La stalla sexy

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Uno degli aspetti della cultura patriarcale più difficili da affrontare e gestire, sul piano politico come nel personale, è quello della pervasività dello sguardo maschile reificante. Vorrei però subito sgombrare il campo dagli equivoci, sottolineando come tale modo di guardare – che si impone e prevarica l’esperienza soggettiva del corpo vivente – non appartenga solo a quegli individui identificati in quanto ‘maschi biologici’; non è, d’altro canto, difficile notare le tragiche analogie esistenti in questo specifico modo di guardare le donne e gli animali non umani (in particolare, ma non solo, di sesso femminile).

Partiamo da questo articolo – ma soprattutto dal servizio video che ne è all’origine. Nel pezzo in questione sono ben evidenziati molti aspetti critici – i doppi sensi usati in maniera assolutamente strumentale e consapevole (il servizio si intitola non a caso “La vacca più bella del Trentino”, non “la mucca più bella del Trentino”), i movimenti di macchina dal basso verso l’alto, e, dulcis in fundo, affermazioni assurde al limite dell’imbarazzante (“anche in stalla eleganza e sensualità non guastano”?!?!?!).

L’intenzione è chiara: le due vacche – quella umana agghindata come una coniglietta (l’abitino corto e sberluccicante pare più in stile sexy oktoberfest che tradizionale trentino!) e quella non umana, oggetto della “competizione di bellezza” (è quasi esilarante, se non fosse tragica, la capacità della cultura patriarcale di rendere fruibili i corpi, in primis quelli femminili, umani e non, che si trovano perennemente sotto alla lente di un desiderio coatto) –  sono offerte in maniera assolutamente simmetrica sull’altare del consumo  maschile (chi trovasse azzardato il parallelo in chiave sensuale donna-mucca, può vederlo messo in opera in direzione opposta ma simmetrica sulla pagina facebook di un giornale di settore che s’intitola Cowsmopolitan: le mammelle lucide e le code spazzolate e lucenti delle mucche offerte allo sguardo ricordano in maniera esplicita analoghe parti di corpi femminili!)

Un consumo che parte proprio dagli occhi, che scelgono di guardare due esseri senzienti, donna e mucca, nell’unico valore a loro riconosciuto di corpi consumabili. Non interessa la loro sensualità, nel senso di capacità sensoriale e sensibilità, ma solo quella che definisce il compiacimento, visivo prima e fisico poi, di un godimento personale ed egoistico.

E’ d’altro canto necessario spendere alcune parole sull’altra protagonista del video, la mucca Jolly, la quale, come candidamente e tragicamente afferma la sua padrona (poiché Jolly non è che una schiava, dopotutto) “ha 5 anni ed è alla terza lattazione”. Questa affermazione, resa maggiormente intelligibile, significa tante cose: partendo dal dato di fatto che una mucca può vivere 20 anni, che anche se “da latte” viene macellata intorno ai 5 anni (appena la produzione comincia a calare), che la pubertà bovina insorge intorno all’anno e, soprattutto, che non c’è produzione senza riproduzione, possiamo tradurre la frase “innocente” così: Jolly ha l’età equivalente di una ragazza di vent’anni, che appena entrata nella pubertà è stata stuprata (da un umano che l’ha inseminata artificialmente) tre volte, ha sostenuto tre gravidanze e tre parti, ha già vissuto tre volte la disperazione di vedersi portare via i propri figli dopo poche ore dalla loro nascita, e… sta per morire.

Tutto questo orrore spiegato con tranquillità e naturalezza da un’altra femmina, umana, che aderisce in maniera talmente acritica – e anzi, complice –  al diktat dello sguardo maschile reificante, da applicarlo con assoluta naturalezza su quella “vacca” a lei tanto simile perché a disposizione dell’uso e consumo maschile  (ma anche nella propria realtà  – misconosciuta e negata – di essere senziente, capace di generare –  ma non per questo costretta a farlo –  di provare attaccamento per la propria prole  – e pertanto dolore atroce nel momento in cui ne venga crudelmente separata – ma anche di autodeterminarsi, in maniera unica ma sempre valida).

Che lo sguardo maschile non sia una prerogativa dei maschi biologici è evidente nel video che pubblichiamo qui di seguito, una pubblicità di vini friulani destinata al mercato russo che ha sollevato diverse polemiche.

La regista, Iris Brosch, pare sia “conosciuta a livello internazionale per aver restituito dignità e forza all’immagine femminile nella fotografia”. Almeno così dicono, questo è il video:

Dove sarebbe qui la millantata “forza delle donne” (lasciamo perdere la dignità!)? A corpi patinati di baccanti in atteggiamenti saffici che non fanno nulla se non offrirsi al consumo altrui, risulta difficile riconoscere tale qualità.

Qualità riconoscibile in altri progetti, che raccontano storie di forza e coraggio di fronte alla sofferenza e all’oppressione, e che restituiscono  soggettività ed agency ad individui che ne sono stati violentemente privati: quelli di Jo-Anne McArthur – che ha realizzato WeAnimals o più recentemente UnboundProject, nei quali esplora rispettivamente il complicato rapporto tra animali umani e non umani e celebra l’impegno delle donne nell’attivismo antispecista – o di Carrie Mae Weems  – esemplare in questo senso il progetto From here I saw what happened and I cried nel quale viene smascherato il potere dello sguardo bianco (patriarcale e proprietario) di rendere inferiori e consumabili i corpi degli schiavi di colore, allo scopo di giustificarsi e autoassolversi eticamente di una pratica tanto abominevole.

Come vivete le vostre esistenze sotto la lente maschile? La subite o ne siete (consapevolmente o meno) complici? Riuscite a riconoscere quello sguardo che tutto divora nei vostri occhi?

La fine dell’università e gli studi di genere. Cambia qualcosa per le donne?

Riceviamo da Paola Di Cori e volentieri pubblichiamo.*

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Sul fascicolo di “Internazionale” di questa settimana (22/28 maggio 2015) un articolo di Terry Eagleton, tradotto dal Chronicle of Higher Education e intitolato La fine dell’università eleva al cielo alti lai per la distruzione dei saperi umanistici. Il contributo di Eagleton – noto critico letterario marxista, di famiglia operaia, con studi a Oxford e Cambridge negli anni ’60 e ’70, noto per le prese di posizioni polemiche nei confronti delle correnti sperimentali più audaci della critica contemporanea – è pubblicato nello stesso numero della rivista il cui piatto forte viene annunciato dalla copertina che ritrae il disegno di un irsuto personaggio dalla cui barba fuoriescono omini neri armati di fucili, con il titolo “Lo stratega del terrore”. Il servizio giornalistico, tradotto dallo “Spiegel”, si interroga infatti sul disegno politico che sta dietro alla vittoriosa marcia dei jihadisti in Siria.

La pubblicazione di entrambi gli articoli nello stesso numero, forse  semplice coincidenza casuale, è una tentazione a immaginare una affinità esistente tra i due: come le truppe del Califfato stanno facendo a Palmira – mediante l’invasione violenta, le decapitazioni dei prigionieri e il proposito di radere al suolo quei monumenti che un tempo l’avevano resa celebre e i cui splendidi resti forse hanno vita breve – così agiscono i nuovi manager che ormai governano le università di tutto il mondo, trasformando quelli che un tempo erano luoghi privilegiati dei saperi “alti” in sedi decentrate affinché le élite prossimo-future acquisiscano le nuove competenze necessarie a consolidare l’egemonia della finanza internazionale. Gli antichi ideali di elevazione sociale, raffinatezza culturale, etica pubblica, vengono velocemente spazzati via dalla brutalità degli attuali responsabili di quell’insieme di pratiche informatiche, amministrazione e gestione burocratica che hanno trasformato le università in sedi deputate all’acquisizione di conoscenze di carattere tecnico-scientifico, dalle quali i saperi umanistici stanno scomparendo o hanno pochi anni di vita davanti. Ridotti drasticamente gli studi classici, tagliati i fondi ai settori letterari, filosofici, artistici in genere, depauperate le scienze sociali, che giacciono in stato di indigenza estrema, una nuova barbarie sta velocemente prendendo piede negli atenei. I risultati sono sotto gli occhi di tutti: le ultime generazioni che escono con titoli ottenuti mediante sistemi di valutazione più indicati per misurare costi e ricavi di un’azienda che una acquisita maturità scientifica, intellettuale e culturale, sono ormai avviate verso forme di desolante  analfabetismo crescente.

Sono argomentazioni che – anticipate una ventina di anni fa da un grande libro del compianto Bill Readings, The University in Ruins (Harvard University Press) – da tempo risuonano di qua e di là dell’Atlantico negli interventi pubblici di accademici e studiosi di provenienze diverse, negli inserti di cultura dei quotidiani, riviste on-line e blog, destinati a denunciare gli effetti deleteri della riduzione di fondi e l’inarrestabile declino nella qualità della formazione scolastica e universitaria.

Difficile non concordare con buona parte di questi contributi, che  da prospettive svariate si interrogano sul destino imminente degli studi umanistici, e sulla qualità scadente della formazione avanzata in generale. Tuttavia, queste lamentazioni sono spesso scontate e purtroppo inevitabilmente inefficaci; come in parte anche le tesi sostenute da Eagleton, condite di un brillante stile Oxbridge ma in fondo poco saporite. Se poi guardiamo a quel che accade nel nostro paese, è facile constatare che l’accelerazione dei processi degenerativi in atto ha conseguenze ancora più gravi che altrove. In parte perché si finge di assistere a un disastro giunto all’improvviso, come quello del Vajont o il terremoto dell’Aquila. Non c’erano forse state tante avvisaglie negli ultimi venti o trent’anni? Nessuno dei sapientoni che soloneggiano dalle pagine del “Sole-24 ore”, del “Corriere” e di “Repubblica” si era mai accorto, se non per commentarli scuotendo la testa con qualche amico, dei baratri di formazione dei nostri laureati rispetto a quelli del resto d’Europa, delle decrepite strutture entro cui sono costretti a formarsi gli studenti?

Eppure l’imminente catastrofe era facilmente prevedibile all’indomani della riforma Berlinguer alla fine degli anni ’90, quando l’introduzione del famigerato percorso “3+2” accelerò l’inarrestabile crollo, i cui disastri furono subito sotto gli occhi di tutti. Ma nessuno protestò; non ci furono levate di scudo in massa da parte dei docenti più autorevoli, dei molti notissimi ‘liberi pensatori’ e intellettuali che ancora riempivano i senati accademici. Com’è consuetudine da queste parti del globo, si cercò di trarre vantaggi individuali e personali dalle pessime istruzioni ministeriali che si ammucchiavano sulle scrivanie dei presidi; soltanto l’improvviso successo nel 2007, del libro “La casta”, scritto da due giornalisti, sembrò rendere visibile la miserabile condizione dell’accademia italiana; tutti ne erano al corrente da tempo, ma nessuno si era preso il disturbo di denunciarla. E ora il terremoto annunciato ha scosso fin dalle fondamenta edifici secolari; una cupa rassegnazione è la paralizzante risposta a tanto disastro, mentre i giovani benestanti fuggono oltre i confini.
In questo apocalittico quadro di distruzione e povertà crescente, ha senso chiedersi cosa succederà agli studi di genere? Anche una modesta osservatrice si rende conto che non sono in molte a porsi il problema; e questo è forse il lato più malinconico dell’intera questione. Tuttavia, per quanto possa sembrare una domanda superflua le risposte sono forse meno scontate e deprimenti di quanto si possa pensare.

Per un verso, i cambiamenti non potranno incidere più che tanto in una situazione dai contorni sfuggenti a ogni tentativo di tracciarne il profilo, e il cui statuto disciplinare è incerto per definizione. Inoltre, a differenza del resto dell’Europa e del mondo, gli studi di genere hanno tradizionalmente goduto nel Belpaese di una esistenza malaticcia, frammentata, dispersa e disomogenea; fatta di qualche insegnamento di prima alfabetizzazione, con scarsa incidenza dei medesimi sull’insieme del piano formativo individuale; in breve: sono studi che hanno sempre goduto di una identità instabile. Alcune ottime esperienze qualificate – dottorati di storia delle donne e letterature a Napoli e a Roma, qualche convegno di settore, molte pubblicazioni di buon livello, associazioni con centinaia di iscritte, tante laureate e dottorate in questi temi nei decenni passati – si sono rivelate purtroppo di corto respiro, “senza sbocco al mare”, sia per il taglio dei fondi ma ancor di più per l’assenza di una specifica strategia politica concertata a livello nazionale e in collaborazione effettiva con la rete europea; a questo c’è da aggiungere un generalizzato disinteresse generale: i gruppi e le associazioni influenti del femminismo li hanno sempre guardati di malocchio; le docenti provenienti dai movimenti degli anni ’70 hanno spesso preferito prendere le distanze, aderire occasionalmente e con cautela a questa o quella iniziativa, senza mai impegnarsi in un confronto serio con le gerarchie accademiche. Più spesso si è trattato di percorsi solitari, talvolta veri e propri esercizi semi-clandestini di militanza, con pochissime sedi dove gli studi di genere risultano effettivamente inseriti nei programmi, uno scarso numero di dottorati attivi e – ancor più grave – con un atteggiamento radicato di estraneità, spesso ostentato distacco,  da parte di docenti che si richiamano al femminismo e che grazie ad esso hanno anche fatto carriera.

Sono state soprattutto le tante situazioni esterne all’università ad aver garantito la sopravvivenza e qualche briciolo di trasmissibilità delle esperienze e delle conoscenze relative alla condizione delle donne in Italia: centri delle donne, fondazioni, incontri e seminari estivi e invernali, riviste, pagine di quotidiani, blog e reti sociali, libri e librerie, case editrici, premi, dibattiti e laboratori, senza dimenticare naturalmente le reti sociali; ecc.; in poche parole, la società civile femminile attiva. Coloro che sono inserite stabilmente nelle istituzioni hanno sempre preferito assecondare lo status quo, ‘andare in trasferta’ presso le molte sedi del femminismo esterno invece che impegnarsi all’interno. Un intenso scambio tra dentro e fuori le università ha perciò sostituito in Italia insegnamenti istituzionali di base e corsi formativi modellati sugli esempi migliori a livello europeo (Utrecht, Gran Bretagna, Francia, ecc.).

Come noto, tranne poche eccezioni, non c’è mai stato nel nostro paese un aperto interesse da parte delle donne appartenenti ai gradi alti della docenza per inserire stabilmente gli studi di genere nei curricola, costruire solidi percorsi formativi di base, ingaggiare una negoziazione di breve e lungo periodo con l’establishment accademico. In questo, le italiane presenti nelle università hanno, abbiamo, lavorato male, poco, e peggio di come hanno fatto le altre europee, per non dire dell’impegno e degli esiti straordinari ottenuti in questo campo da parte delle donne attive in molti paesi del cosiddetto terzo mondo.
Di conseguenza, è un fatto che la quasi totalità delle giovani e meno giovani femministe inserite nelle università e nelle scuole, comprese docenti precarie e a tempo parziale, supplenti, volontarie, – oltre che attraverso la rete di centri esterna all’università – si sono formate fuori d’Italia, per poi proseguire con aggiornamenti su testi prevalentemente scritti da autrici non italiane. In linea con i tagli di fondi dei governi degli ultimi anni, e le pessime ministre che si sono succedute a presiedere e pianificare l’istruzione scolastica e universitaria, gli scarsi dottorati di un tempo non sono stati rifinanziati, al pari di quelli di molti altri settori; non più riattivati corsi e programmi insegnati anni fa; i seminari intorno ai ‘gender studies’ (inutile neanche menzionare il tristo destino di qualche rara sperimentazione LGBQT) si contano ormai sulle dita di una sola mano; i convegni sono rari o relativi a tematiche specialistiche. Palmira sei tutte noi, viene quasi da dire.

Non tutto il male viene per nuocere

Questo malinconico quadro di rovine fumanti non risponde tuttavia alla situazione reale. La quale versa certamente in acque melmose, ma non peggiori o diverse da quanto accadeva negli anni ’90 o nel decennio successivo. A differenza di quanto si lamenta in altri contesti, in Italia la situazione non è molto diversa da quella di un tempo. Sono in molte le docenti che ormai hanno incorporato nei propri corsi, ricerche e attività professionali, tematiche nate e cresciute grazie al luppo nei paesi di lingua inglese dei “gender studies” (la denominazione è sempre più imprecisa, ma utile, almeno in questo contesto); e in virtù della libertà di insegnare ciò che si vuole, ancora diffusa tra le pieghe delle discipline umanistiche negli italici atenei, anche se sono di fatto inesistenti sono curricula specifici ed è  risibile numero di posti di dottorato che premia questi studi, capita di veder sorgere qua e là verdi germogli “di genere”, la cui crescita ulteriore viene demandata alla buona volontà e alle risorse economiche delle giovani leve. Esistono di fatto in Italia un gran numero di insegnamenti dove le donne e le differenze sessuali sono al centro dei programmi approvati dai dipartimenti, talvolta anche insegnati da uomini; ma spesso si ha la sensazione di muoversi sul crinale di qualcosa che non è ben definito, inserito tra tematiche solo parzialmente legittime, con pochi crediti attribuiti. ‘Curricolabile’ solo in alcune circostanze e non in altre, la sua natura è piuttosto quella di abitare un territorio  pericolosamente ‘labile’. Come prima, meglio di prima, con qualche differenza. Ciò che prima era invisibile e nascosto, ora si vede e si sente, ma è povero e inadeguato.

Anche se questo quadretto assai nero e buio non invita a sperare in meglio, una esperienza come quella dei “gender studies all’italiana” potrebbe offrire qualche soluzione positiva. Tradizionalmente, si è detto, essi esistono fuori dai programmi, in numero scarso, sparsi, scollegati. In questo si manifesta coerenza con l’insieme della accademia nostrana, in particolare nel caso delle discipline umanistiche; basta pensare a quanto l’aggettivo ‘umano’, attaccato alle scienze abbia spesso in Italia una fisionomia incerta; al punto che certe volte viene scambiato con ‘sociale’ o utilizzato come fossero sinonimi. Per quanto sia assai difficile immaginare nel breve periodo un rovesciamento di segno – sentieri fioriti sullo sfondo di mari azzurri dove tuffarsi allegramente nella bella stagione – si potrebbero anche sfruttare alcuni lati positivi e utilizzare con profitto qualche ricchezza nascosta. Difficile immaginare che le italiche università mettano in poco tempo la testa a posto, che le subalternità femminili all’establishment si capovolgano per costituirsi in bellicose avanguardie resistenti, e nel breve giro di qualche mese di pragmatismo ‘renziano’ siano eliminati corruzioni, sprovvedutezze, superficialità, familismi, cortigianerie – unitamente alla sparizione di quell’egemonico, immutabile, odioso, violento stile patriarcale e paternalistico che continua a essere la nota prevalente nei nostri atenei.

Tuttavia, l’esperienza di un lavorio incessante tra il dentro e il fuori – tra il mondo reale esterno alle aule e ai dipartimenti da un lato, e i saperi accumulati in alcuni decenni in nome del femminismo dall’altro; tra pratiche politiche antisessiste e antirazziste, e le vecchie istituzioni che nel tentativo di rinnovarsi rimangono implacabilmente uguali o peggio di prima – potrebbe costituire un buon esempio anche per l’insieme dell’università, e non solo per i corsi di gender studies. Se le facoltà umanistiche – dove questi studi e chi li pratica sono stati maggiormente presenti – si sgretolano, ed è impossibile ricostruirli con risorse interne, forse qualche boccata d’ossigeno potrebbe venire attingendo alle risorse esterne, questa volta rovesciando le direzioni di marcia. Sono esigenze molto sentite da gran parte dei settori scientifici e delle scienze sociali nel loro insieme, quelle dirette ad avviare un rapporto sinergetico con centri di ricerca, istituzioni, associazioni, italiani e non italiani, esterni alle università; queste ultime si trovano  crudelmente imprigionate da burocrazie soffocanti, indifese e impotenti a scalfire la salda impalcatura di paralizzanti interessi corporativi che le avvolge.

Forse è giunto il momento di cominciare a pensare ai tanti modi con cui, per esempio, lo strumento interdisciplinare – su cui gli studi delle donne, quelli di genere ed LGBTQ si sono sviluppati – potrebbe trasformarsi in una strategia di lavoro trasversale: tra istituzioni accademiche e mondo esterno alle università; tra settori della conoscenza chiusi in autoritratti monocolori e il resto del mondo; tra lingue diverse e non solo in dialogo esclusivo con l’inglese; tra donne e uomini intesi come esseri percorsi da una molteplicità di tensioni e pulsioni identitarie diverse, invece che considerati come riflesso di sessualità naturali prestabilite. La proposta di pratiche conoscitive e politiche entre-deux potrebbe contribuire intanto allo svecchiamento del femminismo italiano; e chissà, forse anche l’università nel suo insieme sarebbe in grado di usufruirne ed emettere qualche segnale di vita. La conclamata interdisciplinarietà – per non parlare della comparazione, vera e propria araba fenicie della ricerca- che per l’insieme degli insegnamenti impartiti negli atenei italiani continua a rappresentare un impossibile miraggio ma anche uno dei problemi più assillanti, è una via obbligata da sempre percorsa dagli studi di genere e dai suoi ancor più sfortunati compagni LGBQT; uno strumento indispensabile di crescita intellettuale e di militanza politica, spesso mortificata dalle ansie di legittimazione istituzionale che hanno ingessato tante pratiche di genere interne all’accademia.
Paradossalmente, ciò che per tanto tempo ha costituito il punto debole dei gender studies all’italiana, è forse una risorsa ancora da sfruttare a fondo. Sarebbe possibile avviare esperienze a metà strada tra università e mondo esterno – peraltro già sperimentate lungo gli anni, e molte ancora in vigore – purchè siano garantite alcune condizioni: una maggiore disponibilità effettiva da parte di chi occupa posizioni privilegiate e ha accumulato conoscenze e pratiche; la proposta di obiettivi politici mirati, meno settari e ideologici di quelli che hanno dominato nei decenni trascorsi; un coinvolgimento comune effettivo nella costruzione di percorsi formativi.

E’ un dato di fatto che buona parte dei temi ‘caldi’ che hanno animato il dibattito femminista – a livello teorico e di ricerca – anche se avviati da qualcuna inquadrata nelle istituzioni, pur rimasti ai margini di più roboanti argomenti, si sono sviluppati  prevalentemente fuori dalle università e sono stati promossi da esponenti di quella società civile femminile attiva, o per iniziativa di giovani che studiano e lavorano fuori d’Italia: da quello intorno alla trasformazione (dissoluzione? evaporazione?) della parola “gender” e alle mobilitazioni per frenare gli attacchi clerico-patriarcali intorno a una presunta “teoria del gender”, fino alle prospettive riguardanti l’intersezionalità; dalle tante manifestazioni relative alla galassia “queer” – mostre, convegni, incontri, collane editoriali, ricerche; tutte iniziative rigorosamente extra-murarie – alle questioni divenute drammaticamente attuali legate al ruolo e rappresentazione delle donne nei più recenti fronti di guerra in Asia e medio-Oriente; alle migrazioni e al razzismo. Se la marginalità e la carenza di risorse materiali soffoca progettualità ed energie di chi sta fuori, dentro le università i saperi legati agli studi di genere si sbriciolano, e i soggetti che li avevano coltivati e cresciuti tornano all’invisibilità. Per continuare a svilupparsi, agli uni e agli altri è indispensabile rendere più dinamici i passaggi tra dentro e fuori, capire che in tempi di crisi è vantaggioso rafforzare le alleanze con situazioni e luoghi di sperimentazioni vitali; laddove sia possibile, conviene infatti da entrambe le parti: da un lato, attenuare rigidità e sbarramenti in nome di improbabili ideali di scientificità; dall’altro, pretendere l’adesione a formule politiche invecchiate, fantasiose e illusorie.
Sopravvivere a stento tra le macerie, o continuare faticosamente a praticare esperienze marginali di invenzione?

(Con ringraziamenti a Francesca, Marilena, Roberta.)

Diventare donna significa diventare una puttana

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Traduzione di questo post di Akynos – aka The Incredible Edible Akynos, performer burlesque e intrattenitrice.

Chi poteva immaginare che diventare donna significasse diventare una puttana?

Di questi tempi, la libertà sessuale delle donne è talmente oppressa, che l’unico modo per essere considerata onesta è quello di adottare una facciata da madonna.

Le donne rispettabili non bestemmiano, né dormono in giro. Passano la vita rincorrendo la speranza di sposare l’uomo dei loro sogni tristi e ottenere qualche lavoro succhiasangue, mentre conservano la loro energia sessuale per quel solo uomo – per sempre. Un uomo che, vorrei aggiungere, a causa della sconcertante doppia morale della nostra società, può ritenere suo diritto divino scopare ogni donna che desideri, solo perché è un uomo.

Umiliata fino alla repressione sessuale, la donna non dovrebbe mai ricorrere ad atti di espressione sessuale, perché verrebbe considerata empia – indegna d’amore, un’emarginata sociale. E di fronte all’opportunità di scopare senza pensieri, non dovrebbe mai cercare un profitto economico.

Dispensare fica gratuitamente, anche se comunque deplorevole moralmente, è leggermente più rispettabile e viene considerato con maggiore indulgenza rispetto all’accettare denaro in cambio di preziosa energia sessuale. Energia che, se priva di adeguato sfogo, può far impazzire chiunque. Sarebbe come cercare di esistere senza il sole; non è possibile!

In una cultura misogina e sessualmente repressiva, nella quale gli uomini guadagnano ancora più delle donne, il lavoro è poco, l’istruzione universitaria sta dimostrando di essere una farsa, e troppi uomini approfittano emotivamente e fisicamente delle donne senza alcuna conseguenza, come può una cagna redimersi?

Può prendere posizione e rifiutarsi di essere trattata come una stupida senza cervello. Nonostante la natura misogina della nostra società, resta il fatto che la fica è ancora potere. E il sesso vende sempre. Le brave ragazze non sono le uniche a realizzarsi. Vendere sesso può essere il modo in cui gli uomini imparano a trattare le donne. E in cui le donne possono comprendere il loro proverbiale valore.

Quando ci si stanca della corsa all’inseguimento di amore e di denaro, una soluzione è quella di tagliarsi le vene – l’altra è ricorrere alla prostituzione. La prima volta che ci si vende ricorda la prima dose di eroina, o il risveglio spirituale di coloro che hanno perso la fede. Ci si rende conto che esiste un potere tra le cosce, nella loro consistenza – nella loro stessa presenza. Si diventa testimoni della guarigione delle anime solitarie che attraversano le nostre porte, anche quando tutto quello che vogliono è una sveltina, e non si avrà mai un’altra occasione di incontrarli.

Si impara a dire di no a situazioni che non si ritengono degne dei propri sforzi perché, puntuale come un orologio, qualcosa di meglio arriva sempre. Si impara che alcuni dei ragazzi più belli non sono sempre i migliori a letto. E che anche i ragazzi più belli pagano per averti.

Cresce in te un amore più grande per te stessa, la fiducia trabocca. Non solo ottieni i mezzi per vivere, ma mentre una volta ti credevi brutta, scopri che molte, molte persone ti trovano così attraente che sono disposte a spendere soldi per te.

Impari che dispensare energia sessuale è un dono che nasce dentro di te. Anche se la società sostiene che sia un modo indegno di guadagnarsi da vivere, ti senti un’onesta cittadina ogni volta che spalanchi le gambe. E capisci che ci sono molti modi di dare energia e che in un modo o nell’altro, siamo tutt* in vendita.

Ti rendi conto dell’importanza del sesso protetto – più che mai. Perché quando uscivi solamente con una persona, spesso ti comportavi da incosciente. Ma ora che il sesso è il tuo mestiere, sei prudente con i tuoi numerosi partner. In quale altro modo potresti pagarti le bollette se fossi affetta da una patologia sessuale che avresti potuto evitare?

Mentre un tempo eri insicura e permettevi all’interesse amoroso del momento di calpestarti, ora ti rendi conto di avere potere – perché hai molte scelte. Perché quasi all’improvviso, puoi ottenere denaro. Ti rendi conto che quando una persona ti paga, è più incline a rispettarti. Comprare sesso dà luogo a una dinamica diversa rispetto a quando viene offerto gratuitamente.

Prima di diventare una puttana eri una bimbetta insicura, regalavi gratis quello che poteva liberarti.
Non eri una donna allora. Ma, accidenti, se lo sei ora!

Forti con i deboli

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Il 21 maggio è stato vandalizzato il canile ENPA di Torino.

La condanna di quanto successo, soprattutto vista la violenza subita, seppur indirettamente, dagli animali non umani presenti all’interno della struttura, è doverosa.

Meno accettabile è il comunicato pubblicato dall’ENPA Torino su Facebook, connotato da una condanna razzista dei fatti che ha dato fiato alle trombe del popolino – che aspetta avidamente queste occasioni per tirare fuori i forconi dalla cantina e le ruspe dai garage.

Leggi tutto “Forti con i deboli”

Il privilegio di non riconoscere il proprio privilegio

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“Il privilegio è insidioso”, afferma pattrice jones nel corso dell’intervento a cui questo articolo vuole essere una sorta di introduzione o riflessione. La trappola in cui cadono molt*, e particolarmente chi si dedica all’attivismo, umano o non umano, è quello di identificarsi con chi si trova in una, o all’incrocio di più condizioni di oppressione.

Questo accade per svariati motivi: sicuramente perché ognun* di noi ha vissuto delle oppressioni da cui ha desiderato ardentemente liberarsi, o ha visto agite su altr* dinamiche di potere, e in cuor suo ne ha magari preso sinceramente le distanze. L’intersezionalità, anche in questo caso, si rivela un utile strumento di critica e, ancor di più, di autocritica: perché esiste un rischio assolutamente reale e da non sottovalutare, che è quello di sottostimare il proprio privilegio e di sovradeterminare coloro delle/i quali vogliamo supportare le rivendicazioni nella – più o meno autentica – convinzione di sapere cosa sia meglio per loro.

Riconoscere il proprio privilegio è un primo, fondamentale passo: essere consapevoli di non poter, in tutta onestà, sapere cosa significhi essere una scrofa in una gabbia da gestazione, una persona di colore (qualsiasi colore eccetto il bianco) in un mondo razzista, una persona transessuale in un mondo rigidamente binario, una persona povera che  – per quanti sforzi faccia –  non riesce a risollevarsi dalla propria condizione di indigenza in un mondo che monetizza qualunque cosa, persino gli affetti e le relazioni… ci mette nelle condizioni di poter “gestire” il privilegio, rinunciandoci per quanto possibile, assumendo un atteggiamento critico e consapevole nei confronti di qualsiasi vantaggio che noi consideriamo scontato (di muoversi, di poter esprimere i propri pensieri ed emozioni, di vivere e di vivere dignitosamente, di poter godere in ogni caso di maggiore libertà rispetto ad altr*, perché anche poter dichiarare il proprio attivismo politico o la propria “devianza” rispetto alla norma stabilita non è un privilegio da prendere con leggerezza) e sostenendo con il nostro privilegio chi ne è priv*.

Il sistema ci opprime tutt*? Vero, ma assolutamente non allo stesso modo. E questa consapevolezza ci deve far capire che una delle fatiche più grandi di chi fa attivismo è quella di comprendere come poter essere alleat* efficaci ed evitare di sovradeterminare le lotte, anche quelle nelle quali, per un motivo o per l’altro, ci sentiamo protagonist*.

E’ quello che succede nel femminismo quando alcune, che non riconoscono i propri privilegi (ad esempio quelli di classe e razza, ma non solo) arrivano a privare altre donne della propria agency (le sex worker, le donne trans o le musulmane ad esempio) dichiarandole inconsapevolmente colluse col sistema patriarcale, e pertanto vittimizzandole e togliendo loro autorevolezza e autodeterminazione; nell’antirazzismo, ogni volta che l’agenda è dettata non da chi la discriminazione la subisce in prima persona, ma da chi si riconosce nel ruolo di ‘salvator* degli oppressi’ e cala dall’alto strategie buone in altri contesti evitando il confronto, a volte perché scomodo o difficile, con le persone alle quali si vorrebbe dimostrare solidarietà; nell’antispecismo, quando ci si dipinge come ammantati di ogni virtù nella convinzione di essere il non plus ultra dell’attivismo, o peggio quando ci si riconosce così tanto nei soggetti non umani oppressi da dimenticare di far invece sicuramente parte della categoria umana e di poter quindi agire il proprio privilegio su altri (animali), umani e non.

Tenendo ben presente che tutt*, volenti o nolenti, colludiamo e siamo allo stesso tempo vittime del sistema che vorremmo rovesciare, quello che ci resta da fare è sforzarci di dare voce a chi non ne è privo, ma è  – consapevolmente o meno – tacitato da chi ha maggior possibilità di esprimersi, o viene maggiormente ascoltato. Buona visione!

Quando l’unico aborto legale è quello accidentale

ph google
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Se l’unico aborto legale è quello accidentale, allora procurarsi un accidente è l’unico modo che una donna ha per terminare una gravidanza, che sia indesiderata o pericolosa per la sua vita e quella del feto.
Questo è il provocatorio, ma non nuovo, concetto di fondo della campagna per la depenalizzazione dell’aborto promossa da Miles, un’organizzazione non governativa che si occupa dei diritti sessuali e riproduttivi in Cile, dal 2010.
L’organizzazione si fa promotrice di una proposta di legge, che si può leggere qui, nel quale si chiede la depenalizzazione dell’aborto terapeutico e volontario in caso pericolo di vita per sé e per il feto (o grave malformazione strutturale di quest’ultimo), con la predisposizione degli strumenti atti all’accertamento di questi pericoli, e in caso di stupro, ponendo l’attenzione anche alle minori di 14 anni. Nel quadro di riferimento del diritto alla salute e a una vita degna, puntualizzando i dati del ricorso all’aborto clandestino e della mortalità materna e neonatale.

L’obiettivo è quindi parziale, non si chiede la depenalizzazione completa dell’aborto volontario. Nel progetto di legge si contempla anche l’obiezione di coscienza per quei medici che non vogliono praticare l’intervento abortivo, previa dichiarazione scritta. Pratica alla quale non possono però sottrarsi in caso di immediato pericolo per la paziente.

MIlesChile

Sono stati prodotti tre tutorial che spiegano come provocarsi un aborto accidentale, in tutti e tre la donna rischia la vita per mettere fine alla gravidanza. Se rischio di morire a causa della gravidanza, perché non rischiare di morire a causa dell’aborto?

Una logica che, in fondo, è condivisa da tutte le donne che rischiano la vita con un aborto clandestino.

I video sono semplici, diretti e agghiaccianti.

Nel primo viene spiegato come abortire, lanciandosi nel traffico di un incrocio.

Nel secondo si spiega come procurarsi un aborto rompendo il tacco di una scarpa e sbattendo contro un idrante.

Nel terzo la protagonista spiega come provocarsi un aborto cadendo dalle scale.

Non è la prima campagna provocatoria realizzata in Cile, alcuni anni fa un’altra associazione, rintracciabile presso questo sito internet donaporunabortoilegal.wordpress.com,  aveva promosso una campagna di donazione per consentire alle donne un aborto illegale.

Le cantanti dichiaratamente femministe fanno tendenza

Pubblichiamo la traduzione di un articolo apparso su la-critica.org che tratta di rapper e cantautrici che si dichiarano apertamente femministe, sono artiste in lingua spagnola che mescolano senza timore ma, anzi, con fierezza e poesia, musica e militanza.
Traduzione di Serbilla.

Le cantanti dichiaratamente femministe fanno tendenza
Di L Herrera

Negli ultimi anni, sono comparse voci nuove e diverse nelle regioni dell’America Latina e di altre parti del mondo, che utilizzando vari generi musicali cantano rivolte ad altre donne le modalità di resistenza a differenti oppressioni. Di seguito alcune di quelle che, senza timore di definirsi femministe, alzano la voce con ritmo.

rebecalane1. Rebeca Lane. E’ una rapper guatemalteca che nel 2013 ha lanciato il suo primo album intitolato “Canto”. Le sue canzoni si caratterizzano, tra gli altri temi sociali trattati, per l’analisi dei dettami di genere e per la denuncia del genocidio guatemalteco. Ha partecipato a eventi femministi e calcato i palcoscenici in El Salvador, Nicaragua, Mexico e Guetemala.
Nell’intervista con la rivista “Casi literal“, ha dichiarato: “ll fatto che sono femminista e anarchica, certamente è qualcosa che viene fuori dai testi e che io anche voglio trasmettere e spiegare, pertanto le persone alle quali non interessano questi temi li interpretano sistematicamente come  caos, lotta non necessaria o cose inutili per il sistema”.

2. Mare Advertencia Lirika. Rapper nata nello stato messicano di Oaxaca e di origini zapoteche, nei suoi testimaread-300x199 canta contro il maschilismo, a favore dell’indipendenza delle donne e denuncia le disuguaglianze sociali che si vivono in Messico. Ha partecipato a eventi in Guatemala, negli Stati Uniti d’America del Nord e Messico.
E’ la protagonista del documentario “Cuando Una Mujer Avanza” e fondatrice del gruppo Advertencia Lirika.
Il 12 agosto di quest’anno ha scritto sulla propria pagina facebook: “Solo quando ho capito tutto ciò che il patriarcato mi ha tolto, solo allora, ho potuto rivendicarmi come femminista…non mi sorprende quindi che tant* non capiscano neppure minimamente di cosa si tratta”.

lasconchudas2-300x2003. Las Conchudas. Gruppo argentino cumbiachero diventato famoso tra le femministe latinoamericane nel 2014. In due mesi hanno accumulato quasi ventunomila visite al video del loro singolo “Las pibas chongas”, un manifesto lesbofemminista con un mix di cumbia e rap. “Antipatriarcale, femminista, lesbica, caraibica, latinoamericana, mi connetto con la Madre Terra, rivoluzionando la strada e il letto.
Ed essere una frocia non è solo parlare di sesso, questo è parte di tutto un manifesto, la mia politica ha molto peso, inciampando, mi rialzo e ti bacio”.

https://youtu.be/mNopC9eKcig

4. Furia Soprano. Rapper spagnola nella cui biografia su Twitter non manca di definirsi femminista radicale:furias-300x184 “Rap feminazi, pattini, gomma rosa, se mi tocchi ti rompo”. Il suo album si chiama “No hay clemencia”, le canzoni di Furia si scagliano contro il capitalismo eteropatriarcale e riflettono sulle differenze e similitudini delle oppressioni che vivono le donne.
Nella sua canzone “No hai clemencia”, del disco omonimo, Furia canta con forza: “Streghe dell’inferno, il nostro motto è la difesa, femminismo attivo, nemmeno un’aggressione senza risposta, facciamo sentire la protesta quando il grosso del sistema lo alimenta e lo sostenta, fine, macete alla mano…non venimmo come carne né per piacerti, non siamo perfette, non siamo bambole, non siamo umili, delicate né piccole..né dio né padrone, né marito né partito, non c’è clemenza”.

luasinpua-217x3005. Lua. E’ una cantante spagnola anarchica e apertamente femminista. Nelle sue canzoni tratta differenti tematiche che accompagna con la sua chitarra, vanno dalla critica al patriarcato, agli spazi di sinistra, all’amore romantico. Le sue composizioni sono state molto condivise attraverso internet e le reti sociali.
Di fronte alla domanda se si riconosce come femminista, nel sito El Hombre Percha, Lua risponde: “Apertamente, anche se questo comporta le facce sorprese e indignate di alcun*. Di fatto, e per meglio specificare, femminista autonoma, libertaria: non voglio governare né essere governata. Il femminismo deve essere orizzontale e autogestito.
Nasce da noi e per noi ed è dalla base che deve prendere forma. Il femminismo è emancipazione e noi siamo le prime che dobbiamo avere chiaro questo (ma non le uniche)”.

6. Gaby Baca. Cantautrice femminista e lesbica del Nicaragua. “La Boca Loca”, come anche si è fatta chiamare, gabybaca-225x300ha sperimentato diversi generi musicali, è considerata una rocker alternativa e sperimentale. Nel 2011 ha registrato il brano “Todas juntas, todas libres”, e nel 2012 ha lanciato il singolo “Con la misma moneda”, che
è stato ben accolto dal pubblico femminista.
Quando le si è chiesto riguardo al femminismo, nel sito Puntos.org, Beca ha risposto: “Forse non ci rendiamo conto che le donne sono la maggioranza? Politicamente siamo una forza enorme, il nostro voto unito può buttare già qualsiasi stronzo al potere. Io mi dichiaro femminista perché è fantastico essere donna e voglio che si
rappresentino i miei diritti, è una questione di equità”.

cayecayejera-300x1927. Caye Cayejera. E’ una rapper dell’Ecuador. Dal 2009 canta rap transfemminista, si è presentata soprattutto sulla scena musicale di Quito. Collaborando con collettivi partecipa come attivista alle piattaforme: Acción Arte, Intervenciones Trans Cayejeras y Artikulación Esporádika.
il suo video “Puro Estereotipo” è un breve tutorial di autodifesa femminista, che accompagna con un testo potente: “Generi rigidi, perfetto meccanismo, desideri e piaceri fissi, puri stereotipi. Al margine si trova l’essenza selvaggia, il ricatto, il boicottaggio, il sabotaggio del patriarcato…”.

Stronzate che le femministe bianche devono evitare

tumblr_inline_myf7ulnaPi1qib5epArticolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di frantic.

Sono una femminista bianca, e lasciate che vi dica una cosa: il femminismo bianco* è una bella merda. E’ escludente, oppressivo, ed è utile a marginalizzare ulteriormente le persone maggiormente oppresse dalla misoginia. Sfortunatamente, il femminismo bianco è anche lo status quo del femminismo occidentale, nel senso che le femministe bianche hanno accesso alle più importanti piattaforme, maggiore accesso alle risorse e ai media, e sono generalmente considerate la voce del femminismo. In teoria, chi fosse così sinceramente preoccupat* dell’eguaglianza userebbe questi vantaggi per amplificare la voce delle donne di colore. Nella pratica, la supremazia bianca è reale e le femministe bianche spesso sembrano dimenticare che il proprio privilegio bianco rende loro una passeggiata calpestare le donne di colore che lottano per smantellare il patriarcato.

Pertanto, in onore della giornata Internazionale delle Donne, ecco una lista non esaustiva delle stronzate che le femministe bianche devono evitare:

1. Credere che le proprie esperienze di marginalizzazione siano universali

Alle femministe bianche piace far finta di capire. Lo capiscono perché ci sono passate. Hanno sperimentato il sessismo. Hanno sperimentato la misoginia. Sono state superate in caso di promozioni, hanno fischiato loro dietro per strada, e hanno dovuto stare a sentire tipi noiosi alle feste – quelli che hanno bisogno di circa dieci anni del vostro tempo per spiegarvi quanto siano incredibilmente affascinanti. Queste donne bianche sono state nella trincea femminista per anni, e alla stregua di vostro nonno, oramai disilluso, hanno visto tutto. Capiscono l’oppressione di tutte le donne, chiaro?
Tranne che non è così. L’intersecarsi delle diverse forme di oppressione significa che le donne queer, razzializzate, disabili o trans sperimenteranno la misoginia in modi molto diversi (e spesso più letali) di quanto le donne bianche facciano. Affermare che, in quanto donna, comprendi perfettamente tutti i diversi modi attraverso i quali le donne sono emarginate non solo è terribilmente inesatto, è anche chiaramente ignorante. Solo perché non disponete del privilegio maschile non vuol dire che non siate orgogliose portatrici di tutta una serie di altri tipi di privilegio. E che vi piaccia o no, queste varie forme di privilegio determinano come le altre persone ti trattano. Le donne bianche non sono le uniche depositarie della donnità, e non devono spiegarla alle donne di colore. Fine della storia.

2. Lamentarsi di come siamo tutte nella stessa squadra

Altrimenti detto: «Perché sei così cattiva con me?»
Le femministe bianche hanno solitamente questa fantasia nella quale affrontiamo questa belva schiavista e gigantesca chiamata Il Patriarcato, e poi una volta portato a termine questo compito, tutto sarà magico e i problemi del mondo saranno risolti. Spiegano in maniera vaga che distruggendo il Patriarcato finirà anche il razzismo, la transfobia, l’omofobia e praticamente tutti gli altri soprusi sociali, ma non sembrano avere una idea chiara di come esattamente questo avverrà. Ma succederà! Lo dice la scienza.
Queste femministe sceglieranno cause specifiche da sostenere – spesso quelle delle quali beneficiano maggiormente donne etero, bianche, cisgender – ed esiteranno, se qualcuno le metterà in discussione sul perché ignorino altri tipi di marginalizzazione che hanno un impatto maggiore, ad esempio, sulle donne di colore o transessuali. Ma siamo tutte nella stessa squadra, twitteranno freneticamente. Pensavo fossi dalla mia parte. Siamo tutte donne, no? Il sottotesto è: devi aiutarmi ora con le cose che mi danneggiano direttamente, e poi forse un giorno ti aiuterò. Non sembrano mai chiedersi perché sono sempre loro che decidono i confini tra “le parti”, o perché sono sempre loro a decidere chi è in che squadra.

3. Disquisire di Hijabs (o burqa, o dell’aborto selettivo, o qualsiasi altra cosa, in realtà)

Davvero: Voglio solo vedere tutte le femministe bianche farsi da parte quando si parla di hijab. E’ incredibile come queste donne parlino di libera scelta quando si tratta di gravidanza, ma poi diano di matto quando una donna decide di coprirsi i capelli.
Sentite, ho capito. Pensate che queste donne siano oppresse, anche quando molto gentilmente e pazientemente vi spiegano che non lo sono. Ma voi lo sapete meglio di loro, giusto? Perché vi siete liberate dall’oppressione di … qualcosa? Pensate che la loro cultura o religione le stia costringendo a fare qualcosa che in realtà non vogliono, e se la pensano in modo diverso, beh, è solo la loro misoginia interiorizzata a parlare. Donne bianche: non siete davvero più illuminate di chiunque altr*. Smettetela di parlare. Andate a dormire.
Inoltre, spiegatemi esattamente come, dire ad una donna che non dovrebbe indossare uno specifico articolo di abbigliamento sia “autodeterminazione”. Mi pare che limitare le scelte delle donne sia l’opposto del femminismo.

4. Essere convinte che tutte le sex worker siano disgraziate infelici che odiano le proprie vite

Questo non è in realtà specifico delle donne bianche, ma lo includerò perché ho visto un sacco di femministe bianche tirare fuori questa merda, che francamente è spazzatura.
Cioè, questo è letteralmente quello che state dicendo: “Credo che le donne abbiano capacità di decidere per sé stesse e siano in grado di prendere decisioni sulle loro vite, tranne quando si tratta di lavoro sessuale, a quel punto devo supporre che o qualcun* le stia sfruttando o che siano traditrici di genere autolesioniste, a cui importa solamente dello sguardo maschile.”
Dunque, solo per essere chiare, pensate che le donne siano in grado di fare delle scelte, tranne quando si tratta di una scelta con la quale siete in disaccordo, a quel punto siete decisamente sicure che si tratti di coercizione. Siete anche convinte che le sex worker debbano essere “salvate”, anche se sono contente di quello che fanno. Preferireste vedere le donne messe ulteriormente ai margini da leggi anti-prostituzione, piuttosto che trovare il modo di provvedere alla sicurezza delle sex worker. Anche in questo caso, mi spiegate in che modo questo si configuri come un atteggiamento pro-donna?

5. Sostenere che tutte le altre forme di oppressione sono finite e che abbiamo bisogno di concentrarci sulle donne

ARQUETTE TI STO GUARDANDO.
Sentite, so che il suo discorso in occasione degli Oscar è stato criticato e analizzato a morte, perciò non mi dilungherò troppo su questo punto, ma – che diamine, dai! Prima di tutto, affermare che abbiamo bisogno che “tutte le persone omosessuali e le persone di colore per le quali tutte abbiamo lottato, combattano per noi ora” insinua in qualche modo che nessuna di quelle persone omosessuali o di colore fosse donna, no? In secondo luogo, davvero, leggi un libro o informati in altro modo, perché il razzismo e l’omofobia e la transfobia sono tutt’altro che finiti. Terzo, sei una donna bianca che ha beneficiato di un enorme privilegio nel corso della sua intera vita. Non puoi dire agli altri gruppi marginalizzati cosa fare.
So che le sue osservazioni erano ben intenzionate. Lo capisco. Ma proprio questo costituisce gran parte del problema – le femministe bianche lanciano merdate di questo tipo a casaccio, quindi si sentono offese quando vengono criticate, e si ritorna direttamente al punto 2 di questa lista. Trattenete il vostro privilegio per un interminabile secondo, e smettetela di blaterare su come tutt* siano cattiv* quando vi fanno notare le vostre cazzate.
Femministe bianche: questo è un invito a piantarla con le stronzate. Il senso dell’uguaglianza non è quello di arrivare in cima con le unghie e coi denti, in modo da poter trattare le altre persone tanto male quanto hanno trattato voi dei tizi bianchi – abbiamo bisogno di sostenerci l’un l’altr*, amplificare le rispettive voci, e magari lasciare che qualcun’altr* ci dica se ci è permesso di stare nella loro squadra. Perché, come dice Flavia Dzodan, se il femminismo non è intersezionale, allora mi dispiace, ma è una stronzata totale.

* Con “femminismo bianco” intendo una certa tipologia di donne bianche etero, cisgender e normodotate, convinte che il loro “femminismo” sia migliore e più “autentico” di quello di chiunque altr*

Pramada Menon: Perché la famiglia occupa così tanto i nostri pensieri?

Pramada-Menon

 

Famiglia o famiglie? 

Abbiamo deciso di tradurre questa intervista a Pramada Menon (attivista queer e femminista che si occupa di giustizia sociale, genere, sessualità e diritti umani) perché va a toccare uno dei topoi tabù che attraversano in maniera universale l’esperienza umana, ovvero quello della famiglia. Il concetto di famiglia, propagandato come univoco e immutabile, conosce invece al momento attuale svariate declinazioni che ne dilatano il senso, ne ridisegnano i confini e spesso li abbattono nelle pratiche – anche quando queste ultime si trovano a scontrarsi con le resistenze sempre più ostinate di un’ideologia che fa della “Famiglia” un motore immobile attorno al quale orbitano tutte le limitazioni e oppressioni con le quali si cerca di soffocare qualsiasi alternativa al sistema integrato di irreggimentazione (ben esemplificato nel trittico dio-patria e, appunto, famiglia) dal quale tentiamo di liberarci.
Consapevoli che partire dal personale è sempre difficile e problematico, e che nonostante ciò la nostra politica non può farne a meno, proponiamo questo dialogo capace di evidenziare l’attuale movimento dall’idea unica di Famiglia ai tentativi – dalle alterne fortune ma sempre anticipatori di nuovi orizzonti umani – di sperimentare nuovi modi di essere ‘famiglie’, di ‘fare famiglia’ al di là dei vincoli apparentemente imposti dal sangue.

PRAMADA MENON: PERCHE’ LA FAMIGLIA OCCUPA COSI’ TANTO I NOSTRI PENSIERI?
Traduzione di feminoska

Pramada Menon è un’attivista femminista e queer che analizza tutte le questioni che ritiene più complesse. Quando non è impegnata a riflettere e procrastinare, lavora come consulente sulle questioni di genere e sessualità e sui diritti delle donne, e saltuariamente si esibisce in Fat, Feminist and Free, una performance a ruota libera su immagine corporea, sessualità ed esistenza.

Radhika Chandiramani: ‘La Famiglia’. Che ne pensi, Pramada?
Pramada Menon: Perché la famiglia occupa così tanto i nostri pensieri? Perché cerchiamo ossessivamente la comprensione e il supporto dei membri della famiglia, e vogliamo che conoscano ogni nostro pensiero? Forse è perché ci insegnano che queste famiglie biologiche sono noi e noi siamo loro? Cosa succederebbe se non sapessimo nemmeno chi sono i nostri genitori, le nostre zie e i nostri zii, i nostri fratelli e sorelle – proveremmo lo stesso un profondo attaccamento per loro, e cercheremmo ancora la loro approvazione? Me lo domando perché quasi sempre ci viene chiesto di mettere la famiglia prima di ogni altra cosa e la nozione di famiglia è chiaramente definita come quella biologica – una madre naturale, un padre la cui paternità non è mai in discussione, e fratelli e sorelle concepiti da questi genitori. Recentemente questa nozione di famiglia biologica ha lentamente cominciato a cambiare per via della pratiche dell’adozione, della tecnologia riproduttiva e della maternità surrogata. Ma resta centrale l’idea di un nucleo familiare guidato da ‘istinti’ materni o paterni. Una famiglia protettiva, attenta, amorevole e solidale, ma anche punitiva se e quando contestata o tradita.

RC: Consideri la famiglia un’alleata o un’istituzione in opposizione alla libertà sessuale personale?
PM: Le norme e i regolamenti della maggior parte delle nostre famiglie originano dal mondo in cui viviamo, dai costumi dei gruppi o della comunità di provenienza, l’apprendimento dei quali può aver spinto molti di noi a sfidare i codici che ci sono stati tramandati. E le trasgressioni all’interno della famiglia accadono per via delle differenze tra le persone che ne sono parte e delle diverse concezioni del mondo intorno a noi, e delle differenti modalità di interazione con ciò che ci circonda. E’ la famiglia che fornisce ai propri membri una serie di regole da rispettare, riguardo ai corpi e all’espressione della propria sessualità. Queste regole sono codificate, perlomeno nelle teste dei patriarchi della famiglia, e rompere completamente con queste norme non è un compito facile. Le regole di per sé sono molto semplici e si conformano a ciò che la società/cultura dispensa a chiunque: il matrimonio socialmente approvato da consumarsi all’interno della casta/ceto religioso o sociale di appartenenza, preferibilmente combinato; la gravidanza deve seguire il matrimonio; nessuna sperimentazione sessuale durante l’infanzia o la giovinezza; nessun fidanzato/a e ovviamente nessuna relazione romantica o sessuale con una persona dello stesso sesso. Questa è solo una serie di regole. Tutte le altre vengono poco prima o dopo – gli abiti che si possono indossare, dove si può andare, che cosa si può fare in pubblico, gli orari nei quali si può uscire di casa, ecc. Queste regole sono restrittive e sfidarle o trasgredirle risulta quasi sempre nella perdita della propria identità, e in casi estremi, della vita. Se una persona è in qualche modo disabile poi, le regole sono molto più rigorose e controllanti. E, naturalmente, questo discorso ignora quasi sempre il tema del consenso della persona all’interno della famiglia. La sessualità è complicata… tanto più che le nostre decisioni al riguardo sono decisioni individuali. Queste decisioni sono guidate dalla nostra comprensione di ciò che è accettabile per noi e ciò che non lo è, e sono influenzate dagli spazi che occupiamo nella comunità, dalla nostra educazione e dai valori coi quali siamo cresciut* da giovani. Gran parte di tutto ciò cambia anche con il tempo a causa delle interazioni con le persone intorno a noi, i film che vediamo, i libri che leggiamo, le immagini a cui siamo esposti e le storie delle quali facciamo parte. Quello che trovo interessante è come tante delle nostre idee riguardanti la sessualità siano influenzate dalle informazioni che abbiamo ricevuto nella nostra infanzia, e perlopiù l’influenza principale in quel momento è quella della famiglia. La famiglia interpreta ciò che è consentito o meno nelle modalità che meglio si adattano alla stabilità dell’istituzione della famiglia. Non cerca consapevolmente di limitare la libertà dei membri della famiglia, ma solamente di mantenere in vita e ‘pura’ l’istituzione sociale. Con ‘pura’ intendo dire che le famiglie non vogliono in alcun modo esporsi ad un mondo che le critica o le fa sentire carenti in qualcosa. Da ciò deriva tutto il monitoraggio delle attività, comportamenti, pensieri e azioni.

RC: Esistono anche regole riguardo al tacere di alcune cose…
PM: La famiglia considera la sessualità una minaccia, soprattutto quando espressa da giovani al di fuori dei confini delle modalità socialmente accettabili. Eppure la questione degli abusi non è quasi mai sollevata all’interno della famiglia, dal momento che l’autore è quasi sempre qualcuno che la famiglia conosce. I casi di abuso di ragazzi e ragazze rimangono tabù e non se ne può parlare, e la persona responsabile dell’atto non consensuale, molto spesso, continua ad avere accesso al membro della famiglia che ha subito violenza. Non credo che il silenzio sugli abusi abbia a che fare con l’incredulità rispetto al racconto della vittima, ma molto più a che fare con la vergogna e una certa riluttanza a rendere pubblica la storia per paura che la colpa ricada sulle vittime.
Molte famiglie hanno anche un ‘posto segreto’ in casa in cui nascondere tutte le storie percepite come ‘devianti’ rispetto alla norma. Quelle storie pacificamente note ma al tempo stesso celate del figlio gay, la figlia lesbica, lo zio bisessuale, il cugino ‘femminile’ nel proprio comportamento, il cugino che si è sposato al di fuori della comunità, la nonna che lasciò il suo primo marito, la zia ‘zitellona’, il parente che ‘gioca’ con i bambini – la lista è infinita. Queste storie sono magari note a livello privato, ma viene fatto ogni sforzo per nasconderle ad ogni costo nella storia di famiglia.

RC: Pensi che la tua idea di famiglia sia cambiata nel corso del tempo?
PM: Con l’età, si comprende meglio la censura della propria famiglia sulle questioni relative alla sessualità. Parte di ciò ha a che fare con il fatto che le nostre interazioni con la società, le persone e le istituzioni che ci circondano ci spingono a riconsiderare i modi nei quali definiamo noi stess* in quanto esseri sessuali. D’altra parte, molt* di noi hanno rielaborato la propria idea di famiglia, alterandone i caratteri e comprendendo al suo interno persone che in genere non sono percepite come membri della famiglia.

RC: Al giorno d’oggi, né il matrimonio né la procreazione sono essenziali e, inoltre, non devono necessariamente essere inscindibili. Può esistere una famiglia che non sia fondata sul sesso? Una famiglia amicale?
PM: Oggi viviamo in un mondo nel quale strutture familiari ‘altre’ vengono create ogni giorno. Sono finiti i giorni dei bambini nati biologicamente, dei matrimoni esclusivamente pilotati dall’approvazione dei genitori, delle famiglie costruite sulla premessa del matrimonio. Ciò che è cambiato è il modo in cui la gente vuole interagire con le persone intorno a sé, gli intimi, coloro con le/i quali condividono una visione comune del mondo e che sono dispost* a spingere e sfidare presunte norme sociali e culturali. Questo ha portato a nuove relazioni e nuove forme di interazione. Persone dalle preferenze sessuali e identità di genere differenti convivono in relazioni intime e sessuali senza che alcun riconoscimento legale venga ricercato (e in alcuni casi, cercato e ottenuto). Relazioni d’amicizia nell’ambito delle quali creare il proprio gruppo di sostegno sulla base dell’ amore, della cura e della condivisione delle responsabilità. Queste famiglie destabilizzano il concetto convenzionale di ‘famiglia’. Allontanandosi dalla nozione tradizionale, queste forme di interazione ci costringono a riconsiderare ciò che intendiamo come famiglia, chi escludiamo e chi includiamo al suo interno. Sfidano inoltre tutte le norme conosciute di ‘purezza’ e le rendono irrilevanti perché queste famiglie sono create sulla base di amore e comprensione, piuttosto che sulle norme sociali di classe, casta, religione ecc.

RC: Qual è la tua idea di ‘famiglia’?
PM: La mia idea di famiglia si è sempre estesa ben oltre la famiglia biologicamente determinata. Inoltre non ho mai cercato l’approvazione dalla famiglia perché per quanto mi riguarda, i valori che mi hanno instillato mentre crescevo erano proprio ciò che mi ha aiutato a mettere in discussione tutte le nozioni esistenti di giusto e sbagliato secondo le norme socialmente e culturalmente stabilite. I miei genitori sono cresciuti insieme a me, perché sono stati da me costantemente messi in discussione su tutte le questioni relative alla sessualità, e a loro volta, poiché mi amavano, si sono permessi di imparare. Ho combattuto ma anche imparato quando fare marcia indietro. Famiglia per me ha sempre significato i miei genitori, i miei fratelli e sorelle e le amicizie che sono presenti con il loro amore, sostegno e cura per me come io faccio per loro.
Nel mondo di oggi, tutti noi abbiamo bisogno di riconsiderare quello che  intendiamo con il termine famiglia. Si tratta di una nuova era, un’era tecnologica. Si possono avere delle/i figli*, senza mai avere un rapporto. Si ha più bisogno di un laboratorio e di una capsula di Petri, piuttosto che del sesso! C’è stato un tempo in cui l’amore era per sempre e finché morte non ci separi, ora ci si separa per molti motivi e pochissimi hanno a che fare con la morte. Le nostre idee in merito all’intimità sono cambiate con l’uso di Internet, le nostre idee sull’amore sono cambiate, nel mondo di oggi sorelle/fratelli sono adottat* o sono le nostre amicizie, i genitori possono essere un uomo e una donna, un uomo e un uomo, una donna e una donna, due uomini e una donna, e così via – perché dunque facciamo difficoltà a riconsiderare le nostre idee sulla famiglia? Forse se ci lasciassimo la possibilità di immaginare, potremmo sognare diverse mutazioni e combinazioni per creare la nostra famiglia, e poi forse impareremmo a guardare con soddisfazione a quella biologica, e a cercare comunque il sostegno, la cura e la comprensione di quella non biologica. Questo per me rappresenterebbe una nuova era!

La liberazione sarà animale (o non sarà!)

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A tutt* quell* che oggi festeggiano la liberazione dal nazifascismo,  a tutt* quell* che lottano contro i regimi, le dittature, le gabbie, le catene, a tutt* quell* che si sentono schierat* contro il potere che mastica e maciulla vite, a tutt* quell* che stimo immensamente senza se e senza ma, per mettere i propri corpi e le proprie vite in gioco ogni giorno, nelle azioni, nelle scelte, nelle pratiche piccole e grandi di sovversione dell’ordine costituito: a tutt* voi, che non avete scelto la via più facile o più comoda in tanti aspetti delle vostre esistenze, voglio fare un augurio che suona anche come un’esortazione a non lasciare incompiuto il vostro sforzo: perché l’unica liberazione sarà animale, o non sarà affatto.

Fino a quando ci saranno gabbie ci saranno animali prigionieri, e quegli animali non saranno mai “solo” non umani: le gabbie sono gabbie, e gli umani troppo animali per non finirci dentro. E anche fossero davvero un giorno “solo” animali (non umani) ad esservi rinchiusi, potremmo davvero pensare di aver sconfitto il sopruso, la violenza, la sopraffazione? Davvero sentirci divers* da chi, per indifferenza o autentico odio, rinchiude, tortura e uccide i propri simili? Potremmo mai, in un mondo che continuasse a rinchiudere, torturare e macellare miliardi di non umani, sentire di aver “sconfitto il sistema”? Davvero in tutta coscienza potremmo illuderci, in un mondo ancora pieno di catene, coltelli, sangue e grida, di aver sconfitto quel paradigma del privilegio contro il quale ci scagliamo con tanta risolutezza?

Forse che gli animali non umani non possiedono come noi corpi, affetti, sensazioni, emozioni? Forse che la differenza che tanto osanniamo in quanto “ricchezza” vale solo per quegli animali che siamo? E le altre differenze dunque, per il solo fatto di non essere intelligibili alla nostra limitata esperienza, sono nulla, zero, ininfluenti?

Io credo che la sofferenza animale, quella umana che riconosciamo e quella non umana che derubrichiamo, sia esattamente la medesima, poiché animali siamo e animali resteremo, anche se tanto ci è piaciuto immaginare divinità ultraterrene di cui essere “figli* predilett*”.

Ma noi non nasciamo da divinità distanti, bensì da corpi urlanti e sanguinanti, perché i nostri corpi sanguinano e si lacerano come i loro, e i nostri corpi animali galleggiano sul mare dell’orrore.

Ed è sempre quello il compito più arduo di tutti, con il quale mai possiamo smettere di confrontarci:  dire “basta!” al fascista che ci portiamo dentro, che concepisce la libertà come il privilegio del sopruso sull’altr* – l’altro differente e perciò svalutabile, disprezzabile, smontabile –   e non come libertà di vivere e lasciar vivere, nelle proprie peculiarità, nelle proprie gioie e nei propri affanni, nella propria personalissima ricerca della felicità.

A tutt* i non umani che oggi saranno sacrificati per festeggiare l’altrui liberazione, va il mio pensiero e la tristezza che sento nel cuore: continuerò a combattere perché arrivi presto anche per voi l’agognata liberazione, perché finché voi non sarete liber*, non lo saremo davvero nemmeno noi.