Donne e violenza

Leggendo questo titolo, molte persone avranno pensato alla violenza contro le donne, che è tanta. Tuttavia voglio riferirmi alla violenza che  queste esercitano o, meglio, a quella che potrebbero esercitare in propria difesa, una violenza quasi inesistente, sia organizzata in gruppi, sia esercitata in modo individuale. La domanda che mi faccio sempre è: Perché le donne raramente usano la violenza contro un sistema patriarcale che è così violento contro di loro?

autodefensa

Assistiamo continuamente a scene di violenza contro le donne: reale e romanzata. Abbiamo visto video o immagini di fustigazione, lapidazione, abusi fisici e abbiamo visto le donne camminare per le strade di alcuni paesi sotto un burka. Ogni pochi giorni, in questo paese, una donna viene uccisa da un uomo, e spesso vediamo donne reali con ematomi reali. Vediamo anche molte immagini romanzate di stupro, pestaggi e omicidi, in film o telefilm. Nella nostra cultura globale il maltrattamento delle donne è molto comune ed è assolutamente diffuso. La violenza contro le donne non è sorprendente, conviviamo con essa, è un’immagine quotidiana e reale; ci accompagna costantemente. E nonostante ciò, questa campagna mi ha colpito, mi ha scosso, mi ha fatto male:

E mi ha fatto pensare, ancora una volta, a una domanda che mi sono fatta molto spesso: Perché le donne non si sono mai organizzate con la violenza per difendersi dalla violenza perpetrata continuamente contro di loro? E perché non si difendono con la violenza da coloro che le maltrattano? Perché ci sono così pochi omicidi per legittima difesa? Sì, sappiamo che noi donne siamo educate a non esercitare la violenza fisica e che, storicamente, non siamo state parte di eserciti o istituzioni che fanno uso della forza; che da bambine non giochiamo giochi che implicano violenza, che siamo educate per curare e sopportare, per non rispondere alla violenza con la violenza, ma con lacrime e preghiere. Tutto questo implica un grande freno fisico e psicologico alla possibilità di usare la violenza in alcune circostanze ma, tuttavia, sono numerose le occasioni in cui le donne hanno superato questa barriera.

Le donne imbracciano spesso le armi; le donne partecipano e hanno sempre partecipato a sommosse, guerre o rivoluzioni. Le donne oggi sono militari, terroriste o guerrigliere; mettono bombe, dirottano aerei, fanno parte con naturalezza dell’esercito. Meno degli uomini, certo, perché i ruoli di genere  mettono loro dalla parte della guerra e non noi, ma anche così, questa barriera non è mai stata impenetrabile. Le donne hanno preso le armi per difendere le proprie famiglie, i propri paesi, le proprie divinità o le proprie idee. Le donne muoiono e uccidono lottando contro il capitalismo, contro un’invasione, contro il colonialismo, il razzismo, la povertà, contro il comunismo o contro l’influenza straniera. E tuttavia, non hanno mai preso le armi per difendere sé stesse dal patriarcato. Le donne muoiono e uccidono, ma mai per sé stesse; e nel caso, contro il patriarcato, uccidono sé stesse, si suicidano. Perché? Perché questa idea suona completamente folle? Mi riferisco ai patriarcati più barbari, mi riferisco all’obbligo di nascondersi sotto un burka, al divieto di uscire di casa, ai matrimoni forzati, alle lapidazioni, agli stupri, al divieto di studiare … E mi riferisco in particolare a quando queste circostanze sono “nuove”, cioè quando si verificano dopo periodi di patriarcati “normalizzati”; il caso dell’Afghanistan è il più noto, ma non è l’unico. La domanda che mi faccio sempre è: perché donne che hanno studiato all’università, che hanno sposato qualcuno per amore, che sono state imprenditore o lavoratore, che hanno viaggiato e camminato per la strada normalmente, non si sono organizzate in gruppo armato prima dell’arrivo dei talebani? Perché per noi è molto più facile optare per il suicidio, che per l’aggressione ad altri, anche in circostanze come quelle menzionate? E anche conoscendo le risposte che spesso vengono date a questa domanda, a me non basta; riconosco le barriere, i freni psicologici, ma… Mai? Nemmeno in questi casi?

Se ci riferiamo alla possibilità di esercitare la violenza individuale per rispondere alla violenza individuale, mi assalgono gli stessi dubbi. Recentemente ho discusso con qualcun@ sul fatto che il patriarcato si sia instaurato a causa della maggiore forza fisica degli uomini. Sebbene qualsiasi sistema di dominio usi la forza come strumento, questa non è indispensabile. Il nucleo del potere consolidato è sempre simbolico e infiltra la costruzione personale; altrimenti la resistenza si manifesterebbe immediatamente. Per esempio, esistono – e sono esistiti già in passato – gruppi umani in cui il potere è detenuto dagli anziani, che sono fisicamente i più deboli. Inoltre l’intelligenza, l’organizzazione o le armi possono ben sostituire la forza fisica. La forza fisica non è fondamentale quando si può afferrare un’arma, e vi sono paesi in cui le armi sono a disposizione di uomini e donne.

La forza deriva sempre da un potere simbolico, e questo stesso potere  serve anche per privare altr@ del potere. Nel caso del patriarcato, la  forza fisica fa riferimento al potere simbolico di genere che dipinge  tutti gli uomini come assai più forti fisicamente di tutte le donne,  anche se questo non corrisponde al vero in molti casi specifici o non  deve essere sempre così. E questo potere simbolico dà loro una forza  reale, del potere, mentre allo stesso tempo indebolisce le donne e le  lascia immerse in un’impotenza fisica e psicologica assoluta.

Per  combattere la violenza maschile, come femministe, intendiamo usare la  forza, simbolica e reale, della legge. E’ vero che se la legge  condannasse e perseguitasse questa violenza, se si utilizzassero le  risorse per l’educazione contro di essa, se la condanna sociale fosse  totale, lentamente faremmo passi avanti. Tuttavia, nel caso del dominio  patriarcale, la legge è solo uno strumento, ma non è l’unico, perché per  quanto si condanni e punisca la violenza contro le donne, se lasciamo  intatto il sistema di dominazione simbolica, la violenza esisterà sempre, anche  se punita e condannata. Questo sistema è perversamente perfetto e  mentre punisce da un lato, incoraggia la violenza simbolica dall’altro.  Mentre legifera a favore della parità, si approvano o  semplicemente si incoraggiano comportamenti, abitudini,  rappresentazioni, leggi o istituzioni chiaramente ineguali.

Quindi la lotta contro la violenza di genere passa attraverso le leggi, passa attraverso l’educazione alla parità, ma passa anche attraverso qualcosa di molto più complicato, quale è l’aspetto simbolico, culturale. Nell’ambito culturale, il potere di autodeterminazione delle donne deve esprimersi anche sul piano fisico, perché le ragazze sono educate alla convinzione che tutti gli uomini sono più forti di loro e che, di fronte ad un’aggressione, possono ricoprire esclusivamente il ruolo di vittime. Tutti i giochi femminili, l’esercizio fisico che (non) fanno, l’abbigliamento, le scarpe, i movimenti, il linguaggio del corpo e persino il vocabolario che usiamo, tutto va nella direzione di togliere forza fisica alle donne. I ragazzi, però, non vengono educati nel timore dei ragazzi forti, ma nella coscienza dell’uguaglianza. Anche le donne possono anche essere forti, ma soprattutto, possono essere, sentirsi, fisicamente alla pari. Il punto non è promuovere l’uso della forza, ma non sentire barriere, blocchi, paure o sentimenti di impotenza di fronte ad altr@ presenze corporee e anche riguardo al proprio stesso corpo.

In questo senso vorrei raccontarvi qualcosa del mio rapporto speciale con la forza fisica. Siccome ho sofferto di poliomielite alle gambe, la mia famiglia decise che sarebbe stato molto importante rafforzare il resto del mio corpo per compensare. Mi hanno fatto fare ginnastica da quando avevo tre o quattro anni. Ho fatto ginnastica per rafforzare il corpo in generale, in particolare i muscoli delle braccia, tutti i giorni della mia infanzia e adolescenza. Ogni pomeriggio dopo la scuola ho trascorso due ore con un’allenatora facendo le parallele, l’arrampicata con la corda, gli addominali e il sollevamento pesi. A causa di ciò, ero una bambina molto forte, insolitamente forte rispetto a come sono le bambine di solito, e anche i bambini. In realtà, ero la personcina più forte nella mia classe, cosa che mi ha fatto avere un diverso rapporto con il corpo rispetto rispetto a quello che di solito hanno le bambine.

Se si doveva salire su di un albero, scalare una parete o trasportare qualcosa chiamavano me.

Se giocavamo a qualche gioco in cui la forza era importante, tutti mi volevano in squadra. I bambini a volte si picchiano, spingono, hanno relazioni mediate dal contatto fisico senza che ciò debba finire in combattimento. Queste relazioni sono state per me una forma di espressione naturale e tutto ciò ha avuto conseguenze, ha determinato il mio inserimento nel gruppo dei bambini, e non delle bambine. Non si faceva nel mio caso il confronto per capire se ero più forte o più debole degli altri, di pochi, o della media. Ero una in più. La cosa importante non era la forza concretamente misurabile, ma l’uso che facevo del mio corpo, della mia forza fisica, quella che fosse; la sensazione era di essere uguale agli altri bambini.

Gli uomini che picchiano le donne non lo fanno perché sono più forti e sicuri di vincere la lotta. Le picchiano perché sanno che in ogni caso la vittima non si ribellerà. Ricordiamo che la violenza del partner maschile in una coppia è un’escalation in cui tutto comincia con un insulto o uno schiaffo a cui lei non risponde mai. Che sia chiaro che non intendo affatto banalizzare il problema della violenza maschile, e non sto suggerendo che la risposta ad essa sia di restituire i colpi. Ma credo che molti degli uomini che picchiano le proprie mogli non siano particolarmente forti, né coraggiosi, e non colpirebbero nessuna se immaginassero che questa qualcuna è capace di resistere. Picchiano una donna perché sanno di poterlo fare, perché è completamente impotente, anche fisicamente.

Conosco bene i meccanismi psicologici che portano molte di queste donne a non lasciare i propri aguzzini, a non denunciarli, a non combatterli; so quello che ci fa ‘l’amore romantico’, la dipendenza affettiva e materiale, ecc. Comprendo che parliamo di un sistema naturalizzato che si rende invisibile, che si manifesta nel simbolico, nello psicologico, nell’autocostruzione personale, che spesso non percepiamo in quanto sistema di oppressione; si manifesta in tanti piccoli atti quotidiani contro cui è difficile ribellarsi, che coinvolgono la famiglia, le persone care, i figli e le figlie. Comprendo che la repressione che viene agita contro le donne che rispondono agli attacchi è stata storicamente terribile, e ancora oggi è orrenda in molte parti del mondo. E il femminismo fa molto per combattere tutto questo. Voglio solo dire che, come parte della nostra lotta femminista, dobbiamo imparare a posizionarci nel mondo con una corporeità autodeterminata, forte, coraggiosa e consapevole; che ciò contribuirà – contribuirà solamente – a cambiare alcune cose. E comunque, torno alla domanda iniziale.

Al di là della violenza machista in particolare, per quale ragione le donne mai, mai si sono organizzate e hanno preso le armi per difendersi, almeno in situazioni straordinarie? Questa domanda mi passa continuamente per la testa senza che io riesca a trovare una risposta – Mai?

(Articolo originale qui. Traduzione di feminoska, revisione di Serbilla Serpente.)

Deconstructing se si preferisce un cane a un bambino

baby-loves-dogLeggo questo articolo, uno dei tanti – di cosiddetti ‘esperti’ – che affollano le pagine di giornali on line, noti e meno noti. Di solito ignoro tali ‘perle’, ma in questo particolare pezzo ho visto tanti e tali di quei concetti e preconcetti contro i quali combatto, che ho sentito necessario scriverne un deconstructing ‘à la Gasparrini’! Buona lettura!

I bambini rappresentano un argomento sempre più importante a livello politico e sociale [affermazione tanto ovvia quanto scontata, per dare subito un taglio il più possibile banale al ‘ragionamento’]. Una politica che guarda al futuro dovrebbe investire sempre più risorse su di loro; ma nei decenni scorsi la politica italiana ha considerato poco questo aspetto e ha legiferato trascurando le «future generazioni» [a dir la verità, la politica italiana trabocca di ideologia familista da sempre, salvo poi fregarsene beatamente quando la realtà, fatta di una popolazione sempre più povera e più precaria, si manifesta in forma di individui che non stanno zitt@ a subire in silenzio ma avanzano le proprie legittime richieste. A quel punto diventano tutt@ fannullon@ che non hanno voglia di fare niente].

A loro ha lasciato un debito pubblico pesantissimo, che è una delle principali cause del dissesto italiano. I bambini di ieri sono oggi lavoratori, magari disoccupati a causa del vergognoso disinteresse dell’Italia di allora per il suo futuro. Negli anni ’80-’90, per questo e per vari altri motivi, gli italiani hanno deciso di mettere al mondo sempre meno figli. [sicuramente la situazione economica generale da molti anni non aiuta nessun@ -nemmeno chi vorrebbe avere prole – ma rispetto alla natalità in calo in Italia non si deve trascurare nemmeno la rivoluzione culturale che, a partire dai movimenti femministi degli anni 70 e dall’autocoscienza, hanno riconsegnato  – almeno in parte, nonostante la continua ingerenza della chiesa e del patriarcato – le scelte riguardanti la sessualità e la riproduzione alle donne… e direi posizione abbastanza condivisa anche da molti uomini, i quali non desiderano  – né necessitano più di – 12 figli a testa  – per mandare avanti il lavoro nei campi o perché dei 12, 8 ne morivano per malattie e/o denutrizione].

Eravamo nel mondo il fanalino di coda, con appena 1,2 figli per donna. Poi siamo aumentati a 1,4, per il contributo delle mamme straniere (il 20% in Italia, il 24% in Trentino); ma negli ultimi anni stiamo ridiscendendo a 1,3. In Italia nel 2013 abbiamo registrato un netto calo di nascite (510.000: 5% in meno rispetto al 2012). In Trentino i nati del 2013 sono calati del 10% rispetto al 2008…. [ma cos’è, una gara a chi ne fa di più? In un mondo dalle risorse finite non conta nulla il fatto che siamo già a livelli disastrosi di sovrappopolazione, che non ci sono più risorse, più spazio, più possibilità per chi già è qui e sta crepando, nel momento stesso in cui parliamo? Senza contare la mostruosa distruzione di habitat e biodiversità, la perdita di specie animali che non hanno più alcun luogo in cui rifugiarsi, ecc.ecc. ] Non è una bella notizia: con poche nascite e molti vecchi l’economia italiana sarà ancor più povera nei prossimi decenni. [se l’economia italiana è sempre più povera è, in massima parte, a causa della corruzione e delle scelte scellerate compiute in materia di spesa pubblica – prassi condivisa da qualsiasi governo, di destra, centro e sinistra – non certo perché nascono pochi bambini. Anche perché i bambini di ieri, che oggi sono giovani adult@, sono tutt@ precari@! Sui vecchi cosa si suggerisce, le camere a gas? ]

Vedo però che, in parallelo, stanno aumentando sempre di più le persone con cani da compagnia. [io vedo ancora più persone con gli smartphone in mano anche al ristorante, posso pertanto trovare un nesso causa-effetto anche in questo caso?] È facile fare una passeggiata e incontrarne decine, più delle carrozzelle secondo me. [e allora? Perché si vuole fare dei cani un capro espiatorio per scelte che evidentemente l’articolista non condivide – ca..voli suoi, potremmo aggiungere tra l’altro, o siamo ancora al ‘fare i figli per la patria?’] Come i bambini i cani sono affettuosi, ricambiano le premure, hanno emozioni e fanno sentire all’uomo il «piacere» di avere un amico fedele. Ma perché scegliamo di allevare un cane anziché un figlio? Perché e dove facciamo queste scelte? [bene, adesso dì la tua, che poi ti dirò la mia, e non so perché, ma credo che le motivazioni non coincideranno].

Nel cervello di uomini e cani, al primo piano, c’è un «cervello da rettile» (vecchio di almeno 300 milioni di anni), con centri che regolano la sopravvivenza dell’individuo e della specie nella lotta per la vita (istinti, automatismi…). I piaceri, le emozioni, la memoria, i desideri si localizzano al secondo piano, in parti centrali del nostro cervello (mesencefalo). Ormoni e sostanze chimiche ben note (dopamina, serotonina, ossitocina, endorfine…) sono responsabili della sensazione di «piacere» e di benessere che ci danno la cioccolata, la musica, un profumo, un massaggio, ogni atto di amore fisico o psichico, una vittoria, un atto di generosità…. Al terzo piano del nostro «cervello trino», in zone specifiche della corteccia, l’uomo, solo l’uomo, è dotato di linguaggio, di coscienza, di ragione, di intelletto, di pensiero rivolto anche al passato e al futuro. Qui – nella corteccia prefrontale in particolare – la mente valuta le informazioni che riceve dall’esterno e «dal basso» (emozioni, desideri, memoria), formula giudizi e sceglie come dobbiamo comportarci, come «essere Uomini». Usando la mia intelligenza, io posso scegliere di valorizzare il mio cervello da rettile, per cui ho «piacere» nel dominare sui più deboli,anche nel far loro violenza, con sadismo: Hitler aveva piacere nel programmare e attuare un genocidio! Posso scegliere le emozioni del secondo piano e mirare solo ai massimi «piaceri» per me, sempre in modo intelligente: godermi la vita, valorizzare gola, sesso, lusso, usare droghe per avere subito piaceri artificiali. Al giorno d’oggi il consumismo e un diffuso individualismo ci spingono a comportarci così: carpe diem… [allora, ho lasciato volutamente integro questo passaggio perché è davvero impagabile l’assurdità e la fallacia del ragionamento su esposto. Lasciando da parte il ‘cervello uno e trino’ (!)… Prima di tutto, gli esseri umani SONO animali! Forse gioverebbe all’autore, che toglie DIO dal trono per rimpiazzarlo con la sua laica versione IO, discostarsi da quella concezione cartesiana secondo cui uomo e animale fanno parte di quelle contrapposizioni di merito in cui uno dei termini del discorso – tutto quello che sta dalla parte umano, razionale, maschio, ecc.ecc. – è sempre SUPERIORE  a quello che sta dall’altra parte. Le cose sono un po’ più complicate di così: 1 – gli umani sono animali, 2- gli umani sono PECULIARI tanto quanto gli altri animali – ogni specie è ‘speciale’ perché tutte sono diverse – 3- vari studiosi del comportamento animale hanno decostruito negli anni tutte quelle caratteristiche che – sempre seguendo quel ragionamento vecchio di 300 anni per cui l’uomo è DIVERSO, MIGLIORE, ecc.ecc. – lo renderebbero UNICO. Spiacenti informarla che non è così, e molte caratteristiche definite in termini esclusivamente umani – ad esempio nell’articolo, linguaggio, coscienza, ragione,  intelletto, pensiero rivolto anche al passato e al futuro – sono possedute da molte specie animali, e non solo da quelli più simili a noi, come i primati. Senza contare poi che anche gli altri animali hanno caratteristiche UNICHE – tipo respirare sott’acqua,  volare senza l’ausilio di strumenti – e non si capisce perché alcune caratteristiche – guardacaso, le nostre –  dovrebbero essere migliori di altre. Tantopiù che la massima espressione dell’umana mente è perlopiù utilizzata, da secoli, per dominare altri esseri umani e altre specie, alla faccia dell’uomo simile agli angeli e blablabla!]

Oppure uso la mia intelligenza guardando al futuro in modo responsabile: e allora scelgo di avere come punto di riferimento non un Dio che giustifica ogni autorità («non c’è autorità se non da Dio: chi si oppone all’autorità, si oppone all’ordine stabilito da Dio», scrisse san Paolo), non il mio Io, il mio egoismo (me ne frego del futuro del mondo), ma il più piccolo Bambino di oggi che tra vent’anni giudicherà le nostre scelte politiche o familiari. [il più piccolo bambino di oggi non deve per forza uscire dal mio utero, se non lo desidero…può essere il bambino del mio vicino, quello del migrante che mi affanno ad incolpare di tutti i miei problemi, quello che nemmeno vedo e vive a migliaia di kilometri da me o che crepa su un barcone al quale il nostro glorioso stato impedisce di sbarcare]. Discorso troppo serio? Cosa c’entra con i cani? [qui per un attimo l’autore ha un barlume di consapevolezza, peccato si spenga immediatamente] Il cane è un animale superiore che, come il cavallo o il gatto, ha un cervello quasi come il mio (il 90% del suo Dna è uguale al mio!), cerca anche lui emozioni e relazioni, ha piacere a essere coccolato e allevato dall’uomo; soddisfa i miei bisogni di affetto e aumenta i livelli di ossitocina e dopamina al secondo piano del suo e del mio cervello. Se mi dà fastidio, un cane posso cambiarlo, mentre con un figlio ho un impegno ben diverso, un impegno di responsabilità verso il futuro dell’umanità…. [cioè l’autore prima ci dice che condivide col cane il 90% del Dna, che è un essere affettuoso, intelligente, con emozioni e relazioni, e poi afferma “se mi dà fastidio un cane posso cambiarlo”! Ah, davvero? E’ questo il comportamento responsabile che si vuole stimolare nel lettore? A parte che chiunque ami i cani – o che possieda un briciolo di compassione e onestà intellettuale –  risponderebbe che è un ragionamento totalmente scellerato,  dovremmo perdipiù dedurne che chi non è nemmeno in grado di prendersi la responsabilità di non abbandonare un cane, una volta che si è scelto come compagno di vita – nessuno ci impone di adottarne, no? – potrebbe/dovrebbe quindi essere in grado di badare ad un bambino? Non fa una grinza!]

I bambini sono il simbolo concreto del nostro futuro. [Esatto, e in quanto simbolo non abbiamo bisogno che siano ‘nostri’… o il discorso vale per tutti i bambini, o per nessuno. Se sono solo i ‘nostri’ che contano allora il discorso è puramente egoistico, oltreché razzista.] E perché l’umanità migliori dobbiamo educarli a diventare cittadini responsabili. Con loro dobbiamo fare scelte razionali, con i più alti livelli di intelligenza, con vero amore. Lavorare per un mondo a misura di Bambino ci può dare «piaceri» non effimeri, profonda gioia, vera felicità, ma solo se considero ogni Bambino come «soggetto di diritto». Se lo considero «oggetto di proprietà», posso usare il mio cervello da rettile e maltrattarlo. Se lo considero solo un «oggetto di piacere», da coccolare e da viziare purché non mi dia fastidio, allora posso anche surrogarlo con un cane da compagnia…. [non è proprio così. I cani, o gli altri animali ‘da compagnia’, proprio per la loro capacità di intessere relazioni e provare emozioni, stringono legami con noi. Legami a volte più autentici di quelli tra esseri umani, specie per le persone più sole, più povere, più abbandonate. Ma non sono surrogati di nulla. Chi ama un animale non umano lo ama per quel legame di affetto e amore che si può creare tra esseri di specie diverse. Le eventuali ‘mancanze’ degli altri esseri umani (familiari, amici) non si colmano in questa maniera, e l’amore per gli altri animali non entra in conflitto con l’amore per gli altri esseri umani.]

Concludendo: tante sono le cose che si possono dire di ‘ragionamenti’ come quelli esposti in un articolo del genere. Un articolo nazionalista e razzista – perché in un mondo sovrappopolato dove la maggioranza delle persone, anche  bambin@, muore di stenti, dire che devono nascere più figli@ italian@ è vergognoso; magari si potrebbe suggerire più felicemente di rinunciare ai propri privilegi, in modo che i bambini che oggi già vivono una vita di privazioni possano avere un futuro. Un articolo sessista e in generale paternalista – le donne oggi scelgono di fare meno o nessun figlio? E’ una scelta legittima che va sempre rispettata – spiace turbare l’autore rendendogli noto che ci sono donne, come la sottoscritta, che hanno sempre provato amore per gli altri animali, fin da piccolissime, e nessuna attrazione per i bambin@ –  e in ogni caso: se anche chi li desidera  – uomini e donne  – vi rinuncia non è per mancanza di responsabilità, anzi: è proprio per il senso di responsabilità che deriva dal fare i conti ogni giorno con una povertà sempre più difficile da affrontare, che si sceglie, anche in maniera assai sofferta,  di non far nascere nuovi individui, che risulterebbero privati dalla nascita di reali prospettive e destinati a soffrire per questa situazione. Dulcis in fundo, un articolo specista e bugiardo – perché dire che non nascono i figli perché è più facile avere dei cani sminuisce i legami affettivi interspecifici, fomenta l’odio per gli altri animali, ed è una menzogna.

Che si continui pure a delirare sulla natalità zero in un mondo sovrappopolato e al collasso…chiedo solo un favore: con tutti i possibili colpevoli da additare (corruzione, clientelismo, spese militari, grandi opere inutili, disoccupazione, finanche l’autodeterminazione femminile che per alcuni individui evidentemente non dovrebbe esistere!)…non date la colpa di tutto ai cani!

Il piacere politico di venire a spruzzi

dianaLo scorso 14 febbraio abbiamo festeggiato San Valentino al Tramallol, parlando di eiaculazione femminile. Diana Pornoterrorista ce lo ha spiegato attraverso un seminario teorico e una performance  che ha realizzato insieme alla Deny.

Da quando ho partecipato al seminario di Diana Pornoterrorista sull’eiaculazione femminile lo scorso 14 febbraio, ho passato la settimana seguente in “modalità Messia”, annunciando la buona novella: noi donne abbiamo la prostata e molte sono in grado di fare uno spruzzo, naturalmente o tramite qualche tecnica e un po’ di pratica. Beh, saperlo lo sapevo. Alcune amiche me lo avevano detto, e avevo sbirciato “squirting” qua e là in qualche pagina. Ma pensavo che fosse un fiasco dare tutto per perso e, conoscendomi, ‘dormire in una pozzanghera’ per pigrizia.

Quel pomeriggio minacciava di piovere un sacco a Siviglia. Ovunque e in tutte le direzioni. La piccola stanza adiacente al Tramallol si riempì fino a traboccare, e Diana ci spiegò pazientemente una parte della sua storia. Lei viene a fiumi da tutta la vita. Pensava, come molte altre, di pisciare ogni volta che lo faceva. Ma alcune lenzuola nere la fecero dubitare: ciò che lasciava un alone bianco non era pipì. Dopo molte ricerche, e aver notato che tutto ciò che non serviva per procreare era catalogato dalla fisiologia come organi “secondari ” o ” accessori”, trovò le ghiandole di Skene.

Che già il nome e la storia del suo scopritore sanguinario sono un’altra questione. Queste ghiandole sono responsabili della produzione di quel liquido che, se non viene espulso naturalmente, viene retroeiaculato ed eliminato attraverso l’uretra. Ma poche persone lo sanno. Nemmeno le donne che eiaculano regolarmente. Si tratta di un silenzio imbarazzante che la scienza perpetua, in cui molte donne si perdono, pensando di avere un problema dalla soluzione chirurgica. La sessualità femminile è sempre discreta, non dà molto fastidio. Se ti tocchi la clitoride mentre scopi cazzi, fai male, che importuna! Se spruzzi sei pessima, non puoi competere con la sborra maschile. L’eiaculazione femminile viene a dirci di permetterci questo piacere di infastidire un po’, di renderci visibili, e di capire i nostri corpi così come sono, non come dovrebbero essere.

Esco dalla stanza felicissima, mi piace l’idea. E mi fa incazzare essere io stessa quella che non fa casino, per paura che… Un’ora e due birre più tardi, la navata del Tramallol assiste alla performance. Eiaculerà selvaggiamente, scoperà con La Deny dal vivo e in diretta… c’è attesa. Inizia a pulire un tavolo scusandosi per l'”attacco da casalinga” che le è venuto e ci chiede di sederci. La mia miopia mi lascia intuire che si è conficcata degli aghi nelle sopracciglia e sul petto, e sta sanguinando. Qualcuno fa una faccia strana, Diana chiarisce che lo fa perché le piace. Sniffa una striscia di sale e piange lacrime e muco mentre parla dei corpi che attraversano la frontiera e vengono puniti per questo in Messico. Inevitabile non pensare a Ceuta, così vicina. Rimuove gli spilli e imprime la propria sacra Sindone col sangue del volto. Ma le si rompe la base del microfono, la musica salta da sola a metà di una poesia… è una terrorista e “errorista”, come lei stessa si definisce, cosa che personalmente apprezzo.

C’è spazio per le risate, che figata. Ci fa scrivere su un foglio come ci hanno apostrofate a volte, quello che ci ha fatto davvero male, proprio per aver anche oltrepassato certi confini: quello del decoro, della morale… Lei si spilla sul corpo i foglietti con i quali si identifica: puttana, frocia, cagna, malata… e poi ne fa un rogo, che brucia con il sangue della sua coppetta mestruale, mentre lei e la Deny e tutte noialtre osserviamo come tutto brucia e diventa cenere. La vendetta cura. Guariamo. E rimaniamo alcuni secondi tranquille, assimilando. Qualcuno le chiede perché non è venuta. Lei dice che non si sente molto bene, è il primo giorno di mestruazioni, è un po’ dolorante… inutile farlo.

Articolo originale di Tania B. Martinez qui, traduzione e revisione lafra, serbilla e feminoska.

L’intersezionalità in discussione: la depoliticizzazione bianca (prima parte)

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Gli oppressi lottano con la lingua per riprendere possesso di sé stessi, per riconoscersi, per riunirsi, per ricominciare. Le nostre parole sono azioni, resistenza. (bell hooks, Elogio del margine)

Proponiamo la traduzione di un articolo pubblicato in originale qui, sul tema dell’intersezionalità. Le critiche mosse dall’autor@, che mette in guardia sui pericoli insiti nell’appropriazione del termine da parte di soggett@ bianch@ e anche da parte di certo ambito accademico ci ha dato notevoli spunti di riflessione, che abbiamo deciso di condividere qui.

Traduzione di feminoska, revisione di Eleonora.

Buona lettura!

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L’uso del termine intersezionalità in riferimento all’inclusione in un’ottica di lotta militante di razzismo, sessismo e lotta di classe è stato proposto da Kimberle Crenshaw all’interno di un articolo scientifico, disponibile qui in lingua francese. Se l’articolo è stato pubblicato nel 1991, possiamo dire che l’intersezionalità esisteva da quando le donne schiave, poi i/le colonizzat* e gli/le sfruttat*, hanno resistito contro il dominio di razza, classe e genere che le colpiva, indipendentemente dal fatto che la cosa fosse o meno teorizzata. Si è comunque avuta una forte scossa militante nell’attivismo degli anni 1970: le lotte delle donne nere hanno acquisito status politico. Nacquero così il Black feminism, e più tardi il Womanism. Le donne di colore erano ormai al centro, non ai margini.

Purtroppo, l’intersezionalità ha subito sempre più un processo di depoliticizzazione da parte di accademic* bianch*. In un articolo intitolato “Lost in translation? Femminismo nero, Giustizia sociale, e Intersezionalità” Patricia Hill Collins, figura di spicco del femminismo nero, si interroga su quello che è andato perso nel passaggio dall’intersezionalità della pratica militante femminista nera alle università. Sirma Bilge parla anche di “sbiancamento dell’intersezionalità”. Oltre alle/gli accademic* bianch*, sono coinvolt* nella sua depoliticizzazione le/gli attivist* bianch*, anche slegat* dal mondo accademico.

Sono dunque tre, al momento, i problemi principali che riguardano l’intersezionalità, o meglio ciò che ne viene fatto:
1) Trasmissione elitaria del concetto
Se l’intersezionalità nasce dalla lotta degli oppressi negli Stati Uniti, mi sembra che l’avvento dell’intersezionalità in Francia sia stato reso possibile dall’università. Quando un concetto viaggia e arriva dall’università, o viene reso visibile dall’università (che non è lo stesso), o dalla parvenza di attivismo all’interno delle pratiche che discendono da quello stesso elitarismo accademico e che mobilitano reti accademiche, esiste necessariamente un pregiudizio di razza e classe su chi se ne approprierà, anche se alcune delle cose offerte dal mondo accademico in materia sono piuttosto interessanti.
2) Intersezionalità come sinonimo di “convergenza delle lotte”
Penso che questo sia il punto che più m’infastidisce. L’intersezionalità non è stata costruita per creare alleanze militanti tra bianch* e non bianch*, soprattutto perchè le alleanze miste sono quasi sempre a vantaggio de* dominant* che impongono la propria visione. L’intersezionalità è stata, e per alcun* è ancora, e deve restare, un modo per le/gli oppress* non bianch* su diversi piani di essere AL CENTRO e non AL MARGINE. Noi non dobbiamo far convergere le lotte, perché questa espressione dimostra che le lotte continuano ad essere pensate da posizioni che non sono le nostre, e che si tratta semplicemente di evocare ciò su cui queste lotte si uniscono (e vedremo chi è che evoca…).
Noi SIAMO la convergenza. Noi non abbiamo nulla su cui convergere. Noi siamo l’intersezionalità, punto. E qui, noi significa donne, trans, queer, intersessuali, omosessuali, disabili non bianch*. Ponetevi la domanda: perché sono sempre bianch* di sinistra a parlare di “convergenza delle lotte”? Dal nostro punto di vista esiste una confusione terribile tra il nostro interrogarci sui punti deboli della nostra politica (legittimo) e il fatto che le/i bianch* impongono la “convergenza delle lotte ” (illegittimo), che spesso equivale a dire “seguite la nostra agenda politica”.
L’intersezionalità è sempre più sradicata, e la sua storia cancellata. Piuttosto che essere uno strumento delle comunità nere e non bianche, diventa uno strumento “femminista”, uno strumento di lotta “globale” contro il sistema. No, no e no. L’intersezionalità non è femminista, è femminista-nera o womanist negli Stati Uniti, è afro-femminista in Francia, come viene chiamata sui social network, e potrebbe servire alle/i trans e gay non bianch* se comprendono il valore di questa parola (perché in realtà, a parte la parola, il processo al quale rimanda l’intersezione è già esistente). Ma non è certo un giocattolo per le/i bianch* per dire alle/i non bianch* di seguire la loro agenda o le loro modalità di lotta, con il pretesto della “convergenza delle lotte!”
3) Intersezionalità come un modo per non mettere più in discussione le questioni razziali
Ecco, questo è l’aspetto “vetrina” dell’intersezionalità. Io sono bianc*, mi proclamo “intersezionale”. Ok, va bene, guadagno punti. Definirsi intersezionale non significa nulla se si è bianc*. Nulla.
Usare il termine in questo modo è una cosa oscena, e le/i bianch* sapranno leggere molto bene lo scopo nelle mie critiche, vale a dire una presunta immunità che si guadagnerebbe  sulla base di una rimessa in discussione dei discorsi e delle pratiche, solo perché si dichiarano “intersezionali”. Basta essere dalla parte giusta su alcune questioni, come, guarda caso, essere contro la violenza della polizia nel suo aspetto razzista, essere contro l’islamofobia e il divieto di indossare il velo, e alcun* bianch* credono di avere il diritto di fare o dire di tutto e soprattutto di venire a spiegare come va  la vita alle/i post – colonizzat*, rimproverare le/gli  antirazzist* di non essere abbastanza “intersezionali”, ecc .
Chi siete voi per credere di avere il diritto di chiedere una qualunque cosa alle/i antirazzist* non bianch*? Credete che solo perché vi accorgete che Valls è razzista potete avere il diritto di interferire e comportarvi con paternalismo? Ma davvero, vaffanculo! Che sia chiaro (diciamo così) alleat* bianch*: le/gli antirazzist* non- bianch* non vi devono niente, neanche uno stuzzicadenti.
Le femministe afro, le femministe decoloniali, le persone gay, trans e queer non- bianch* stanno facendo il nostro lavoro, e non abbiamo aspettato voi per conoscere le nostre convergenze e i nostri limiti tra di noi, politicizzat* o meno. Il nostro lavoro sarebbe anche meno difficile, se voi vi faceste i cavoli vostri, e penso qui alle questioni che riguardano la (omo)sessualità. L’intersezionalità non è mai stata, non è e non dovrà mai essere un modo per le/i bianch* di sottrarsi all’autocritica sui propri comportamenti militanti, prima di tutto le loro interferenze e il loro paternalismo.
Le etichette (intersezionali, anti coloniali, ecc) sono inutili. Solo le azioni contano. E tra le azioni escludo la realizzazione di tweet o post su FB in cui ci si dimostri “alleat*” delle/i colonizzat*.

Deconstructing Domani è un altro porno

 

Annie_Sprinkle_Neo_Sacred_ProstituteNon voglio deludere le/gli aficionad*s dei deconstructing di Lorenzo Gasparrini, di cui non mi illudo di raggiungere il livello… ma nei giorni scorsi ho letto un post sul blog di Femminile Plurale (nomen omen?) al quale non potevo rispondere che così. Buona lettura!

Domani è un altro porno

Ovvero: la dolce illusione borghese di porsi fuori della norma [Borghese? Da dove nasce questa presupposizione di appartenenza, e ancor di più, il senso dispregiativo con cui è utilizzata?] 

Questo post nasce come risposta ad una mail in cui ci veniva presentato il libro Pornoterrorismo di Diana Pornoterrorista.

Ogni iniziativa che si propone di rendere “la sessualità e il corpo come territori da decolonizzare dalla repressione patriarcale, ecclesiastica e capitalistica” suscita in noi interesse [Ottimi propositi, ma riusciranno ad essere messi in pratica? Stiamo a vedere].

Tuttavia le nostre perplessità sorgono nel momento in cui dalla problematizzazione iniziale, dalla posizione di alcune questioni che anche noi riteniamo urgenti, si passa poi al piano delle possibili soluzioni. [Soluzioni? Non mi pare Diana parli di soluzioni, al massimo  fa delle proposte. Liber* di condividerle o meno… le “soluzioni” appartengono ad un altro filone di pensiero, quello che definirei vagamente autoritario]. Lo scritto di Diana Pornoterrorista si inscrive all’interno di quel filone che si autodefinisce come femminismo pro-sex [Esatto, si autodefinisce, a pieno titolo perché non esiste, allo stato dell’arte, un patentino femminista… o sì?]. Di esso noi mettiamo in discussione non solo il presupposto fondante ma anche le conseguenze [Liberissime di non riconoscervi in questa proposta, ma forse un po’ meno di bocciarla come se si trattasse del Male incarnato. Pare che esistano molteplici femminismi…pare, perché esistono soggett* che invece non sono così possibilist* in merito a ciò che può definirsi femminismo e cosa no…ma andiamo avanti].

Il femminismo pro-sex si fonda sulla nozione superficiale [Per chi? E’ la commissione della genuinità del femminismo che ne ha decretato la fallacia?] e postmoderna secondo cui l’ uso consapevole del proprio corpo come merce/prodotto/oggetto di scambio sia espressione di libertà [Grazie per il tentativo di sintesi, fallito. Il femminismo pro-sex ha una visione un po’ più complessa di così – forse la complessità sfugge a chi guarda le cose solo dall’esterno senza mai cercare un incontro con chi è protagonista del movimento o semplicemente la pensa diversamente da sé.  Dunque, tra le altre cose, il femminismo pro-sex problematizza il tabù riservato all’uso consapevole della propria sessualità, anche – e non SOLO – come oggetto di scambio economico; e questo considerato il fatto evidente a chiunque, che tutte le altre nostre parti corporee, e anzi potremmo spingerci a dire tutte le nostre esistenze, divengono, nel sistema capitalistico, possibili merci di scambio; e che, date le condizioni attuali d’esistenza, per alcune persone l’utilizzo della propria sessualità come mezzo di sussistenza fa parte di una scelta autodeterminata e consapevole – il fatto che non sia sempre così non cancella la realtà di quest’affermazione]. In questo prospettiva per una donna è possibile accettare consapevolmente e volontariamente la prostituzione [Accettare? Scegliere!]. In egual modo il porno, come vendita di immagini a sfondo sessuale, appare come strumento che minerebbe le logiche del mercato e del capitale [Il postporno mette al centro lo sguardo e i desideri delle donne e delle soggettività non conformi:  questo è sicuramente rivoluzionario, e per il momento non entra in logiche di mercato mainstream – avete sentito vero del crowdfunding messo in piedi per il tour…non esattamente un prodotto appetibile dal vorace mercato capitalista, a quanto pare! Non si capisce inoltre perché l’unico campo di lotta anticapitalista da cui bisogna continuamente partire debba essere quello del lavoro sessuale – di fatto impedendo ad alcun* soggett*, a partire da un sentire personale nei confronti di certi aspetti della propria corporeità che non è universalmente percepito in maniera problematica, di autodeterminare la propria scelta in merito a quale parte del proprio corpo mettere a servizio di un sistema, al quale siamo asservit* tutt*, per sopravvivere. Il sistema va certamente messo in crisi, ma l’abolizionismo vede il mostro capitalista solo quando vuole impedire il lavoro sessuale, non certo nella comune, e per ora necessaria pratica, di vendere le proprie prestazioni ad altr*. Quando, anche grazie al vostro impegno profuso a piene mani, le persone avranno un reddito di esistenza che le svincoli dalla necessità di lavorare per vivere, allora sì che tutto il sistema di sfruttamento sarà rimesso in discussione; fino ad allora ad ognun* deve essere possibile fare scelte consapevoli per sé stess*, senza scelte calate dall’alto]. L’autosfruttamento sembrerebbe essere sintomo di autonomia, segno inequivocabile di libertà [L’autosfruttamento è tale per tutt* coloro che devono lavorare per vivere, e non solo per chi lavora in campo sessuale. E le badanti? E le cameriere? E i netturbini? E i contadini? E i minatori? E chi lavora in catena di montaggio? Ah, ma il loro sfruttamento si può sopportare! E in ogni caso, anche l’impiegato ‘sceglie’ obbligatoriamente di farsi sfruttare per sopravvivere, oppure muore di fame!]. All’essere sfruttati dagli altri si oppone lo sfruttarsi da sé, ponendo questa come azione anti-capitalista [Essere consapevoli di essere, volenti o nolenti, inserit* in un sistema di sfruttamento, e poter solo scegliere come e non sé essere sfruttat* a me pare di una lucidità disarmante, altro che autosfruttamento!]. Tale posizione è, al contrario, profondamente capitalista, diremmo il suo compimento finale [“Direste così” perché avete dei tabù nei confronti della sessualità; se non li aveste, o li metteste in discussione, vedreste il lavoro sessuale per quello che è: un lavoro come tanti, e tutti i lavori odierni sono inseriti in un sistema capitalista. Non si vede il motivo per il quale il lavoro sessuale sarebbe un ‘compimento finale’ rispetto a quelli citati precedentemente, che logorano e uccidono migliaia di persone ogni anno]. Essa è alla base della società consumistica in cui viviamo e del sistema economico in cui ci troviamo dove, grazie alla possibilità di disporre del proprio corpo come meglio si desidera, alcuni esseri umani in posizione di evidente svantaggio economico, di genere, sociale, etnico e geografico divengono merci ad uso e consumo di altri [Non è alla base, ma si inserisce in un sistema: o lo si mette tutto in discussione, o si evita di fare moralismi inutili]. Eterosfruttamento ed autosfruttamento appartengono allo stesso paradigma capitalistico. Per superarlo bisogna perciò guardare altrove [Sicuramente, ma in ogni direzione, non con l’ossessione monotematica di alcun* abolizionist*].

Abbiamo letto e discusso con attenzione tra di noi l’intervista a Diana Pornoterrorista e rileviamo uno slittamento tra lo scopo assolutamente legittimo di liberare i corpi dall’oppressione patriarcale, ecclesiastica e capitalista e le pratiche messe in atto per raggiungerlo. Rileviamo cioè un’evidente contraddizione tra ciò che si vuole ottenere e il metodo per ottenerlo, il quale, ci pare evidente,  genera risultati contrari a quelli desiderati [Leggere un’intervista ‘tra di voi’ non significa confrontarsi con chi si va a criticare, conoscerne in toto il pensiero, il modus operandi, la politica. Per fare questo bisogna affrontare ciò che non si conosce o non si comprende, più e più volte, scontrarsi casomai, ma in un’ottica dialogica, non monologante, altrimenti non esiste contraddittorio e perciò nemmeno crescita].

Come ogni paradigma anche quello eteronormativo si costruisce su alcune polarità che ne fissano i concetti e il senso. Muoversi all’interno di esse, non vuol dire non superarle ma, al contrario, affermarle [Dire che Diana si muove in un paradigma eteronormativo vuol dire avere una grande confusione in testa di lei, della sua politica e del suo lavoro… ovvero parlare senza conoscere, cosa che andrebbe evitata].

Tra queste polarità una centralità essenziale è quella tra il corpo e la mente/anima. Affermare la priorità dell’anima/mente è stare dentro al paradigma. Così come affermare, come fanno le pornoterroriste, l’assoluta centralità del corpo [Diana sicuramente non ha paura di usare il corpo  – anche a fini politici – ma nel contempo declama poesie e legge testi! Direi che c’è ampio spazio sia per la mente che per il corpo!]. E’ starci dentro, semplicemente rovesciandolo [Non è semplice per niente, e decostruire/riappropriarsi non è rovesciare]. Non si esce così dal paradigma, non lo si supera [Invece con la dicotomia donne perbene/donne permale lo si supera?]. Allo stesso modo, affermare la necessità della «riappropriazione del fallo», non mette in discussione l’assoluta centralità che esso riveste come simbolo fondante della cultura patriarcale [Quando si parla di fissazione fallica… a parte che un fallo finto, separato dal corpo, un fallo che diventa strumento, un fallo che esiste senza un uomo, un fallo che può essere… un vegetale, ne depotenzia l’immagine dominante, la ridicolizza, la neutralizza. In ogni caso è solo una parte di un discorso, non la sua totalità]. Non è cioè rifiutare la cultura patriarcale ma riaffermarla, perché il significato del simbolo è talmente forte e consolidato culturalmente che quello che passa in questa operazione non è il nuovo significato sovversivo, ma il simbolo in quanto tale (Questo discorso vale anche per altre parole — “puttana”, “cagna” — il cui significato e in cui la dimensione del simbolo sono così forti che una riappropriazione, lungi dall’ottenere l’effetto sovversivo sperato, rinforza il significato negativo e patriarcale di partenza. L’operazione di riappropriazione e rovesciamento non è evidente e non è efficace). [Questo continuerà a succedere fino a quando ci saranno tante donne aggrappate al loro status di donna perbene. L’uso che fanno della parola ‘puttana’ le sex worker lasciamolo decidere a loro che non sono minus habens – anche se alcun* soggett* parlano costantemente ‘su’ di loro, senza mai parlare ‘con’ loro].

Se da un lato ci troviamo in sintonia con la volontà di combattere la violenza contro quello che è fuori dalla norma, dall’altro lato ci rendiamo conto che Diana pone, a sua volta, una norma ben precisa, che emerge nel mondo in cui vengono stigmatizzate le donne che non si adeguano ad essa. Se non si scopa con il culo o non si apprezza il sado allora si è delle represse o addirittura delle bacchettone moraliste [Ma dove? Quando? Non mi pare che le performance di Diana siano obbligatorie o che si sia costrett* a portarsi il tubetto di vaselina appresso! O ad abbracciare le sue idee. Quello che vedo io qui, e che accade spesso, è che chi ha un approccio sanzionatorio – leggasi, le abolizioniste – immaginano le altrui proposte con lo stesso piglio legiferante che è l’unico che sanno immaginare loro. Direi che essere pro-postpornografia apre delle possibilità a chi le desidera, essere anti significa invece toglierle anche a chi vorrebbe averle – da parte di chi reputa di sapere dove stia il giusto e lo sbagliato per sé e per le/gli altr*. Se non è cattonazismo questo! E vale pure per chi si professa laic*! Ah, peraltro: poco prima si critica l’uso non convenzionale del simbolo fallico colpevole di non decostruire l’immaginario del potere, se usi il culo sei discriminatori* verso chi non lo fa… l’asessualità potrebbe rivelarsi a vostro giudizio  un’opzione abbastanza neutra?!]. Anche questa è esclusione. Anche questo è imporre una norma. Non solo, si impone così la stessa norma che si vorrebbe combattere. Cosa c’è di sovversivo in questo? Qui ritroviamo un’altra polarità tipica del paradigma eteronormativo, quella che ruota attorno ai due poli ‘santa’ e ‘puttana’. Focalizzarsi sull’uno opponendosi all’altro è stare dentro alla logica eteronormativa e non superarla. [Il bue diede del cornuto all’asino, ovvero essere abolizioniste è ok e non fa parte della logica eteronormativa, anche se dice ad alcune persone come devono vivere la propria esistenza; il postporno invece,  per come è descritto in queste ultime righe, appare come una milizia che obbliga a fisting anali…forse avete preso troppo alla lettera la parola terrorismo! Rassicuratevi, il tour di Diana non è lo sbarco dei mille dildo!]

Il porno appartiene in pieno all’etica eteronormativa, ne è una diretta discendenza, qualunque significato vogliamo dargli, di qualunque immagine vogliamo riempirlo. Il porno è in se’ mercato, ovvero capitalismo che si incarna nella sessualità e la sfrutta. Quello che esprimiamo non è un giudizio morale su di esso, ma una valutazione politica sulla sua funzione ‘economica’. [E’ invece un giudizio tutto morale, dal momento che non combattete con uguale fervore tutte le altre logiche di sfruttamento che sottendono al lavoro salariato, precario, ecc.ecc. E credo non abbiate mai visto postporno per dire che appartiene all’etica eteronormativa!]

E ancora: cosa c’è di sovversivo e terrorista nel proporre come modalità di “liberazione” il dolore al posto del piacere (sic) quando esso è esattamente ciò che viene già assegnato alle donne nella pornografia mainstream? [Il dolore che piacere – non al posto di – e perciò scelto consapevolmente non  è, e non può essere paragonato, al dolore inflitto contro la volontà di chi lo subisce]. Cosa c’è di liberatorio nel proclamare ancora una volta la necessità di relazioni basate sul dominio quando è esattamente questo che il patriarcato vuole per noi? [Il fatto che non si capisca o condivida come e perché le pratiche BDSM – che sono comunque performative più di quanto siano relazioni basate su una realtà di dominio, e c’è una bella differenza! –  possano essere fonte di piacere per alcun* non può diventare motivo valido per negare la realtà: per alcune persone è così, e pare siano tante, a giudicare dai siti/forum/luoghi dedicati a tali pratiche; ancora, nessuno vi costringe a pratiche non consensuali: di quello che di sé stess* scelgono di fare le/gli altr*, che ve ne importa?]. In molte parti del mondo le donne subiscono mutilazioni, violenze, matrimoni forzati, stupri. È preoccupante proporre il dolore come via di liberazione quando per la maggior parte delle donne nel mondo il dolore è la regola e non conduce di certo alla liberazione [Cosa c’entrano le pratiche citate? Suggerire di scoprire nuove possibili vie di piacere – scelte, consapevoli – non implica incitare allo stupro, trovo persino offensivo questa equazione!]

Quella che noi vorremmo è una sessualità libera e non l’imposizione di modelli di comportamento, qualunque siano questi modelli [E negando a Diana  – e a chi ne condivide il pensiero – la possibilità di vivere come desidera la propria sessualità, che chiaramente non corrisponde ai vostri modelli, fate esattamente l’opposto]. Vorremmo un paradigma dove ciascuno sia libero di esplorare la propria sessualità e scoprirne i lati nascosti, senza che ci sia nessuno che giudica quali siano quelli normali e quali anormali, quali morali e quali immorali [Ma se avete appena detto che il dolore non può essere piacevole! Migliaia o forse persino milioni di persone direbbero il contrario, ma chiaramente voi ne negate le capacità di giudizio e di scelta, o l* definite superficiali… se questa non è sovradeterminazione!]. Ma se la sessualità diventa sfruttamento economico dei corpi, allora non possiamo che dirci contrarie [Insomma, puoi sfruttare tutto di te, testa, mani, corpo, puoi farti venire il cancro, l’asbestosi, il tunnel carpale, ma la vagina – o la fica, secondo i gusti – non si tocca!]. E ciò non ha a che fare con la morale ma ha a che fare con il modello economico che ciò porta con sé. Esso è, per noi, l’esatto contrario della libertà [Ecco, quando farete un discorso realmente anticapitalista, ne riparliamo. Fino ad allora, prendersela con le sex worker, le/i performer postporno etc. è proprio quello che sembra: moralismo. Fatevene una ragione].

 

Basta aggiungere una “M” e lo Zoo va giù…

Room with a ZooPremessa necessaria: Gli zoo pubblici, per come li conosciamo oggi, affondano le proprie radici nel periodo di espansione coloniale europea. Storicamente, gli zoo di animali sono nati insieme agli zoo umani. Gli zoo umani erano una componente chiave delle fiere ed esposizioni mondiali, nelle quali le potenze coloniali mostravano la loro ricchezza e tecnologia avanzata accanto ai “selvaggi” conquistati. Venivano pertanto costruiti villaggi di popolazioni indigene come replica del loro supposto “habitat naturale”,  di modo che il pubblico potesse vederli nei loro supposti  “costumi tradizionali”. Questi individui erano spesso schiavi. Per lungo tempo i “selvaggi” vennero mostrati a fianco della fauna selvatica, a rafforzare la pretesa dei conquistatori che gli indigeni fossero l’anello mancante tra  animali ed esseri umani.  

Nel libro Metamorphoses of the zoo: Animal encounter after Noah, Ralph Acampora, citando la famosa e triste storia di Ota Benga, giovane guerriero pigmeo recluso nello Zoo del Bronx nel 1906, afferma:  “A prescindere dall’indignazione che ci suscita la prigionia di Ota Benga, la questione cruciale è quella posta da Hari Jagannathan Balasubramanian: Per quale motivo la maggior parte di noi non condanna, oggi, quello che nel 2107 sarà percepito come davvero vergognoso? Forse, nel 2107, gli zoo saranno visti come una vergogna.”

Immagino di trovarmi in una prigione di nuova concezione: al suo interno non ci sono sbarre.  Le celle non sono tutte bianche e uguali ma arredate con mobilio e svaghi. Le guardie sembrano persino un po’ più ‘umane’… Eppure, sono in prigione. Non esistono sbarre, eppure ci sono confini ben definiti; i volumi della libreria che arredano il mio spazio sono in realtà copertine ripiene di polistirolo; non posso scegliere di andarmene di lì, né chi frequentare – sono costretta a condividere i miei spazi con sconosciut*, o magari mi trovo sola – e soprattutto sono continuamente osservata.

Occhi che mi controllano, perché di lì non me ne posso andare. Occhi che definiscono le mie giornate – quando e quanto devo mangiare e bere, ad esempio – scandendole come un metronomo, indipendentemente dai miei desideri. Occhi che, soprattutto, spiano voyeuristicamente ogni centimetro del mio corpo e ogni mio movimento… perché io per quegli occhi sono intrattenimento, non un individuo.

Un posto del genere esiste, anzi ne esistono tanti. In questi posti, oggi, sono prigionieri animali non umani, catturati e reclusi al solo scopo di lucro. Vite rubate ai propri habitat, alle proprie famiglie, alle proprie relazioni, alla propria indipendenza, libertà e autodeterminazione: vite a perdere destinate alla dipendenza dagli umani con la scusa della “conservazione” – mentre al di fuori di questi spazi, la distruzione di habitat e biodiversità procede spedita e senza rimpianti. Vite alla mercé di persone spregevoli, che così tramanderanno, a persone in divenire (i bambini e le bambine la cui spontanea attrazione per il non umano e il selvatico diventa ottima occasione di guadagno), l’idea che i non umani sono a disposizione dei nostri capricci, che dal momento che possiamo disporne sono davvero inferiori agli umani… anche se in fondo fanno simpatia, e meritano un po’ della nostra benevolenza.  Quando fa comodo e ce ne avanza un po’, naturalmente.

Solo un essere umano potrebbe cadere nella trappola di una passata di marketing che, con un po’ di belletto pubblicitario e qualche escamotage, tenta di far passare il concetto che un bioparco sia qualcosa di differente dall’ormai screditato zoo. Come se la forma avesse la capacità di cambiare la sostanza. Come se 4 scenografie di resina, un sito web colorato e dalle foto accattivanti – neanche si trattasse di un villaggio vacanze – rendesse più accettabile la deprivazione degli spazi naturali che si tenta pateticamente di riprodurre, il trauma della cattura dei selvatici e l’abominio della cattività. Come se una M, aggiunta ad una parola che ora non va più di moda (zoo non si usa più, è politically uncorrect, e le sbarre, oramai si è capito, è meglio che non si vedano), cambiasse una realtà di sfruttamento e prigionia, isolamento e sradicamento.

Gli animali non umani non si fanno fregare così facilmente, nemmeno noi dovremmo essere così miopi.

“Le insegne luminose attirano gli allocchi” diceva una canzone che ascoltavo molti anni fa, ma gli allocchi a cui si riferiva non erano sicuramente rapaci. Se c’è qualcosa che dobbiamo imparare da quei luoghi di prigionia che sono i bioparchi, è non accettare di essere anche noi prigionieri di scenari falsi, aguzzini sorridenti e occhi perennemente puntati su di noi. Anche il nostro mondo, quello popolato perlopiù da esseri umani, assomiglia sempre più ad un bioparco. Nel quale siamo costantemente controllat*, nel quale non siamo liber* di dissentire, nel quale altr* decidono che cosa è meglio per noi e ci danno tanti nuovi giocattoli per farci dimenticare quanta libertà abbiamo perduto.

Ribellarsi a tutto questo, solidarizzare con chi è prigioniero –  indipendentemente dalla propria specie di appartenenza – non dimenticare mai che la libertà e l’autodeterminazione sono irrinunciabili per tutti gli individui e che non esiste giocattolo in grado di risarcirne la perdita. Lottare per la libertà di tutti e tutte: ma proprio TUTTI E TUTTE, indipendentemente da razza, specie, genere.

Questo è quello in cui, come attivist*, dobbiamo impegnarci senza sosta se davvero vogliamo abbattere un sistema che si alimenta dell’altrui sfruttamento … E che si tengano le loro cortecce di pino!

 

Sesso dell’orrore – Intervista a Diana Pornoterrorista

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“Là fuori c’è una guerra”, dichiara il manifesto Pornoterrorista sottoscritto da Diana J. Torres: una guerra contro l’ordine sessuale e l’imposizione di genere, nella quale si vince solamente combattendo il nemico con la stessa violenza. La performer spagnola, oltre a dire questo e molto altro nel suo libro Pornoterrorismo, ci mette il corpo, per chi desidera vederlo e anche per chi non vuole.

di Laura Milano e Nico Hache, (traduzione di feminoska, revisione di Lafra e Serbilla. Articolo originale qui).

La donna nuda con il passamontagna in testa e la granata-dildo in mano non esita ad affermare che “quando dall’altra parte non hai nessuno con cui dialogare, ciò che resta è il terrorismo. Il pornoterrorismo attacca la violenza contro ciò che è fuori dalla norma. Cioè, mette in scena – come tutta la postpornografia – sessualità sovversive. Questo è terrorista”. Lei è Diana Pornoterrorista, un mostro sessuale meraviglioso e inquietante dalla testa ai piedi (o, per meglio dire, dagli anfibi alla cresta). Il suo lavoro come artista di performance iniziò dieci anni fa nella nativa Madrid, con il gruppo di cabaret gore-porno-trash Shock Value e oggi è uno dei punti di riferimento del postporno in Spagna. Attualmente risiede nella città di Barcellona, ​​da dove gestisce la sua centrale operativa postporno e di attivismo queer con un collettivo di artisti locali.

Diana è una guerriera esperta ai margini del genere, una donna che ama pensarsi come costruita alla periferia di quello che è il prototipo di donna (e anche di uomo). E’ un’esibizionista dichiarata, che sale sul palco per recitare le proprie poesie al ritmo di orgasmi terrificanti. Un corpo e una voce determinata a combattere per la liberazione dei corpi, la riappropriazione e il riscatto dei loro desideri più profondi.

Che ruolo ha il corpo nel pornoterrorismo?
-Ne è l’anima. Non si può ignorare il corpo nel pornoterrorismo. Questa è politica del corpo e perciò non considero nessun altro modo di fare politica. I nostri corpi non normativi dimostrano che esistono altre opzioni e stanno anche terrorizzando un pochino. Per questo preoccupano.

Perché hai scelto di lavorare attraverso la performance e la poesia?
-Sul palco mi sento al sicuro, non ho paura di nulla. E mi sembra assai preziosa la possibilità di metterci la faccia. Mi sento più insicura nello scrivere un post sul mio blog, dietro allo schermo. La stessa cosa è successa quando ho scritto il libro, Pornoterrorismo; mi è piaciuto molto farlo, ma mi sento decisamente più a mio agio quando vedo le reazioni delle persone contemporaneamente a quello che sto facendo.

Nelle tue performance sono sempre presenti elementi di S/M, fist-fucking, squirting. Perché queste pratiche sessuali sono terroriste secondo te?
-Non considero il fist-fucking sovversivo perché non è doloroso. Per quanto sia visivamente forte, non fa male. Il BDSM, invece, è terrorista, sovversivo, perché mette in gioco il dolore come piacere.

Il dolore però non è necessariamente presente nelle pratiche BDSM.
-Questo è vero, però c’è sempre una situazione di dominazione. E metterla in discussione è sovversivo. Non sono importanti in quel contesto le questioni economiche, etniche, culturali o altro. Chiunque può dominare chiunque, i rapporti di potere consolidati si trasformano. Il dolore è di solito una punizione; trasformarlo in un premio, in piacere, è sovversivo. Allo stesso modo lo squirting è terrorista, e lo uso per mostrare l’orgasmo femminile, negato dalla medicina e anche dal porno. Quello che non si vede non esiste.

IL CORPO E’ IL MESSAGGIO
Sale sul palco una persona ingessata dalla testa ai piedi, a passo molto lento. Sul suo corpo possono leggersi gli insulti che il pubblico ha scritto su richiesta della performer. Il silenzio carico di tensione che avvolge la sala è bruscamente interrotto dal suono delle furiose sculacciate ricevute da questo corpo ingessato. Grida, dà voce agli insulti stampati sul corpo, si lascia cadere a terra mentre rompe le fasce e invita il pubblico a spogliarsi. Dopo aver recitato le sue poesie, si rimuove gli aghi infilati in fronte, leccandosi il sangue che cade dalle ferite, si fa penetrare dal pugno di una collaboratora. Diana usa il proprio corpo come arma da guerra in ogni performance, non solo come mezzo ma come fine in sé.

Hai affermato di usare il piacere come cavallo di Troia per trasmettere il messaggio. Qual’è questo messaggio? Il piacere è solamente uno strumento?
-Non è solo uno strumento, il piacere è parte di quel messaggio. Quando le persone sono sedute di fronte a un palco a guardare uno spettacolo che sanno chiamarsi Pornoterrorismo, alcune sono già aperte alla proposta. Ma altre vengono solo per la parola “porno”, non per la parola “terrorismo”, capisci? E alcune persone vengono perché sanno che ci saranno tette, culo e sesso dal vivo. Quindi penso che il piacere sia come un amo di modo che, quando il pesciolino abbocca per bene, lì nel teatro può liberarsi di tutto il resto.

E che cosa è che vuoi liberare nello spettatore?
-Questa è la violenza di cui ci nutriamo ogni giorno col telegiornale, che ci circonda. Durante l’ultima performance ci sono stati alcuni momenti molto violenti, come il numero dei peccati della Chiesa, dove faccio un elenco dei suoi peccati, che potrebbero anche essere definiti crimini. E sono argomenti che la gente non manda giù facilmente. Quindi penso che arrivare con una predisposizione per l’eccitazione sessuale ti metta in uno stato di vulnerabilità. Questo l’ho capito una volta che stavamo guardando il telegiornale allo scoppiare della guerra in Iraq: era un vero massacro. E ho cominciato a pensare che non è un caso che i telegiornali vengano trasmessi proprio all’ora dei pasti, li trasmettono proprio in quel momento nel quale inghiotti tutto. Così ho pensato, “perché non utilizzare queste strategie – che sono manipolatorie – per il mio stesso messaggio?

Che impatto credi abbiano le tue performance sul pubblico?
-Spero di aiutare le persone che assistono al mio lavoro a scoprire le diverse forme della propria sessualità. Ho scelto di non lavorare otto ore al giorno per dedicare tutto il mio tempo a studiare questo. Leggo molto, penso e poi lo restituisco masticato e facile da capire. Ci sono intellettuali che lavorano in questo campo da un altro punto di vista, leggono Judith Butler e poi spiegano la teoria di genere, ma davvero poch* l* capiscono. Io cerco invece di renderla accessibile a tutti, e qui, naturalmente, ha luogo a volte una certa discriminazione intellettuale, dove il discorso accademico cerca di legittimarsi sugli altri modi di affrontare la sessualità.

Nel tuo libro affermi che “scoprire la propria sessualità è anche scoprire come il nostro sesso non ci appartiene affatto.” Chi ci ha derubato della nostra sessualità? Come possiamo riprendere il controllo dei nostri corpi e dei piaceri?
-In primo luogo, il patriarcato. Poi la Chiesa. Poi la scienza, con la medicina come strumento. E infine il capitalismo. Questa è la catena di istituzioni che hanno tentato di applicare il controllo su corpo e sessualità. E dobbiamo uscirne, dobbiamo poter scopare con il culo senza avere il prete nella stanza a dirci che è peccato. Non è facile, perché è qualcosa che abbiamo dentro di noi da quando siamo molto piccol*, dal momento che ci assegnano un genere biologico. Ma si realizza con l’attivismo, con una vita attiva basata sul lavoro sul corpo.

Nell’ambito di questo attivismo, vedi nel femminismo il percorso corretto per la liberazione del corpo e della sessualità?
-No, perché in molti casi il femminismo è reazionario ed escludente; io stessa mi sento esclusa dal femminismo, nelle sue categorie non c’è posto per me. Il femminismo è per la liberazione delle donne, ma respinge la prostituzione, il porno, il sado, considerandoli forme di violenza contro le donne. Io sono a favore della prostituzione e del sado e faccio porno. Respingo il femminismo perché lascia fuori uomini e trans. Di fronte al rifiuto del maschile, per esempio, propongo l’appropriazione del fallo, ossia di appropriarsi in maniera autodeterminata dei simboli del patriarcato piuttosto che distruggerli.

Perché ti identifichi con il transfemminismo ? Quali sfide implica l’etica transfemminista contro l’ordine sessuale normativo?
-La sessualità, il genere, le rappresentazioni del corpo, non possono essere isolate dal contesto economico globale, politico e istituzionale in cui si svolgono. E questo contesto è il capitalismo. Il transfemminismo implica coerenza con la lotta anti-capitalista. Io mi schiero contro il femminismo che proclama la liberazione delle donne, ma allo stesso tempo utilizza Windows invece di un software libero. Le lotte che si instaurano nel campo della sessualità non possono essere separate dalla lotta contro il capitalismo, la coerenza è necessaria a questo proposito. Lo stesso accade al contrario, quando l’attivismo anti- capitalista non include il lavoro sul corpo. Questo è ciò che accade con il movimento 15 -M qui in Spagna, le/gli indignat* che vogliono la rivoluzione, ma poi tornano a casa e non sanno scopare se non nella posizione del missionario. Senza una politica del corpo e del genere nessuna rivoluzione è possibile, né ha senso la sovversione sessuale staccata dalla lotta contro il capitalismo.

Quali azioni specifiche possono essere adottate per attuare una politica del corpo e di genere?
-Attraverso il transfemminismo, ad esempio, portiamo avanti la campagna STOP Transpatologización, con la quale reclamiamo la necessità di rimuovere il transessualismo dal DSM IV e dagli altri manuali internazionali di diagnosi mediche. Il transessualismo è definito come un disturbo della personalità. Recentemente abbiamo esaminato il nuovo progetto e non appare più, è stato rimosso, ma invece la sindrome premestruale è stata inclusa in quanto condizione temporanea. Pensa! Una volta al mese tutte le donne sono pazze.

In Argentina è ora in corso un dibattito sulla legge sull’identità di genere, che permetterà alle persone trans di cambiare ufficialmente il proprio nome e sesso senza spiegazioni.
-Beh, sono più avanti di noi. Qui si deve ancora passare attraverso un processo medico-psichiatrico di due anni, dopo di che l’istituzione medica decide se sì è o meno in grado di prendere questa decisione.

LA RETE POSTPORNO
Se il postporno funziona principalmente a partire dai collettivi e dall’autogestione nella produzione, il lavoro di Diana è come un filo in questa rete di volontà interessat* a creare nuove e sovversive rappresentazioni della sessualità. In questo senso la proposta Pornoterrorista trova nel postporno il proprio inquadramento e la propria rete di alleanze a partire dalla quale scagliarsi in modo transfemminista, creativo e al di fuori della logica commerciale contro il porno mainstream. Una di queste linee di azione e di lavoro collettivo trova la propria sintesi nella Muestra Marrana, un festival porno non convenzionale autogestito e organizzato da Diana, Claudia Ossandón e Lucia Egaña che ha luogo ogni estate nella città di Barcellona. Il festival è un’occasione non solo per presentare le produzioni audiovisive legate al postporno, ma anche per creare uno spazio di scambio e di dibattito sulle molteplicità sessuali sovversive e sulle pratiche che stanno ai margini del sistema eteronormativo. “La pornografia è fatta per vendere certe pratiche e certi corpi. La differenza fondamentale è che nel postporno possono comprendersi tutte le pratiche. Se ti eccita metterti una fragola nel culo o se mangiando una banana hai un orgasmo, così sia. Per la pornografia sarebbe un’aberrazione o una di quelle pratiche che si inseriscono nel genere ‘crazy and funny’. E la cosa più importante del postporno è che include le donne come produttore, registe, attore”, dice Diana. Pensando a queste ultime, la questione degli assenti è inevitabile.

Dove sono gli uomini nel postporno?
-Davvero non lo so. Li aspettiamo. Non ho alcun problema a fare dei laboratori con i ragazzi, fare postporno o qualsiasi altra cosa. Ma non vengono. C’è molta più paura nei ragazzi in generale, e il fattore problematico è dato dal fatto che le donne e gli uomini con i quali si relazionerebbero non gli piacciono, perché siamo corpi poco normativi. Sto aspettando questo momento, adesso mi piacerebbe giocare con più uomini, ma è molto difficile. L’ultima volta che ho giocato con gli uomini erano completamente impenetrabili, esseri pieni di paure e frustrazioni. In questo senso penso che la pornografia abbia fatto molto male agli uomini, danni soprattutto interiori. Molte donne non hanno mai visto porno nella loro vita, al contrario è quasi un insegnamento culturale che i ragazzi vedano i porno. E questo ti rimane dentro. Poi improvvisamente scoprono le pratiche postporno che sono diverse da ciò che vedono nel porno, che non confermano quello che era apparentemente così importante e chiaro, si sentono come nudi.

In questo senso, gli uomini hanno molto più lavoro da fare. Non che tra noi non si parli di sesso, ma lo facciamo in modo diverso.
-È vero, la pornografia e le modalità di acculturazione della sessualità maschile sono frustranti perché non sono reali. Né il tuo corpo è così, né le tue pratiche sono così, né ciò che ti piace è così. Questo dovrebbe indurre gli uomini a fare postporno, ma non succede. Temono che arrivi una tipa punk con la cresta a scoparli nel culo.

Sembra che ogni contatto con il culo dell’uomo, qualsiasi tipo di penetrazione si riferisca ad una identità omosessuale.
-Certo, si parte dal presupposto che le donne non penetrano e gli uomini non sono penetrati. Quindi, se ti penetrano e soprattutto se lo fa una donna, smetti di essere un uomo e diventi un finocchio. E’ come una regola matematica di base alla quale tutt@ hanno creduto e che è come un fantasma che informa gli ani di mezzo mondo. C’è un testo molto interessante di Beatriz Preciado chiamato Terrore Anale, che parla di queste paure dell’analità e della penetrazione.

Cosa credi manchi al postporno?
-Il postporno è considerato una forma di rappresentazione artistica della sessualità, ma non commerciale. In sintesi, è considerato come un movimento. Perché alla fine siamo come topolini che lavorano sempre ai margini. Sarebbe bello se ci fosse un riconoscimento per la gente che ha lavorato per anni su questo. Sono dieci anni che lavoro come artista e finora non ho visto alcun frutto a livello istituzionale, artistico e nemmeno di pubblico.

Questo riconoscimento di cui parli significherebbe entrare nel circuito dell’arte istituzionale. Pensi che un ampliamento del territorio di influenza del postporno significherebbe una perdita del proprio potere sovversivo?
-Mi piacerebbe vendere la mia arte ai musei, ma non credo sia possibile. Sempre che questo non implichi auto-censura, non vedo nulla di male nel raggiungere più persone e ottenere soldi dallo Stato. L’anno scorso, per esempio, abbiamo organizzato nel Museo Reina Sofia di Madrid un evento chiamato La Internacional Cuir, dove abbiamo fatto le nostre performance. Ma è un’eccezione, perché di solito non viene comprato. Il postporno e il pornoterrorismo sono periferici, marginali.

Dunque che cosa si è raggiunto finora con il postporno?
-Si è ottenuto che il femminismo sia più divertente e arrapato rispetto a prima, che sia anche più inclusivo e meno discriminatorio. Penso che sia uno dei migliori risultati del postporno: trasformare il femminismo in una cosa sexy. Anche a livello artistico è molto importante, infatti il postporno sta rimodellando il mondo dell’arte. In sintesi, i risultati sono sessualizzare il femminismo e sessualizzare il mondo dell’arte. E farlo in modo politico, etico.

Scopri il sito di Diana qui.

Finalmente anche in Italia, l’artista e performer Diana J. Torres presenterà ad Aprile, nel corso di un indimenticabile tour, il suo libro Pornoterrorismo.
Il tour di presentazione si terrà tra il 9 e il 21 di aprile 2014.
Le città che ospiteranno l’evento saranno:

9 aprile: PALERMO
10 aprile: NAPOLI
11, 12, 13 aprile: ROMA
14 aprile: BOLOGNA
15 aprile: GENOVA
16 e 17 aprile: MILANO/RHO
18 e 19 aprile: TORINO

ADOTTA UNA PORNOTERRORISTA!
Sul sito di crowdfunding Verkami puoi acquistare Pornoterrorismo in prevendita, e sostenere così il tour di Diana in Italia.
Aderisci, diffondi e PARTECIPA!
Evento Facebook qui.

Il sonno del femminismo genera mostri: è ora di svegliarsi!

sleepingbeauty twins fairytale  La capacità del sistema di normalizzare le istanze radicali non è sicuramente una novità, e fa parte di quelle manovre biopolitiche volte a depotenziare e normare quelle soggettività che, perlomeno inizialmente, pongono la propria alterità come caratteristica fondante del proprio esistere e del proprio agire. Purtroppo, spesso, la fatica di trovarsi perennemente in lotta e il desiderio di potersi allontanare almeno parzialmente da quello che è per alcun* soggett* un vero campo di battaglia (che ha luogo sui propri corpi e sulle proprie vite) ha come amaro risultato che, a fronte di piccolissime concessioni dalla valenza apparentemente positiva, le istanze originarie e dunque la lotta in sé si snatura, non riconosce più il proprio obbiettivo, ed infine spesso rimane un vuoto involucro utilizzabile a mò di brand ogni volta si ambisca passare per rivoluzionarie le scelte più reazionarie che si possano immaginare. Per quanto riguarda il femminismo, avvicinandosi la ricorrenza dell’8 marzo e a seguito delle lodi sperticate al governo Renzi, definito in termini elogiativi come governo giovane e finalmente paritario, vorremmo fare una riflessione che possa restituire non solo quella che è la situazione reale, ma anche la necessità di una lotta femminista che ritrovi la sua radicalità, senza la quale anche il movimento delle donne si ritrova ad essere solo un marchio strumentalizzato a destra e a manca.

Le colpe di certo femminismo storico italiano il quale, ottenuti insperati successi oramai 40 anni fa, ha considerato la propria missione compiuta vivendo sugli allori di qualche battaglia vinta e diventando miope di fronte alle manovre del potere patriarcale, tutte volte a depotenziare quelle stesse vittorie (l’eterno braccio di ferro che si compie da 40 anni a questa parte sulla legge 194 ne è un chiaro esempio) o a dipingere, riuscendoci, il femminismo come fondamentalmente misantropo, superato, oramai relegato ad un passato remoto e appannaggio soltanto di donne brutte, indesiderabili e colme di odio per il maschio e desiderio di vendetta è cosa nota.

Negli ultimi anni poi, come se non bastasse, l’emergere di posizioni politiche femminicide propugnate da certo femminismo borghese ha dato il proprio imprimatur allo status quo, celebrando le quote rosa, l’italianità, la dignità delle donne da difendere ad ogni costo (anche calpestando l’autodeterminazione di altre donne) e il “diritto alla maternità” attraverso la conciliazione. Tutti ‘mostri’ nati dall’edulcorazione di un movimento le cui parole d’ordine erano quelle dell’autodeterminazione e della liberazione, non dell’emancipazione delle donne.

Il mostro del giorno è il governo Renzi, che, sdoganato da un discorso che preferisce di gran lunga il termine “femminile” – così moderato, così debolmente connotato, così maternamente accogliente e paziente –  a  “femminista”, è allo stato dell’arte per quanto concerne il pinkwashing, facendo bella mostra di donne che peraltro si prestano al gioco non solo adattandosi in maniera docile al loro ruolo di veline del solito uomo di potere, ma che, dalle prime dichiarazioni fatte, sono quanto e più sessiste di certi loro colleghi maschi; e il cui valore pare riassumersi in quella ‘donnità’ funzionale al riaffermare le solite politiche reazionarie che si realizzano sul corpo delle altre donne, quelle che ne fatti non rappresentano per nulla – anche se poi decidono per loro.

Giovani donne come Marianna Madia, che ricalcano visivamente e negli intenti l’immagine della ‘madonnina’ devota al Grande Padre Onnipotente, che col suo esempio – e purtroppo con le sue parole di fondamentalista cattolica che, senza alcuna vergogna, antepone con leggerezza alla laicità richiesta dal proprio ruolo istituzionale – rendono evidente che l’essere ‘donne’ in sè e per sè non presenta alcun valore aggiunto nè raggiunge alcun risultato positivo in un percorso il cui fine ultimo è quello della liberazione, non della concessione.

Mutuando un’immagine dall’attivismo antispecista: se, in quanto femministe, non desideriamo gabbie più grandi, ma gabbie vuote – e perciò donne libere e autodeterminate – non dobbiamo cadere nei tranelli che oramai sono sparsi a piene mani sul nostro cammino. E’ necessario e urgente pertanto ritrovare la radicalità del femminismo, che tuttora esiste e parla di intersezionalità, queer, non maternità, anticapitalismo, e soprattutto e sempre AUTODETERMINAZIONE.

E’ ora di svegliarsi da questo incubo dai colori pastello, rifiutare la conciliazione con questa Grande Madre e Madonna, felice e realizzata nel suo ruolo subalterno e vera propria kapò per tutte le soggettività non conformi… Altrimenti, continuando di questo passo, questo incubo diventerà il coma di un femminismo che si riconosce in tutto ciò che si ammanta di rosa.

Disegno di Sasha Foster.

Cerchiamo di capirci: sex worker e vittime di tratta non sono la stessa cosa

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Nel giorno precedente il Super Bowl di quest’anno, articoli circolati sulla Rete segnalavano il massiccio aumento di traffico sessuale che si verifica in occasione dei grandi eventi sportivi. Che questa tendenza sia o meno reale, la tratta è un problema serio. Quarantacinque persone sono state arrestate a New York durante il Super Bowl per aver costretto più di una dozzina di ragazze alla schiavitù sessuale. Seppure queste ragazze sono state vittime di sfruttamento sessuale, alcune agenzie di stampa hanno distorto la realtà riferendosi a loro come “sex worker” e “prostitute minorenni”. In un altro recente articolo su di una vittima di tratta di circa 15 anni, l’emittente CBC Canada ha definito la ragazza “una sex worker adolescente.”
Queste scelte lessicali sono fuorvianti, e sebbene sia convinta che spesso le persone danno troppa importanza alle etichette, la distinzione tra una persona adulta che sceglie di vendere sesso per denaro e un’altra il cui corpo è sfruttato contro la propria volontà è fondamentale quando si discute di prostituzione, schiavitù, e libertà. La capacità di fare scelte e decidere del proprio destino è sempre più accettata, e i media distorcono il valore della scelta quando usano “sex worker” in modo intercambiabile con “vittima di tratta”.
Pertanto è ovvio che la tratta sia una pratica spaventosa. I trafficanti infliggono danni terribili alle proprie vittime – molte delle quali sono incredibilmente giovani e già patiscono la mancanza di sostegno familiare – nei loro anni di formazione e le sottopongono ad abusi, costringendole a correre rischi gravi per la propria salute, e derubandole di qualsiasi autostima al di fuori del valore monetario che hanno per i propri “padroni”.
E’ giusto provare repulsione per i pericoli e le brutalità del traffico di esseri umani. Ma è la rinuncia forzata al proprio libero arbitrio di persone ad essere forse l’aspetto più ripugnante della schiavitù sessuale – anzi, di ogni schiavitù.
Anche alcuni gruppi anti-prostituzione confondono o ignorano la distinzione tra lavoratrici volontarie e vittime di coercizione. Considerano il lavoro sessuale come intrinsecamente foriero di sfruttamento, poiché lo reputano una professione degradante che richiede alle persone di mercificare il proprio corpo e che le sottopone a maggiori rischi per la salute. La decisione di vendere sesso non sarebbe mai, quindi, una scelta informata per queste persone, ma imposta loro da circostanze finanziarie restrittive o come reazione auto-distruttiva a seguito di trauma infantili.
Prima di tutto, se davvero le donne decidono di diventare sex worker per l’assenza di altre opzioni, togliere loro quell’unica opzione come potrebbe essere un beneficio? Se le/gli attivist* anti-prostituzione fossero davvero preoccupat* delle scelte limitate che si offrono alle sex worker, dovrebbero a quel punto combattere le leggi oppressive che impediscono alle persone di perseguire altri percorsi imprenditoriali.
A quel punto, se nuove opzioni divenissero disponibili e alcune persone scegliessero ancora di lavorare nell’industria del sesso, non si potrebbe più affermare che il lavoro sessuale è una professione illegittima scelta per disperazione. E, a proposito, dovremmo davvero dubitare di qualsiasi gruppo che affermi di promuovere l’indipendenza delle donne e contemporaneamente sostenga che alcune donne sono incapaci di fare scelte informate.
 
Sì; molte delle decisioni che prendiamo sono influenzate dal nostro passato e a volte vanno a nostro discapito, ma non siamo vittime delle nostre scelte. Ed è una contraddizione affermare che una persona che vende sesso non è un agente morale perché sta reagendo ad un trauma emotivo, mentre una persona che compra sesso è un agente morale e la sua è intrinsecamente una scelta di sfruttamento, sia che derivi da un trauma emotivo o meno.
Il lavoro sessuale richiede la mercificazione del proprio corpo e l’accettare un aumento delle possibilità di rischi fisici, ma lo stesso avviene ad un giocatore di football professionista. A differenza delle sex worker, non trattiamo i giocatori di football come vittime, anche quando la scelta di diventare un atleta è stata la conseguenza dell’avere poche altre competenze spendibili sul mercato.
La distinzione tra la scelta di vendere sesso e la scelta di vendere abbonamenti stagionali si basa su una visione puritana del sesso come qualcosa di sporco. Anche se le/i lavorator* di entrambe le professioni mercificano il proprio corpo per il divertimento altrui, la società approva la decisione di vendersi in campo sportivo, ma denuncia la decisione di vendersi per sesso e chiama questa scelta degradante, francamente una definizione davvero offensiva. Nessuna scelta fatta da una persona per sostenere se stess* o la propria famiglia, senza danneggiare altr*, è degradante.
Le vittime di tratta, a differenza delle sex worker o dei giocatori di football, non hanno scelto di mercificare il proprio corpo e correre perciò gli eventuali rischi; i loro aguzzini hanno scelto per loro. La mancanza di scelta da parte della vittima, non la natura dell’industria del sesso, è ciò che le rende vittime e necessita di intervento. Queste persone non sono “sex worker” perché il sesso senza il consenso è stupro e il lavoro senza consenso è schiavitù. Chiamare le vittime di tratta sex worker o prostitute mina la gravità della violazione nei loro confronti, così come mina l’autodeterminazione delle persone, uomini e donne, che lavorano volontariamente nell’industria del sesso.
(Articolo originale di tradotto da feminoska)

Intervista ad Angela Davis

Angela-Davis

Questa intervista, di qualche anno fa, è ancora molto attuale per quanto attiene le questioni discusse, ovvero la depenalizzazione del sex work e le questioni relative all’attivismo e alla complessità degli scenari attuali di lotta. Traduzione di feminoska, revisione di Claudia.

Siobhan Brooks : Come descriveresti la tua esperienza durante il periodo d’incarcerazione con le sex worker? Come venivano trattate?

Angela Davis : Una delle cose che ricordo molto chiaramente della mia incarcerazione a New York, 27 anni fa, era il gran numero di sex worker continuamente arrestate. Durante le sei settimane della mia incarcerazione presso il carcere femminile di New York, mi ha colpito il fatto che i giudici erano molto più propensi a rilasciare le prostitute bianche, sulla base di garanzie personali, di quelle Nere o portoricane. Quasi il novanta per cento delle prigioniere di questo carcere – alcune delle quali in attesa di processo come me e altre che già scontavano pene – erano donne di colore. Le donne parlavano molto dei vari modi in cui il razzismo si manifestava nel sistema di giustizia penale. Parlavano di come la razza determinasse chi finiva in galera, chi restava in galera e chi no. Durante il breve tempo in cui sono stata lì, ho visto un numero significativo di donne bianche entrarvi con l’accusa di prostituzione. La maggior parte delle volte venivano rilasciate nel giro di poche ore. A causa dei problemi che molte donne si trovavano ad affrontare nel tentativo di ottenere i soldi per la cauzione, abbiamo deciso di lavorare con donne del ‘mondo libero’, che stavano organizzando una raccolta fondi per le cauzioni delle donne. Le donne all’esterno organizzarono la struttura e raccolsero il denaro e noi organizzammo le donne all’interno. Coloro che aderirono alla campagna convennero di continuare a lavorare con il fondo per le cauzioni anche una volta fuori, quando la propria cauzione venne pagata dai fondi raccolti dall’organizzazione. Molte sex worker si unirono a questa campagna.

SB : A quali abusi hai assistito nei confronti delle sex worker di colore?

AD : Non ricordo discriminazioni specifiche verso le sex worker, ma ho assistito a una grande quantità di abusi verbali diretti a tutte le prigioniere. I prigionieri, in particolare le donne detenute, erano e sono ancora trattat* come se non avessero diritti. Vengono infantilizzat* – per esempio, sono chiamate “ragazze”. Non solo nella mia esperienza personale in Dancing as a prisoner, ma anche nel lavoro che ho svolto come insegnante nel carcere della contea di San Francisco – dove Rhodessa Jones realizza rappresentazioni teatrali corali – ho assistito a una grande quantità di abusi verbali diretti alle donne prigioniere. Spesso le guardie e il personale della prigione sono del tutto inconsapevol* di inferiorizzare i/le prigionier*.

SB : In uno dei tuoi saggi, Donne, Razza e Classe, hai menzionato alcune prostitute che cercarono di formare un sindacato nella prima parte del secolo. So che sostieni il tentativo de* sex worker di organizzare il proprio ambiente di lavoro. Volevo sentire con parole tue quale sia la tua opinione generale in merito all’industria del sesso.

AD: Comincio dicendo che penso che l’industria del sesso dovrebbe essere depenalizzata. In paesi come l’Olanda, dove l’industria del sesso è stata depenalizzata ci sono, in conseguenza, meno pressioni sul sistema della giustizia penale per quanto concerne le donne. La criminalizzazione continua dell’industria del sesso è in parte responsabile dei numeri crescenti di donne che transitano in carceri e prigioni. Questo fenomeno di espansione esponenziale delle popolazioni carcerarie è parte del complesso industriale carcerario emergente. Non solo le popolazioni di carceri e prigioni stanno aumentando ad una velocità incredibile, le società capitaliste hanno ora una maggiore partecipazione nel settore punitivo. Nuove carceri sono in costruzione, sempre più aziende utilizzano il lavoro carcerario, più prigioni sono state privatizzate. Allo stesso tempo, più donne stanno andando in prigione, più spazi vengono creati per le donne e, di conseguenza, un numero sempre maggiore di donne andranno in prigione in futuro. A mio parere, la continua criminalizzazione della prostituzione e dell’industria del sesso in generale, alimenterà l’ulteriore sviluppo di questo complesso industriale carcerario. Lo smantellamento del sistema del welfare nell’ambito della cosiddetta legge di riforma del welfare porterà probabilmente ad una ulteriore espansione dell’industria del sesso, così come l’economia sommersa della droga. La criminalizzazione dell’industria del sesso contribuirà pertanto a attirare sempre più donne nel complesso industriale carcerario. C’è una dimensione razzista in questo processo dal momento che un numero spropositato di queste donne saranno donne di colore.

SB : Pensi che nel prossimo futuro la prostituzione sarà depenalizzata nel nostro paese?

AD : E’ qualcosa per cui dobbiamo combattere. Nell’era dell’HIV e AIDS, non ha senso continuare a costruire circostanze sociali che mettono le donne sempre più a rischio. Il lavoro che C.O.Y.O.T.E. ha fatto nel corso degli anni è stato estremamente importante. A questo proposito, Margo St. James è una pioniera. Ho letto del lavoro che avete fatto al Lusty Lady nell’organizzarvi con il SEIU, Local 790. Se tutto va bene, il lavoro che state facendo si trasformerà in una tendenza a livello statale e nazionale. Certamente se sindacati come il vostro continueranno ad organizzarsi e se il movimento delle donne e altri movimenti progressisti si occuperanno della lotta per la depenalizzazione, ci sarà qualche speranza.

SB : Ti ricordi quali erano i discorsi in merito alle sex worker nel periodo del movimento femminista degli anni ’70?

AD: Durante il primo periodo del movimento di liberazione delle donne, i problemi più drammatici erano la violenza sessuale e i diritti riproduttivi – in altre parole, lo stupro e l’aborto. Le questioni relative all’industria del sesso venivano sollevate nel contesto delle discussioni sulla violenza sessuale. Ad esempio, c’era il dibattito sullo statuto di Minneapolis che vietava la pornografia, che tendeva a dividere molte femministe in campi opposti, pro e contro la pornografia. Quella polarizzazione fu uno sviluppo piuttosto sfortunato. Ma allo stesso tempo queste discussioni ci hanno messo di fronte ad interrogativi molto interessanti su ciò che si definisce come pornografia, che hanno aperto nuovi modi di pensare e di parlare di sesso e pratiche erotiche. La definizione di pornografia come aggressiva, oggettivante e come violazione dell’autonomia e autodeterminazione delle donne era importante da un punto di vista strategico, perché ha permesso di distinguere tra ciò che era sfruttamento e violazione, da un lato, e quello che era un’espressione di autorappresentazione dall’altro. Queste discussioni hanno preparato il terreno per spostare il discorso femminista sull’industria del sesso al di fuori del quadro tormentato della moralità.

SB : Come pensi che le tue opinioni femministe siano cambiate nel corso degli anni?

AD: Penso che siano cambiate molto. Per esempio, non mi consideravo davvero una “femminista” durante gli anni sessanta e settanta, anche se ero molto coinvolta nell’attivismo che si occupava di questioni femminili. Con l’emergere del movimento di liberazione delle donne verso la fine degli anni Sessanta, molte donne di colore, me compresa, tendevano a tenersi a distanza dalle femministe bianche borghesi. Molte di noi si sentivano come se ci venisse chiesto di scegliere tra razza o genere mentre noi volevamo affrontare entrambi allo stesso tempo. Ci siamo sentite marginalizzate nei nostri movimenti per l’uguaglianza razziale e allo stesso modo marginalizzate nei movimenti per l’uguaglianza di genere. Se i movimenti femministi bianchi e borghesi tendevano ad essere razzisti, molti sforzi anti-razzisti tendevano ad essere maschilisti. Sono giunta alla conclusione che il femminismo non è un movimento o modo di pensare monolitico. Esistono diversi femminismi e spetta alle donne e gli uomini che si definiscono femminist* chiarire la propria particolare politica femminista. Io ho scelto di definire il femminismo in una cornice politica socialista e radicale, che collega lotte contro il dominio maschile alle pratiche anti–razziste e anti-omofobiche. Ciò significa che possiamo anche pensare al nostro passato in modi diversi. Quando ho scritto il libro Donne, Razza e Classe, non mi consideravo una femminista. Ma ora mi rendo conto che in questo libro stavo tentando di esplorare le tradizioni storiche delle femministe nere. Il mio ultimo libro, Eredità Blues e Femminismo Nero, continua quella ricerca di tradizioni femministe della classe operaia nell’opera delle cantanti blues di colore. Osservando Gertrude “Ma” Rainey, Bessie Smith e Billie Holiday, ho scoperto che uno dei più importanti temi femministi del loro lavoro è stato la sessualità. Le canzoni blues – così come la trasformazione di canti popolari, attraverso il blues e il jazz, di Billie Holiday – evocano il sesso in modi molto interessanti e spesso usano metafore sessuali precise. I borghesi neri storicamente si sono spesso dissociati dal blues proprio a causa del modo in cui parla di sesso.
In Eredità Blues, affermo che la sessualità era particolarmente importante per le persone di colore appena emerse dall’esperienza della schiavitù. All’indomani della schiavitù, i neri emancipati non erano veramente liberi. Anche se la schiavitù era stata abolita, non c’era libertà economica né libertà politica. Ma i neri potevano esercitare autodeterminazione e autonomia nel campo sessuale. Potevano prendere le proprie decisioni riguardo ai propri partner sessuali. Potevano decidere con chi fare sesso sulla base del proprio desiderio – e non in base alle esigenze dei padroni di riprodurre la popolazione schiava. Questa è stata una delle espressioni più tangibili della libertà per un popolo che non era ancora libero. Nel mio libro leggo le canzoni blues delle donne in un modo che mi permette di collegare la sessualità con la liberazione.

SB : E’ davvero un grande progetto perché in generale il femminismo nero non è riconosciuto nel modo in cui dovrebbe. Come vedi l’attivismo politico e il femminismo tra i/le giovani?

AD : Non parto dal presupposto, come molte persone della mia generazione, che i giovani oggi siano politicamente apatici. I giovani sono coinvolti in molte importanti forme di attivismo di base. Sono coinvolti in forti campagne contro lo smantellamento delle azioni positive, stanno sfidando il complesso industriale carcerario, sono coinvolti nel movimento contro l’AIDS e stanno organizzandosi in maniera innovativa, come nel caso del tuo lavoro in qualità di organizzatrice sindacale nell’industria del sesso. Il problema principale, a mio avviso, è la mancanza di visibilità di questo lavoro e la mancanza di reti nazionali. Ne risulta che molte persone ritengono che tale sforzo non esista. Cerco di mettere in guardia contro i confronti dei giovani di oggi con i loro antenati del movimento, per così dire, e contro la nostalgia che definisce gli anni Sessanta come l’epoca rivoluzionaria e gli anni novanta come un’epoca di passività politica. Le circostanze che affrontiamo oggi sono molto più complicate di quanto lo fossero 30 anni fa. Io davvero non invidio il/la giovane attivista che oggi non può concentrarsi su una questione nel modo in cui, negli anni Sessanta, l’ attivismo era incentrato sulla razza o sul sesso o sulla classe. I giovani di oggi devono imparare a tenere tutte queste cose in tensione dinamica e a riconoscere l’intersezionalità. Durante gli anni sessanta, se diventavi un’attivista anti-razzista, tutto quello che dovevi fare era capire come sfidare il razzismo. Sapevi chi fosse il nemico. Ora, naturalmente, ci rendiamo conto che il nemico non è così chiaramente definibile. Dal momento che abbiamo imparato a politicizzare la violenza domestica, possiamo dire che l’attivista maschio che picchia la sua compagna sta contemporaneamente su entrambi i lati della battaglia. Queste sono alcune delle relazioni complicate che i/le giovani devono comprendere oggi. Io rispetto profondamente il lavoro del/la giovane attivista e cerco di incoraggiare i giovani a cercare tra di loro i propri modelli invece di supporre di poterli trovare nel passato. Mi capita spesso di dire che il rispetto per gli anziani è buona cosa, ma bisogna saper combinare la giusta quantità di rispetto con un pò di mancanza di rispetto, per distanziarsi dal passato storico. Una parte importante del lavoro di creazione di nuove forme di lotta risiede nel mettere in discussione le forme precedenti. Le persone della mia generazione hanno contestato gli anziani – i Martin Luther King, per esempio – per ritagliarsi nuovi percorsi. Questo, credo, è ciò che deve accadere oggi.

SB : Come immaginavi il futuro politico degli anni ’80 e ’90 dopo essere stata liberata dal carcere?

AD: C’era molta repressione negli anni ’70 quando sono finita in prigione e quando i prigionieri politici del Black Panther Party e di altre organizzazioni abbondavano nelle carceri e prigioni. L’FBI e le forze di polizia locali hanno tentato di annientare organizzazioni come la BPP. Gli studenti sono stati i bersagli della repressione – alla Kent State, per esempio. Gli anni ’70 sono stati un periodo durante il quale lo Stato era determinato a spazzare via la resistenza radicale. E ha avuto successo in certa misura. Ma d’altra parte, c’era chi continuava a fare attivismo. Anche durante l’era Reagan, c’erano dimostrazioni importanti e massicce di resistenza politica. Forse il presente è sempre il più difficile da comprendere, ma questo sembra il momento più difficile di tutti. Ora che un numero crescente di donne e di persone di colore sono in posizioni di potere, dobbiamo riconoscere che non possiamo più supporre che le persone nere o Latine o le donne di qualsiasi provenienza razziale siano progressiste in virtù della propria razza o genere. Infatti molt*, come Clarence Thomas e Ward Connerly qui in California, sono diventat* portavoce delle posizioni politicamente più arretrate e conservatrici.
Questo significa che abbiamo bisogno di pensare diversamente le nostre strategie politiche. Non possiamo lottare per il tipo di unità su cui le persone tendevano a fare affidamento in passato. Dobbiamo rinunciare alle vecchie idee di unità dei neri o delle donne. Il tipo di unità cui abbiamo bisogno, credo, è l’unità forgiata attorno a progetti politici in contrapposizione all’unità basata semplicisticamente sulla razza o sul genere. La mia speranza per il futuro non è una speranza astratta, ma si fonda sull’idea che dobbiamo affrontare i compiti che ci si parano davanti. Se non lo faremo dovremo affrontare un futuro molto più tremendo e pericoloso di quello attuale.

SB: E’ un futuro davvero spaventoso. Ciò che trovo interessante in quello che alcune persone chiamano il movimento de* sex worker è che comprende gruppi di persone di diverse razze, classi e generi. Penso che sia un buon modello su come possiamo allearci con l’attivismo di sinistra per creare qualcosa di più ampio.

Angela Y. Davis è professora di Storia della Coscienza presso l’Università della California, Santa Cruz. Nel 1994, è stata nominata alla Presidenza in Studi Afro Americani e Femministi dell’Università della California. E’ autora di numerosi articoli e saggi, e di cinque libri, tra cui Donne, Razza e Classe. Il suo ultimo libro, Eredità Blues e Femminismo Nero, si concentra sulla nascente coscienza femminista nelle opere delle prime donne del blues. Nel 1972 venne assolta dalla falsa accusa di omicidio, sequestro di persona e cospirazione, e cominciò a distinguersi come studiosa e attivista per i diritti umani. In questa intervista racconta la propria esperienza in carcere con le sex worker, e le proprie opinioni sul femminismo e l’attivismo tra i giovani.

Siobhan Brooks è stata sindacalista al Lusty Lady Theater, che era parte del Service employees International Union, Local 790. E’ ricercatrice in sociologia presso la New School for Social Research, e membro del Consiglio dell’EDA. I suoi scritti sono apparsi su Z Magazine (gennaio 1997), Whores and Other Feminists (a cura di Jill Nagle. Routledge , 1997), Sex and the Single Girl (a cura di Lee Damsky. Seal Press , 200), e Feminism and Anti-Racism (a cura di France Winddance Twine e Kathleen Blee. NYU Press 2001).

Questa intervista ad Angela Davis è stata originariamente pubblicata nel vol. 10. n. 1 1999 del Hastings Women’s Law Journal, ed è parte del libro ancora inedito (al tempo dell’intervista, n.d.T) di Siobhan Dancing Shadows: Interviews with Men and Women Sex Workers of Color.