fiore degli intellettuali. Prima però d’immergerci nel simpatico clima di quel giorno, permettetemi qualche riga su un gustoso prodromo – tra i tanti sceglibili.

Nei giorni precedenti il famigerato giorno della famiglia c’era stato – vale la pena ricordarlo – il mitico Pietro Citati a dargli di fuffa, sfornando un favoloso articolo a proposito (?) del referendum irlandese sul matrimonio gay. Il suo appello agli omosessuali a “non essere banali” se la batte con qualcuna delle sue tremende quarte di copertina, che hanno gettato nello sconforto più generazioni di lettori. Il talento è quello, perché passare da un’affermazione come

Mentre conquistano i propri diritti, gli omosessuali pretendono di essere come gli altri: ciò che certo non sono

confondendo l’avere (i diritti) con l’essere (gay), a una perla come

I grandi omosessuali hanno un profondo orgoglio del loro ego: talora un disprezzo dei cosiddetti esseri normali, e della loro vita comune.

ci vuole solo la forza visionaria di chi pensa che tutti i gay siano come l’immagine di sé che raccontava Oscar Wilde, non a caso messo in foto. Va bene, direte voi che siete più buoni di me: ma Citati sta sempre lì nei libri, non è che ci possiamo aspettare una grande capacità di conoscere la realtà più quotidiana, o quello che studi sociali raccontano da decenni. Lui si occupa di letteratura. Epperò, dico io, tra le altre amenità è capace di uscirsene con una bella fascistonata tipo questa:

Nel caso degli omosessuali si aggiunge la coscienza della violazione e delle violazioni che essi impongono ai costumi di quella che resta la maggioranza.

Niente male eh? Secondo Citati i gay impongono violazioni ai costumi della maggioranza, cioè sono una minoranza che impone cose ai più: Citati crede, in sostanza, alla “lobby gay” che governa il mondo. Oh: questo è il pensiero di uno chiamato a fare il commento autorevole alla cronaca sul più diffuso quotidiano italiano. E non a caso: un’ammiccamento agli amici del Vaticano lo vogliamo dare? Eccolo:

In quasi ogni omosessuale, c’è qualcosa di demoniaco; ed è la coscienza di quella che molti di loro considerano la propria orgogliosa altezza spirituale.

E via con i gay demoniaci tra fumi di zolfo e zampe caprine, ché se ne vantano pure. Complimenti per l’autorevolezza e la preparazione.

Ma veniamo al giorno fatidico del 21 Giugno. Apre le danze Guido Ceronetti, che non ha voluto far mancare il suo augusto giudizio su Samantha Cristoforetti, chiamando in causa nietepopodimeno che il vecchio Sigmund:

Per un’analisi freudiana si potrà interpretare una donna fluttuante fuori gravità come desiderio soddisfatto di un rapporto incestuoso col padre, senza nozze tragiche, senza esplicazione, irrorazione e amorosa redenzione scenica.

Incestuosa in quanto astronauta donna: però, che profondità di analisi. Tanto Ceronetti aveva già deciso che una così non è neanche donna, ormai:

Di fisiologia ginecologica la sfidante intrepida non avrà certamente avuto più nessuna traccia, fin, credo dalla base, come in un evento patologico.

E insomma questo poeta caricato a cultura misogina è l’intellettualone cui dà spazio Repubblica. E adesso che ci siamo scaldati con gay e donne, passiamo alla famiglia.

Il Fatto Quotidiano vuole sbaragliare la concorrenza in fatto d’ignoranza e intellettualmaschilismo, e molla un pezzo da novanta: Diego Fusaro. Il quale, da vero filosofo, ci tiene a dire che

Non è mio interesse parteggiare per l’uno o per l’altro dei movimenti. Mi interessa, piuttosto, comprendere un ben più profondo fenomeno, che è oggi in atto, e che – ho cercato di argomentarlo nel mio studio Il futuro è nostro (2014) – coincide con la distruzione capitalistica della famiglia.

Questo è il suo pallino, oltre a quello di farsi pubblicità: i movimenti LGBT sono servi del capitalismo, che vuole disfarsi di Hegel per ragioni di vile danaro. Senti qua che roba:

Così, se la “destra del denaro” decide che la famiglia deve essere rimossa in nome della creazione dell’atomistica delle solitudini consumatrici, la “sinistra del costume” giustifica ciò tramite la delegittimazione della famiglia come forma borghese degna di essere abbandonata, silenziando come “omofobo” chiunque osi dissentire.

Capito? Destra e sinistra (che non esistono, ma quando serve sì) collaborano a bollare come omofobo chiunque tenti di difendere – da cosa non è dato sapere – la famiglia come forma borghese. Se non bastasse questa ben ponderata e profonda visione delle cose, c’è a testimoniare la sua preparazione negli studi di genere questa bella frasetta esplicativa:

Chi, ad esempio, si ostini a pensare che vi siano naturalmente uomini e donne, che il genere umano esista nella sua unità tramite tale differenza e, ancora, che i figli abbiano secondo natura un padre e una madre è immediatamente ostracizzato con l’accusa di omofobia.

Ma infatti, perché documentarsi? Meglio seguire le orme storicamente reazionarie, e non ci si sbaglia mai. Segue ammonimento a suon di Orwell. Peccato, un passo di Hegel ci sarebbe stato meglio. Per esempio, che ne so, questo?

L’uomo, quindi, ha la sua vita effettiva, sostanziale nello Stato, nella scienza, ecc. e, in genere, nella lotta e nel travaglio col mondo esterno e con se stesso, sì che egli, soltanto dal suo scindersi, consegue, combattendo, la sua unità autonoma con sé, la cui calma intuizione e la cui eticità soggettiva sensitiva egli ha nella famiglia, nella quale la donna ha la sua destinazione sostanziale, e in questa pietà il suo carattere etico. (Lineamenti di una filosofia del diritto)

Eccola, la famiglia hegeliana tanto amata da Fusaro: l’uomo fa il cittadino e il filosofo, la donna bada alla casa. Eh sì, molto naturale e poco capitalistico. Oh, per inciso, non è che poi i detrattori di Fusaro siano tutti meglio di lui, eh: tal Raffaele Alberto Ventura, citato da Minima&Moralia da molti per perculare Fusaro, è uno che nel suo post più noto in proposito, spara ‘na cosa come

… su Judith Butler e la teoria del gender, marginalissima moda intellettuale non più rilevante del balconing…

cioè chiama Judith Butler, filosofa coi fiocchi da qualche decennio, una moda intellettuale rilevante quanto una idiota moda giovanilistica, e chiama gli studi di genere col nome che gli danno i fanatici cattolici in vena di propaganda e fuffa: teoria del gender. Che sia facile smontare gli argomenti di Fusaro è noto, ma non ci si potrebbe documentare meglio sulle cose che evidentemente non si conoscono? A rifletterci ci sarebbe un problema, a tradurre spensieratamente l’inglese gender: cioè almeno cinquant’anni di studi seri che nel mondo anglosassone, com’è ovvio, hanno cambiato da un pezzo l’uso di quella parola. Se io la spendo qui in Italia senza minimamente avvertire chi legge, sto o no facendo una pessima operazione culturale? Sì, sto facendo una pessima figura – sempre supponendo la buona fede. Se no evidentemente mi fa comodo usare gender e “genere” come sinonimi, come se niente fosse.

Operazione che avrebbe dovuto fare Michela Marzano, la quale scrive con la volontà di fare chiarezza teorica sul problema. Prima di tutto non ci pensa nemmeno per un attimo a fare la cosa che andrebbe fatta sempre e subito cominciando discussioni o articoli su questi temi: dire che la “teoria del gender” non esiste, è un’invenzione fatta per motivi politici e propaganistici che ha autori precisi e noti come i suoi scopi – oppure dire che quella cattolica è una delle tante possibili gender ideology, e che la Chiesa la difende strenuamente spacciandola per verità naturale. Invece usa allegramente quell’espressione come fosse il solito sinonimo spendibile tranquillamente, e poi pensa bene di divulgare cose sostenendo che

C’è chi si è concentrato sugli stereotipi della femminilità e della mascolinità, cercando di mostrare che è da bambini che si introiettano modelli e comportamenti […] (si pensi alle ricerche di Nicole-Claude Mathieu, di Françoise Collin e di Luce Irigaray)

le quali sarebbero le prime a sorprendersi di vedersi attribuiti quegli argomenti. Marzano procede poi nominando un tale Jonathan Katz che è o un comico o il director of the Maryland Cybersecurity Center at the University of Maryland. Probabilmente si voleva riferire a Jackson Katz – ma chi volete che lo conosca, in Italia? Appunto: nessuno e pochi altri. Dopo queste altre approssimazioni, la conclusione è che

Si capisce quindi bene come non esista una, e una sola, “ideologia gender” ma un insieme eterogeneo di posizioni. Alcune più radicali, altre meno. Alcune talvolta eccessive, come certe posizioni queer di Teresa de Lauretis.

Grazie Marzano! Finalmente abbiamo detto non che l’ideologia gender non esiste, pensando al pubblico italiano, ma anzi che ce ne sono tante, pensando a tutto il resto del mondo; e qual è quella eccessiva? Quella delle gerarchie cattoliche, attive fin dagli anni ’90 nella loro propaganda anti LGBTQ? No! L’eccessiva è quella «queer di Teresa de Lauretis» – eccessiva solo per Marzano ovviamente, e non ci viene detto perché, anche se è facile intuirlo dalla citazione evangelica che chiude il pezzo.

Infine il 23, last but not least, arriva Paolo Ercolani (ve lo ricordate? E’ quello che l’otto marzo ha scritto alle donne di «restare donne», annunciando un suo libro in proposito). Il nostro pensa bene, o lui o chi gli fa i titoli, di lanciare un richiamo alla Antonelli appena morta tra i commenti sessisti di moltissimi, chiamando il pezzo “Sesso matto”. I primi complimenti sono per questa scelta di gran gusto. Poi anche lui si lancia a criticare Fusaro, cosa poi non tanto difficile, proprio sulle fonti, sui tanto venerati maestri che i due hanno in comune. Cioè, sulla questione “famiglia” Ercolani pensa bene di difendere Hegel, così:

Nel caso di Hegel la fami­glia deve essere supe­rata da una «società civile» in cui si eser­citi la piena libertà indi­vi­duale, non­ché da uno Stato che non si lascia rego­lare da dogmi ideo­lo­gici e men che mai reli­giosi nell’esecuzione del pro­prio governo e nella pro­mul­ga­zione delle leggi.

La citazione riportata più sopra spiega bene chi sono per Hegel i membri della società civile: solo gli uomini e le donne no. Aggiungiamo un’altra citazione hegeliana che spiega il perché le donne non possono essere cittadine come gli uomini:

Le donne possono, certamente, esser colte, ma non sono fatte per le scienze più elevate, per la filosofia e per certe produzioni dell’arte, che esigono un universale. Le donne possono avere delle trovate, gusto, delicatezza; ma non hanno l’ideale. La differenza tra uomo e donna è quella dell’animale e della pianta; l’animale corrisponde più al carattere dell’uomo, la pianta più a quello della donna; poiché essa è più uno svolgimento quieto, che mantiene a suo principio l’unione indeterminata del sentimento. (Lineamenti di filosofia del diritto)

Tutto ribadito abbondantemente anche nella Fenomenologia dello spirito, come vedremo. Niente male eh? Difendere la famiglia in Hegel contro Fusaro è davvero un’idea geniale. Bravo Ercolani. Il quale poi passa a difendere il caro Marx:

Ma è lo stesso Marx che con­si­de­rava la «fami­glia» come un ele­mento fon­da­tivo di quello stesso sistema capi­ta­listico, tanto da defi­nirla un micro­co­smo in cui si repli­ca­vano gli stessi rap­porti di forza e di sfrut­ta­mento (a danno della donna) tipici del macro­co­smo della società capitalista.

dimenticandosi – lui e per un bel po’ un sacco di pensatori sedicenti marxisti – che due cosette in proposito le aveva scritte anche Engels, che non ci crederete ma era capace di scrivere anche senza l’amico Karl. E scriveva roba così, in un testo intitolato, guarda caso, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato:

Col passaggio dei mezzi di produzione in proprietà comune, la famiglia singola cessa di essere l’unità economica della società. L’amministrazione domestica privata si trasforma in un’industria sociale. La cura e la educazione dei fanciulli diventa un fatto di pubblico interesse; la società ha cura in egual modo di tutti i fanciulli, legittimi e illegittimi. E con ciò cade la preoccupazione delle “conseguenze”, la quale oggi costituisce il motivo sociale essenziale – sia morale che economico – che impedisce ad una fanciulla di abbandonarsi senza riserve all’uomo amato.

Niente male per un testo del 1884, no? E tenendo conto che lui lo aveva già scritto nei Principi del comunismo (1847), e che ovviamente «Aboliamo la famiglia!» era già nel Manifesto – no il giornale dove scrive Ercolani, quello vero del 1848. Peccato che non sia mai stata realizzata, ‘sta cosa, da nessuna rivoluzione; e peccato non esserselo ricordato, apparentemente, né Ercolani né Fusaro (e manco Marx, c’è da dire). Infatti si continua allegramente con cose tipo

I cit­ta­dini, ci inse­gnava quell’Hegel citato a spro­po­sito da Fusaro, non pos­sono essere rico­no­sciuti, giu­di­cati e quindi discri­mi­nati rispetto al loro essere pec­ca­tori agli occhi di una morale specifica.

Peccato essersi dimenticati pure che per Hegel “i cittadini” erano solo quelli di sesso maschile, perché le donne non ce la potevano proprio fare, poverine (oh, se non bastassero i passi citati, c’è la mitica Fenomenologia dello spirito, § A.a. “Il mondo etico, la legge umana e divina, l’uomo e la donna”, in particolare pagine 17 della traduzione di De Negri che trovate qui; l’argomentata critica di Carla Lonzi, invece, è qui). Mi sa che la morale specifica invece c’era, e c’è ancora – anche se gli si dà un nome in inglese.

Siccome così si divertono, i due continuano a duellare a colpi di letture di grandi maestri.

Allora, alla fine abbiamo, pescati a caso in una breve parentesi temporale: Citati, Ceronetti, Marzano, Fusaro, Ercolani. Più o meno titolati, più o meno noti, più o meno professori, critici, scrittori, poeti. Tutti con il loro spazio fisso sui giornali, tutti produttori di numerosi libri – evidentemente ben venduti, se no non glieli stamperebbero – tutti con un largo seguito di pubblico. E quasi tutti, ipocritamente, a parlare di un capitalismo brutto e cattivo. Tutti chiamati a parlare di questioni di genere, e tutti che dimostrano così di saperne solo ciò che gli fa comodo. Quasi nulla. E intanto giù a straparlare di uomini, donne, generi, famiglia, inquinando una cultura già di suo storicamente manchevole proprio di solide basi e capacità di aggiornarsi in questi cruciali argomenti sociali.

Per fortuna, altrove da queste e questi, qualcosa succede.

Il problema “femminista”

ignoranza

A me pare evidente: questo paese ha un problema col femminismo. Ma mica inteso come movimento politico, magari: significherebbe che viene considerato, dai più, come tale. Qui c’è proprio il problema del pronunciare la parola “femminista”.

Cominciamo con un bell’esempio recente. Su Samantha Cristoforetti è stato detto di tutto e di più. Per me la cosa più sbalorditiva rimane questo articolo apparso su La Stampa in digitale, nel blog Obliqua-mente di Gianluca Nicoletti, che vorrebbe essere anche un elogio dell’astronauta italiana. Titolo e sottotitolo dicono già tutto:

 

IL MITO #ASTROSAMANTHA CHE SEPPELLIRA’ BOTOX E TACCO 12
La donna astronauta contro una legione di super femmine costruite sul tavolo chirurgico, la perfetta risposta alle emule di Belen, ma anche al baffo politico e il rogo del reggiseno

Leggo tutto ciò abbastanza costernato, e mi chiedo, tanto per cominciare: ma perché Cristoforetti dovrebbe seppellire qualcun’altra? Perché essere una scienziata di livello mondiale dovrebbe nuocere a supposte super femmine costruite sul tavolo chirurgico? Nicoletti le mette in contrapposizione senza dire il perché. Nell’articolo non c’è traccia del motivo per cui Samantha e Belen dovrebbero essere una contro l’altra: evidentemente è dato per scontato, è ovvio.

Com’è ovvio che una donna che studia e che si fa valere nel mondo della scienza non è – appunto – una donna: da stereotipo qual è (perché contrapposta a un’altra donna-stereotipo, Belen Rodriguez), Samantha è ipercazzuta. Samanta ce l’ha grosso – infatti è nominata ingegnerE, ecco perché è tanto diversa da Belen, che notoriamente invece ha la farfallina.

Farfallina che, sostiene Nicoletti cavalcando i luoghi comuni che evidentemente galoppano molto lontano, è anche lei poco femminile ormai, anzi poco umana: Belen è l’esempio di prodotti umanoidi. Non è più neanche un essere umano.

Ricapitolando, un uomo descrive una supposta lotta per l’esistenza (“seppellire“) tra donne in questo modo: una non-donna mette sottoterra un non-essere umano. Complimenti. Ma come ha fatto? Ecco la spiegazione:

in lei si è riflessa quella parte del paese che non ha mai accettato come unità di misura del successo femminile i centimetri di tacco, ma nemmeno la fierezza dei baffi e il rogo dei reggiseni.

Cioè Samantha è una donna – anche se con un grosso pisellone ed è ingegnere – NON FEMMINISTA. Non corrisponde allo stereotipo della femminista: non ha i baffi (?) e non brucia il reggiseno. Ecco perché ha battuto la farfallina, dice Nicoletti.

Ora, il problema sociale che articoli come questo sollevano non è certo la cultura di genere di Nicoletti, che si presenta da sola e non vale la pena commentare. Il problema è che questa roba ha raccolto, tanto per fare un esempio, più di quindicimila condivisioni su un social network. Cioè è un buon esempio di quello che pensano lettori e lettrici – dato il giornale, dato il blog, dato l’autore – di cultura quantomeno media in Italia.

Di questo si ha riscontro anche nella chiacchiera quotidiana. Qualunque femminista che non si vergogna di professarsi tale si scontra con persone che a quella parola si sentono in dovere di sottolineare che si tratta di qualcosa di profondamente negativo. Racconta Lola sul suo sempre ottimo “Ci riprovo”:

Ieri ho parlato un po’ con un uomo dell’età di mio padre. Ad un certo punto gli ho detto che spesso usa un linguaggio fortemente sessista, e che quando ride di me che glielo faccio notare o si lancia in ardite spiegazioni sul perché è possibile dare della “troia” ad una donna che non ci piace mi manda in bestia.
“Mi sembri una di quelle…” “Sono una di quelle”. E da qui due ore a parlare. Quello che ho capito di tutto quel discorso è che la cosa fondamentale per poter permettere ad una femminista di parlare è che lei non si dichiari mai tale e che il femminismo non venga mai nominato.

Puoi dire quello che vuoi – basta che tu non sia FEMMINISTA. Puoi arrivare a tutti i traguardi che vuoi – basta che tu lo faccia NON DA FEMMINISTA.

mentre-cucinaEvidentemente, in questo caso a me “ha detto culo”: in tutto il mondo io sarei un feminist, e mica me ne vergogno. Però in Italia io sono un antisessista, perché se mi dicessi “femminista” tantissimi uomini riderebbero a crepapelle pensando che io sia parecchio strano o molto checca (il che non sarebbe un male di per sé, ma non corrisponderebbe nemmeno a verità), e fior di donne si offenderebbero – a parte ridere di gusto forti di una loro supposta superiorità (anche questo, per quanto incredibile, mi è successo). Tutto ciò, oltre a confermare in vario modo la legge di Lewis (“I commenti a qualsiasi articolo sul femminismo giustificano il femminismo”), dimostra che qui in Italia in molti e molte hanno dei grossi problemi con questa parola. Ma grossi, eh.

Per esempio, abbiamo quell* che credono a uno o più dei tanti luoghi comuni sulle femministe. Abbiamo anche un gruppo di musiciste che porta avanti un progetto musicale “a favore delle donne vittime di violenza”, dichiarando a destra e manca che non sono femministe. Abbiamo gruppi di donne che non hanno problemi a dire che loro sono più femministe di altre. (Fuori, intanto, non è che vada tanto meglio, se ci sono media internazionali che si divertono a giocare con la parola “femminista”).

Uomini e donne che, semplicemente, non hanno idea di cosa significhi femminista. Hanno il grosso problema di non poter accettare che un/a femminista è, come da definizione, “una persona che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica tra i sessi”. Perché?

Da una parte, molti e molte credono di essere “una persona che crede nell’uguaglianza sociale, politica ed economica tra i sessi”, MA non direbbero mai “tra i sessi”, perché a sentire loro non hanno importanza: esistono solo “le persone”. Cioè esistono solo le loro capacità, indipendentemente dai loro corpi; e infatti la stessa Cristoforetti non è femminista, dato che disse, poco tempo fa, che

per me non c’è differenza tra maschi e femmine. L’unica differenza è tra chi è competente e chi, invece, non lo è.

Tanto per dire: che milioni di donne non siano nelle condizioni minime per avere o usare le loro competenze, e che milioni di uomini siano automaticamente socialmente avvantaggiati da tutto ciò, non sembra essere per lei di grande importanza. Complimenti anche a lei.

D’altra parte, in molt* credono che quella “uguaglianza sociale, politica ed economica” sia già raggiunta, a forza di leggi paritarie, quote rosa, divorzi vantaggiosi e altre fantasiose amenità legislative che dimostrerebbero chissà cosa – rendendosi colpevoli, almeno, di ignoranza e ipocrisia. I dati sulla disparità di genere, sull’attivo e funzionante patriarcato discriminante, ci sono, e non sarà certo una legge a cambiarli a breve termine.

Un problema culturale? Direi proprio di sì. Che comincia dall’alto:

Fino al 2000 le studiose femministe hanno fatto ricerca e insegnato ‘sotto mentite spoglie’, prive di nome, impossibilitate a esibire la propria carta d’identità. Gli studi delle donne li abbiamo dovuti non solo inventare, ma anche continuare a reinventare un anno dopo l’altro, come se ogni volta fosse stato necessario presentare di nuovo i documenti per dimostrare la validità di nome, data di nascita e domicilio di residenza.
Prima che si chiamassero «di genere», per indicare molte altre cose, oppure anche soltanto essere utilizzati come sinonimo dall’apparenza ‘perbene’, gli studi delle donne li abbiamo insegnati en travesti. Ciascuna di noi agiva come un agente segreto mascherato dentro, dietro e sotto un’altra denominazione ufficiale; la quale poteva essere: letteratura italiana, economia politica, antropologia, sociologia, storia moderna, filosofia medievale o storia della scienza. Il documento d’identità legalmente autorizzato per la pratica didattica serviva a coprire i riferimenti a oscuri e disdicevoli commerci sessuali e politici che avrebbero fatto un’oscena irruzione se si fosse usato il loro vero nome.

E pure dal basso:

Scuotono la testa con decisione non appena sentono il termine femminismo. Si stringono forte al proprio compagno mentre dichiarano di essere femminili, non femministe, come a volerlo rassicurare. Se interrogate sul significato del termine affermano che: «Non sono superiore al mio uomo, ognuno ha il proprio ruolo e io sono una donna».
A dirlo sono in tante, tantissime, forse milioni di donne. Sono laureate, casalinghe, giovanissime e meno giovani, occupate, disoccupate o inoccupate, ma anche donne in carriera e di successo. Più che il titolo di studio, l’età o il tipo di lavoro svolto, la differenza lo fa l’ambiente sociale che frequentano, ancora molto maschilista e misogino e che loro, in un modo o nell’altro, avallano.

Aggiungendoci anche qualche vero e proprio delirio:

oggi, guadagnati e fatti salvi quei diritti civili grazie a sacrosante battaglie di idee (cito una campionessa per tutte: Simone de Beauvoir), è ormai antistorico e anacronistico continuare a procedere nella stessa direzione, cercare un accanimento antifemminile che di fatto non esiste e non è mai esistito, inventarsi una persecuzione sessuale che di fatto non esiste e non è mai esistita (a proposito: ma chi crede davvero al femminicidio?), perpetuare l’idea di una presunta contrapposizione sessista che da tempo dovrebbe [avere, ndr] fatto il suo tempo.

In tutto ciò, non c’è davvero di che preoccuparsi per i maschilisti d’Italia. Finché questi problemi di cultura – io preferisco dire di ignoranza, ma so’ io, non ci fate caso – continueranno ad averceli tanti uomini e tante donne, di femminista in giro ci sarà sempre ben poco.

(Grazie a Lola e a Chiara per l’ispirazione)

La fine dell’università e gli studi di genere. Cambia qualcosa per le donne?

Riceviamo da Paola Di Cori e volentieri pubblichiamo.*

zoe_leonard_mouth_open_teeth_showing_th

Sul fascicolo di “Internazionale” di questa settimana (22/28 maggio 2015) un articolo di Terry Eagleton, tradotto dal Chronicle of Higher Education e intitolato La fine dell’università eleva al cielo alti lai per la distruzione dei saperi umanistici. Il contributo di Eagleton – noto critico letterario marxista, di famiglia operaia, con studi a Oxford e Cambridge negli anni ’60 e ’70, noto per le prese di posizioni polemiche nei confronti delle correnti sperimentali più audaci della critica contemporanea – è pubblicato nello stesso numero della rivista il cui piatto forte viene annunciato dalla copertina che ritrae il disegno di un irsuto personaggio dalla cui barba fuoriescono omini neri armati di fucili, con il titolo “Lo stratega del terrore”. Il servizio giornalistico, tradotto dallo “Spiegel”, si interroga infatti sul disegno politico che sta dietro alla vittoriosa marcia dei jihadisti in Siria.

La pubblicazione di entrambi gli articoli nello stesso numero, forse  semplice coincidenza casuale, è una tentazione a immaginare una affinità esistente tra i due: come le truppe del Califfato stanno facendo a Palmira – mediante l’invasione violenta, le decapitazioni dei prigionieri e il proposito di radere al suolo quei monumenti che un tempo l’avevano resa celebre e i cui splendidi resti forse hanno vita breve – così agiscono i nuovi manager che ormai governano le università di tutto il mondo, trasformando quelli che un tempo erano luoghi privilegiati dei saperi “alti” in sedi decentrate affinché le élite prossimo-future acquisiscano le nuove competenze necessarie a consolidare l’egemonia della finanza internazionale. Gli antichi ideali di elevazione sociale, raffinatezza culturale, etica pubblica, vengono velocemente spazzati via dalla brutalità degli attuali responsabili di quell’insieme di pratiche informatiche, amministrazione e gestione burocratica che hanno trasformato le università in sedi deputate all’acquisizione di conoscenze di carattere tecnico-scientifico, dalle quali i saperi umanistici stanno scomparendo o hanno pochi anni di vita davanti. Ridotti drasticamente gli studi classici, tagliati i fondi ai settori letterari, filosofici, artistici in genere, depauperate le scienze sociali, che giacciono in stato di indigenza estrema, una nuova barbarie sta velocemente prendendo piede negli atenei. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: le ultime generazioni che escono con titoli ottenuti mediante sistemi di valutazione più indicati per misurare costi e ricavi di un’azienda che una acquisita maturità scientifica, intellettuale e culturale, sono ormai avviate verso forme di desolante  analfabetismo crescente.

Sono argomentazioni che – anticipate una ventina di anni fa da un grande libro del compianto Bill Readings, The University in Ruins (Harvard University Press) – da tempo risuonano di qua e di là dell’Atlantico negli interventi pubblici di accademici e studiosi di provenienze diverse, negli inserti di cultura dei quotidiani, riviste on-line e blog, destinati a denunciare gli effetti deleteri della riduzione di fondi e l’inarrestabile declino nella qualità della formazione scolastica e universitaria.

Difficile non concordare con buona parte di questi contributi, che  da prospettive svariate si interrogano sul destino imminente degli studi umanistici, e sulla qualità scadente della formazione avanzata in generale. Tuttavia, queste lamentazioni sono spesso scontate e purtroppo inevitabilmente inefficaci; come in parte anche le tesi sostenute da Eagleton, condite di un brillante stile Oxbridge ma in fondo poco saporite. Se poi guardiamo a quel che accade nel nostro paese, è facile constatare che l’accelerazione dei processi degenerativi in atto ha conseguenze ancora più gravi che altrove. In parte perché si finge di assistere a un disastro giunto all’improvviso, come quello del Vajont o il terremoto dell’Aquila. Non c’erano forse state tante avvisaglie negli ultimi venti o trent’anni? Nessuno dei sapientoni che soloneggiano dalle pagine del “Sole-24 ore”, del “Corriere” e di “Repubblica” si era mai accorto, se non per commentarli scuotendo la testa con qualche amico, dei baratri di formazione dei nostri laureati rispetto a quelli del resto d’Europa, delle decrepite strutture entro cui sono costretti a formarsi gli studenti?

Eppure l’imminente catastrofe era facilmente prevedibile all’indomani della riforma Berlinguer alla fine degli anni ’90, quando l’introduzione del famigerato percorso “3+2” accelerò l’inarrestabile crollo, i cui disastri furono subito sotto gli occhi di tutti. Ma nessuno protestò; non ci furono levate di scudo in massa da parte dei docenti più autorevoli, dei molti notissimi ‘liberi pensatori’ e intellettuali che ancora riempivano i senati accademici. Com’è consuetudine da queste parti del globo, si cercò di trarre vantaggi individuali e personali dalle pessime istruzioni ministeriali che si ammucchiavano sulle scrivanie dei presidi; soltanto l’improvviso successo nel 2007, del libro “La casta”, scritto da due giornalisti, sembrò rendere visibile la miserabile condizione dell’accademia italiana; tutti ne erano al corrente da tempo, ma nessuno si era preso il disturbo di denunciarla. E ora il terremoto annunciato ha scosso fin dalle fondamenta edifici secolari; una cupa rassegnazione è la paralizzante risposta a tanto disastro, mentre i giovani benestanti fuggono oltre i confini.
In questo apocalittico quadro di distruzione e povertà crescente, ha senso chiedersi cosa succederà agli studi di genere? Anche una modesta osservatrice si rende conto che non sono in molte a porsi il problema; e questo è forse il lato più malinconico dell’intera questione. Tuttavia, per quanto possa sembrare una domanda superflua le risposte sono forse meno scontate e deprimenti di quanto si possa pensare.

Per un verso, i cambiamenti non potranno incidere più che tanto in una situazione dai contorni sfuggenti a ogni tentativo di tracciarne il profilo, e il cui statuto disciplinare è incerto per definizione. Inoltre, a differenza del resto dell’Europa e del mondo, gli studi di genere hanno tradizionalmente goduto nel Belpaese di una esistenza malaticcia, frammentata, dispersa e disomogenea; fatta di qualche insegnamento di prima alfabetizzazione, con scarsa incidenza dei medesimi sull’insieme del piano formativo individuale; in breve: sono studi che hanno sempre goduto di una identità instabile. Alcune ottime esperienze qualificate – dottorati di storia delle donne e letterature a Napoli e a Roma, qualche convegno di settore, molte pubblicazioni di buon livello, associazioni con centinaia di iscritte, tante laureate e dottorate in questi temi nei decenni passati – si sono rivelate purtroppo di corto respiro, “senza sbocco al mare”, sia per il taglio dei fondi ma ancor di più per l’assenza di una specifica strategia politica concertata a livello nazionale e in collaborazione effettiva con la rete europea; a questo c’è da aggiungere un generalizzato disinteresse generale: i gruppi e le associazioni influenti del femminismo li hanno sempre guardati di malocchio; le docenti provenienti dai movimenti degli anni ’70 hanno spesso preferito prendere le distanze, aderire occasionalmente e con cautela a questa o quella iniziativa, senza mai impegnarsi in un confronto serio con le gerarchie accademiche. Più spesso si è trattato di percorsi solitari, talvolta veri e propri esercizi semi-clandestini di militanza, con pochissime sedi dove gli studi di genere risultano effettivamente inseriti nei programmi, uno scarso numero di dottorati attivi e – ancor più grave – con un atteggiamento radicato di estraneità, spesso ostentato distacco,  da parte di docenti che si richiamano al femminismo e che grazie ad esso hanno anche fatto carriera.

Sono state soprattutto le tante situazioni esterne all’università ad aver garantito la sopravvivenza e qualche briciolo di trasmissibilità delle esperienze e delle conoscenze relative alla condizione delle donne in Italia: centri delle donne, fondazioni, incontri e seminari estivi e invernali, riviste, pagine di quotidiani, blog e reti sociali, libri e librerie, case editrici, premi, dibattiti e laboratori, senza dimenticare naturalmente le reti sociali; ecc.; in poche parole, la società civile femminile attiva. Coloro che sono inserite stabilmente nelle istituzioni hanno sempre preferito assecondare lo status quo, ‘andare in trasferta’ presso le molte sedi del femminismo esterno invece che impegnarsi all’interno. Un intenso scambio tra dentro e fuori le università ha perciò sostituito in Italia insegnamenti istituzionali di base e corsi formativi modellati sugli esempi migliori a livello europeo (Utrecht, Gran Bretagna, Francia, ecc.).

Come noto, tranne poche eccezioni, non c’è mai stato nel nostro paese un aperto interesse da parte delle donne appartenenti ai gradi alti della docenza per inserire stabilmente gli studi di genere nei curricola, costruire solidi percorsi formativi di base, ingaggiare una negoziazione di breve e lungo periodo con l’establishment accademico. In questo, le italiane presenti nelle università hanno, abbiamo, lavorato male, poco, e peggio di come hanno fatto le altre europee, per non dire dell’impegno e degli esiti straordinari ottenuti in questo campo da parte delle donne attive in molti paesi del cosiddetto terzo mondo.
Di conseguenza, è un fatto che la quasi totalità delle giovani e meno giovani femministe inserite nelle università e nelle scuole, comprese docenti precarie e a tempo parziale, supplenti, volontarie, – oltre che attraverso la rete di centri esterna all’università – si sono formate fuori d’Italia, per poi proseguire con aggiornamenti su testi prevalentemente scritti da autrici non italiane. In linea con i tagli di fondi dei governi degli ultimi anni, e le pessime ministre che si sono succedute a presiedere e pianificare l’istruzione scolastica e universitaria, gli scarsi dottorati di un tempo non sono stati rifinanziati, al pari di quelli di molti altri settori; non più riattivati corsi e programmi insegnati anni fa; i seminari intorno ai ‘gender studies’ (inutile neanche menzionare il tristo destino di qualche rara sperimentazione LGBQT) si contano ormai sulle dita di una sola mano; i convegni sono rari o relativi a tematiche specialistiche. Palmira sei tutte noi, viene quasi da dire.

Non tutto il male viene per nuocere

Questo malinconico quadro di rovine fumanti non risponde tuttavia alla situazione reale. La quale versa certamente in acque melmose, ma non peggiori o diverse da quanto accadeva negli anni ’90 o nel decennio successivo. A differenza di quanto si lamenta in altri contesti, in Italia la situazione non è molto diversa da quella di un tempo. Sono in molte le docenti che ormai hanno incorporato nei propri corsi, ricerche e attività professionali, tematiche nate e cresciute grazie al luppo nei paesi di lingua inglese dei “gender studies” (la denominazione è sempre più imprecisa, ma utile, almeno in questo contesto); e in virtù della libertà di insegnare ciò che si vuole, ancora diffusa tra le pieghe delle discipline umanistiche negli italici atenei, anche se sono di fatto inesistenti sono curricula specifici ed è  risibile numero di posti di dottorato che premia questi studi, capita di veder sorgere qua e là verdi germogli “di genere”, la cui crescita ulteriore viene demandata alla buona volontà e alle risorse economiche delle giovani leve. Esistono di fatto in Italia un gran numero di insegnamenti dove le donne e le differenze sessuali sono al centro dei programmi approvati dai dipartimenti, talvolta anche insegnati da uomini; ma spesso si ha la sensazione di muoversi sul crinale di qualcosa che non è ben definito, inserito tra tematiche solo parzialmente legittime, con pochi crediti attribuiti. ‘Curricolabile’ solo in alcune circostanze e non in altre, la sua natura è piuttosto quella di abitare un territorio  pericolosamente ‘labile’. Come prima, meglio di prima, con qualche differenza. Ciò che prima era invisibile e nascosto, ora si vede e si sente, ma è povero e inadeguato.

Anche se questo quadretto assai nero e buio non invita a sperare in meglio, una esperienza come quella dei “gender studies all’italiana” potrebbe offrire qualche soluzione positiva. Tradizionalmente, si è detto, essi esistono fuori dai programmi, in numero scarso, sparsi, scollegati. In questo si manifesta coerenza con l’insieme della accademia nostrana, in particolare nel caso delle discipline umanistiche; basta pensare a quanto l’aggettivo ‘umano’, attaccato alle scienze abbia spesso in Italia una fisionomia incerta; al punto che certe volte viene scambiato con ‘sociale’ o utilizzato come fossero sinonimi. Per quanto sia assai difficile immaginare nel breve periodo un rovesciamento di segno – sentieri fioriti sullo sfondo di mari azzurri dove tuffarsi allegramente nella bella stagione – si potrebbero anche sfruttare alcuni lati positivi e utilizzare con profitto qualche ricchezza nascosta. Difficile immaginare che le italiche università mettano in poco tempo la testa a posto, che le subalternità femminili all’establishment si capovolgano per costituirsi in bellicose avanguardie resistenti, e nel breve giro di qualche mese di pragmatismo ‘renziano’ siano eliminati corruzioni, sprovvedutezze, superficialità, familismi, cortigianerie – unitamente alla sparizione di quell’egemonico, immutabile, odioso, violento stile patriarcale e paternalistico che continua a essere la nota prevalente nei nostri atenei.

Tuttavia, l’esperienza di un lavorio incessante tra il dentro e il fuori – tra il mondo reale esterno alle aule e ai dipartimenti da un lato, e i saperi accumulati in alcuni decenni in nome del femminismo dall’altro; tra pratiche politiche antisessiste e antirazziste, e le vecchie istituzioni che nel tentativo di rinnovarsi rimangono implacabilmente uguali o peggio di prima – potrebbe costituire un buon esempio anche per l’insieme dell’università, e non solo per i corsi di gender studies. Se le facoltà umanistiche – dove questi studi e chi li pratica sono stati maggiormente presenti – si sgretolano, ed è impossibile ricostruirli con risorse interne, forse qualche boccata d’ossigeno potrebbe venire attingendo alle risorse esterne, questa volta rovesciando le direzioni di marcia. Sono esigenze molto sentite da gran parte dei settori scientifici e delle scienze sociali nel loro insieme, quelle dirette ad avviare un rapporto sinergetico con centri di ricerca, istituzioni, associazioni, italiani e non italiani, esterni alle università; queste ultime si trovano  crudelmente imprigionate da burocrazie soffocanti, indifese e impotenti a scalfire la salda impalcatura di paralizzanti interessi corporativi che le avvolge.

Forse è giunto il momento di cominciare a pensare ai tanti modi con cui, per esempio, lo strumento interdisciplinare – su cui gli studi delle donne, quelli di genere ed LGBTQ si sono sviluppati – potrebbe trasformarsi in una strategia di lavoro trasversale: tra istituzioni accademiche e mondo esterno alle università; tra settori della conoscenza chiusi in autoritratti monocolori e il resto del mondo; tra lingue diverse e non solo in dialogo esclusivo con l’inglese; tra donne e uomini intesi come esseri percorsi da una molteplicità di tensioni e pulsioni identitarie diverse, invece che considerati come riflesso di sessualità naturali prestabilite. La proposta di pratiche conoscitive e politiche entre-deux potrebbe contribuire intanto allo svecchiamento del femminismo italiano; e chissà, forse anche l’università nel suo insieme sarebbe in grado di usufruirne ed emettere qualche segnale di vita. La conclamata interdisciplinarietà – per non parlare della comparazione, vera e propria araba fenicie della ricerca- che per l’insieme degli insegnamenti impartiti negli atenei italiani continua a rappresentare un impossibile miraggio ma anche uno dei problemi più assillanti, è una via obbligata da sempre percorsa dagli studi di genere e dai suoi ancor più sfortunati compagni LGBQT; uno strumento indispensabile di crescita intellettuale e di militanza politica, spesso mortificata dalle ansie di legittimazione istituzionale che hanno ingessato tante pratiche di genere interne all’accademia.
Paradossalmente, ciò che per tanto tempo ha costituito il punto debole dei gender studies all’italiana, è forse una risorsa ancora da sfruttare a fondo. Sarebbe possibile avviare esperienze a metà strada tra università e mondo esterno – peraltro già sperimentate lungo gli anni, e molte ancora in vigore – purchè siano garantite alcune condizioni: una maggiore disponibilità effettiva da parte di chi occupa posizioni privilegiate e ha accumulato conoscenze e pratiche; la proposta di obiettivi politici mirati, meno settari e ideologici di quelli che hanno dominato nei decenni trascorsi; un coinvolgimento comune effettivo nella costruzione di percorsi formativi.

E’ un dato di fatto che buona parte dei temi ‘caldi’ che hanno animato il dibattito femminista – a livello teorico e di ricerca – anche se avviati da qualcuna inquadrata nelle istituzioni, pur rimasti ai margini di più roboanti argomenti, si sono sviluppati  prevalentemente fuori dalle università e sono stati promossi da esponenti di quella società civile femminile attiva, o per iniziativa di giovani che studiano e lavorano fuori d’Italia: da quello intorno alla trasformazione (dissoluzione? evaporazione?) della parola “gender” e alle mobilitazioni per frenare gli attacchi clerico-patriarcali intorno a una presunta “teoria del gender”, fino alle prospettive riguardanti l’intersezionalità; dalle tante manifestazioni relative alla galassia “queer” – mostre, convegni, incontri, collane editoriali, ricerche; tutte iniziative rigorosamente extra-murarie – alle questioni divenute drammaticamente attuali legate al ruolo e rappresentazione delle donne nei più recenti fronti di guerra in Asia e medio-Oriente; alle migrazioni e al razzismo. Se la marginalità e la carenza di risorse materiali soffoca progettualità ed energie di chi sta fuori, dentro le università i saperi legati agli studi di genere si sbriciolano, e i soggetti che li avevano coltivati e cresciuti tornano all’invisibilità. Per continuare a svilupparsi, agli uni e agli altri è indispensabile rendere più dinamici i passaggi tra dentro e fuori, capire che in tempi di crisi è vantaggioso rafforzare le alleanze con situazioni e luoghi di sperimentazioni vitali; laddove sia possibile, conviene infatti da entrambe le parti: da un lato, attenuare rigidità e sbarramenti in nome di improbabili ideali di scientificità; dall’altro, pretendere l’adesione a formule politiche invecchiate, fantasiose e illusorie.
Sopravvivere a stento tra le macerie, o continuare faticosamente a praticare esperienze marginali di invenzione?

(Con ringraziamenti a Francesca, Marilena, Roberta.)

L’adagio del maschio italiano

Immagine da "In Italia sono tutti maschi", Kappa edizioni
Immagine da “In Italia sono tutti maschi”, Kappa edizioni

È passato un po’ di tempo, così le facili polemiche e i luoghi comuni sulle parole che Roberto Formigoni ha speso per spiegare – lo ha spiegato, non lo ha giustificato – il suo comportamento al gate Alitalia ce le possiamo risparmiare. Fermiamoci a riflettere, mettendo in fila un po’ di eventi di cronaca, su una delle tante occasioni perse, da tanti uomini in questo paese, per fare qualcosa di meno maschilista e patriarcale di quello che invece fanno. Potrei rifare questo articolo, tale e quale, tra un mese, cambiando solo i link e i riferimenti a quei fatti di cronaca. Perché? Perché il maschio italiano non cambia tanto facilmente.

Partiamo dall’articolo del Corriere con le parole di Formigoni, e fermiamoci su qualcuna di queste parole. «Gli italiani mi danno ragione. Incredibile quanti siano i cittadini che hanno subito soprusi che mi telefonano per dirmi “bravo, finalmente qualcuno ha detto ad Alitalia quello che si merita”». Perché in Italia chi vede lesi i propri diritti non manifesta, non si organizza: aspetta che qualcuno dica parolacce e minacci violenza contro persone e beni, per poi dirgli bravo.

«Ho subito un sopruso». Non è vero, e a raccontarlo è lui stesso. Ha provato a prendere non il suo aereo, ma quello precedente che era in ritardo, perdendo così anche il suo. Ha solo subito le conseguenze di un goffo tentativo, molto italiano anch’esso, di fare il furbo. E non è neanche la prima volta che ci prova, e che gli va male.

Poi, la chicca, alla faccia del torto marcio per la furbata non riuscita: «ho utilizzato le parole che userebbe qualsiasi italiano maschio che nei momenti di rabbia perde la pazienza». Sull’«italiano» torneremo dopo, ora fermiamoci un po’ sul «maschio».

Il maschio, quando si arrabbia, perde la pazienza, dice Formigoni, e aggredisce, urla, insulta, spacca roba. È un maschio che già conosciamo, no? È il maschio del raptus. È il maschio della cultura del raptus. È il maschio che perde la pazienza: per esempio non gli va di aspettare l’autobus, prende un taxi guidato da una donna e la stupra. Così fa il maschio, no? Notate l’accuratezza con cui nell’articolo si eviti la parola “raptus” anche se è ciò che viene descritto: «esplosione di rabbia», «la sfuriata», «perde il controllo». E che facciamo, lo chiamiamo raptus come quello dello stupratore, del femminicida? No, Formigoni non ha fatto violenza a nessuno – a parte ai suoi interlocutori e a chi assisteva, ma son quisquilie, vero? – quindi va bene la sua descrizione: ha agito come «qualsiasi italiano maschio».

Ha detto – spontaneamente, figuriamoci se ha ragionato – «maschio» e non “uomo”. Maschi sono anche i bambini. Maschio lo si è per natura, uomo per educazione. «Maschio» rende bene la naturalezza di un comportamento, il suo essere innato e ovvio, il suo fare parte delle caratteristiche del maschio, quell’animalità dalla quale si prendono sempre le distanze come fosse qualcosa di vergognoso, salvo quando torna comoda per indicare supposti valori quali virilità, ragione del più forte, potere primitivo, mancanza di lucidità. Quel concetto manipolabile di ‘insopprimibile istinto naturale’ con il quale si vuole mascherare il potere di una classe sociale, l’arroganza di una abitudine politica: lo avete riconosciuto? È lo stesso potere «maschio» che fa dire a un altissimo dirigente sportivo «basta non si può sempre parlare di dare soldi a queste quattro lesbiche».

È lo stesso potere maschio, quello che non chiede scusa anche se ha provato a fare il furbo, quello che non si dimette malgrado la “gaffe” (notate anche qui i giornali come sono stati carini: chiamano “gaffe” quello che non è altro che uno spregevole insulto sessista e omofobo), quello che se ne frega di capire da quali privilegi proviene e di quali privilegi gode, quello che rende prigionieri di illusioni gli stessi maschi, quello che ha sempre una giustificazione plausibile per la propria violenza: la chiama raptus. Per rendere possibili e plausibili queste violenze ci vuole un potere e una cultura pervasivi e accettati da tutti – cioè da tutti gli altri maschi.

E qui veniamo alla parola «italiano». Al maschio italiano tutto ciò sta evidentemente bene, perché non ho visto – a parte le chiacchiere sul web – ‘sta gran voglia di protestare, di scendere in piazza a fare casino perché uno che agisce come Formigoni si è permesso di dirsi uguale a «qualsiasi italiano maschio». Non vedo grosse agitazioni quando un dirigente sportivo insulta in maniera sessista e omofoba migliaia di praticanti quello sport che dovrebbe tutelare – lo sport più amato dai maschi italiani; non le vedo quando un qualsiasi maschio italiano stupra, poi dice che ha avuto un raptus e che “si pente” venti comodi giorni dopo. Eppure sono maschi, e stanno dicendo qualcosa a tutti gli altri maschi.

Ah, già, dimentico sempre il tipico adagio del maschio italiano: «i problemi sono altri».

 

Una cultura dello stupro, una cultura del raptus

150302-Non-chiamatelo-raptus_photo2

Lo sappiamo da tempo, e l’ultimo fatto di cronaca non fa che ribadirlo: il raptus è tanto usato perché fa comodo, perché impedisce a un discorso non svolto dalla parte dell’oppressore di genere di svilupparsi. Tutto qui. Quando è lo stupratore a dirsi “vittima” di un raptus, è ovvio che il cerchio patriarcale si è chiuso da un pezzo, per tenere ben chiuso dentro il suo abbraccio dispotico qualunque tentativo di evaderne.

Che il raptus fosse sostanzialmente la parola assolutoria nei casi di violenza lo sappiamo da un pezzo, e a conferma dell’ultimo caso di cronaca ci sono anche le parole della madre del reo confesso, che non giustifica ma spiega – così dice lei – la non mostruosità del figlio: con una serie di abbandoni da parte di donne. Altra vecchia storia: anche se subisce violenza, la donna non è mai innocente; almeno è complice, o in persona o come genere.

Per quanto si voglia spiegare, per quanto si voglia ricostruire, una cultura non si cambia neanche con l’evidenza, perché l’utilità di un costrutto sociale vincerà sempre anche sulla più evidente realtà: finché fa comodo al potere vigente, il raptus continuerà a esistere. Le competenze non contano. Chiunque sia minimamente impegnato professionalmente in questioni psicologiche sa che il raptus è anche questo: «impulso improvviso e incontrollato che, in conseguenza di un grave stato di tensione, spinge a comportamenti parossistici, per lo più violenti», come dice Treccani. Dico anche perché chiunque, come detto, ha un approccio professionale a questi problemi sa che è una definizione insufficiente, perché il comportamento è iscritto, anche quando appare improvviso, in una rete di pensieri sentimenti e questioni consce e inconsce che ne rende ragione, e perché si arriva a commettere un atto, anche non programmato e improvviso, dopo una serie di eventi psichici collegati tra loro.

Questo vuol dire che l’elemento mediaticamente interessante – e socialmente reazionario – del raptus è proprio quello più discutibile: la sorpresa, la sua parte improvvisa e inopinabile. Il patriarcato imperante tiene soprattutto a questo elemento imprevedibile, e per due ragioni: comunica efficacemente l’impossibilità di fermare la violenza (sulle donne, di genere), e ne comunica quindi anche la supposta “naturalezza”, il suo far parte di una inevitabile “animalità” dell’uomo – generalmente negata, ma poi tirata fuori esclusivamente nella accezione negativa di “bestialità”.

Queste due caratteristiche rendono il raptus spendibile in tanti argomenti della comunicazione di massa. Tutto un mondo si muove per raptus, anche se non è nominato ma solo descritto. È un raptus quello dello sportivo che perde la testa in campo; è un raptus quello del politico che in aula si avventa contro l’oppositore; sono raptus quelli sui quali si costruiscono talk show politici, spacciandoli per approfondimenti; è il raptus a permettere di non avere il minimo senso del ridicolo, arrivando a scrivere per un plurimoicidio-suicidio che «per capire come mai lui possa avere all’improvviso premuto il grilletto, potrebbe rivelarsi determinante il fatto che l’uomo da tempo soffrisse di una grave patologia intestinale»; sono descritti come raptus quei commenti sui social che augurano uno stupro a chi scrive qualcosa di antirazzista. Parentesi assolutoria e spettacolare, il raptus è breve, efficace, scioccante e intimidatorio: insomma, perfetto per tutti i media commerciali.

Per chi prova a riflettere e a far riflettere, per affrontare la complessità dei problemi sociali, non c’è speranza, perché il raptus è troppo allettante per un suo uso strumentale. Non a caso per il raptus di Kabobo non ci si è spesi tanto, ma per Simone Borgese – italiano trentenne e belloccio – la madre sostanzialmente lo scusa e nessuno ha da dire nulla, anzi, sui social si sprecano i commenti alla “povero ragazzo”. Quando una cultura intera lavora affinché i fenomeni siano sempre isolati tra loro, siano sempre episodi slegati e imprevedibili, alimentando sia il panico sociale sia il complottismo più becero (quest’ultimo degno contraltare di un potere sistematico), ecco che stupro e raptus sono felicemente alleati: l’uno è lo strumento e l’altro il comodo racconto per uno stesso odioso potere.

Alla cultura del raptus, cioè alla cultura dello stupro, ci si può opporre, ma non da soli. Altrimenti sembrerà un altro raptus.

A Gentleman’s Guide to Rape Culture

I maschi e la cultura dello stupro che avvelena tutti noi

Che cos’è la rape culture

Rape culture is when…

Deconstructing il sistematico assassinio del maschile (Risé e il Maschio Selvatico 2)

Faster_Pussycat!_Kill!_Kill!PDice che hanno studiato. Io continuo a esplorare vaste lande d’ignoranza, più o meno consapevole, e ora m’è capitato – grazie alla solerzia di malign* amic* – quest’altro genio. Di cui ho letto già molto e che avevo già sentito dal vivo in un incontro a Padova, ma che probabilmente per amor proprio avevo sempre evitato di citare qui. Cosette che rovinano la giornata: e per questo, infatti, trovo sia meglio riderne – sensatamente, con cognizione di causa, svelandone le miserie – ma riderne, se no passiamo la vita nervosi. E invece ci sono tante altre cose belle da fare!

Eccoci qui, allora, per ridere: e cosa di meglio di un bel ghetto rosa per ospitare Claudio Risé? Dàje!

Potremo davvero fare a meno dei maschi? [Qualcuno lo ha mai seriamente sostenuto? Da questo articolo, per esempio, non lo sapremo]
Esistono ancora le differenze di genere? [A occhio e croce sì, ma forse sono troppo pignolo io]
Colloquio con lo psicoterapeuta Claudio Risé
di Candida Morvillo

Il futuro è delle donne, più intelligenti, più sensibili, multitasking… Quante volte avete sentito questi refrain? [Stai scrivendo su Io Donna, che fai , prendi in giro dalla prima riga?] Lo psicoterapeuta Claudio Risé parla di «character assassination del genere maschile». E di «una vasta campagna di denigrazione tesa a distruggere credibilità e reputazione di un intero gruppo sociale». [Avete capito bene, intende i maschi con gruppo sociale. Speriamo che ne dimostri l’esistenza, prima di tutto, di questa campagna di denigrazione.] Come è potuto accadere? [Sempre ammesso che sia accaduto?] E come se ne esce? [E fosse anche vero, il “perché” non sarebbe più corretto del “come”?] Lo specialista lo spiega in “Il maschio selvatico 2” (Edizioni San Paolo), un saggio rieditato e aggiornato che da 23 anni è un cult book [per chi? Andrebbe detto, perché lo è anche il Mein Kampf, e non me ne vanterei tanto] e che, ora che il delitto è sotto gli occhi di tutti [EH? Il delitto? Il gruppo sociale maschile è tutto morto? Così, parole a caso], pone nuove domande e offre nuove risposte. Di seguito, cinque spunti.

Perché rimpiangere il maschio selvatico? L’uomo ha cominciato a star male, fisicamente e psicologicamente, dice Risé, quando si è allontanato dalla natura, sposando uno stile di vita robotico. Il “selvatico” teorizzato da Risé è invece capace di un appassionato rapporto con l’ambiente incontaminato, «non per ragioni estetiche o di performance sportiva» ma perché vi trova «pienezza e benessere fisico, spirituale e creativo». L’allontanamento dalla wilderness avrebbe minato anche i rapporti fra i sessi: «Nelle antiche saghe, il selvatico vede la fanciulla in una radura, se ne innamora e la prende sul suo carro: questa immediatezza oggi è aborrita dentro relazioni costruite dalla A alla Z, intellettualizzate, mentre l’amore è la scoperta dell’altro dentro di te, è il bosco dove scopri la bambina a cui vuoi bene» [valeva la pena non interromperlo, eh? Contro il logorìo della vita moderna, Risé propone un mito che racconta sostanzialmente un rapimento e uno stupro – aho, quello è. Interessante – proviamo a chiederlo alle fanciulle nella radura, se gli sta bene? Ma lui certamente sa di sì, figuriamoci].

Perché parlare del maschile è diventato “politicamente scorretto”? [Ma quando, ma da chi? Ma se i femminismi che chiedono agli uomini di parlare non si contano più, da almeno due secoli a questa parte!] Quando nel 1992 Risé pensò il suo primo Maschio Selvatico, molti provarono a dissuaderlo. «Un editore mi suggerì di scrivere piuttosto un libro sul pene, poiché le performance sessuali potevano ancora interessare il sistema mediatico» [bella gente frequenta Risé, complimenti] ricorda. Ma qual è lo specifico maschile che disturba? La risposta fa riflettere: «I moderni sistemi economici e politici hanno spinto le donne nel mondo del lavoro per poterle sfruttare e pagare poco [e fino a qui potremmo pure essere d’accordo]. Per indurle all’affermazione, era necessario costruire l’immagine di un uomo predatore e distruttivo, da demolire [“ni”, perché il da demolire è tutto da discutere – nei fatti, non si demolisce un bel nulla ma si assimila anche la donna a quella immagine di uomo. No?]. In quest’ottica, il maschio selvatico imbarazza perché non è aggressivo e cade innamorato delle donne [ma se prima hai detto che la prende sul suo carro, aho, all’anima del non è aggressivo! Ma nelle radure il consenso non si chiede? So’ maschio, so’ innamorato, te prendo sul carro e fine della discussione?]».

Perché il maschio contemporaneo è insicuro e debole? [Eh, il mondo è pieno di maschi deboli e insicuri, i media non fanno che parlarcene e rappresentarli, vado a caso: Putin, Obama, l’Is, Salvini, Renzi, Draghi (a parte l’avversione ai coriandoli), Tsipras, Varoufakis, Ibrahimovic, Cristiano Ronaldo, Tevez, Balotelli, i poliziotti della Diaz, non si parla che di questi fraciconi.] Oggi l’uomo è “il colpevole”, deve chiedere scusa, è un mostro o un cretino, a prescindere [ma chi? ma dove? Ma se è sempre colpa di Boldrini – a Risé, ma ci vivi pure tu nella foresta? Ma il segnale ci arriva?]. I ragazzi non scrivono più sui muri “Jessica ti amo” ma “Jessica ti chiedo perdono” [veramente la situazione è un po’ diversa: qui e qui due raccolte tra le più viste]. «La cultura della colpa» spiega Risé «è comoda anche per i maschi, i quali, chiedendo scusa, possono dirsi che è tutto a posto e accantonare la responsabilità di mettere a fuoco il loro progetto di vita e di relazione [di nuovo, quella non è cultura della colpa, è paraculismo acuto, cosa di cui i maschilisti sanno fare ottimo uso da parecchio, soprattutto in sede politica e istituzionale. Risé ci riuscirebbe pure, a cogliere qualche spunto giusto, peccato lo distorca sistematicamente in virtù di quello che gli preme dimostrare]».

Le pratiche sessuali definiscono davvero l’identità di una persona? [Ah, no?] Mentre avanzano nuove teorie di genere e lo scienziato Umberto Veronesi ha sostenuto che saremo tutti bisessuali [in effetti lo ha proprio detto, ma la sensatezza delle idee di Veronesi riguardo questioni di genere ci è già nota: zero. Quella è roba da “teoria del gender“, che è una cosa un pochino diversa], in molte scuole italiane si è eliminata dai moduli la dicitura “madre e padre” a favore di identità neutre come “genitore 1 e genitore 2” [ecco, questa è mera ignoranza o ipocrisia. Lo si è fatto non a favore di identità neutre, che non esistono, ma per rispettare tutt*. Concetto molto più complesso, effettivamente]. «Si fa confusione tra identità e orientamento sessuale», accusa Risé [ma chi la fa? Chi non ne sa nulla, o forse chi legge solo Risé?], «il genere è fondativo dell’identità della persona, le pratiche sessuali sono una cosa diversa» [diversa ma mica tanto, il mio orientamento fa parte della mia identità, mica me lo invento ogni giorno come mi pare]. Nell’azzerare le differenze, a partire dal linguaggio, stiamo forse ingabbiando le identità in schemi che escludono la ricchezza espressiva, affettiva e spirituale, dei maschi in particolare? [E nel continuare a dire che qualcuno – non si sa bene chi, a parte i teologi convinti delle loro fantasie – sta annullando le differenze di genere e quindi elimina la ricchezza espressiva, affettiva e spirituale, dei maschi in particolare, di chi si fa il gioco, professor Risé? Dopo decenni di smascheramento di un patriarcato imperante, perché dire che chi vuole il male dei maschi in particolare sono gli studi di genere e non il patriarcato stesso, che li irreggimenta appena nati e ne costringe le vite dandogli benefici estorti con la violenza agli altri generi? Troppo comodo, vero? Meglio rifugiarsi nelle foreste?]

Potremo davvero fare a meno dei maschi? [Sì, ma mica tutti: cominciamo a fare i nomi. Io qualcuno ce l’avrei, eh] Qualcuna aspetta questo momento con trepidazione: presto, la donna gestirà totalmente la maternità con la fecondazione artificiale e sarà la disfatta totale del maschio, relegato a facchino, giardiniere, uomo di fatica [non si capisce perché l’una cosa implicherebbe necessariamente solo l’altra: non si potrebbe, per esempio, trombare in pace? Magari a la donna piacerebbe anche decidere se e quando averla, la maternità. Gestire vuol dire proprio questo eh. Invece no, dipingiamo la donna assassina]. Ma siamo sicuri che il mondo funzionerà meglio? «Il maschile e il femminile sono aspetti presenti dentro di noi, non possiamo distruggerli senza creare un disastro nella psiche. E non è vero che i figli senza padre stanno benissimo, gli studi in proposito affrontano archi temporali brevi, sono organizzati su base volontaristica e non sono attendibili» [ma che c’entra? Ma chi lo dice, Veronesi? Ma dove sta scritto? Ma come si fa a fare una intervista rispondendo a domande e asserzioni fantasma tutte da dimostrare?] assicura Risé. «Buona parte della propaganda sulla maternità senza padri è spinta dagli interessi delle società di ingegneria genetica e biotecnologica» [ammesso che quest’assurdità sia plausibile, chi le comanda queste aziende? Donne senza figli e con la fica robotica? A Risé, ma che stai a di’?].

Infine, una postilla sulle donne [come se finora non se ne fosse parlato]. Oltre al “maschio selvatico” si sono perdute anche Le donne selvatiche, titolo di un libro scritto dal professore con la moglie Moidi Paregger, sempre per le Edizioni San Paolo. «Le donne che seguo in analisi non sono gratificate, né rinfrancate dal sistematico assassinio del maschile» [e infatti vanno in analisi proprio per questo, suonano il campanello dello studio dicendo “dottore, mi apra la prego, non sono gratificata dal sistematico assassinio del maschile”. Ma si può dire e/o riportare una frase così?] osserva Risé. «Da millenni, l’evoluzione si basa sulle buone relazioni fra i due generi» [i quali infatti prima del sistematico assassinio del maschile stavano felici, vero? A giocare allo stupro nelle radure e sui carri. Proprio così è andata, la storia delle buone relazioni fra i due generi. Si vede proprio che Risé è uno che ha studiato. Annàmo bene.]

State pronti, eh: dopo questo Maschio Selvatico 2, seguirà Maschio Selvatico 3, poi Maschio Selvatico contro tutti, La vendetta di Maschio Selvatico, Zorro contro Maschio Selvatico, Il ritorno di Maschio Selvatico, Il figlio di Maschio Selvatico, Maschio Selvatico alla riscossa…

 

Deconstructing Aldo Busi e l’egoismo dualista

puzzlecunt_2Se c’è una cosa inutile e dannosa, in tutti i discorsi che si possono fare riguardo i generi e i sessi, è il dividere il campo in due fazioni: si/no, di qua/di là, con me/contro di me, bene/male, giusto/sbagliato, e così via. Per quanto la propria esperienza sia significativa, i propri studi profondi e le proprie intuizioni geniali, tutto ciò non potrà mai essere il metro di giudizio valido universalmente. Mai, perché nessun dualismo proposto come obbligo potrà mai dare conto della diversità di tutt*, e quindi rispettarne l’intoccabile libertà di scelta.
A quanto pare decenni di vita e pratica letteraria non hanno scalfito l’inossidabile egoismo di Aldo Busi. Chissà, forse gli è necessario per edificare la sua opera. Contento lui. Chi lo legge straparlare di corpi altrui, forse è un po’ meno contento.

Il corpo non si (ri)tocca
Al diavolo la chirurgia…

Guai a chi dà retta ai luoghi comuni su generi, ruoli sociali e sessualità
E soprattutto a chi si fa schiavo della holding della medicina plastica
[solo io leggo, già nel titolo, la volontà di mettere insieme discorsi che andrebbero ben separati e circostanziati? Cominciamo bene…]

Sarà che per me ogni persona umana è preziosa e bella e brutta e maschio e femmina e bianca e nera e colta e incolta per quel che è per come e dove nasce e, soprattutto, per quel che sente [tenete bene a mente questo inizio: per lui ogni persona umana è preziosa soprattutto per quel che sente, lo abbrevio con OPUEPSPQUCS] che non capirò mai perché si debba mettere una maschera industrialseriale a una faccia originale [perché sono affari suoi? Così, la butto là. Intanto, segnatevi la prima coppia: originale vs industrailseriale].

Per esempio, menomare il corpo con i tatuaggi [MENOMARE? Un tatuaggio è una menomazione? Ma è chiaro che significa, in italiano, menomare?] se non sei un Maori o un ergastolano con molto tempo libero da occupare, il piercing se non sei un Pirata dei Mari del Sud o la scarificazione se non sei un indiano Cherokee, con due seni femminili e addirittura una vagina se sei nato maschio [SCUSA? Tatuarsi equivale, o comunque è paragonabile, a cambiare sesso?], con un trapianto di fallo se sei nata femmina; non capirò mai che cosa significhi «sentirsi donna in un corpo di uomo» e viceversa [e chissenefrega se non lo capisci, il mondo è pieno di cose che non capisci che hanno tutto il diritto di starci e di non subire la definizione di menomazioni da te], e sono sicuro che chi dice di sé una tale enormità sta non solo sentendo ma anche pensando all’ingrosso e che, anzi, sia sentito e pensato da un plagio sociale sull’essere donna e sull’essere uomo. Invece di dare ascolto a se stesso, questa crisalide in divenire farfalla… e subito dopo blatta… [blatta è sicuramente un complimento per Busi, perché per lui OPUEPSPQUCS, ricordate?] dà retta ai luoghi comuni sui generi e sui ruoli sociali e sulla sessualità fino a lasciarsene invischiare e a voler modificare il proprio corpo per adeguarvisi [e se anche fosse tutto ciò non sarebbe affatto una menomazione, a casa mia, al massimo grave stupidità], guida al transito verso la mendace metamorfosi e salatissima operazione che, come la chirurgia plastica, sono diventate una vera e propria holding [e perché le distorsioni del mercato definirebbero l’essenza dell’operazione? Se invece di una holding fosse un “artigiano” a fare l’operazione, cambierebbe qualcosa? Aggiungiamo la coppia holding vs “fatto in casa”] che pochi osano sfidare e deridere e la presente considerazione [oddìo, Aldo Busi ci legge] non è una trovata del momento sulla scia di un movimento di opinione atto a porre dei limiti all’intraprendenza umana in fatto di genetica, lo scrivo da trent’anni (l’albina e insospettabile Geneviève d’Orian di Seminario sulla gioventù per darsi un’aria più muliebre si sarà fatta al massimo una tisana al Dente di cane, mai e poi mai un estrogeno) [anche trent’anni fa ci sarebbe sembrata una scemenza transfobica eh, la sostanza non cambia].

Ti senti donna e hai un pene? Ma lasciati crescere i capelli e portali pure con l’onda alla Doris Day o rapati a metà cranio e vestiti da donna (?) se ti va o non ne puoi fare a meno, ma intanto lascia stare il pene dov’è e sappi che la donna piatta, praticamente piatta quanto un uomo e l’uomo che ti ritrovi a essere, piace quanto una donna, ma meglio se donna all’origine, che porta la sesta di reggipetto [“meglio”: l’insindacabile unità di misura di Busi è il suo, di pene. Almeno dicesse perché, mentre vi ricordo che per lui OPUEPSPQUCS]. Ti stufi di sentirti donna e poi di non poter praticare nemmeno la masturbazione femminile? O ti stufi piuttosto di essere fatta sentire nient’altro che una chimera che invecchia e perde i pezzi e ritrova i peli? [Non sono un esperto eh, ma chi vive la condizione di non trovarsi a suo agio nel corpo nel quale è nato mi pare che si possa definire un pochino più che stufo. Giusto un tantinello più.] Tagliati i capelli, ora all’annegata per appuntire l’ovale ormai con una pappagorgia di troppo, anche se resta ancora il miglior ritrovato per camuffare l’impiallabile pomo d’Adamo [ah ah ah, che spiritoso sui corpi e sulle sensazioni altrui – però ricordiamoci che per lui OPUEPSPQUCS], alle minigonne sostituisci i pantaloni e al tacco tredici dei mocassini con la para e non è successo niente di niente a parte il beneficio per il tuo portafoglio [e non è successo niente, perché Busi ha il monopolio di ciò che provano gli altri, e lui può permettersi batuttacce sui tacchi mentre taccia il pensiero altrui di essere sentito e pensato da un plagio sociale sull’essere donna e sull’essere uomo. Complimenti vivissimi].

Perché la grande menzogna che ho sentito dire da tutti gli uomini operati è proprio questa: «L’ho fatto per piacere a me stessa». No, a me non la raccontate: l’avete fatto per piacere agli uomini e ai loro cliché sessisti; l’avete fatto per ovviare alla vostra omosessualità come altri vi ovviano entrando in seminario o nell’esercito [non mi pare proprio la stessa cosa, eh – e poi che senso ha dire che cambiare il proprio corpo è un rimedio all’omosessualità? Insomma, OPUEPSPQUCS, ma gli uomini operati no, so’ bugiardi e ipocriti, al massimo dei poveri imbecilli]; l’avete fatto perché nessuno vi ha fatto ragionare con il dovuto affetto intellettuale [che cos’è l’affetto intellettuale, e perché varrebbe più del comune rispetto? Ah, sì, quella cosa che OPUEPSPQUCS tranne quei poveri deficienti di uomini operati] quando ne avevate bisogno; l’avete fatto nel tentativo disperato di sfuggire a una barbara società di arcaico pregiudizio e siete caduti dalla padella alla brace, anche se la società maschilista, donne in primis [in primis le donne, per Busi, sono maschiliste], apprezza ben di più chi ha fatto il sacrificio di impiantarsi una maschera compromissoria [compromissoria? Ah, dunque chi si tatua o si opera ai genitali – cose che sembrano qui sullo stesso piano – dopo ha risolto? Dopo è “tuttapposto”, finito lì?] anziché affrontare il mondo a muso duro con la faccia, il corpo, i sentimenti che ha [un po’ difficile da fare se quella faccia e quel corpo non li senti i tuoi, Busi, ma a te questo piccolo particolare non interessa, per te è importante solo accettare la propria omosessualità come hai fatto tu, e tutti gli altri sono poveretti o cretini o bambocci manovrati]; l’avete fatto, e quasi sempre da bravi ragazzi siete diventati delle bestiole né-me-né-te da marciapiede, nel grande macello della carne con spaccio annesso [questo modo di giudicare, invece, non è un cliché sessista, vero? Complimenti].

Siccome ultimamente, dopo avere condannato la pratica degli uteri in affitto di madri succedanee, danno dell’omofobo e addirittura del papista a me… a me!… [in effetti bastava “ignorante e presuntuoso”, non c’era bisogno di scomodare parole complicate per chi condanna senza sapere ma dicendo che OPUEPSPQUCS], non parrà vero a questi faciloni venire a sapere ora che condivido nel modo più assoluto la definizione del cardinal Ravasi di «burqa di carne» [condividere un’immagine così delicata e rispettosa – non è un cliché sessista, vero? – con un cardinale dev’essere una fonte di piacere infinita, eh Busi? Contento lei…] per tutte quelle facce di donna e ormai di uomo devastate dalla chirurgia plastica [di nuovo, complimenti per il paragone, degno dei faciloni che sembrano essere il suo pubblico, Busi]. La questione è più pratica che morale, e tanto che diventa economica nel senso del bel risparmio: lavorate sulla mente e lasciate in pace il corpo [certo, perché qui c’è il corpo e là la mente; bentornato Cartesio. Oh, ‘sta moda vintage recupera proprio tutto eh? Terzo dualismo, corpo vs mente]. Tanto, con una mente così sballata che tutto concerta per farla sballare ancora di più, il corpo non potrà che andare a carretta e vi punirà amaramente, anzi, spietatamente e, ahivoi, irreversibilmente [siamo al corpo che si ribella contro la mente. Detto dall’autore di Cazzi e canguri (pochissimi i canguri) l’anatema suona credibilissimo].

Il maschile e il femminile [quarto dualismo] non è un Giano bifronte dato una volta per sempre in una vita umana: cambiano i canoni esterni, anche del kitsch, figurarsi quello della bellezza, cambia l’età anagrafica e interiore, cambiano i desideri, le aspirazioni, le ambizioni, i fantasmi, la percezione di se stessi, le mode e la fonte stessa delle disillusioni, e cambia anche il dolore di aver fallito perché fallita era in origine la strada intrapresa per anestetizzarlo, ci si incaponisce invece di arrendersi in tempo e dargli ragione, e non si può prendere del cortisone contro un semplice mal di testa [il consiglio di Busi è: dare ragione al dolore di aver fallito. Poprio quello che ha fatto lui, notoriamente, tutta la sua opera è lì a dimostrarlo].

Siate e mantenetevi passeggeri, non impegnate il corpo al monte della pietà che susciterete [però che immagine, si vede che è uno scrittore], non datela vinta ai vostri persuasori interessati, subdoli, patenti o occulti che siano, e tenetevi pronti a scendere a ogni istante dal predellino [fate come Busi: imponete le proprie scelte agli altri accusandoli di non accettarsi e di essere menomati e manovrati, e fatelo dal pulpito di un giornale di destra. Vi guadagnerete tanti amici]. Certo deve essere quello di un treno, più locale è e più fermate fa meglio è, una volta in orbita nessuno vi tirerà più giù: dovreste solo buttarvi giù, e non ne vale né il pene né la tetta. Infine, se gli uomini che aspirano a diventare donna anatomicamente sapessero in anticipo quanto puzzano di fiori sfranti e acque stagnanti e di corsia di ospedale a causa di ormoni, iniezioni di porcherie varie, protesi, tralasciando il conformismo di massa cui si ispirano, se ne guarderebbero bene dall’adulterare il loro naturale, e al confronto tanto più femminilmente afrodisiaco, odore di caprone nato [ed ecco che, puntuale come nel più reazionario e conformista dei discorsi, spunta l’amico di tutti i sessismi: il naturale. Questo sì che spiega cos’hanno in comune Busi e un cardinale. Quarto dualismo: naturale vs artificiale].

Basterebbe far ricorso quando serve alla banalità più edificante per avere la morale della storia più indiscutibile e anche salubre: ma tieniti come sei [ah, il naturale, che bello il naturale], tanto non c’è niente da cambiare fuori se non cambi dentro [il naturale è dentro, l’artificiale è fuori, tu puoi ritoccare il fuori quanto vuoi, tanto non cambi dentro – ma quanto è gretto e violento il discorso dualista? Uomo o donna dentro e fuori, naturale e artificiale… un bel passo avanti per l’umanità, non c’è che dire. Intanto, il quinto e finale dualismo: dentro vs fuori], ti aggiri sempre dalle parti della stessa caverna, e la clava, prova una volta a dartela in testa, magari è la volta buona.

[A casa mia questa si chiama transfobia. Anche se per chi la pronuncia dice che per lui OPUEPSPQUCS. Ma tanto che ne so io, io sono un menomato che legge Oglaf.]