La fine è importante in tutte le cose

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Provi a non pensarci: ogni giorno ti alzi come fosse sempre il primo. E’ un’illusione che ci accompagna in ogni nostra azione quotidiana, la pia speranza che tutto ciò che amiamo, tutto ciò che ci sembra appartenerci e definirci possa continuare per sempre. Cerchiamo di mettere radici e di sentirci invincibili di fronte allo scorrere del tempo, della vita stessa.

Lei, imperturbabile, silenziosamente ma inesorabilmente rosicchia pezzettino dopo pezzettino quello che tanto ci siamo affannati a costruire, che con fatica abbiamo realizzato e crediamo saldo e finalmente acquisito.  Succede sempre, è una delle poche costanti che non vogliamo vedere né ammettere: tutto cambia, e tutto finisce.

Intersezioni è stato un progetto politico fondamentale per chi ne ha fatto parte: eravamo – e forse ancora siamo – persone molto diverse, ma accomunate dalla passione politica e da una convinzione, intuitiva ma potente, che il futuro dei movimenti per la liberazione, umana e non umana, dipenderà dalla capacità di includere il variegato caleidoscopio delle lotte in una sollevazione animale, etica e politica dirompente.

Senza questa inclusività, non c’è futuro, e ognun* soffocherà nella piccola pozza della propria lotta “personale”, prosciugata dal sol dell’avvenire che non è proprio quello che ci si augurava… Le magnifiche sorti e progressive si sono dimostrate quello che sono: una vera sòla.

L’intersezionalità ha ampliato in maniera incommensurabile gli orizzonti di quel “personale/politico” dal quale siamo partit*.

Esperienze queer, trans, prospettiva decoloniale e lotta di classe hanno arricchito il femminismo e l’antisessismo che ci ha avvicinat*. L’antispecismo ci ha dimostrato, nel personale e nel politico, come si possa essere crudeli e ciech* oppressor* anche quando si crede di lottare per la “liberazione”, e che più duro e difficile è riconoscere e rinunciare ai propri privilegi piuttosto che chiedere ad altr* – a chi è veramente “cattivo”?! –  di rinunciare ai propri (a far quello siam brav* tutt*).

L’intersezionalità ci ha fatto crescere politicamente, e oggi più di ieri la riteniamo fondamentale.

Eppure in questi anni di attivismo abbiamo anche compreso che la politica radicale non è evidentemente ancora pronta ad accogliere questa idea: probabilmente perché troppo dirompente, troppo personale. Guardarsi allo specchio e scoprire che il peggior nemico ce lo portiamo dentro è per troppe persone ancora incredibilmente doloroso. Sentir crescere in sé la consapevolezza che non esistono dualismi netti, che la capacità di opprimere ce l’hanno insegnata fin da piccol* e che la agiamo nel nostro quotidiano, che non siamo migliori proprio di nessun*, fa male.

E rinunciare ai propri privilegi è dura. E’ scomodo, ti toglie quella libertà di “fare quello che ti pare” con le vite e le libertà altrui.

Noi in questi anni ci abbiamo provato, a far crollare queste barriere di incomunicabilità. Non è stato facile, anzi è stato molto difficile. Ci abbiamo messo, testa, cuore, tempo e fatica. Abbiamo scoperto inaspettate alleanze, ma anche, tristemente, inaspettate quanto testarde resistenze, anche in quegli ambienti “militanti” che credevamo affini per definizione.

Questi anni bellissimi e durissimi oggi ci presentano il conto: e ci guardiamo per quello che siamo, attivist* stritolati da vite precarie, sempre più dure e faticose. Gli anni passano, le forze vengono meno, le resistenze sono sempre là dove le abbiamo lasciate, la repressione guadagna strada.  Le alleanze si fanno sottili e le nostre vite si sfilacciano sotto i colpi di politiche assassine.

Forse è tempo di tornare gli animali che siamo.

Grazie per esserci stat*. Ci auguriamo che dei semi che abbiamo sparso a piene mani, qualcuno prenda forma, cresca e si faccia forte. Non sappiamo cosa ci aspetta nel futuro, ma sappiamo che non è più qui: forse chissà, ci sarà un nuovo inizio, ma passerà di sicuro attraverso questa dolorosa fine.

E abbiamo capito quanto coraggio ci vuole per diventare una semplice farfalla.

Nuovo requiem per un camion di maiali

pigGuardo i loro volti agonizzanti sull’asfalto, la bocca aperta per un ultimo, ansimante respiro. In altre immagini, i corpi ormai immobili sono caricati su di un camion con un argano, issati per i piedi, materia senza più vita. Parole di crudeltà mi feriscono nel profondo: “merce”, “carico”. Le vittime contabilizzate sono molte più di quelle dichiarate sui giornali, loro però non fanno parte del computo del lutto, perché non ne sono degni: del resto erano nati per morire. Ed è inspiegabile la tristezza, e la stanchezza. Dover spiegare ogni volta perché quelle vite SONO degne di lutto. Doversi giustificare, trovare motivazioni filosofiche, sociologiche, energetiche, ecologiche, per vedersi riconosciuto il diritto alla compassione, ad una vita il più possibile gentile, il meno possibile crudele. Perché siamo diventat* quello che siamo? Interrogo quel poco che so, ma fatico a trovare una risposta.

E non ho più voglia, davvero nessuna, di dover argomentare attraverso lunghe digressioni quello che sento essere l’unico modo giusto, o perlomeno il più giusto per me, di stare al mondo. Si può fare? Sì. E allora si deve fare. Perché se davvero essere “umani” significa qualcosa – io non lo credo, ma va tanto di moda, da qualche secolo a questa parte, appellarsi all’eccezionalità della nostra supposta umanità  – dovrebbe aver a che fare con l’essere compassionevoli, quando in verità a me pare che l’umanità sia, in realtà, l’esatto opposto.

L’essere umano è, per la maggior parte del tempo, assai crudele.

Animale umano di sesso femminile catapultato in questo mondo non per mia volontà,  non mi ci è voluto molto a capire che, per quanti privilegi potessi avere (perché sono bianca, perché sono cisgender, perché sono di classe più o meno media, perché ho potuto studiare, perché non ho disabilità *troppo* evidenti) erano altrettante le oppressioni che avrei dovuto affrontare su base quotidiana. E così è stato, e contro quelle oppressioni lotto tuttora, ogni giorno.

Ma ancora prima di tutto questo, ancor prima di sentirmi – e pertanto dichiararmi –  femminista, ho sentito in maniera inequivocabile dentro di me uno sdegno intollerabile per quello che viene fatto agli altri animali. E’ stato più semplice e più immediato, perché – ora ne sono certa – non ho mai perso contatto con l’animale che dunque sono. E quell’animale, mai disprezzato, a volte stupito e confuso, non ha mai smesso di com-patire, di sentire e farsi attraversare dall’altr*.

Come si può ridere della sofferenza altrui? Come si può agire con crudeltà, come si può restare indifferenti? Cosa vedono gli occhi distaccati e freddi, quando altri occhi li fissano vitrei ma ancora mobili, ancora in cerca di un altro sguardo a cui aggrapparsi, perché questo è quello che qualunque vivente fa quando sta per morire?

Dove sta nascosta la tanto millantata umanità in quei momenti? E qual’è quel momento in cui, da splendidi bruchi pieni di stupore per la vita crescendo diventiamo farfalle orrende, velenose e assassine? Per quale motivo ci assoggettiamo ad una “realtà” cucitaci addosso con brutalità, invece di lottare, ribellarci e rivendicare la nostra libertà, il nostro desiderio, la nostra felicità? Un cavallo, un’orca, persino un esile merlo hanno più coraggio di noi, e tutti sono disposti a pagare, persino con la vita, quel bene che sanno supremo e non vogliono perdere.

Siamo i più addomesticati tra gli animali, più delle tanto vituperate pecore, delle galline tanto ingiustamente tacciate di stupidità. Siamo codardi e feroci e conformist*. A guardarci con onestà, a fissarci nudi, di fronte ad uno specchio, facciamo davvero paura.

Questo non voglio per me, e spero che nessun* lo desideri. Mi voglio strappare di dosso questa pelle non mia, questa pelle che han cercato di cucirmi addosso e che soffoca l’animale che è in me, in ognun* di noi, rendendolo noncurante e insensibile. Fa molto male, indubbiamente, ed espone ad un continuo e rinnovato dolore. Quella che resta è una pelle sensibile, porosa, che non riesce a proteggere, o almeno non del tutto, dal dolore che permea il mondo e di cui noi, così “umani”, siamo tanta parte. Parrebbe quasi un esercizio masochistico, non fosse che l’alternativa è ancora più agghiacciante, ed è non riconoscere l’altr*, non sentirne le gioie e i tormenti, e in questa distanza invisibile ma incolmabile perdere se stess*, diventare comparse inutili in un copione scritto da altr*.

“No! I am not Prince Hamlet, nor was meant to be;
Am an attendant lord, one that will do
To swell a progress, start a scene or two,
Advise the prince; no doubt, an easy tool,
Deferential, glad to be of use,
Politic, cautious, and meticulous;
Full of high sentence, but a bit obtuse;
At times, indeed, almost ridiculous—
Almost, at times, the Fool.”

E’ questo il motivo, e quasi riguarda più me di loro: perché non voglio perdermi, e voglio poter chiudere gli occhi ogni giorno con il cuore, se non altro, un pò meno pesante.

Ed è perché, assieme al dolore, si ricomincia ad essere attraversat* anche dalla felicità degli animali, che sono capace di soffrire per un camion di maiali.

Ps: Questo era il primo requiem.

Pensieri occasionali sulla cultura dello stupro

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Ogni giorno sono rabbiosa testimone di come uomini e donne di ogni età rinforzino con le proprie affermazioni, giudizi – e soprattutto pregiudizi – quella cultura dello stupro che fa di ogni donna (cisgender, lesbica o trans) la candidata ideale di uno stupro “giustificabile”.

L’idea, profondamente radicata, che uno stupro sia causato dal comportamento di chi lo ha subito è continuamente rinforzata da una forma di “buoncostume” introiettata ed agita acriticamente dalla maggior parte delle persone, che fa di ogni individuo il controllore dell’altrui moralità. Una moralità che comunque ha sempre un doppio standard, lasciando alle donne l’onere di difendere una propria presupposta “virtù”, e agli uomini la scusante di “avere delle esigenze irrinunciabili”.

Io non sento di avere virtù da proteggere, ma in quanto persona e non “oggetto del desiderio”, rivendico la mia consensualità e quella delle altre donne. Non sono mai stata stuprata, ma ho provato sulla mia pelle e assistito quasi quotidianamente, nel corso della mia vita, al crearsi delle condizioni adeguate perché ciò potesse accadere anche a me. Sono stata finora fortunata, non c’è dubbio.

L’estate, ad esempio, è tra i periodi dell’anno quello peggiore. Quando fa veramente caldo, e si lasciano nel guardaroba jeans e maglioni per indossare vestiti più freschi ed evitare il collasso da calore, subito si avverte un cambiamento negli sguardi, nelle “battute”, nella tracotanza di certi individui.

In A Tight Situation

Parlare con qualcuno che ti fissa la scollatura – a volte nemmeno quella, basta un tessuto troppo leggero e il risultato è il medesimo – con insistenza, anche quando tu mostri chiaramente di non gradire. Vedere una ragazza che in una sera d’estate, con qualche cocktail di troppo sullo stomaco, viene palpeggiata contro la sua volontà da uomini appena conosciuti o “amici” con la scusa di essere sorretta perché barcollante, magari tra gli sguardi compiacenti e compiaciuti degli uomini intorno. Sentire le donne continuamente accusate di avere comportamenti che istigano allo stupro, evidentemente rifacendosi ad un’idea radicata che vede la donna come la paradigmatica provocatrice, e l’uomo come la vera vittima, incapace di sottrarsi alle lusinghe… non è forse questo che tramandano da millenni con la storiella di Adamo ed Eva?

Questo ribaltamento delle responsabilità è funzionale ad assolvere chi perpetra una violenza, e impedisce alle donne, di fatto, di esprimere una qualsivoglia assertività di fronte alle proprie scelte sessuali. Quello che quasi qualsiasi uomo fa di continuo, ovvero 1. esprimere in maniera esplicita i propri desideri e appetiti sessuali 2. essere libero di mostrare il proprio corpo senza per questo rischiare una violenza 3. corteggiare in maniera evidente (anzi, a volte estremamente testarda e insistente) una donna – spesso anche indipendentemente dai segnali di gradimento o fastidio della stessa – non sono considerati comportamenti accettabili in una donna.

Anzi peggio, sono considerati come un semaforo verde che rende quella donna non una persona emancipata ed assertiva, ma un oggetto dell’altrui desiderio perennemente a disposizione. L’assurdo di tutto questo è che anche il contrario è ugualmente vero, e per questo motivo esistono gli “stupri correttivi” perpetrati ai danni delle donne lesbiche, colpevoli a loro volta di non essere corpi a disposizione del desiderio maschile, ma corpi dissidenti nei desideri e sottratti alle dinamiche di potere capaci di insinuarsi, in una cultura patriarcale, anche nelle relazioni consensuali tra uomini e donne. Per non parlare di quello che devono sopportare le donne trans, che vengono costantemente sessualizzate come se la transessualità fosse qualcosa di intrinsecamente ‘erotico’.

Questa cultura tossica che continua a rovinare la vita di tante donne è rinforzata e agita senza sosta sia dagli uomini che da molte, troppe donne. Persone che si scandalizzano, ad esempio, di come “le tredicenni oggi si vestano da puttane”, implicando con questo che 1. Le puttane siano donne stuprabili; 2. Sia colpa delle adolescenti se, immerse in una cultura che insegna a tutte le donne che il più alto valore e asset a loro disposizione è il loro corpo, mettono in pratica ciò che viene loro insegnato così bene; 3. Ci si dimentichi che l’adolescenza è un periodo di grande sperimentazione, fisica e sessuale, ma che è criminale che un uomo adulto si autoassolva dei propri pensieri e gesti potenzialmente violenti nei confronti di una ragazzina, giudicandola consapevole e soprattutto responsabile degli effetti che, in una cultura come questa, ha un certo aspetto esteriore e derubricando il fatto che è lui, in quanto persona adulta, a dover mettere in pratica il proprio autocontrollo contro tali “irrinunciabili” istinti.

Original-Handjob-Patent-DocumentE qui è necessaria una specifica sulle “esigenze” maschili: le vostre esigenze lasciano indifferenti. Avete le mani, o no? Esiste una quantità di oggettistica sexy impressionante oggigiorno, imparate a soddisfarvi da soli. Imparate (ed insegnate) che il sesso deve essere consensuale, che non deve essere per forza penetrativo, che – se solo per sfogare istinti – bastano le proprie mani e un po’ di fantasia. E che gli “istinti” non giustificano mai l’uso di violenza e coercizione. Mai.

Sono femminista. Vivo con disinvoltura il mio corpo, ma questo non è un invito allo stupro. Mi piace corteggiare e non ho problemi ad esprimermi in maniera sessualmente esplicita, ma questo non è un invito allo stupro. Sento di poter decidere in qualsiasi momento di non voler andare oltre e di poter dire “no”. Una frase esplicita, uno sfioramento di pelle, un bacio non sono un lasciapassare per qualsiasi cosa e non sono un invito allo stupro. Nemmeno se stiamo insieme da anni, nemmeno se una volta ho magari pensato che avrei desiderato andare oltre: tutto questo non è un invito allo stupro.

La consensualità non è difficile da capire: basta chiedere, e comportarsi di conseguenza; cogliere i segnali di chi si ha di fronte, e in caso di incertezza – cautelativamente – interpretarli come un no.

Nel dubbio, una sega in più vi renderà sicuramente uomini migliori.

La risposta, amica mia, sta latrando nel vento

dandelion-blowing-in-wind1resizedVicino a casa c’è un terreno recintato, un frutteto direi, se non fosse che un’alta siepe mi impedisce di vedere chiaramente attraverso. Nel frutteto ci sono due cani, che, contro ad ogni logica, sono tenuti a catena. Un beagle, ne sono certa dal modo di abbaiare, e un cagnone non meglio identificato che ho intravisto una volta affacciarsi in uno spiraglio del muro vegetale. Sono soli tutto il giorno, alla catena, e il beagle in particolare, abbaia di continuo. Da quando vivo qui, mi sono fatta mille domande: qual è il senso di tenere a catena due cani in un terreno recintato, tenuto a prato e alberi da frutto? Soli, ma nemmeno liberi di muoversi, di giocare insieme, di stringersi l’uno all’altro durante un temporale? Conosco già la trafila che non porta a niente: negli anni ho tentato di tutto in questi casi, soluzioni ufficiali e meno ufficiali, ma – il più delle volte – chi ha il tarlo della catena, anche quando gli porti via un cane in capo a qualche settimana ne mette uno nuovo allo stesso posto. E così subisco questa tortura quotidiana.

Ogni giorno la crudeltà umana mi sveglia, e ogni sera mi impedisce di dormire. La crudeltà latra, latra di continuo, è la sirena che ogni giorno mi prepara ad altre crudeltà a venire. E che ogni sera mi augura di non riposarmi bene, perché anche l’apparentemente pacifica notte in questo pianeta rotondo è un giorno crudele da qualche altra parte.

A farci caso, la crudeltà umana è varia e multiforme, e non si ferma dinanzi a nulla.

La vedi nelle piccole cose come in quelle più grandi. La vedi nell’indifferenza alla sofferenza, come nel godimento dissimulato per le disgrazie altrui. E non soltanto verso gli animali, o verso le persone sconosciute. La vedi nei colleghi di lavoro quando a vedersi fatt* fuori dopo anni di precariato sono altr* e non loro. La vedi nei vicini di casa frustrati, che si ingegnano in guerre di logoramento per i motivi più banali. La vedi nello sguardo di disprezzo per chi tende una mano verso un finestrino ad un semaforo, o in quello di indifferenza di un pescatore che tiene un corpo vivo, che si contorce e soffoca, tra le mani.

E’ forse questa la banalità del male? Di quali e quanti atti spaventosi possono macchiarsi le persone “normali”?

Rivendico la mia anormalità. La crudeltà mi annichilisce e mi ossessiona, e del personale ho dovuto fare politico per non uscire di senno. Perché attraverso la consapevolezza, la crudeltà si dispiega in tutta la sua potenza di fronte ai miei occhi. Scegliendo di vedere, non di raccontarmi favole o giustificazioni capaci di tacitare la mia coscienza, mi sono trovata circondata di crudeltà, e dell’indicibile sofferenza che porta con sé. Ogni giorno.

Ho dovuto fare i conti con le mie quotidiane crudeltà: il compito non è facile, ma nemmeno impossibile, e soprattutto non è mai finito.In questo sforzo personale ho trovato il senso di un agire politico che tenta di smascherare quella crudeltà che ci hanno insegnato a considerare “normale”.

Normale è una parola così violenta, non è vero? Ciò che è normale non è giusto, non è etico, non è equilibrato. Conforme alla consuetudine e alla generalità, regolare, usuale, abituale, questo è normale. E se la consuetudine è violenta, se è razzista, se è misogina, se è crudele… allora tutto questo è perfettamente “normale”, ma aberrante per chi riesce a vederlo.  Per chi vuole vederlo.

E così ti dibatti nella situazione paradossale di essere tu, che vedi tutta questa crudeltà e tenti di combatterla e di smascherarla, ad essere “estremista”, “terrorista”, “intransigente”.

Sei ipersensibile perché non vuoi più vedere fiumi di sangue di non umani e umani scorrere, per il “piacere” di addentare un panino o per l’ultimo modello di smartphone disponibile. Sei naif, perché “così vanno le cose, così devono andare”. Sei inopportun*, perché “con tanti problemi, prova a pensare alle cose realmente importanti”.

Ma lo faccio, dannazione, ogni maledetto giorno! Cosa c’è di più urgente della lotta alla normalizzazione della crudeltà?

Quella che fa più male non è la persona che vede la crudeltà e ne è indifferente, ma quella che non la vuole vedere. Quella che addenta un panino al prosciutto e in quell’atteggiamento assolutamente schizofrenico ma completamente “normale”, di fronte ad un maialino sospira di tenerezza, e di fronte ad un’immagine del mattatoio distoglie lo sguardo perché “quelle cose non le posso vedere”.

“Quelle cose” raccapriccianti, che sono diretta conseguenza della carne rosea che fa capolino tra le fette di pane? Carne rosea strappata ad un essere vivo e indifeso, quando se ne poteva fare a meno, perché si può essere felici anche senza causare tutto questo dolore.

Quella crudeltà (e stupidità) che, di fronte ad una collega di più di quarant’anni, lasciata a casa senza un lavoro,  mormora  – tra un sospiro di sollievo e l’altro, rincuorata per non essere stata vittima dello stesso destino –  che “in fondo se l’è cercata, con quel carattere orribile”, solidarizzando con chi sfrutta e gioca con le vite altrui e con la propria.

Stupendosi poi dell’indifferenza che un giorno, con tutta probabilità, dovrà attraversare dopo aver subito lo stesso trattamento.

Quella crudeltà e stupidità e conformismo che si sente migliore di qualunque “diversità”, nell’illusione o speranza di essere più simile a chi ha costruito a tavolino gerarchie di “consumabilità” per parassitizzare chiunque non faccia parte dell’élite autodefinitasi tale… tutt* coloro che si affannano per farne parte, e che il resto si fotta, invece di unirsi per demolirne le fondamenta.

E nonostante la consapevolezza di tutto ciò sia a tratti annichilente, quando imbocchi questa strada coltivi sempre una speranza… perché sai che in fondo, è tutto così complicato ma anche così semplice.

Prende le mosse da un desiderio animale, un desiderio di libertà e felicità, vera, tangibile, concreta, anormale. Eccedente gli angusti spazi di manovra delle “libertà” e “felicità” concesse, una libertà che non vuole nuocere ad altr*, perché sa che per essere felici non ce n’è bisogno. Una libertà che vuole essere contagiosa, non esclusiva. Una libertà che sa che non può esistere autentica felicità quando tutto intorno ci sono solo cadaveri e grida e morte e lacrime e sofferenza.

Una libertà che richiede prima di tutto uno sforzo di verità: una verità scomoda, ma essenziale. Una verità che non limita, come alcun* sembrano suggerire, ma amplifica.

Quella verità che rende liber*, e che dimostra di riuscire a far capolino anche nei peggiori dispositivi di potere e di oppressione, perché la libertà è il bene più grande per ogni animale e il fondamento della felicità… anche per quelle “scimmie fuori controllo” che siamo.

Soprattutto, quella libertà che nel liberarci è capace di liberare anche chi ci sta intorno, che cammini a 2 o 4 zampe, che abbia ali o pinne o tette o pelle dei colori dell’arcobaleno.

La libertà è contagiosa, ma richiede una certa dose di coraggio in tempi così intrisi di oppressione e privilegio. Quel coraggio che possiamo trovare nel confrontarci con la crudeltà che per quanto diffusa, per quanto dissimulata, per quanto normale non riesce a spegnere i latrati dell’anelito ad una vita degna di questo nome. Basta volerli ascoltare.

La mignotta nella testa

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Bene, finita la mania dell’arcobaleno? Per carità, c’è da essere contenti che un uomo nero dichiari legale il matrimonio gay da presidente del suo paese, e che quel paese sia la guida economica – e non solo – di tutto l’occidente.  Non è male, ma la strada è ancora molto lunga, e non è detto che quella imboccata sia la direzione giusta.

Il matrimonio è comunque un contratto che fa parte di una gamma di istituzioni tipicamente patriarcali, strettamente connesso con un certo concetto di famiglia, certi dispositivi legali di diritto ereditario, un preciso modo di concepire e regolare i rapporti tra i generi… insomma sì, va bene, beati monoculi in terra caecorum, ma non è che il tutto sia scevro di critiche. Anche perché il silenzio tombale su libertà di aborto, per dire, non è che prometta niente di buono per il futuro.

Prima di tutto c’è il solito dubbio, sui provvedimenti sociali calati dall’alto, che questi siano una bella operazione di facciata e/o di opportunismo politico: rainbow washing(ton)? Forse sì, in un paese dove già ci si lamentava dell’eccessivo marketing arcobaleno in tempi non sospetti. Poi ci sarebbe – ripeto, pur nella dovuta gioia per chi aspettava comunque da decenni un minimo traguardo di civiltà – da fare un raffronto tra paesi, prima di essere contenti. Qui è stato facile farsi invadere da tante mode USA, ma per questa temo che ci sarà qualche ostacolo in più rispetto al jeans, al rock’n’roll, e così via.

No, perché intanto che milioni di italiani si sono arcobalenizzati il profilo facebook, in Italia si continua non solo a stuprare, ma a dare la colpa a chi viene stuprata. E a pensare alla castrazione come a una soluzione al problema. Sì, la castrazione, la versione chirurgica delle ruspe salviniane: la rimozione fisica della “causa visibile” del problema. L’incontrollabile libido dello stupratore, l’incontrollabile alloggio del nomade. Entrambi da spazzare via, da annullare. Non a caso entrambe le soluzioni arrivano proposte dalla stessa parte politica.

Forse dipende dal fatto che qui, sempre dall’alto, è calata una fantasmatica “teoria del gender” per costruire una nuova propaganda contro ogni forma di educazione sessuale? Forse perché in questo paese un pensiero omofobo e patriarcale come il cattolicesimo permea così tanto il senso comune da rendere credibile che la “famiglia tradizionale” sia in pericolo – la stessa famiglia che viene accusata di lasciare in giro una sedicenne a mezzanotte? Forse questa micidiale miscela di ipocrisie ha come risultato – uno dei tanti – che un tizio pagato dal paese che non spende una lira in educazione sessuale, ma milioni di euro in educazione militare (“i nostri marò!”), stupri una sedicenne spacciandosi per un altro tizio in divisa, e un numero schifosamente grande di persone pensa che lei se la sia cercata?

Difendiamoci pure, noi con milioni di profili con l’arcobaleno, pensando la solita storia del malato, dell’eccezione, dello schifoso-gliela-farei-vedere-io. Come già detto in occasione del poliziotto che tortura (che dite, ci sarà un legame pure tra cultura patriarcale e difesa della violenza di Stato?), non è una mela marcia: è l’albero che ha qualcosa che non va.

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Ci sarebbe anche da dire, date le migliaia di commenti che danno alla sopravvissuta allo stupro – ricordo, minorenne di anni 16 – della “zoccola”, che di fronte a questi esempi di cultura popolare forse le discussioni sul sex working sono un po’ premature, in Italia – anche se comunque necessarie. Nel senso che se anche domattina, per un magico caso del destino, venisse approvata una splendida legge che con un colpo solo combatta efficacemente la tratta internazionale, smantelli il regime di schiavitù di migliaia di prostitute a forza e permetta a chi vuole di prostituirsi legalmente – avremmo cambiato qualcosa per le milioni e milioni di “mignotte” nella testa degli italiani e delle italiane?

No. Quelle saranno sempre lì, pronte a saltar fuori al prossimo incrocio, al prossimo divorzio, al prossimo stupro, pronte per il maschio italico e i suoi nobili istinti. E attenzione: i suoi sono nobili, perché se sono di uno non al 100% italiano nell’aspetto o nel sangue, allora: a casa! Linciaggio! Ruspa! Castrazione!

Ah, a proposito di leggi: dice che non basta mica fare le leggi, perché ci sono pure i tribunali da cui difendersi. Eh sì, difendersi, perché se sei una sedicenne stuprata da amici in gruppo, ti può succedere che

tu vai avanti, ti fai la tua battaglia in Tribunale, ti sottoponi a perizie e controperizie, parli con psichiatri, psicologi e magistrati. Racconti la tua storia e provi a non ondeggiare nella fiducia: ti crederanno, tu sai che stai dicendo la verità. E in qualche modo lo crede anche il giudice che per le infinite pagine della motivazione della sentenza, che assolverà i tuoi stupratori, riconosce l’onestà delle tue parole. Solo che non ci sono le prove: “Se è vero che il comportamento passivo della vittima – si legge nelle motivazioni della sentenza – e il fatto che scivolasse nella doccia avrebbero dovuto indurli a sospettare che la stessa avesse perso la lucidità necessaria per presentare un valido consenso all’atto sessuale è altrettanto vero che l’assenza di azioni di respingimento e di invocazioni di aiuto avrebbero potuto ingenerare la convinzione che la 16enne fosse consenziente”.

No, ma non è un problema culturale, no no. Ci vuole la legge. Certo, come no.

Ripeto: ben felice che altrove qualche traguardo – anche se discutibile – venga raggiunto, anche se dall’alto e tramite una legge. Però preferirei che qualcosa cambiasse anche da queste parti, dal basso e nel sentire comune. E’ molto più faticoso, ma i risultati sono sicuramente più duraturi. Sarà il caso di cominciare presto, dalle scuole, dai centri antiviolenza (anche maschili)… o no?

Non perché sono in grado di soffrire, ma perché sanno essere felici!

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Proprio oggi leggevo un articolo di Nathan Runkle –  fondatore e Presidente di Mercy for Animals – intitolato “il nostro sdegno per il Festival della carne di cane di Yulin rivela un’ipocrisia disgustosa”. Il pezzo in questione argomentava in modo non troppo dissimile dall’articolo pubblicato pochi giorni fa, intitolato Del Mangiar Cani, e chiudeva con questa riflessione, già sentita in diverse occasioni:

“Certo, hanno aspetti diversi. Mucche e maiali adulti non sono esattamente i più adatti per accoccolarsi assieme sul divano (se è per questo nemmeno i cavalli, eppure poche persone li mangiano). Potrebbe essere una sfida portare un pollo a fare una passeggiata, data la sua capacità di volare (ma anche in questo caso, avete mai provato a mettere il vostro gatto al guinzaglio?).

In termini di intelligenza, nessuno di questi animali si differenzia notevolmente dagli altri – anche se i maiali sono in realtà più intelligenti dei cani. Quando si tratta di personalità, ogni animale ha la sua – ma, in generale, sono tutti socievoli e stare in compagnia degli umani gli piace quando vengono trattati con gentilezza. E tutti amano una bella grattata dietro le orecchie.

Anche quando delle differenze esistono – nell’aspetto, nelle capacità intellettive, nella personalità – queste non bastano a giustificare il trattamento differente riservato ai diversi animali, così come non bastano a giustificare il trattamento differente riservato alle diverse tipologie di umani. Che la nostra relazione con mucche, maiali e polli sia stata, storicamente, di sfruttamento, piuttosto che di compagnia, non ci scagiona: per secoli i bianchi hanno sfruttato i neri e gli uomini hanno sfruttato le donne.

Ciò che veramente conta è la capacità di soffrire e provare dolore. Da questo punto di vista, e gli scienziati su questo sono concordi, gli animali che amiamo e quelli che mangiamo sono uguali.

La crudeltà è crudeltà, e la sofferenza è sofferenza. Tutto il resto è arbitrario. E’ giusto provare sdegno – persino rabbia – per il Festival di carne di cane in Cina. Ma non dovremmo sentirci meno inorriditi da quello che succede nel nostro paese, proprio sotto il nostro naso”.

Subito dopo aver letto questo articolo – in una fase di masochismo evidente – mi allietavo con un altro post pubblicato questa volta su di una rivista online dedicata all’allevamento (!) sulla quale è presente una categoria chiamata “il confessionale dell’allevatore”, nella quale chi si guadagna da vivere sulla pelle degli altri animali può, rigorosamente nell’anonimato, svuotarsi la coscienza e condividere pensieri e riflessioni sulla sublime arte di togliere la vita.

Ebbene, in molte delle confessioni,  uno degli aspetti più consolatori era, unanimemente, la rapidità di una morte QUASI indolore. A prescindere dal fatto che il termine “quasi” potrebbe già da solo dar adito a moltissimi interrogativi, leggere questo articolo in coda al primo mi ha fatto realizzare un punto importante: per la maggior parte degli esseri umani, il fatto di poter vivere la propria vita è qualcosa di così scontato da farci preoccupare, quando si tratta di animali non umani, quasi esclusivamente di fargli ottenere una buona morte, ovvero una morte veloce, indolore, quasi inconsapevole.

In questo senso ambedue gli articoli, sia quello scritto da un attivista animalista, che quello di un’allevatrice, avevano dei punti in comune: ambedue non negavano la sofferenza che provano gli animali, e ambedue sottolineavano come sia eticamente imprescindibile evitare questa sofferenza. Eppure, tutti questi occhi puntati sulla sofferenza degli animali sembrano non notare qualcosa di ancor più fondamentale: ovvero, la capacità degli animali di essere felici!

Preoccuparsi della morte degli animali, e pensare che basti una morte “indolore”, “dolce”, “umana” per sentire di aver risolto il problema è nella migliore delle ipotesi naif, nella peggiore decisamente ipocrita.

Gli animali si sono evoluti, esattamente come noi anche se ognuno in modo peculiare, per vivere su questa terra, e per viverla liberi. Da questo punto di vista la morte è, per loro come per noi, l’ultimo dei problemi, o quantomeno, l’unico insormontabile. Ma al di là della morte, esiste la vita da vivere: una vita libera, in cui esplorare l’ambiente, relazionarsi con i propri simili e con altri esseri senzienti, vivere affetti e antipatie, divertirsi, provare fame ma anche sazietà, giocare e poltrire, scoprire e scopare, imparare e tramandare.

E fare ognuna di queste cose, per tanto tempo, o per lo meno per il maggior tempo possibile.

Sfruttare gli animali non umani significa privarli della vita: non soltanto perchè li uccidiamo, ma perché li alieniamo da una vita che sia degna di questo nome. In questo senso, la carne felice non esiste. Non esiste felicità nell’essere imprigionati contro la propria volontà, nel non potersi muovere liberamente, nell’essere stuprate se femmine per far nascere una prole che verrà allontanata e massacrata al momento stesso della nascita, o poco dopo. Non c’è felicità in luoghi bui e sporchi, o in mezzo a recinti elettrificati, tra compagni di sventura che non si sono scelti, e giusto per il lasso di tempo necessario a diventare abbastanza grassi – o abbastanza improduttive – per finire, al massimo adolescenti, al mattatoio. Avremmo mai il coraggio di dire, di un dodicenne allontanato dalla famiglia, tenuto in prigionia, torturato e ammazzato con un colpo in testa, che “in fondo, ha avuto una morte dolce?”

Eticamente sarebbe accettabile?  In A chi spetta una buona vita, Judith Butler affronta il difficile tema della vulnerabilità delle vite, della loro precarietà e delle forme di resistenza che si oppongono a questo ordine prestabilito che decide il valore della vita di ognun*.

Parlando delle vite umane, in un ragionamento che già si presta ad estendersi senza sforzo al non umano, sostiene che “La comprensione delle modalità di attribuzione di valori differenziali alle vite umane non può che passare anche per la comprensione di come alcune vite siano considerate non-vite – vite “già morte” – molto prima della morte.” Questa non-vita dei non umani assoggettati al nostro sfruttamento è il vero nodo gordiano per il quale l’unica soluzione non può essere e non sarà mai l’utopia e l’inutilità di una “buona morte”, ma che al contrario richiede un taglio netto con quello specismo che ci è stato insegnato fin dalla culla: un passo più semplice a compiersi di quanto si possa credere, e che risponde affermativamente alla semplice domanda (che risuona sulle pagine del rifugio per animali australiano Edgar’s Mission🙂 “Se potessimo vivere in salute e felicemente senza far del male ad alcuno…perché non dovremmo farlo?”

 

Guadagnarsi il diritto di essere vegan: Sull’intersezione tra privilegio abilista e potere specista

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Articolo originale qui, traduzione di feminoska.

Ultimamente, nel leggere il sempre provocatorio blog Vegans of color, ho provato sentimenti contrastanti. Riflettendo sui conflitti razziali, posso affermare in tutta onestà di essere stato molto più fortunato della maggior parte delle/i vegan di colore, a parte alcuni casi di rilievo. Il conflitto reale che ho dovuto affrontare nella mia esperienza di vita è un pò diverso da quello della maggior parte della gente di colore, perché sono cresciuto in mezzo ad altre persone di colore, in un ambiente autenticamente multiculturale. In quanto membro di una famiglia genuinamente multiculturale (e onnivora), ogni conflitto vegan/onnivor* è sorto quasi esclusivamente a causa di questioni relative all’abilismo.

L’ “alterità” che ricopre un ruolo importante nella mia Persona politico-sociale ha la forma della disabilità: “paralisi cerebrale” significa che mi è stata diagnosticata una disabilità di apprendimento e che sono parzialmente sordo a causa di un incidente di pattinaggio. Ora, prima di pensare: “Ecco, ora comincia la triste storia”, lasciatemi dire che l’unico scopo di questo post è quello di esaminare le interconnessioni di dominazione che tanto affliggono i rapporti umani; questo non è, in alcun modo, un concetto nuovo nell’ambito del discorso abolizionista animalista, né è necessariamente indicativo (spero) di un mio voler stimolare, attraverso speculazioni filosofiche, reazioni di pietà. Se si è vegan diversamente abili costrett* ad affrontare il problema concreto di dipendere da persone speciste (non importa quanto comprensive) per la sopravvivenza quotidiana (alimentare e non), si ha sicuramente voce in capitolo, anche solo per schiarirsi le idee.

Il paternalismo specista subito dalle persone diversamente abili tende ad essere molto più insidioso rispetto ad altre questioni di intersezionalità, semplicemente perché è apparentemente molto più logico di primo acchito. Chi può incolpare il genitore tormentato dal dover organizzare pasti differenti per chi è convintamente vegan, ma fisicamente e/o mentalmente mal equipaggiato per esserlo?

Il pregiudizio abilista può esprimersi anche attraverso forme più insidiose, in quell’attivismo per i diritti degli animali che presuppone un’intima familiarità con ogni singolo ‘argomento caldo’ del movimento, o per lo meno la possibilità di mostrarsi ben versati nelle svariate discipline che vanno dalla legge, alla sociologia, all’etica. Anche se ciascuna di queste discipline è senza dubbio attinente alla più ampia questione dei diritti degli animali – e può essere utilizzata con grande efficacia – sarebbe così strano se la persona vegana, che per qualsiasi ragione (ad esempio disabilità) non possa onestamente affrontare in maniera così approfondita questi problemi, leggesse questa richiesta come una porta sbattuta in faccia? Sono davvero stanco di vedere i miei problemi psicoeducativi /organizzativi usati per demolire la logica del’essere vegan. Il veganismo, con una condiscendente pacca sulle spalle, diventa non una posizione etica con la quale fare i conti, ma un favore benevolo concesso dall’onnivoro gentile e sensibile al petulante e ipersensibile “amante degli animali”.

L’infido assunto costantemente ripetuto è che dovrei “guadagnarmi il diritto di essere vegan” attraverso forme di indipendenza che mi permettano di raggiungere più rapidamente quel giorno felice nel quale le mie capacità organizzative, le mie disabilità di apprendimento e la mia memoria, tutte comincino a funzionare secondo un parametro oggettivo di riferimento esterno che mi conferirà il “diritto” di vivere come un non-specista. Capite perché nessun criterio esterno in materia di “liceità” del veganismo sia credibile? Non la cultura, non la tradizione religiosa, non la capacità, non una formazione costosa o specialistica. Non si finisce mai di imparare alla scuola di pensiero abolizionista animalista, e il costo del biglietto è scandalosamente basso.

Tutte le persone devono diventare vegan per gli animali, indipendentemente dalle loro abilità. L’attivismo di ognun* è importante, e non nella modalità condiscendente in stile “siamo tutt* vincenti”, ma, come ho detto più volte su questo blog, perché ognun* di noi è l’unica persona che può raggiungere tutte le altre. Non riesco a fare ciò che fai tu, tu non puoi fare ciò che faccio io. Peter Singer non è davvero, in ogni caso, il modello per qualsiasi tipo di movimento per i diritti degli animali, ma è interessante che il supposto “padrino” del movimento sposi punti di vista che potrebbero essere definiti quasi-eugenisti. Siamo davvero così ansios* di essere parte di un movimento composto solo da coloro ai quali è concesso valore in base a certi criteri predefiniti, quando stiamo combattendo proprio la validità dell’esistenza di criteri predefiniti?

Dobbiamo rifiutare di impegnarci nell’ “utilitarismo pratico” nel nostro attivismo. Abbiamo un disperato bisogno di una rielaborazione radicale del significato del veganismo nel discorso sociale, al di fuori di un paradigma di privilegio alla moda. In realtà, il correttivo di tutto questo è abbastanza semplice. L’idea che io abbia il “diritto” (guadagnato o meno) di essere vegan è al suo interno alimentato dallo specismo. Invece, è vero il contrario: Non ho il diritto di non essere vegan. Il veganismo non è una scelta, di per sé. Lo “scelgo” solo nel senso in cui mi rendo conto che vivendo in un mondo specista, sono moralmente obbligato a vivere l’abolizionismo nella mia vita.

Né il veganismo è una montagna russa filosofica attraverso la quale mostrare le proprie incredibili capacità logiche. Si tratta di un imperativo assoluto che tutt*, indipendentemente dalla propria eloquenza, istruzione e capacità di mettere in pratica decisioni personali dovrebbero abbracciare. Poco importa agli animali non-umani che la vostra posizione possa essere sostenuta con riferimenti incrociati ad ogni brano di letteratura attinente, o anche che non cuciniate tanto bene. Gli unici che hanno a cuore tali banalità sono specist* o vegan con qualcos’altro da dimostrare.

Compagn* attivist* vegan, io umilmente domando una rinnovata consapevolezza delle esperienze vissute da altr* vegan; il veganismo è semplice; lasciamo che sia semplice, e usiamo tale semplicità per attirare tutte le persone possibili. Ricordate che non stiamo combattendo la stupidità, ma l’ignoranza; sosteniamo non la conoscenza riservata a pochi, ma il comune senso morale. Il veganismo è semplice, così spesso affermiamo, e così è, in linea generale; ma alcun* di noi stanno compiendo questo viaggio con un passo meno leggero e un pò più zoppicante.

* Se sei un* giovane che vive da abolizionista animalista sotto la tutela di genitori onnivori, sappi di avere il mio più profondo rispetto. Continua la tua buona battaglia – non sei sol*.

Mi sono fatta violentare per amore

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Articolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di Serbilla e Elena Zucchini.
Buona lettura!

Da giorni continuo a chiedermi se pubblicare o meno questa storia. La cosa più semplice sarebbe tenerla per me; alla fine, si è trattato di due sole aggressioni delle tante subite nella mia vita. Se sono riuscita a sopravvivere senza traumi, sopravviverò anche a questa… in fondo non è “così grave”…

Alla fine ho deciso di renderla pubblica, per diversi motivi. In primo luogo, perché anche io mi sono resa pubblica e visibile mediaticamente, in particolare su di un tema, quello della prostituzione, che scatena accesi dibattiti all’interno del femminismo. La mia posizione, in quanto prostituta (è così, mi guadagno da vivere prostituendomi dal 1989), è quella di difendere i diritti fondamentali delle persone che esercitano la prostituzione – non quella dei “protettori”, sia chiaro: lotto contro lo stigma della prostituta e il trattamento da “poverette” incapaci di prendere decisioni e assumersi rischi. Inoltre, sostengo che non tutti gli uomini che ricorrono al sesso a pagamento sono maltrattatori o stupratori, ma soprattutto che sono relazioni che si concordano tra adulti (le pratiche sessuali che verranno messe in pratica, l’obbligo dell’uso del preservativo, il tempo, ecc.);

Quando mi chiedono se io sia mai stata aggredita da un cliente – anche solo per mera statistica, dovrebbe essermi successo – la mia risposta è ‘no, non sono mai stata aggredita da nessuna delle decine di migliaia di uomini con i quali ho avuto rapporti’. Quali sono stati e chi sono i potenziali aggressori? Certo, sono stata testimone di aggressioni e ho pianto con alcune compagne, ma nel mio caso, ho imparato ad evitare situazioni potenzialmente pericolose. Allo stesso modo non accetto le molestie di strada e so affrontare i bulli. Dunque, in quale contesto sono stata aggredita? Nella vita quotidiana, fuori dall’ambito della prostituzione, e sempre, sempre, da parte di uomini con i quali avevo un precedente rapporto di fiducia: uomini della mia famiglia, vicini, capi dei miei vari posti di lavoro, colleghi e una delle mie “cotte” (leggasi il “brivido dell’innamoramento”)… Sì, ho subito molestie sessuali, abusi sessuali, e, infine, due violenze da parte di uomini di cui mi fidavo.

Quando ho pubblicato il mio libro ‘Una mala mujer’ (‘una donna permale’)  ho raccontato gli abusi e le violenze tra le quali sono nata e cresciuta, a partire da mio padre e mia madre; poi la violenza da parte dei vicini “teppisti” del quartiere, quando avevo 12 anni, e l’abuso sessuale di uno dei miei capi, in cui davvero mi sono sentita “puttana” e sporca – ma per paura di perdere il lavoro (un lavoro di merda, devo dire, perché non mi permetteva di riscattarmi dalla povertà) ho accettato tutto quello che mi ha chiesto, fingendo che mi piacesse tanto essere “la sua amante”, ma né lui mi piaceva né io volevo fare sesso con lui, lo facevo solo per paura. Non ho raccontato episodi di molestie fisiche, anche in adolescenza, da parte di due cugini, che mi lasciavano a metà tra il sentire l’emozione del proibito e il disgusto che mi dava il loro toccarmi, perché non mi chiedevano il permesso, semplicemente lo facevano e io li lasciavo fare…

E così, con queste premesse, arrivo al punto della questione: Come è possibile che una donna che in 26 anni di prostituzione non è mai stata aggredita da nessun cliente, subisca violenze sessuali – “palpate” sopra i vestiti da parte di una persona conosciuta e che ora non racconterò per non dilungarmi – nel giro di poche settimane? E dopo quell’episodio a 12 anni, che io pensavo mai si sarebbe ripetuto, sono stata violentata a causa dell’innamoramento, per quello stato di imbecillità che mi ha lasciato bloccata e mi ha impedito di reagire.

È un uomo che ho incontrato sui social network, che prima di questo episodio ammiravo molto, che un giorno mi ha approcciato e l’ammirazione che provavo mi ha fatto abbassare la guardia; ha saputo prima illudermi e poi farmi innamorare con belle parole, facendo apprezzamenti rispetto alle mie inquietudini e con un emozionante sesso virtuale del quale ho sinceramente goduto. Alla fine ero arrivata a credere che davvero gli importasse di me come persona, che non si curasse del fatto che mi guadagno da vivere come prostituta, perché mi aveva completamente inclusa nella sua vita quotidiana, mi aveva fatto incontrare la sua famiglia, mi raccontava di essere in procinto di separarsi, diceva di amarmi… Quando è arrivato il momento di incontrarci di persona, desideravo quel rapporto sessuale. Quello che non mi aspettavo, perché nulla del suo atteggiamento me lo aveva fatto sospettare, è che sarebbe stato così aggressivo.

Ci siamo incontrati in un hotel, sono arrivata presto e l’ho aspettato eccitata e ansiosa, tenevo pronto il preservativo sopra al comodino… Lui è arrivato puntuale e dopo quattro baci, quattro baci letteralmente, dati frettolosamente (che già mi dovevano allarmare), ha cominciato a toccarmi aggressivamente, in modo molto brutale, i seni, le parti intime sotto al vestito, e in quel momento mi sono bloccata, non sono riuscita a fermarlo, a frenarlo, a dirgli “non essere così brutale “, a respingerlo. Il resto? Non sono in grado di ricordare i dettagli, so che in un attimo ero a letto senza mutandine; lui si abbassava soltanto i pantaloni e mi penetrava, proprio così. Sì, se ne è venuto subito,  e finito il tutto si è alzato, “Devo andare” … tutto in pochi minuti …

E io piangevo, pensando: “Ma… cosa è successo? Sì… Sono stata violentata!”, E sì, “Non ha usato il preservativo”, “Non mi ha chiesto se potrei rimanere incinta, o se uso contraccettivi”, “Non mi ha chiesto cosa mi piaceva e cosa no”, “Non è stato come avrebbe dovuto”, “Come mai non sono riuscita a lasciare la stanza, e mi sono fatta toccare in quel modo?”… “Ma … ma… come ho potuto lasciare che mi trattasse così? E cosa devo fare adesso?”, “Perché mi è successo e perché ho abbassato la guardia?”. Dopo diversi giorni di riflessione, l’ho raccontato a due “amiche”, che l’hanno percepita più che altro come un’avventura andata storta. Solo una collega di lavoro, vale a dire una prostituta, mi ha dimostrato empatia ed è stata d’accordo con me nell’identificarla come violenza machista, e senza scrupoli, contro le donne –  inclusa sua moglie.

Tutto questo è il riflesso della violenza strutturale di genere. Un grave problema di educazione sessista, che ci portiamo dietro generazione dopo generazione, per cui le donne hanno difficoltà a trovare gli strumenti necessari a gestire emozioni come la paura o l’infatuazione. Quell’ “amore romantico” interiorizzato fin da piccole, e al quale ci arrendiamo, senza domande;  nonostante impariamo e sappiamo essere una costruzione culturale perversa, quanto è difficile non cadere nella sua rete! Colpisce tutte le donne, indipendentemente dal livello socio-culturale, in maggiore o minore misura … E mi fa arrabbiare ancor di più perché, nel mio caso, nel contesto del sesso a pagamento io controllo tutto e reagisco, non mi blocco.

Tanto potente e subdola è la violenza di genere. Tutte le donne sono vulnerabili, dunque c’è molto da fare se desideriamo lasciare un mondo migliore di quello che abbiamo trovato ed evitare che le future generazioni continuino a riprodurre questo schema. Sono indignata del fatto che non esista una educazione sessuale e affettiva dall’infanzia… non so che altro dire… spero solo che la condivisione di questa esperienza, se ancora c’è chi non riconosce l’entità di questa violenza contro le donne, renda pienamente consapevole di come si manifesta. Violenza non significa soltanto essere violentate con la forza, le minacce e le aggressioni fisiche, una violenza si verifica anche quando uno stato emotivo causato da questo tipo di educazione ci impedisce di reagire, e non solo per la paura di subire una violenza più grande o la paura del rifiuto o la paura che pensino che “sono una fica secca”.

Se mi definisco femminista è perché mi batto affinché le donne possano esprimersi come desiderano, ciascuna nel proprio contesto e nelle proprie circostanze personali, e che non siano più oppresse da questa cultura maschilista che ci rende incapaci di dire: “No, non così!” e “Niente e nessuno mi impedirà, per il fatto di essere donna, di realizzarmi e realizzare i miei sogni!”

 

Del mangiar cani

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“E’ veramente mostruoso che un individuo abbia fame di esseri che ancora muggiscono, insegnando di quali animali ci si debba nutrire, mentre questi sono ancora in vita ed emettono la propria voce, e stabilendo determinati modi di condire, cuocere e imbandire le loro carni. Bisognerebbe cercare chi per primo diede inizio a pratiche simili, non colui che troppo tardi vi pose fine.”

Plutarco, De esu carnium

Al Festival della carne di cane di Yulin – che si tiene ogni anno in occasione del solstizio d’estate – hanno massacrato tra ieri e oggi circa 10.000 cani. I cani, oggetto di un commercio illegale, a volte addirittura rubati alle proprie famiglie umane per essere venduti dai commercianti di carne di cane, vengono stipati in gabbie stracolme, e dopo viaggi estenuanti vengono uccisi in modo spesso estremamente crudele: strangolati, picchiati a morte,  scuoiati e/o bolliti ancora vivi.

Dal momento che il cane è nella maggior parte dei paesi occidentali – ma non solo, considerata la gentrificazione di ampi strati della popolazione cinese – il pet per eccellenza (“il migliore amico dell’uomo” come viene sovente definito), l’orrore nei confronti di tale pratica non ha tardato a farsi sentire a livello internazionale.
Anno dopo anno,  sempre più persone ingrossano le fila di chi denuncia questa pratica abominevole, chiedendone a gran voce la fine – e spesso, purtroppo, scadendo nel razzismo qualunquista che condanna, per gli usi e costumi di alcun*, un intero popolo.

La denuncia in sé è certamente condivisibile, ma quello che dà adito a tremendi dubbi è il fatto che, tra le persone che levano alte grida e si battono il petto contro questa odiosa pratica, molte – anzi moltissime – sono le stesse che non si fanno problema alcuno a mangiare maiali, agnelli, polli, conigli, mucche, cavalli… insomma, per costoro l’unico valido scrupolo nei confronti della pratica di cibarsi dei corpi di altri animali, è quello in grado di tutelare la vita dei cani.

Will Saletan (giornalista e, per inciso, carnivoro) in un articolo su Slate afferma che, per molte persone “il valore di un animale dipende dal modo in cui viene considerato.  Se lo allevi per la compagnia, allora è un amico. Se lo allevi per mangiarlo, allora è cibo. Questo relativismo è più pericoloso dell’assolutismo dei vegani o dei carnivori convinti. Si può scegliere di astenersi dal mangiar carne perché si è convinti che le capacità mentali degli animali siano troppo simili a quelle degli umani. O di mangiarla perché si pensa che non sia così. In ambedue i casi, si utilizza un criterio di coerenza. Ma se ci si rifiuta di mangiare soltanto la carne degli animali “da compagnia” – trangugiando pancetta e nel contempo affermando che i coreani non possono stufare dalmata – si sta affermando che la “moralità” di un’uccisione dipende dall’abitudine, o addirittura dal capriccio. Il ridicolo della situazione è che fino a pochi anni fa, i cani in Corea non erano considerati “animali da compagnia”. Perciò dal punto di vista del criterio del pet, è perfettamente legittimo che possano essere mangiati.”

In un altro articolo dedicato all’argomento aggiunge: “Gli psichiatri la chiamano “dissonanza cognitiva”. Mastichi un pezzo di pancetta e poi coccoli il tuo cane, rabbrividisci alla vista di un cavallo azzoppato ma continui a masticare il tuo hamburger […] Amiamo gli animali, ma amiamo anche mangiarli e non vogliamo dover scegliere .”

Personalmente, più che dissonanza cognitiva, mi piace definirla malafede. Le motivazioni che rendono i cani meno sacrificabili dei maiali, tanto per fare un esempio, sono ridicole e senza alcun fondamento: la maggior parte delle persone che dice che i maiali non stimolano la stessa empatia dei cani sono quelle che non hanno mai visto un maiale da vicino in vita loro – ma che probabilmente al cinema tifavano per Babe, maialino coraggioso e piangevano copiose lacrime mentre si ingozzavano di panini al prosciutto. Sono quelle persone per cui i vegani sono “estremisti che mettono sullo stesso piano i cani e le zanzare” (piace giocare facile, eh?), e per cui evidentemente la tensione alla coerenza è un valore abdicabile.

E’ questo il motivo per il quale, seppure canara e antispecista, quest’anno sto soffrendo molto meno del massacro di Yulin… o per meglio dire, sto soffrendo come al solito, come ogni giorno nel quale penso a tutti quegli splendidi animali uccisi e divorati per i “piaceri del palato”. Per quanto ami visceralmente i cani, non posso in tutta coscienza sentirmi più addolorata della loro morte rispetto a quella di una mucca, di un maiale o di un pollo, morti delle stesse orribili morti dei cani di Yulin.

Gli animali non umani hanno un proprio valore peculiare che prescinde da quanta empatia riusciamo a provare per loro, da cosa rappresentano per noi, dalla relazione che si viene a creare tra loro e noi. L’empatia ha degli aspetti controversi che non possono essere ignorati: l’empatia può non essere motivante all’azione, può spingere a trattamenti di favore, può dipendere da fattori non essenziali (a volte anche da aspetti secondari quali la percepita “coccolosità”) ed essere manipolata, può essere altamente selettiva, focalizzandosi su quei soggetti che sentiamo a noi più simili o più vicini, ed essere limitata al momento nel quale ci troviamo di fronte ad una particolare situazione, per poi dimenticarcene appena l’evento scatenante si allontana dalla nostra esperienza e percezione.

Etica ed empatia non sono la stessa cosa, anche se per alcune persone la prima è direttamente correlata alla seconda. Ma l’etica ricerca i criteri che consentano all’individuo di gestire adeguatamente la propria libertà nel rispetto di chi ha intorno – non solo però di chi è a noi più simile, o più vicino… Chiunque abbia intorno, mi permetto di aggiungere io.

In assenza di un’etica di questa portata, che richiede una presa di posizione politica su cosa sia il bene che si intende realizzare e che permetta di tradurre in azioni sociali quello che il nostro sentire morale ci suggerisce, che cosa ci scandalizza del mangiar cani?

Paralipomeni di etica canina

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* Il post che segue scaturisce dalla lettura di questo articolo. Grazie a Gabri Disordine per avermelo fatto notare!

Un dilemma etico di proporzioni inaudite ha luogo ogni giorno nel profondo dell’animo canino, e suona più o meno così: “Posso io lasciarmi alle spalle l’abietta alimentazione carnivora specie-specifica che mi contraddistingue, facendomi blandire da quelle crocchettine vegane con contorno di legumi così profumate ed invitanti, o devo io esprimere malcelato disprezzo di fronte ad una proposta alimentare che snatura in maniera così evidente le mie caratteristiche tassonomiche?

Del resto, non sono forse io un discendente diretto del nobile lupo? Certo, dicono che da allora le cose siano un po’ cambiate: non solo esistono cani di tutte le taglie e forme possibili, ma millenni al fianco dei bipedi chiassosi ci hanno fatto apprezzare altre forme e sapori; cereali e verdura cotti ed anche i legumi non sono proprio male,  la frutta dolce e succosa d’estate è così buona! Biscotti, pane, pasta e riso – ahhh, quanto vorrei arrivare allo scaffale alto della dispensa… e le patatine fritte… beh, sì, forse le patatine fritte sono un azzardo, ma quando capita, che golosità!

Non so, a pensarci bene questa convivenza va ben soppesata, ha i suoi pro e i suoi contro: il divano di casa figura sicuramente tra i pro, guinzaglio e collare un po’ meno. Ancor meno apprezzo di andare in quel posto dove il bipede in bianco mi mette su un tavolo lucido che mi spaventa, sul quale a volte mi addormento per svegliarmi dolorante e intontito: ma pare che siamo troppi su questa terra, anche se nessuno ci ha mai chiesto che ne pensiamo in merito. Non posso mangiare quando voglio (sempre), ma non mi devo più preoccupare di cosa mangerò domani; insomma, la vita in comune con questa scimmia schizofrenica richiede compromessi, e io con l’ottimismo che in quanto cane mi contraddistingue, ho imparato a gestirla in maniera egregia.

La natura, quella primigenia, un po’ me la sono dimenticata a dire il vero: mi piace tanto correre sfrenatamente nel bosco, ma allo stesso modo abbandonarmi stanco e pasciuto di fronte alla stufa la sera. Se piove, guardo fuori dalla porta e spesso e volentieri, mi giro e torno sul tappeto (ahhh, che bello il tappeto, lode a chi lo ha inventato!).

Insomma, non so: davvero il problema sta in quello che ho nel piatto? Che poi dipendesse da me, quando mai mangerei merluzzo? Di cani pescatori ancora non ne ho conosciuti! Certo  è che, potendo scegliere, non mangerei di sicuro quelle palline puzzolenti di scarti scadenti, che come cortigiani ottocenteschi, sono in realtà laide e fetide ma piene di profumo per dissimularlo!

Su una cosa non transigo: il mio piatto deve essere pieno: rispettata questa condizione credo di poter affermare che, insomma, della carne posso anche farne a meno (della pancia piena giammai!).

Sono altre le mie preoccupazioni: quando vedo altri cani imprigionati a catena, picchiati, spaventati, e dimenticati in un angolo. Quando in strada devo stare tutto il tempo legato, senza potermi muovere come più mi aggrada, e le persone intorno gridano e si spostano al mio passare; quando il bipede esce e mi lascia da solo, ore ed ore di nulla condito da noia che il mio animo di cane non può tollerare. Ma basta un amico cane con cui giocare e arrotolarsi vicini la sera, del tempo insieme al bipede per farmi accarezzare… passeggiate interminabili d’estate, magari condite da qualche nuotata, un cuscino caldo d’inverno quando fuori piove e fa freddo. Certo sì, lo so che non è “naturale”, di sicuro morire di stenti lo è… ma davvero, potendo, è quello che vorrei?

Il bipede ha mille ambizioni, si immagina come un dio, ma quando pensa ai cani ci vuole ancora lupi: forse rimpiange la sua animalità perduta, chissà! Io per me so bene quel che voglio, e sono anche abile e capace di ottenerlo… senza indugio perciò divorerò quella scodella di lenticchie, o quel riso profumato con le verdure… Al solo pensiero ho l’acquolina in bocca, e non rimpiango carcasse e interiora.

Solo su una cosa non transigo: ora mangio ma dopo… c’è una pancia da grattare!”