La costruzione sociale dei corpi commestibili e degli umani come predatori
di Carol J. Adams.
Tratto da: C. Adams, «Ecofeminism and the Eating of Animals», Hypathia, No. 6, Spring 1991, pp. 134-137.
Traduzione di Marco Reggio, originariamente pubblicata su Diogene – Filosofare oggi, n°22 (marzo-maggio 2011), pp. 44-46.
Una rappresentazione pubblicitaria che promuove l’alimentazione carnivora giocando sull’alleanza tra «natura» e «cultura»: «Il reparto surgelati: il nuovo terreno di caccia dei carnivori», locandina della ditta francese Charal.
Siamo o no predatori? Nel tentativo di considerare noi stessi come esseri naturali, alcuni sostengono che gli esseri umani sono semplicemente predatori, come alcuni altri animali. Il vegetarismo, pertanto, è considerato innaturale, mentre il carnivorismo di altri animali viene reso paradigmatico. I sostenitori dei diritti animali sono criticati «perché non capiscono che il fatto che una specie dia o riceva sostentamento da un’altra rappresenta la modalità con cui la natura mantiene la vita» (Ahlers 1990, p. 433). Le profonde differenze rispetto agli animali carnivori vengono ignorate poiché la nozione dell’umano come predatore è conforme all’idea secondo cui noi abbiamo bisogno di mangiare carne. In realtà, il carnivorismo è un dato di fatto solo per il 20% circa degli animali non umani. Possiamo davvero generalizzare a partire da questo dato e sostenere di conoscere precisamente che cosa sia la «modalità naturale», e possiamo estrapolare il ruolo degli umani conformemente a questo paradigma?
Alcune femministe hanno sostenuto che mangiare animali sia naturale perché noi non possediamo il doppio stomaco o i molari piatti tipici degli erbivori ed inoltre gli scimpanzé mangiano carne e lo considerano un cibo speciale (Kevles 1990). Questo argomento tratto dall’anatomia implica un’operazione di filtraggio selettivo. Infatti, tutti i primati sono principalmente erbivori. Sebbene alcuni scimpanzé siano stati osservati mentre mangiavano cadaveri – al massimo sei volte al mese – alcuni di essi non ne mangiano mai. La carne di cadavere costituisce meno del 4% della dieta degli scimpanzé; molti mangiano insetti, e non mangiano latticini (Barnard 1990). Vi sembra paragonabile alla dieta degli umani?
Gli scimpanzé, come la maggior parte degli animali carnivori, sono apparentemente molto più adatti a catturare animali rispetto agli umani. Noi siamo molto più lenti. Loro possiedono canini molto sporgenti per strappare la pelle; tutti gli ominidi hanno perso i lunghi canini 3,5 milioni di anni fa, apparentemente per facilitare la frantumazione necessaria ad una dieta a base di frutta, foglie, semi oleosi, germogli e legumi. Se anche noi riusciamo ad afferrare le prede, non possiamo lacerarne la pelle. È vero che gli scimpanzé si comportano come se la carne fosse un cibo speciale. Quando gli umani vivevano come raccoglitori e quando il petrolio era raro, la carne degli animali morti era una buona fonte di calorie. Può darsi che la connotazione di «cibo speciale» abbia a che fare con una capacità di riconoscere fonti di calorie concentrate. Comunque, non abbiamo più bisogno di fonti di calorie concentrate come il grasso animale, dal momento che il nostro problema non è la scarsità di grasso ma piuttosto l’eccesso di grasso.
Quando viene presentato l’argomento per cui mangiare carne sarebbe naturale, si presume che si debba continuare a consumare animali perché questo è ciò di cui abbiamo bisogno per sopravvivere: per sopravvivere conformemente ad una vita libera dai vincoli artificiali e culturali che ci privano della possibilità di esperire la nostra reale essenza. Il paradigma degli animali carnivori fornisce la rassicurazione che mangiare animali sia naturale. Ma come facciamo a sapere che cosa è naturale quando si tratta di alimentazione, sia per via della costruzione sociale della realtà, sia per via del fatto che la nostra storia indica un messaggio molto ambivalente riguardo il cibarsi di animali? Alcuni li mangiavano, ma la maggior parte no, o almeno non in grande quantità.
L’argomento riguardante che cosa sia naturale – ovvero, secondo un significato di tale termine, non culturalmente costruito, non artificiale, ma qualcosa che riporta alla nostra vera essenza – si ritrova in un contesto diverso che desta sempre dei sospetti da parte delle femministe. Viene spesso sostenuto che la subordinazione della donna all’uomo è naturale. Questo argomento cerca di negare la realtà sociale facendo appello a quella «naturale». L’argomento del predatore «naturale», analogamente, ignora la costruzione sociale. Dato che mangiamo cadaveri in modo molto diverso da qualsiasi altro animale – smembrati, non appena uccisi, non crudi, e accompagnati da altri cibi – che cosa rende naturale tale abitudine?
La carne è un costrutto culturale fatto per sembrare naturale e inevitabile. Nel momento in cui viene elaborato l’argomento dell’analogia con gli animali carnivori, l’individuo che lo elabora ha probabilmente consumato animali da prima ancora di aver imparato a parlare. Le razionalizzazioni del consumo di animali sono state probabilmente suggerite quando questo individuo, all’età di quattro o cinque anni, è rimasto sconcertato nello scoprire che la carne proviene da animali morti. Il sapore dei corpi morti viene prima delle giustificazioni razionali, ed offre una forte base per credere che tali razionalizzazioni siano vere; inoltre, i figli del boom economico hanno dovuto fare i conti con un ulteriore problema, e cioè con il fatto che durante la loro crescita carne e latticini sono stati consacrati come due dei quattro gruppi di cibi fondamentali. (Questo è accaduto negli anni Cinquanta come conseguenza di un’azione lobbystica dell’industria della carne e del latte. All’alba del nuovo secolo, ci sono invece dodici gruppi di cibi fondamentali.) Quindi gli individui non hanno semplicemente sperimentato una gratificazione a livello di gusto nel mangiare animali, ma forse credono davvero a quanto è stato loro detto incessantemente fin dall’infanzia, ossia che gli animali morti sono necessari per la sopravvivenza umana. L’idea che mangiare carne sia naturale si sviluppa in tale contesto. L’ideologia fa sembrare naturale, predestinato ciò che è artificiale. In realtà, l’ideologia stessa scompare dietro la facciata per cui si tratterebbe di una questione di «cibo».
Noi interagiamo con singoli animali quotidianamente nel momento in cui li mangiamo. Ciò nonostante, questa relazione e le sue implicazioni sono ricollocate in modo che gli animali scompaiano e che si possa dire che stiamo interagendo con una forma di cibo che è stata chiamata «carne». In The Sexual Politics of Meat, ho chiamato questo processo concettuale in cui l’animale scompare la struttura del referente assente. Gli animali di nome e di fatto vengono resi assenti in quanto animali affinché esista la carne. Se gli animali sono vivi non possono essere carne. Dunque, un corpo morto sostituisce l’animale vivo e gli animali diventano referenti assenti. Senza gli animali non ci sarebbe alcun carnivorismo, eppure sono assenti dall’atto di mangiare carne poiché sono stati trasformati in cibo.
Gli animali vengono resi assenti attraverso il linguaggio che rinomina i corpi morti prima che i consumatori condividano il fatto di cibarsene. Il referente assente ci permette di dimenticarci dell’animale in quanto entità a sé stante. L’arrosto nel piatto è smembrato a partire dal maiale o dalla scrofa che una volta era. Il referente assente ci permette inoltre di resistere ai tentativi di rendere presenti gli animali, perpetuando una gerarchia fra mezzi e fini.
Il referente assente deriva dalla prigionia ideologica e la rinforza: l’ideologia patriarcale stabilisce la posizione culturale di uomo e animale; crea dei criteri che presuppongano l’importanza della differenza di specie quando si considera chi può essere un mezzo e chi può essere un fine, e poi ci indottrina a credere che abbiamo bisogno di mangiare animali. Contemporaneamente, la struttura del referente assente mantiene gli animali assenti dalla nostra comprensione dell’ideologia patriarcale e ci rende restii a considerare gli animali come presenti.
Ciò significa che dobbiamo continuare ad interpretare gli animali dal punto di vista dei bisogni e degli interessi umani: li vediamo come utilizzabili e consumabili. Molti discorsi femministi sono partecipi di questa struttura nel momento in cui non riescono a rendere visibili gli animali.
L’ontologia riassume l’ideologia. In altri termini, l’ideologia crea ciò che appare come ontologico: se le donne sono ontologizzate come oggetti sessuali (o stuprabili, come sostengono alcune femministe), gli animali sono ontologizzati come fonti di carne. Ontologizzando donne e animali come oggetti, il nostro linguaggio elimina contemporaneamente il fatto che qualcun altro agisca come soggetto / agente / esecutore di violenza.
Sarah Lucia Hoagland dimostra come funziona tale meccanismo: «John ha picchiato Mary» diventa «Mary è stata picchiata da John», poi «Mary è stata picchiata», infine «donne picchiate», e quindi «donne maltrattate». Hoagland fa notare che «ora qualcosa che gli uomini fanno alle donne è diventato al contrario qualcosa che è parte della natura delle donne. E perdiamo completamente di vista John».
La nozione del corpo animale come commestibile si presenta in modo analogo e rimuove l’azione degli umani che comprano animali morti per consumarli: «Qualcuno uccide gli animali in modo che io possa mangiarne i corpi sotto forma di carne» diventa «gli animali vengono uccisi per essere mangiati come carne», poi «gli animali sono carne», infine «animali da carne», e quindi «carne». Qualcosa che facciamo agli animali è diventato al contrario qualcosa che è parte della natura degli animali, e perdiamo completamente di vista il nostro ruolo.
Bibliografia
Julia Ahlers, «Thinking like a mountain: Toward a sensible land ethic», Christian Century, April 25, pp. 433-34.
Neal Barnard, «The evolution of the human diet», in The power of your plate, TN: Book Publishing Co, 1990 Summertown.
Sarah Lucia Hoagland, Lesbian ethics: Toward new values, CA: Institute for Lesbian Studies, 1988 Palo Alto.
Bettyann Kevles, «Meat, morality and masculinity», The Women’s Review of Books, May 1990, pp. 11-12.