Depilarsi le gambe non è femminista (ma puoi comunque essere femminista e depilarti)

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Articolo originale qui, traduzione di feminoska.

Ho pubblicato questo disegno (di Natalya Lobanova) sulla mia pagina facebook ieri, e le reazioni sono state molto varie. Alcune persone l’hanno apprezzata. Molte l’hanno condivisa. Ma altre l’hanno trovata insultante e giudicante, e l’hanno considerata una critica rivolta alle donne che si depilano. Si sono sentite offese dalla parola “mutilare”, la quale, sebbene attenuata da quel “leggermente”, sembrava loro comunque troppo forte. Come ogni volta che qualcosa scatena una accesa discussione, mi ha incuriosito molto la reazione delle persone e le loro motivazioni. In verità a me quest’immagine piace molto, e mi ha sorpreso l’offesa che  ha causato ad alcune persone. Ritengo che parlare delle cose assurde che facciamo per sentirci belle sia molto importante, anche se a volte ci fa sentire a disagio.

Per essere chiara, una volta per tutte: io mi depilo le gambe. Mi depilo anche le ascelle, la zona bikini, e la bizzarra scia di peluria scura che parte dall’ombelico e arriva ai peli pubici. A otto anni mi sono fatta bucare le orecchie perché morivo dalla voglia di indossare orecchini veri. Mi trucco quasi sempre prima di uscire di casa. E sappiatelo, mi piace fare tutte queste cose, perchè mi fanno sentire carina e più a mio agio nella mia pelle. Ma sono anche consapevole di essere cresciuta in una cultura che mi ha insegnato, dal primo giorno, ad associare a queste piccole modifiche arbitrarie a cui mi sottopongo il concetto di bellezza.

Ho sentito diverse persone affermare che il femminismo è basato sulla libertà di scelta, e che pertanto l’idea di fondo è che le donne dovrebbero essere messe in condizione di scegliere per le proprie vite. Per la cronaca, sono completamente d’accordo con quest’idea. Ma penso comunque che sia importante parlare del fatto che le scelte non avvengono a caso, e che alcune scelte non sono femministe. Depilarsi, ad esempio, non è un gesto particolarmente femminista. E non sto dicendo che non ci si possa depilare le gambe ed essere comunque femminista, ma penso che sia comunque importante poter parlar di aspetti come questo senza saltare immediatamente alla conclusione “bè, ma il femminismo riguarda la scelta, io la mia scelta l’ho fatta, e questo è quanto”.

Prima di tutto, non sono per niente sicura che la maggior parte delle donne sentano davvero di avere una scelta quando si parla di depilazione. Voglio dire: certo, tecnicamente, possono scegliere cosa fare dei propri corpi, ma è abbastanza difficile sentirsi libere e non influenzate nelle proprie scelte quando le opzioni si riducono a: 1) depilarsi e godere dell’approvazione generale 2) non depilarsi e diventare il bersaglio di scherzi idioti, insulti e persino molestie a causa di questa scelta. E’ decisamente difficile definire questa una “scelta” quando la società approva senza riserve una delle opzioni e punisce sistematicamente l’altra. Dobbiamo essere consapevoli di giocare con dadi truccati.

La verità è che mi adeguo a standard di bellezza patriarcali ogni giorno. Indosso vestitini graziosi e mi spalmo robe appiccicose in faccia per “evidenziare i miei tratti” e rendere il colore della mia pelle “più uniforme”. Indosso scarpe con i tacchi perché mi fanno sembrare più alta e le mie gambe appaiono più snelle. Infilo sottili barrette di metallo attraverso buchi creati nei lobi delle mie orecchie perché penso che mettermi orecchini mi renda più gradevole. Rimuovo con cura dal mio corpo ogni pelo potenzialmente visibile quando indosso solo l’intimo.  Ed è tutto accettabile, e non mi rende meno femminista ma allo stesso tempo queste sono tutte scelte anti-femministe. Perché sono scelte che non avvengono a caso. Non avvengono perché un giorno mi sono svegliata e ho pensato “mmmh, ho davvero voglia di prendere un rasoio e depilare tutte le parti più sensibili del mio corpo e sopportare l’irritazione da rasoio nei prossimi giorni, mi pare una roba proprio divertente!” Non avvengono perché mi sono trovata a sperimentare vari colori sulle mie labbra, e ho deciso che rosso e rosa erano i miei colori preferiti. Avvengono perchè sono cresciuta in una cultura tossica che mi ha insegnato che per essere bella devo modificare il mio corpo, e ogni volta che mi adeguo a quell’idea di bellezza, sto rinforzando e avallando quella cultura tossica. Ogni volta che indosso i tacchi e una bella minigonna, sto rendendo le cose molto più dure per tutte le donne che vorrebbero lasciarsi alle spalle questo fottuto ideale nel quale siamo costrette. E anche se non vorrei, devo essere consapevole della mia responsabilità.

E’ uno schifo che le donne debbano modificare il proprio aspetto per essere considerate belle, o persino solamente accettabili. Abbiamo i peli – durante la pubertà ci crescono naturalmente. Ce li abbiamo tutt@. Dunque perché devono essere qualcosa di disgustoso?  Perché in generale l’intimo e i costumi da bagno sui manichini sono normali, ma questi di American Apparel sono considerati spassosamente osceni?

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Voglio dire, questo è letteralmente il mio aspetto quando non mi depilo. Forse sono ancora più pelosa di così. Questo è l’aspetto del mio corpo. Perché è così disgustoso per così tante persone?

Noi tutte facciamo delle scelte circa il nostro aspetto, e nessuna di queste scelte ci faranno requisire la tessera di femministe dalla polizia femminista. Ma a volte queste scelte rafforzano lo status quo e contribuiscono quindi alla difficoltà che altre donne sperimentano quando il loro aspetto non si adegua alle rigide norme dettate dalla società. E questo non significa che non dovremmo mai indossare vestiti o trucco o gioielli, ma piuttosto che dobbiamo parlare del perché facciamo queste cose. E abbiamo bisogno di smetterla di fingere che questo e quello sia una scelta femminista, perché il femminismo è libertà di scelta e se io sono femminista, allora tutto quello che faccio è automaticamente femminista. No. Non è così che funziona. Indossa vestitini se ti va. Indossa belle scarpe e orecchini e rossetto rosso brillante. Depila tutti i peli del tuo corpo, se questo è ciò che ti fa stare bene. Ma per favore, ammetti che non fai nessuna di queste cose perché casualmente ti piace farle. Per favore, ammetti che la tua scelta è stata fortemente influenzata dalla fottuta cultura misogina in cui viviamo. Accetta il fatto che a volte le tue scelte sono anti-femministe, non perché sei una cattiva femminista, ma perché questo è il mondo in cui viviamo oggi. E una volta che hai fatto tutto questo, cerca di trovare un modo per cambiare le cose, di modo che le ragazze giovani non debbano più essere convinte che i loro corpi non vanno bene così come sono.

Perché non mi interessa il discorso femminista di Emma Watson

(Articolo originale di Mia McKenzie qui, traduzione di feminoska)

L’attrice Emma Watson, nota per la saga di Harry Potter, è una delle nuove Ambasciatrici di buona volontà di UN Women, e sabato scorso ha tenuto un discorso alle Nazioni Unite per lanciare la campagna HeForShe, che mira a mobilitare gli uomini per cancellare in qualche modo la disuguaglianza di genere (la campagna non sembra suggerire nello specifico agli uomini azione definite di nessun tipo). La campagna chiede agli uomini di rendere la parità di genere un proprio problema, e Watson ha esteso “un invito formale” a tutti gli uomini di esserne parte. Molti dei più noti siti femministi (bianchi) sono in fermento, uniti nell’affermare che si sia trattato di un discorso impressionante e davvero di livello superiore, o cose del genere. Sì, alcune parti del discorso sono state notevoli. Watson ha spiegato il percorso che l’ha portata al femminismo, ad esempio l’aver vissuto l’esperienza di venire sessualizzata a 14 anni dai media. Il discorso è davvero degno di nota nei primi minuti.

http://www.youtube.com/watch?v=Hyg_QIYKv_g

Poi, intorno al sesto minuto, diventa… un pò meno notevole.
Mi definirei una fan di Emma Watson. Mi piace. Mi è sempre piaciuta. Sono una fan di Harry Potter (nonostante i suoi aspetti problematici in merito alla disuguaglianza di genere), e l’ho apprezzata molto anche in altre interpretazioni. E mi piace ancora. Sono anche sicura che abbia ottime intenzioni per quanto riguarda il suo impegno femminista, e lo stesso vale per l’impegno profuso alle Nazioni Unite. Fantastico. Eccellente. Non è questo il problema. Il problema è che il messaggio contenuto nel discorso di Watson è problematico in molti aspetti.

Nel suo discorso alle Nazioni Unite, Watson afferma:
“Come possiamo influenzare il cambiamento nel mondo quando solo la metà di esso è invitato o si sente accolto a partecipare alla discussione? Uomini – vorrei cogliere quest’occasione per estendervi un invito formale. L’uguaglianza di genere è anche un vostro problema.”
In questo passaggio sembra suggerire che la ragione per cui gli uomini non sono coinvolti nella lotta per l’uguaglianza di genere è che le donne semplicemente non li hanno invitati e, a dirla tutta, sono state poco accoglienti. Le donne non hanno fatto pervenire agli uomini un invito formale, e per questo motivo gli uomini non vi hanno aderito. Non è perché, invece, gli uomini beneficiano enormemente (socialmente, economicamente, politicamente, ecc. infinitamente) della disuguaglianza di genere e quindi si sentono meno incentivati a sostenerne lo smantellamento. Non è a causa della prevalenza della misoginia in tutto il mondo. E’ solo che nessuno lo ha chiesto! Oh, mio Dio, come mai nessuna di noi ha pensato di chiederlo?!

E’ assurdo suggerire una cosa del genere. Le donne hanno cercato di portare gli uomini ad interessarsi dell’oppressione delle donne da… sempre. Ma agli uomini non è mai interessato molto combattere questa lotta, perché chiede loro di rinunciare al proprio potere e tutti gli indizi suggeriscono che non sia proprio una delle cose che preferiscono fare. “Condividi un link sulla parità di genere? Certo! Contaci! Rinunci al potere in modo concreto? No, non proprio.” Watson ha continuato:
“Ho visto uomini resi fragili e insicuri da un’idea distorta di ciò che costituirebbe il successo maschile. Nemmeno gli uomini beneficiano dei vantaggi dell’uguaglianza. Non parliamo spesso degli uomini e del loro essere imprigionati dagli stereotipi di genere, ma io mi rendo conto che lo sono e che quando sono liberi, le cose cambiano per le donne come conseguenza naturale.”
Anche questo messaggio è viziato e sbagliato. Raccontare agli uomini che dovrebbero preoccuparsi della disuguaglianza di genere per via di quanto nuoce loro, mette al centro del discorso gli uomini e il loro benessere in un movimento costruito dalle donne per la nostra sopravvivenza, in un mondo che ci degrada e ci disumanizza quotidianamente. Questo concetto è problematico per la stessa ragione per cui lo è dire ai bianchi che dovrebbero porre fine al razzismo perché il razzismo “nuoce a tutti in quanto società, perciò sradicarlo aiuterà tutti”.

In primo luogo perché, anche se fosse vero, non fa nulla per creare solidarietà. Non ho mai incontrato una persona bianca che abbia deciso di sobbarcarsi un impegno anti-razzista per via degli effetti negativi del razzismo sui bianchi. Letteralmente, mai. E non credo di aver mai incontrato un uomo che sostenga realmente gli ideali femministi per via dei benefici che ne deriverebbero agli uomini. Se avessi conosciuto persone simili, non mi sarebbero affatto piaciute. Domanderei loro perché la spesso brutale oppressione delle persone di colore e delle donne, e in particolare delle donne di colore, non sia stata sufficiente a destare il loro interesse, mentre l’epifania causata loro dai modi in cui uomini e/o bianchi sono in qualche modo colpiti in certa misura da questi costrutti, perché “è qualcosa di cui la società e anche gli uomini dovrebbero essere in grado di piangere” li ha fatti saltare così prontamente a bordo. In secondo luogo, perché ignora quanti uomini beneficino della disuguaglianza di genere. (E’ proprio così, Emma!)

Mi permetto di offrire giusto un paio di statistiche da questo lato della barricata: 1 donna americana su 5 ha denunciato di aver subito uno stupro nel corso della sua vita. Per gli uomini americani, la proporzione è di 1 a 71.
Le donne bianche americane (cis-gender) guadagnano il 78% di quello che guadagnano i loro colleghi maschi bianchi. Le donne nere americane (cis-gender) guadagnano l’89% di ciò che i loro colleghi maschi neri guadagnano e il 64% dei loro colleghi maschi bianchi. Le donne ispaniche (cis-gender) guadagnano l’89% di ciò che i loro colleghi maschi ispanici guadagnano e il 53% dei loro colleghi maschi bianchi. Solo il 4,8% degli amministratori delegati sulla lista stilata da Fortune 500 sono donne.

Naturalmente, il divario retributivo di genere esiste in tutto il mondo, compreso il Regno Unito. E così lo stupro.

Dire che gli uomini non beneficiano dei vantaggi dell’uguaglianza crea una falsa narrazione secondo la quale siamo tutt@ colpit@ allo stesso modo e con la stessa gravità dai mali della disuguaglianza di genere, e che nessuno ne ricava alcun beneficio, il che semplicemente non è vero. Emma Watson sessualizzata dai media a 14 anni non equivale ai suoi amici maschi che vivono in maniera non sempre agevole l’espressione dei propri sentimenti. E’ una falsa equivalenza. I modi in cui la disuguaglianza di genere nuoce agli uomini e ai ragazzi sono molto, molto diversi dai modi in cui nuoce alle donne e le ragazze. Ovvero, la disuguaglianza di genere opprime e abusa donne e ragazze in quasi ogni aspetto della propria vita.

Inoltre, le persone con il maggior privilegio vengono in questo modo costantemente riportate al centro delle conversazioni sull’oppressione e questa cosa deve finire. Questo è il motivo per cui “il diritto al matrimonio” è il tema principale delle più note e influenti realtà LGBTQ, piuttosto che le problematiche dei giovani queer senzatetto o anziani in difficoltà, o l’invisibilizzazione e la cancellazione dei queer e delle persone trans di colore. Il volto del movimento per il “diritto al matrimonio” è per lo più bianco, maschio e benestante. Le persone con i maggiori privilegi restano al centro della discussione, mentre le persone maggiormente oppresse sono un corollario, nella migliore delle ipotesi. De-centralizzare le donne nelle discussioni sulla disuguaglianza di genere non è una buona strategia. Watson ha anche detto: “Voglio che gli uomini si prendano questa responsabilità. Così che le loro figlie, sorelle e madri possano vivere libere dal pregiudizio”.
Il messaggio implicito, qui, è che le donne meritino equità ed eguaglianza a causa delle nostre relazioni con gli uomini. Continuare a rinforzare l’idea che gli uomini dovrebbero rispettare le donne e la lotta per l’uguaglianza delle donne perché madri / sorelle / figlie / qualunque altra cosa, perpetua l’idea che le donne non meritino già queste cose in quanto esseri umani (quando si estenderà il discorso anche ai non umani? N.d.T.). Essa incoraggia gli uomini a pensare alle donne sempre e solo in relazione a sé stessi, come se la nostra pseudo-umanità fosse solo un corollario alla vera umanità degli uomini. La verità è che le donne sono persone intere e complete, a prescindere dal nostro status nella vita degli uomini. Questo è ciò che gli uomini dovrebbero sentirsi dire, ancora ed ancora. Questo è ciò che tutti dovrebbero sentire, ogni giorno.

Credo che uno degli aspetti a cui Watson si èavvicinata, ma a cui non è propriamente arrivata, è l’idea che la femminilità, sia essa espressa da donne o uomini (o persone Genderqueer, credo, ma chissà perché queste ultime non esistono in questo discorso alle Nazioni Unite o nella campagna “HeForShe”), è quella che ha la peggio nel mondo. La femminilità è vista come debolezza e viene odiata e maltrattata. Questo è un concetto valido e molto, molto importante, ma in realtà Watson non ha detto nulla di tutto ciò, non sembra avere fatto una solida analisi di questo aspetto ancora, ed è sensato supporre che lo stesso messaggio distorto arriverà alla maggior parte delle persone che ascoltano il suo discorso.

Quindi, possiamo per favore smettere di cercare di rendere Emma Watson la nuova icona femminista dell’universo? A quel punto non è ancora arrivata. Sta ancora imparando, credo, proprio come Beyoncé, che, tra l’altro, raramente ottiene anche solo il beneficio del dubbio dalle femministe bianche, per non dire osannata come “Regina femminista di qualsiasi cosa”, quando le sue esternazioni femministe sono meno che perfette. (Immaginate se Beyoncé si fosse alzata alle Nazioni Unite e avesse tenuto un discorso incentrato sugli uomini nella lotta per la parità di genere. I bianchi cieli femministi più influenti avrebbero fatto piovere fuoco infernale su tutt@ noi. Beh, su alcun@ di noi, in ogni caso).

Mi auguro che, nell’evolversi del proprio femminismo, Emma Watson cancelli questi primi sfortunati approcci. Ma, francamente, dovrà dimostrare molto di più per essere considerata la “femminista che cambia le regole del gioco”, come è stata definita. Dov’è la sua analisi della giustizia razziale e della necessità di quest’ultima nel porre fine alla disuguaglianza di genere? Che cosa ne sa lei della misogynoir (misoginia nei confronti delle donne di colore)? Fino a che punto comprende che le donne bianche benestanti come lei sono spesso coloro che opprimono donne di colore e/o donne povere nel mondo? Dov’e la sua comprensione del transfemminismo? Può spiegare alle Nazioni Unite, o a chiunque altro, perché la violenza contro le donne trans deve essere al centro del nostro lavoro contro la misoginia? Sa e può spiegare che la discriminazione a favore di persone non disabili è interconnessa non solo con la disuguaglianza di genere, ma con ogni forma di oppressione esistente? E, soprattutto, comprende che in quanto donna bianca le viene concesso di accedere ed essere presa sul serio dal femminismo tradizionale, in modi che una donna di colore non potrebbe mai e perché, allora, è necessario per lei di farsi da parte e fare spazio alle donne di colore per essere ascoltate, se la disuguaglianza di genere è da eradicare definitivamente? Perché qualsiasi vera “femminista che cambia le regole del gioco” dovrebbe farlo.

Io personalmente sono convinta che sarebbe davvero incredibile se la donna un tempo conosciuta come Hermione si rivelasse una femminista davvero tosta e rivoluzionaria. Per me, un tale cambiamento richiederebbe un approccio ed un analisi davvero tosta e rivoluzionaria, cose che Watson ancora non padroneggia.

 

Daniza, cronaca di una morte annunciata

daniza01…E alla fine ce l’hanno fatta. Come ogni volta.

Daniza, la mamma orsa che a Ferragosto aveva osato ferire un umano per difendere i propri cuccioli, è stata uccisa dalla dose di anestetico impiegato per catturarla. I cuccioli separati, uno catturato e da adesso ‘monitorato’, l’altro chissà dove, solo, indifeso, disperso.

A nulla sono valsi gli appelli, perché  in un mondo intriso di specismo fino al midollo, quando un animale non umano osa reagire, o ferire (ancorché non gravemente, come in questo caso) un umano, esiste una sola, fascistissima risposta: la morte, o nel ‘migliore’ dei casi, il confino a vita in gabbie anguste.

Questo è lo specismo, la prima, più pesante e pervasiva forma di discriminazione di chi è percepito come irrimediabilmente altro. Lo specismo che ci viene insegnato da quando siamo in fasce, e che diventa efficace  modello su cui plasmare altre discriminazioni, come quelle intraspecifiche quali sessismo e razzismo. Lo specismo che non concede attenuanti, né pietà alcuna e non guarda in faccia a madri, piccoli, legami familiari e affettivi – da tanta parte dell’umanità dichiarati sacri ed intoccabili valori (quanta ipocrisia, quanta ingiustizia!)

Questo è quello contro cui combattiamo e ci ribelliamo: eppure mentre noi, sempre in poch*,  sempre con fatica – anche nell’ambito dell’attivismo militante – ragioniamo di come il concetto di umanità sia da mettere pesantemente in discussione, mentre pensatori visionari immaginano di rinnovare la meraviglia nel mondo reintroducendo i selvatici, quello che realmente succede è che gli animali non umani hanno due possibilità di esistenza: o schiavi – se domestici – a cui sottrarre la vita, torturabili, spendibili, sacrificabili a miliardi, numeri senza volto; o fuggiaschi, apolidi, clandestini braccati, fantasmi sempre sotto assedio, in territori spogliati delle risorse necessarie a garantirne il sostentamento, perché comunque, quel poco che c’è, devono spartirlo con l’umano padrone del globo terracqueo.

Gli animali non umani dovrebbero divenire tutti peluches: morbidosi, senza esigenze, senza corpo, anima, volontà e desideri.

Avete ucciso una madre che ha protetto i suoi cuccioli da un altro animale potenzialmente pericoloso, avete lasciato due orfani disperati e sperduti, e parlate ancora di tutela, protezione, reintroduzione? Come si possono reintrodurre orsi, o lupi, se a questi ultimi non vengono dedicati spazi adeguati per vivere, se al primo allevatore che piange i suoi poveri capi (che avrebbe poi macellato lui stesso nel giro di poco tempo)… tutti pronti con le armi in pugno? Se gli animali reintrodotti si trovano poi, loro malgrado, nel selvaggio west, perchè lo specismo, l’ignoranza e la grettezza  – anche di chi sarebbe in teoria incaricato di tutelarli – è senza fondo?

Restare uman*? E perchè, a quale scopo? Riconoscersi animali – quello che siamo! – è l’unica strada percorribile per molt* di noi. E io spero di vedere sempre più animali umani alzare la testa e ribellarsi, e trovare la forza di smascherare la verità dell’umano: l’orrore che siamo diventati.

L’orrore… l’orrore. 

 

Elegido a vivir

rompeunalanza

Versione italiana più in basso.

Elegido,
llevo muchos días pensando siempre en ti, y a todos los toros que han
venido antes de ti: siempre con la esperanza de que algo inesperado y
sorprendente ocurra, de que no se sacrifique tu vida. Elegido, no puedo
ni siquiera imaginar el miedo y el dolor, pero algo sé con seguridad:
cada vez que un Toro de la Vega muere, muere también la posibilidad de
un mundo diferente y, como especie, nos condenamos a presenciar y
experimentar nuevos horrores incansables.
No puedo explicar, nunca he sido capaz de explicar, por qué es tan fácil
para la humanidad infligir dolor y sufrimiento en vez de la bondad,
incluso por parte de aquellos que se llaman a sí mismos devotos y se
revuelcan en las ilusiones del paraíso, con las manos juntas para rezar
por su vida y la de sus seres queridos, justo después de la celebración
dispensan con ambas manos el infierno aquí en la tierra, a otras
personas y otros animales, desamparados y gentiles como tú.
Hoy, a pocos días de un destino que parece evidente en tu nombre, quiero
esperar que pase algo: lo que espero y sueño es que todas las personas
que quieren ir a Madrid para protestar, irrumpan en Tordesillas, el
lugar donde te espera el masacre, y se interpongan entre ti y la
multitud sedienta de sangre, para demostrar con los hechos, no con las
palabras, que esta no es la forma en la que queremos vivir, la que
queremos ser.
Tienen que venir por ti, porque la política no levantará un solo dedo
para salvarte: a la política no le importa de la gente, y mucho menos de
un pobre toro!
Lo que nos salva somos nosotros, con nuestras acciones de todos los
días, y las personas que están a nuestro alrededor, cuando toman el
coraje y desafiando el miedo y la fatiga, todos juntos, unidos, luchando
por algo tan importante como … tu vida.
Ninguna otra persona lo hará: como es posible que muchos se organizan
para verte morir, pero tan pocos para que tu vivas?
Y decir que de los miles que vertieron los últimos años en Madrid,
serían suficiente la mitad para darte otra oportunidad!
Elegido, yo no quiero seguir llorando sobre tu destino: mientras hay
vida hay esperanza. Y tú estás vivo, como nunca antes, y la esperanza
está viva con ti: la esperanza de un cambio real, la esperanza de la
acción directa, el valor de la vida en contra de la cobardía de los
asesinos sedientos de sangre.
Tu gran cuerpo, enorme, pero impotente, tiene que ser protegido, y esto
no se puede hacer a miles de kilómetros de distancia.
Y ahora que el sol todavía te acaricia la piel, que hoy todavía sientes
el olor de la hierba y que no estas consciente de lo que te espera
dentro de poco, pienso en ti con dolor y rabia, y espero de todo corazón
que tu nombre sea un presagio de algo inesperado, estás Elegido para
seguir viviendo!
Esto sólo ocurrirá si el río de gente vaya a verter en Tordesillas, como
si tu fueras un hijo, un amigo: como el símbolo que de toda forma eres,
la lucha entre lo peor y lo mejor de nosotros, lo que llevamos siempre
con nosotros. Coraje, Elegido!

Elegido,
da molti giorni ormai non faccio che pensare a te, e a tutti i tori che
prima di te sono venuti: sempre augurandomi che qualcosa di imprevisto
ed incredibile succeda, che la tua vita non venga sacrificata. Elegido,
non riesco nemmeno ad immaginare la paura e il dolore, ma una cosa so di
per certo: ogni volta che un Toro de la Vega muore, muore la possibilità
di un mondo diverso e, come specie, ci condanniamo a testimoniare e a
vivere nuovi, incessanti orrori.
Non so spiegarmi, non ho mai saputo spiegarmi, perché sia così più
facile per l’umanità infliggere dolore e sofferenza invece di
gentilezza: anche quelli che si definiscono devoti e si cullano in
illusioni di paradisi, con le mani giunte a pregare per la propria vita
e i propri cari, appena finita la celebrazione dispensano a piene mani
l’inferno qui sulla terra, ad altre persone e agli altri animali,
animali miti e indifesi come te.
Oggi, a pochi giorni da un destino che sembra evidente anche nel tuo
nome, io voglio sperare che qualcosa accada: quello che spero e che
sogno, è che tutte le persone che intendono andare a Madrid a
protestare, si riversino in Tordesillas, il luogo dove ti attende il
massacro, per mettersi tra te e la folla sanguinaria, per dimostrare con
i fatti, non con le parole, che non è questo il modo in cui vogliamo
vivere, chi vogliamo essere.
Devono venire da te, perché la politica non muoverà un dito per
salvarti: la politica non si cura nemmeno delle persone, figurarsi un
povero toro!
Quello che ci salva siamo noi, nelle azioni quotidiane, e le persone che
stanno intorno a noi, quando prendono il coraggio a piene mani e
sfidando la paura e la fatica, tutte insieme, unite, lottano per
qualcosa di così importante come… la tua vita.
Nessun altro lo farà: possibile che tanti si organizzino per vederti
morire, ma così pochi per farti vivere?
E dire che delle migliaia che si sono riversate gli scorsi anni a
Madrid, basterebbero anche solo la metà per darti una possibilità!
Elegido, non voglio ancora piangere il tuo destino: finché c’è vita c’è
speranza. E tu sei vivo, come non mai, e la speranza è viva con te: la
speranza di un cambiamento reale, la speranza dell’azione diretta, del
coraggio della vita contro la viltà di assassini sanguinari.
Il tuo grande corpo, enorme ma indifeso, ha bisogno di essere
protezione: e questo non si può fare a migliaia di chilometri di distanza.
E oggi che ancora il sole ti sfiora la pelle, oggi che ancora senti il
profumo dell’erba e che sei ignaro di ciò che a breve ti attende, io
penso a te con dolore e rabbia, e spero con tutto il mio cuore che il
tuo nome sia presagio di qualcosa di inatteso, che tu sia Elegido a
continuare a vivere!
Questo potrà solo accadere se quel fiume di persone si riverserà a
Tordesillas, come se tu fossi un figlio, un amico: come il simbolo che
tuo malgrado sei, della lotta tra la parte peggiore e la migliore di
noi, che ci portiamo dentro da sempre. Coraggio, Elegido!

Perchè non esiste il “razzismo al contrario”

racismTim Wise ha da poco scritto un bellissimo post sul razzismo di destra. Come sempre succede, però, alcun@ hanno affermato nei commenti che anche le/i bianch@ possono essere vittime di “razzismo”. Anche se ritenevo fosse chiaro, dall’articolo di Tim, che ciò non è possibile, è un argomento che è molto difficile far comprendere.

Per puro caso, una mia ex-studente mi ha scritto qualche sera fa e mi ha chiesto di ricordarle la mia spiegazione dell’impossibilità del “razzismo al contrario” –  è iscritta ad un corso di specializzazione post-laurea e si è trovata n mezzo ad un’accesa discussione con alcun@ compagn@. Così ho buttato giù qualcosa e gliel’ho mandato. Ho pensato tuttavia che fosse un testo utile da pubblicare su DailyKos, pertanto eccolo qui…

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In qualsiasi discussione sul razzismo e il suo supposto “contrario”, è fondamentale prendere le mosse dalle definizioni di pregiudizio e discriminazione, in modo da porre le basi per una comprensione contestualizzata del razzismo. C’è una buona ragione dietro all’esistenza di questi termini, e un’ottima ragione per non mescolarli, come dimostrerò più avanti.

Il Pregiudizio è un sentimento irrazionale di avversione per una persona o gruppo di persone, di solito basato su stereotipi. Praticamente chiunque sperimenta una qualche forma di pregiudizio, rivolto ad un gruppo etnico o religioso o una tipologia di persone, come quelle bionde, o grasse o alte. Ciò che conta è che semplicemente quelle persone non le/gli piacciono – per farla breve, il pregiudizio è un sentimento, una convinzione. Puoi avere dei pregiudizi, ma comportarti comunque in modo etico se fai attenzione a non comportarti seguendo le tue idiosincrasie irrazionali.

La Discriminazione ha luogo nel momento in cui una persona mette in atto il proprio pregiudizio. Questa parola descrive quei momenti nei quali una persona decide, per esempio, di non dare il lavoro ad un’altra persona per via della razza o dell’orientamento religioso di quest’ultima. O per il suo aspetto (esiste una forte discriminazione ad esempio, quando si tratta di assumere donne non attraenti fisicamente).  Puoi discriminare, a livello individuale, una persona o un gruppo, se ti trovi in una posizione di potere rispetto alla persona oggetto della discriminazione. Le persone bianche possono discriminare le persone nere, e le persone nere possono discriminare quelle bianche quando, ad esempio, una delle due persone è l’intervistator@  e l’altr@ è l’intervistat@ in un colloquio di lavoro.

La parola Razzismo, tuttavia, descrive modalità di discriminazione istituzionalizzate e rese “normali” all’interno di una intera cultura. E’ basato sulla convinzione ideologica che una “razza” sia in qualche modo migliore di un’altra “razza”. Non è più una singola persona che discrimina a questo punto, ma un’intera popolazione che opera in una struttura sociale che rende davvero molto difficile ad una persona non discriminare.

Un esempio lampante è quello delle culture schiavistiche, nelle quali le persone nascono in società in cui una tipologia di individuo è “naturalmente” padrona, e un’altra tipologia è “naturalmente” schiava (e a volte nemmeno considerata una persona, ma una bestia da soma). In una cultura simile, la discriminazione informa il tessuto sociale, economico e politico, e le/gli individu@ – anche quell@ “liber@” – non hanno realmente scelta rispetto alla possibilità o meno di discriminare, poiché anche se non credono nella schiavitù, interagiscono ogni giorno con le/gli schiav@, e le leggi e consuetudini esistenti che tengono le/gli schiavi in soggezione.

In una società razzista, è necessaria una grande dose di coraggio e volontà di sottoporsi a scandali o persino pericoli per uscire dal Sistema e diventare abolizionist@. Non è “colpa” di ciascun singolo membro della classe dominante se esiste la schiavitù, e alcun@potrebbero persino desiderare che essa scompaia. Ma la realtà è che ogni singolo membro della classe dominante ottiene benefici dal lavoro gratuito degli schiavi a tutti i livelli della società, per il semplice fatto di non poter evitare di consumare prodotti derivanti dalla schiavitù, o di beneficiare dello sfruttamento del lavoro schiavistico. Così, a meno che i membri della classe dominante non reagiscano opponendosi al sistema cercando di rovesciarlo (ad esempio, le/gli abolizionist@ della schiavitù), saranno complici nel Sistema schiavistico: anche le/gli abolizionisti avranno dei vantaggi – contro la propria volontà – dal sistema schiavistico, indossando abiti o utilizzando oggetti prodotti da tale sistema.

Quello summenzionato è un esempio estremo, ma chiaro, che utilizzo per rendere più semplice la comprensione delle situazioni molto più ingarbugliate e complesse nelle quali ci muoviamo oggi. Nonostante il fatto che le/gli schiav@ furono liberat@ dal Proclama di Emancipazione, e che il quattordicesimo emendamento ha dato alle/gli Afroamerican@ il diritto di voto, le strutture istituzionali del razzismo non sono state rovesciate. Anche dopo l’approvazione del quattordicesimo emendamento, le persone bianche avevano ancora il potere di togliere a quelle nere il diritto al voto attraverso l’istituzione della tassa di voto (poll tax), la Clausola del Nonno (Grandfather clause) e la clausola di “comprensione” che richiedeva che le/i ner@ dovessero recitare qualsiasi passo della Costituzione che venisse loro richiesto. Negli anni ’60, vennero votati gli atti di tutela dei diritti civili di voto, che abbatterono questi ostacoli al voto. Ma le/i ner@ americani non hanno ancora potere politico in proporzione alla propria presenza numerica all’interno della popolazione (nonostante vi sia un Presidente nero).

Se si prendono in considerazione istituzioni importanti quali Senato e Congresso Federali e Statali, o le corti supreme Federali e Statali, o la lista dei CEO delle società più importanti, o qualsiasi altro ente che detenga un potere reale negli Stati Uniti, pochissimi sono le/i ner@ che ne fanno parte (e in alcuni casi, proprio nessun@).  E delle/dei pochi ner@ che ne fanno parte, la maggior parte non rappresenta il punto di vista della maggioranza delle persone nere del paese, ma quelle della maggioranza bianca. D’altro canto, se si prendono in considerazione le persone nere povere, o in prigione, o disoccupate, o prive del diritto all’assistenza sanitaria, il loro numero in queste categorie è di gran lunga maggiore in proporzione a quello nella società nel suo complesso.

A meno che non si voglia sostenere che le persone nere siano “naturalmente” inferiori alle bianche (il che rappresenta una posizione apertamente razzista), bisogna ammettere che esiste un qualche meccanismo che limita le opportunità a queste persone. Questo meccanismo è ciò che chiamiamo “razzismo” – i sistemi di leggi e regolamenti economici, sociali e politici che nel loro complesso discriminano, apertamente (attraverso per esempio la profilazione razziale) o in maniera subdola (ad esempio quando maggioranze di governo bianche definiscono i distretti di voto, in modo che la maggioranza nera sia divisa e non possa avere il potere elettorale di votare candidat@ ner@; o banche gestite da bianchi che utilizzano i codici di avviamento postali come criterio per escludere richiedenti di mutui o prestiti, e “casualmente” si trovano ad escludere tutta la maggioranza nera di un quartiere cittadino, pratica conosciuta come red-lining). Sarebbe possibile andare avanti per ore enumerando tutti questi svariati meccanismi, e sicuramente potete immaginarne anche voi nella vostra esperienza, funzionali a discriminare ner@, ispanic@, arab@, nativ@ american@, ecc.ecc.

In merito al “razzismo al contrario”.

E’ cruciale conservare la distinzione tra i tre termini enunciati più sopra, perché altrimenti le persone bianche tendono a ridefinire la “discriminazione” come “razzismo”. Il loro argomento principale è che poiché sia le persone bianche che quelle nere possono discriminarsi a vicenda, il “razzismo al contrario” è possibile. Ma la verità sta nel fatto che le persone nere: 1) hanno molte meno occasioni di discriminare le persone bianche rispetto al caso contrario 2) le persone nere non hanno un sistema di supporto istituzionalizzato che le protegga nel caso decidano di discriminare le persone bianche.

C’è voluto lo sforzo congiunto di persone nere e bianche – durato un centinaio d’anni – per realizzare programmi come Affirmative Action negli Stati Uniti, ma è bastato un solo uomo bianco (Alan Bakke) e un solo caso giunto alla suprema corte per smantellare quei programmi sulla base dell’idea di costui di non essere stato ammesso alla scuola di medicina per via del suo essere bianco.

Il “Razzismo al contrario” dovrebbe pertanto descrivere una società in cui le leggi e i ruoli fossero rovesciati. Questo non è mai successo negli Stati Uniti, nonostante molt@ ideolog@ di destra lamentino di essere vittime dei pochi punti di uguaglianza che le minoranze e le donne sono riuscite ad ottenere. Le persone bianche che si lamentano del “razzismo al contrario” si lamentano in realtà del vedersi negati i propri privilegi, piuttosto che i propri diritti. Si sentono in diritto di essere assunte, ad esempio, e non vedersi discriminate, anche se la norma è che siano le/ bianch@ a discriminare le persone nere. Se, in un caso isolato, un datore di lavoro nero discriminasse un/@ bianc@, non si tratterebbe del “contrario” di qualsiasi cosa, ma di discriminazione. Significherebbe essere condannat@ a prescindere, ma non rappresenterebbe la prova di qualche piano sistematico volto alla spoliazione dei diritti dei bianchi.

La destra ha reso popolare il termine “razzismo al contrario” perchè è furiosa di vedere messo in discussione il proprio privilegio bianco. Chiunque utilizzi quel termine, sia di destra o meno, sostiene la causa della destra. Questo è quanto affermo di fronte a quei Democratici e Progressisti che utilizzano tale termine – non solo stanno usando un termine sbagliato, ma stanno aiutando i propri avversari politici.

Queste argomentazioni si possono estendere a qualsiasi struttura di oppressione istituzionalizzata che riguardi la razza, l’etnia o il gruppo religioso di appartenenza, e può essere utilizzata anche nei confronti del cosiddetto “sessismo al contrario”.

Spero che questo post vi abbia chiarito un po’ le idee.

Traduzione di questo post a cura di feminoska.

Perchè un discorso antimaterno è necessario

childfree_catsUno degli articoli pubblicati su Intersezioni che ha scatenato, dal suo primo apparire, commenti accesi e forti opposizioni è sicuramente la traduzione de Costruendo un discorso antimaterno di Beatriz Gimeno.

Appare dunque necessaria qualche ulteriore riflessione in merito, in particolare riguardo a quello che pare essere il motivo del contendere, ovvero la scelta di Gimeno di definire questo nuovo discorso come “antimaterno”. Il suffisso anti-, “che si oppone a”, è stato equivocato da più parti. Ci si potrebbe domandare, in effetti, se l’autora non avrebbe potuto descrivere la propria proposta come “non-materna” più che “antimaterna”… sicuramente, da un punto di vista lessicale, questo sarebbe stato forse utile ad evitare molti fraintendimenti, quali quelli in cui sono cadute tante donne (anche femministe) che hanno scelto consapevolmente la maternità, e in quell'”anti-” ci hanno visto di tutto: da un giudizio sulle proprie scelte personali, ad una discriminazione al contrario, ad una valutazione tout court negativa in merito all’esperienza della maternità, ecc.

Nulla di più lontano dalla realtà, in effetti. E non solo perché Beatriz Gimeno, è madre – triste doverlo sottolineare, ma purtroppo alcune hanno pensato di basare in massima parte la propria critica all’articolo sul presupposto (errato) che chi l’aveva scritto non doveva aver provato sul proprio corpo il ‘miracolo della maternità’, e perciò prendeva posizione in merito ad un’esperienza che non conosceva in prima persona; ma anche perché ciò che, almeno a nostro avviso, traspare in maniera cristallina da questo articolo è esclusivamente la necessità di costruire uno spazio di agibilità per un discorso non materno, e questo non solo in seno alla società, ma anche, evidentemente, e forse ancor di più nel discorso femminista.

Alcune hanno definito superflua questa richiesta, portando ad esempio la propria esperienza opposta di donne che si sono viste osteggiate in una legittima scelta di maternità – rendendo pertanto questa opzione molto più sovversiva rispetto alla scelta di non avere figli@. Non volendo mettere in dubbio la veridicità di tali vissuti personali, pare però difficile definire come norma quella che a tutti gli effetti risulta un’eccezione rispetto ad un sistema che si basa, sia a livello sociale che economico, sui ruoli di cura non retribuiti delle donne in qualità di madri, mogli, parenti  (o anche retribuiti scarsamente, tra mille disagi e soprusi, come avviene per badanti e colf): sempre pronte, attente e sacrificabili sull’altare dei bisogni altrui.

Inoltre si commette spesso l’errore grave di pensare che una realtà come quella occidentale,  nella quale comunque – per quanto poco e male, e tra mille continui tentativi di boicottaggio – un certo grado di agency è appannaggio delle donne, rappresenti la ‘condizione della donna’ attuale a livello globale… E in ogni caso anche la nostra autodeterminazione, tra obiezione di coscienza, assunzione della responsabilità riproduttiva a quasi esclusivo appannaggio femminile, assenza totale di educazione sessuale e all’uso degli anticoncezionali a disposizione – il tutto condito dal precariato galoppante – non se la passa esattamente bene.

Il discorso sulla non maternità è un discorso di libertà quando il discorso dominante punta in tutt’altra direzione. E nella nostra società ancora profondamente patriarcale, impregnata di sessismo, privilegio e discriminazione, è così. Questo perché, a prescindere dall'”hardware” proprio di ogni persona, il software dominante non lascia davvero scampo alle donne – è ovvio, si parla in linea generale, ma la linea generale è, di solito, quella prevalente – addestrate fin da piccole alla predilezione per certi ruoli, incapaci di sottrarsi a certe richieste (la cura, appannaggio esclusivo delle ‘femmine’ – della casa, dei bambini, degli anziani, degli uomini – che si esplicita in senso di dovere o compulsione), richieste sconosciute alla maggior parte degli uomini, e per i quali comunque si configurano, eventualmente, come scelta consapevole e non coazione a ripetere schemi introiettati fin da piccole… schemi a volte odiati, come quando capita di rivedere con rabbia e sgomento, in noi stesse, donne a noi vicine – mamme, zie, nonne, sorelle – che hanno vissuto una vita di infelicità e subordinazione, delle quali dicevamo che “noi non saremmo finite così”.

Il discorso sulla non maternità è ancora necessario quando tante, troppe donne, si sentono oppresse dalle aspettative uterine illegittime di genitori, parenti, compagni, amici, persino datori di lavoro o semplici conoscenti, aspettative che esistono e sono opprimenti.

Aspettative che definiscono coloro le quali non vi si conformano come donne cattive, arriviste, immature o zitelle, lesbiche o acide, donne mancate, sbagliate, incomplete. Soprattutto donne ingrate, egoiste e dissolute alla ricerca dei soli piaceri solipsistici della vita, o al contrario donne danneggiate che riversano su cure alternative (la zoofilia, ad esempio) una mancanza non confessata (che non è mai solo d’amore, si badi bene, ma di quel figlio che non ne ha occupato l’utero per 9 mesi).

Questi discorsi non sono anacronistici, sono la realtà vissuta da tante donne – e comunque donne privilegiate, donne che possono permettersi di non avere figli@, cosa assolutamente non scontata al di fuori dei nostri limitati orizzonti.

Ecco spiegato il motivo della necessità di quell’articolo, e di tanti altri a seguire. Perché l’articolo di Gimeno parla di tutte quelle donne che vivono disagi e discriminazioni perché scelgono di non avere figli@, donne che chiedono semplicemente uno spazio di esistenza legittima.

Il discorso antimaterno non è un attacco alle donne, né alle madri. Non è una guerra tra oppress@, non è una rivendicazione di valore: il discorso antimaterno è  una questione di libertà, e se alcune donne dicono di non sentirsi libere di non fare figli@, e di voler lottare per questo, le altre, quelle che le/i figli@ li hanno fatt@  e magari felicemente, dovrebbero sostenere questa istanza. Quello che il femminismo dovrebbe insegnarci è il valore del reciproco ascolto, e non il posizionarsi su opposte e inconciliabili fazioni.

Dunque perché il termine anti- pare comunque adatto a questo argomento, quanto – se non più – del termine non-? Perché il discorso antimaterno va a decostruire non la maternità in quanto esperienza umana legittima, ma quel ‘discorso materno’ – che, attenzione, non è il discorso DELLE madri ma SULLE madri – che è appannaggio del sistema patriarcale, il cui scopo è spingere le donne, per i più svariati fini, a scegliere acriticamente questa opzione come unica valida e degna di rispetto. Sulla base di questo discorso, che è ancora quello  dominante, si costruiscono false categorie di valore che relegano molte donne, non così consapevoli, a ruoli di cura solo in apparenza scelti liberamente – ma in realtà mai veramente messi, quantomeno intimamente, in discussione – e altre ad un ruolo di paria per il semplice fatto di non conformarvisi.

Appare dunque evidente che il problema non sta nella scelta o meno di essere madri – perlomeno quando questa scelta è fatta con consapevolezza – ma nella arbitraria assegnazione di minor valore e nel giudizio svalutante che una delle due scelte, di solito quella di non avere figli@, riveste di fronte all’altra.

Per approfondimenti leggi anche: Riprodursi? Anche no!

 

La mia esperienza di femminista in un partito politico

politicadi Beatriz Gimeno.

Articolo originale qui, traduzione di Sabrina Zanardini, revisione di La Pantafika e feminoska, segnalazione dell’articolo di  Jo!

É successo a tutte, ci succede sempre e, alcune volte, tutte abbiamo desiderato che non ci succedesse piú. Ci sono volte che ci piacerebbe non portare questi occhiali ultravioletti che ci obbligano a vedere tutto alla luce del femminismo. Questi occhiali ci rendono piú coscienti, piú sagge, ci permettono di vedere alcuni aspetti della vita, e del mondo, che in generale risultano invisibili a molte persone, peró al tempo stesso ci obbligano a vedere anche quando vogliamo riposare, riposare dal vedere, riposare dal sapere. Essere permanentemente coscienti é sfiancante, e in politica é anche peggio, perché se c’é un ambito in cui è imprescindibile introdurre il femminismo, questo é, chiaramente, quello della politica.

Quando ero giovane davo per scontato che donne e uomini fossero uguali. Di piú, credevo veramente che fossimo uguali. In fin dei conti non credevo ci fosse nessun problema dovuto all’essere donna. Questo mi ha permesso di fare politica direi quasi con allegria e una certa incoscienza. Ho militato in vari partiti politici e associazioni e sono stati tempi molto felici. Io ero una di quelle che si identificava molto di piú con gli uomini che con le donne. I miei compagni di allora erano compagni di militanza, ed erano anche compagni di vita, molti erano amici, alcuni sono stati fidanzati o amanti. E tutto andava bene. Poi un giorno mi sono messa questi maledetti-  e benedetti – occhiali e tutto é cambiato per sempre. Una volta che una sa, non puó scegliere di non sapere.

Da quel momento in avanti, non mi sono piú sentita a mio agio in quasi nessun partito, sindacato o associazione. I compagni (e le compagne molte volte) giá non sono piú amici o compagni di vita. Molte volte tra di noi alza una barriera che ci impedisce di comunicare, camminare nella stessa direzione. Non mi diverto piú. É doloroso percepire questa barriera, é sfiancante dedicare il tempo e le energie a fare in modo di renderla permeabile, a far si che la visione del mondo che ho, un punto di vista femminista, sia incorporata in qualsiasi attivitá politica.

La cosa peggiore di tutte, la piú invisibile, la più appiccicosa, la più inquinante, ciò che ti si attacca alla pelle come una rete soffocante, contro cui é difficile lottare, è l’androcentrismo; quello che noi femministe, e temo solo noi percepiamo chiaramente, tanto chiaramente che sembriamo dotate di un allarme interno, un allarme che non smette di suonare per un solo secondo, che peró sentiamo solo noi.

Invece per chi non è femminista, per chi non è abituat@ a a indagare, questo androcentrismo é lo stato naturale delle cose. Questo sguardo maschile che non si interroga, che mette l’uomo al centro e a misura di tutte le cose, é devastante per le femministe in politica. Ë la ragione per la quale in qualunque partito politico è piú importante, ad esempio, una legge di repressione politica o di cittadinanza, che una di repressione del corpo; o che difendiamo con molta piú forza la scuola pubblica (sì, lo so che é fondamentale) degli asili pubblici. O che, per andare avanti con gli esempi, nel corso di discussioni fondamentali come quella sul reddito garantito universale o la riforma fiscale, non si spende un minuto a pensare alle conseguenze non volute di questioni quali le pari opportunitá che potrebbero includere alcune di queste misure, se non si tiene in considerazione il principio di uguaglianza sin dall’inizio.

Le politiche pensate, decise o applicate dai partiti non considerano mai che uomini e donne non hanno lo stesso posto nel mondo e che o si tiene in considerazione questo, o qualunque politica venga proposta e applicata sará ingiusta, quando non sfoci direttamente nella disuguaglianza palese.

E allora lo dici. Lo dici continuamente, ogni volta che si pretende di andare avanti a spiegare il mondo a partire da questo sguardo; ogni volta che le questioni che a noi – che siamo la metá del mondo –  importano, sono sottovalutate o posticipate per altre questioni che sono anch’esse importanti, peró non piú importanti. E percepisci subito che hai smesso i panni della donna combattiva per indossare quelli della femminista noiosa; noti che la gente si distrae quando prendi la parola, e ti rendi conto che le risposte sono sempre di due tipi: quelle che ti danno ragione per passare rapidamente a un altro tema e quelle che te la negano perché, a seconda del tema trattato, da femministe ci siamo convertite in femminiliste e perché sei arrivata al limite in cui ti riescono a sopportare.

Alla fine taci. Non solo taci, é anche possibile che arrivi a provare vergogna; e che ti vergogni nonostante la situazione sia sempre la stessa, da millenni. O puó essere che decidi di andartene, che smetti di andare alle riunioni. La pressione del gruppo che ti fa sentire insopportabile é… insopportabile. Io alla fine finisco sempre con l’andarmene.

Discussioni, presentazioni, liste, interviste, foto… da qualunque parte ci devono essere donne. Non si puó fare niente in politica se non ci sono donne, finalmente! Siamo riuscite a mettere le donne quasi in tutti i posti. Adesso chissá che cominciamo a riflettere su che tipo di donne devono esserci, perché abbiamo imparato che la paritá ha un lato perverso che presto o tardi, dovremo affrontare. Per cominciare, é tipico che gli uomini, quelli che parlano, che si vedono nelle foto, che comandano, sono sempre gli stessi, noi, invece, siamo sempre diverse. Noi veniamo sostituite. Cosí loro continuano a essere i padroni, acquistano maggior potere nell’organizzazione, si fanno conoscere, si fanno una carriera. Noi, invece, sembriamo essere messe lí un tanto al kilo. “Deve esserci una donna, trovane una tra la multitudine dei bianchi, o dei verdi, o dei rossi ..” (questo l’ho sentito con le mie orecchie).

La seconda questione é quella che chiamo “donne pretesto”: giá che bisogna mettere una donna, si fa in modo piú o meno velato che le donne proposte non siano femministe. Scegliere donne non femministe é garanzia di sottomissione di queste a chi le ha promosse, per questo viene assegnato loro il posto; e questo garantisce anche che queste “donne pretesto” siano la testa d’ariete da scagliare contro le femministe all’interno dell’organizzazione. L’ho vissuto sulla mia pelle. Le donne non femministe, che occupano incarichi importanti proprio perché non femministe, fanno tutto il possibile affinché le donne femministe non riescano a conseguire un potere reale dentro l’organizzazione poiché ció costituirebbe una minaccia al proprio potere, sempre delegato e precario. Cosí alla fine, ci facciamo la guerra tra di noi, e quegli altri ne escono indenni. É un meccanismo perverso, peró funziona come un orologio.

Ci sono altre questioni difficili all’interno di un partito. L’autorganizzazione é uno di questi. Credo che non si dovrebbe mai rinunciare a spazi propi senza che questo escluda, ci mancherebbe, la partecipazione in spazi misti e la trasversalitá del femminismo in tutte le questioni. Ma é imprescindibile discutere tra di noi le proposte che vogliamo escano fuori e anche di come costituirci in un polo di influenza. In generale questo continua a nutrire forti resistenze che si esplicitano giá a partire dall’uso di un linguaggio suppostamente profemminista: “un altro ghetto?” , “non volete stare in tutto il partito?”. Ció che fa paura é che ci riuniamo, discutiamo, organizziamo e da lí, pensiamo come ricavarci uno spazio di influenza o, almeno, metá dello stesso. Potere politico per cambiare le cose. É la tradizionale paura maschile che noi donne formiamo alleanze tra di noi invece che allearci con loro. La possibilitá che esista un gruppo di donne influenti é quasi sempre vista con sospetto e si tenta di ritardare il piú possibile la sua costituzione ( mentre, si noti come si costituiscono con sorprendente facilitá gruppi di migranti, di persone con disabilitá o LGTB, per fare alcuni esempi).

Così , dopo aver confuso e svuotato di contenuti e potere il gruppo (nessun diritto di veto sui temi fondamentali o esclusivi che competono alle donne) ció che si ottiene é che le femministe si stanchino e se ne vadano. Poiché mentre l’autoritá femminista é permanentemente negata, indebolita e messa in discussione, quella di coloro i quali la mettono in discussione non lo é mai. Mettere in discussione il femminismo non paga pegno in un partito peró ad essere femminista lo si paga tutto il tempo.

E infine, sui contenuti: le idee che, come femministe, vogliamo difendere. Certamente i partiti di sinistra tollerano molto di piú un certo tipo di femminismo che un altro. Di piú, uno lo sostengono mentre l’altro lo ostracizzano: sostenere il primo é un modo, per nulla dissimulato, di combattere il secondo. Ciò significa che i partiti non sono mai neutrali davanti a distinti femminismi. Diciamo che i partiti che reputano che qualcosa di femminista debba essere incluso, preferiscono un femminismo che pretende di rinominare o dotare di nuovi significati i ruoli di sempre; che ci riesca o meno questa é un’altra questione. Questo tipo risulta molto meno minaccioso per loro, sicuramente perché la capacitá di rinominare a partire dall’essere impotente non esiste. La mia esperienza dimostra che in uno spazio di sinistra gli uomini mai si opporranno a difendere la regolamentazione della prostituzione, l’ ampliamento dei diritti delle madri, lo stipendio delle casalinghe o i diritti di quelle impegnate nei ruoli di cura. Peró verranno sollevati problemi se esigiamo una ripartizione reale e immediata del potere, delle risorse materiali, se esigiamo metá della visibilitá, della voce e della capacitá per lasciare il segno nel discorso generalista o per vietarlo.

Poiché la paritá reale é un osso duro da rodere; poiché una cosa é che ti paghino come casalinga (non ci prendiamo in giro, gli uomini non vogliono essere casalinghi) e altra, e ben distinta, che gli si tolga il posto dove sono sempre stati e dove vogliono continuare a restare: che si metta in discussione il potere reale. Poiché la paritá reale non significa altra cosa che dove ci sono 2 uomini adesso ce ne deve essere uno, e questo significa la metá di tutto. E poiché la capacitá di determinare ció che é importante e ció che non lo é tocca niente meno che l’androcentrismo sopra cui é tutto costruito, dalla cultura fino alla soggettivitá. Se si sfida l’androcentrismo, si sfida ció che si intende per realtá, si destabilizza tutto.

Quando si dice che del femminismo beneficiano anche gli uomini, io mi permetto di metterlo in dubbio in linea generale. É possibile che a lungo termine una situazione di maggior uguaglianza risulti benefica per tutti, puó essere che ci siano uomini per i quali la giustizia risulti un imperativo etico inderogabile, peró a breve termine il femminismo sopprime privilegi maschili; e nessuno rinuncia con facilitá ai propri privilegi. Se i vantaggi fossero evidenti per tutti e tutte, giá avremmo smontato il patriarcato. E dato che tutti i partiti politici sono l’ambito privilegiato della spartizione del potere e dell’influenza risultano al tempo stesso il luogo dove la lotta femminista, se c’é, deve essere a muso duro.

Poi arrivano le elezioni e tutt@ diventano femminist@. Tutti i partiti rivendicano il proprio essere femministi e senti compagni di militanza – che ti hanno reso la vita impossibile – dichiararsi femministi, senza nessun ritegno. Si programmano conferenze e incontri dove le stesse donne che sono servite per svuotare di femminismo il gruppo pontificano sul femminismo, di cui adesso si dichiarano attiviste. Adesso tutti si portano liste di rivendicazioni femministe da leggere quando ne hanno occasione. É l’effetto elettorale peró è sicuro che io, a questo punto, di solito mi tengo alla larga da tutto questo.

La maternità nella società capitalistica è lo schiavismo del 21° secolo

snowwhiteIl titolo del post è uscito un po’ allarmista, ma mi spiegherò meglio e mi capirete alla perfezione. Ho appena visto un video realizzato da un’azienda che produce biglietti d’auguri. Nel filmato un uomo d’affari offre un lavoro. I colloqui con le/i potenziali candidat@ si svolgono via skype. L’uomo comincia a descrivere il lavoro: bisogna essere reperibili 365 giorni l’anno, notti incluse. Disponibilità assoluta e altre amenità. La situazione si mette male quando spiega che non è prevista alcuna paga, la gente protesta e pensa si tratti di uno scherzo.

Allora il nostro amico ci comunica che il posto è già occupato da migliaia di persone in tutto il mondo: si tratta delle madri.

http://www.youtube.com/watch?v=ZD8yfyaeaxM

Mi sono messa a piangere quando alla fine il gruppo di persone ringrazia la propria mamma e vengono presentati alcuni di questi biglietti di auguri del tipo “per la migliore mamma del mondo.” Problema risolto ragazzi, eh? Tua madre ha lavorato come una schiava per anni senza ricevere nessuno stipendio, e la soluzione del problema è acquistare un merdoso biglietto per la festa della mamma.

Nelle società matriarcali come i Moso in Cina, o matrifocali, come i Minangkabau in Indonesia, le madri hanno una serie di privilegi che almeno non le lasciano completamente indifese, come avviene nel sistema patriarcale capitalista nel quale viviamo. Ad esempio, tra i Minangkabau le donne sono quelle che posseggono la terra, le madri e le/i figli@ sono quelli che hanno case e terreni fertili, di modo che una donna non si troverà mai sola, senza casa e senza un soldo con due bambin@ a carico come avviene qui, nel nostro popolo in-civile, giorno dopo giorno. Che ad ascoltare i telegiornali viene voglia di urlare.

I Moso semplicemente non hanno un’istituzione matrimoniale e si risparmiano i relativi sacrifici. I rapporti sessuali sono liberi e le/i figli@ fanno parte della famiglia della madre. Gli uomini assumono il ruolo di padri delle/i bambin@ delle sorelle. Se vi interessa l’argomento, potete visitare il mio archivio, dove ho pubblicato alcuni testi al riguardo e vi sono state più di due discussioni sulla questione. L’ultima di queste a Vienna, tra l’altro, in un discorso sul matriarcato queer che evidentemente non ho saputo affrontare, visto che mi sono saltat@ alla giugulare. La prossima settimana torno in Austria per un workshop e spero di risolvere il pasticcio.

La mia amata Alicia Murillo dice che la gente nelle proprie discussioni non ha problemi ad esigere un salario per i lavori domestici, ma far pagare le prestazioni sessuali è più complicato. Penso che il problema risieda nell’enorme tabù che la società ha con la prostituzione, e la questione ha a che fare con tutto quello di cui stiamo parlando. Mi spiego:

La ‘signora’ si sveglia alle 7 del mattino (al più tardi) dopo una notte intensa, i bambini si sono svegliati 5 volte, tanto che, tra biberon e latte, questa persona ha a malapena chiuso occhio. Fa un pompino al suo ‘signor’ marito, perché vada al lavoro contento, poi prepara la colazione per tutta la famiglia e le attività che seguono già le sappiamo: pulizie, spesa, medico, figli@, cucinare, lavare. Siamo tutt@ d’accordo che questa ‘signora’ lavora come una schiava e non è giusto che l’unico a lavorare “legalmente” qui sia l’uomo, che lavora otto ore scarse e poi corre a casa sul divano.

Va ancora peggio quando lei lavora anche fuori casa, perché allora fa un doppio lavoro e la situazione è già disperata. Questa è la realtà di milioni di donne da queste parti, in questa rabbiosa e frustrante attualità.

E siamo ancora lontan@, o forse non così tanto, dalla possibilità che questa persona ottenga uno stipendio per il lavoro che fa, e che si prenda in considerazione che tutto questo lavoro fisico eccessivo possa ottenere una compensazione economica in un mondo capitalistico. Questo o cambiamo mondo. E quel pompino o aprire le gambe senza desiderio alla fine di una giornata interminabile, anche questo è lavoro. Sono cure, così come sono cure le attenzioni dedicate ai bambini, cucinare, fare lavatrici, pulire la casa, alzarsi alle due, alle tre e alle cinque del mattino per rispondere al pianto di un bambino malato.

Basta perdio! Con tutto quello che si è detto del crowdfunding su Verkami del libro Maternidades Subversivas, l’attenzione si è concentrata sui parti e sugli allattamenti orgasmici, credo perché sono temi vistosi e mediatici. Ecco, una puttana che gode a partorire, se non è vero che il vizio non conosce limiti… Le donne in questa società non si comportano così, partoriscono, puliscono e crescono le/i figli@ col dolore e il sudore della fronte. Ovviamente, senza stipendio. Si chiama schiavitù. Spero che il libro venga pubblicato e che si dicano un paio di cose ben dette, con l’aiuto di un sacco di persone potenti e di tutti voi.

PS: Vi regalo il link a un bell’articolo sull’origine della festa della mamma e le parole sagge in merito a questo articolo di Rosario Hernández Catalán:
“Il figlicidio e il matricidio informano, purtroppo, la storia. Sicché la femminista Julia Ward convocò un’alleanza di madri contro la guerra, perché la guerra è il più grande figlicidio (uccisione delle/i giovani, delle/i figli@) e il più grande matricidio (sterminio dell’opera materna). La guerra è progettata dal Patrix, la gerontocrazia (il governo dei vecchi) patriarcale. E pensate a come è significativo che la fanteria,il corpo ammortizzatore di un esercito, si chiami così, dal termine infanti (giovani, ragazzi). La grande Victoria Sau nel suo Dizionario Ideologico Femminista, alla voce “guerra” vi illuminerà su questo tema.”

Articolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di Serbilla Serpente e Elena Zucchini (grazie!)

Una donna registra il proprio aborto per mostrare alle altre che la procedura è sicura

http://www.youtube.com/watch?v=OxPUKV-WlKw

Emily Letts è una 25enne, ex attrice professionista e attualmente consulente presso la New Jersey Women’s Clinic. Dopo aver scoperto la propria gravidanza indesiderata, ha deciso di registrare il suo aborto per mostrare alle altre donne che la procedura è sicura. Letts lavorava al Cherry Hill Women’s Center da un anno, al momento della scoperta. Ha raccontato la sua storia in un articolo di Cosmopolitan, spiegando di non sentirsi pronta a diventare genitore e di non essere impegnata in una relazione seria:
“Sentivo di non essere pronta a prendermi cura di un bambino”.

Letts ha dunque deciso di interrompere la gravidanza presso la clinica Cherry Hill, dove è consulente. Incinta da sole due o tre settimane, aveva cercato un video per rendersi conto di come avvenisse un aborto, senza trovarne nessuno. Perciò ha preso la decisione di filmare il proprio, allo scopo di aiutare tutte le altre donne che si trovino ad affrontare gravidanze indesiderate e che temono l’aborto.

Scrive Letts: “un’interruzione di gravidanza al primo trimestre dura dai tre ai cinque minuti. E’ più sicura del parto, non vengono praticati tagli operatori e il rischio di infertilità si attesta sotto all’1%. Ciononostante molte donne arrivano in clinica terrorizzate e convinte di venire macellate, e che non potranno più avere figli@ dopo l’aborto. La pessima informazione circolante è incredibile”.

Ha scelto l’aborto chirurgico in anestesia locale e non totale, proprio perché voleva sperimentare il tipo di procedura che più spaventa le donne che si rivolgono a lei per consigli. Voleva in tal modo capire meglio le donne angosciate che si trova di fronte e che deve aiutare, non far sentire le donne in colpa nello scegliere l’aborto ed anzi, essere loro d’esempio a non sentirsi in colpa riguardo alla decisione di interrompere la gravidanza.

“La nostra società alimenta questo senso di colpa, lo respiriamo dappertutto. Anche le donne che arrivano in clinica assolutamente convinte di volere l’aborto, si sentono in colpa per il fatto di non sentirsi in colpa! “Io non mi sono sentita in colpa…  e ringrazio di poter condividere la mia storia e ispirare altre donne per smontare quel senso di colpa.”

Su YouTube, Letts scrive:

Questa è la mia storia. SOLO la mia storia. Non immagino sia più o meno di questo. Non parlo per tutt@ in merito a questa questione delicata, e rispetto le opinioni di tutt@ fintantoché non vengono imposte per altr@.

La mia più grande speranza è che qualcun@, in qualche parte del mondo, veda il video e vi trovi guida, forza, supporto, o qualsiasi cosa quella persona stia cercando in quel momento. Voglio dire a quella persona “non sei sola”. Abortire non ti rende un mostro, una donna  per male, una cattiva madre.  Abortire non ti rende una colpevole. E’ soltanto un avvenimento della tua vita riproduttiva. Non sei sola. Sono qui per te. Siamo tutt@ qui per te.

Condividete questo video, PER FAVORE.  Aiutatemi a farlo girare in tutti gli angoli remoti della rete. Una donna ogni tre ha scelto, o sceglierà un ‘interruzione di gravidanza nel corso della propria vita riproduttiva. Questo video è per tutte noi.

Inutile sottolineare come i commenti negativi al video dei ‘difensori della vita’ si sprechino in parole di tolleranza quali, puttana, cagna, demone, speriamo che tu muoia/ti leghino le tube/ ti penta per tutta la vita/non abbia mai figli@, ecc.ecc.

Articolo originale qui, traduzione di feminoska.

Tsipras e la politica dei selfie

WHAT_IS_THIS_BULLSHIT_by_okchickadeeNoia, noia totale. (cit. Frantic)

In una realtà nella quale si fatica ad esprimere un pensiero compiuto in più di 150 caratteri  – e in cui ogni occasione è buona per finirla in una caciara inutile, dove cane mangia cane – la diarrea verbale e gli schieramenti monolitici delle ultime ore causati dal selfie di tal Paola Bacchiddu meritano qualche riga di commento.

Dico ‘tal’ perchè, prima di questo ‘cataclisma’, della protagonista della vicenda io non conoscevo nemmeno il nome: sarà che non seguo da tempo la politica istituzionale, che al sentire la parola ‘lista’ subito mi sale una irrefrenabile nausea, che la democrazia rappresentativa è per me un fossile del passato che dovrebbe trovare degna sepoltura nel dimenticatoio degli esperimenti falliti,  e che in definitiva privilegio altre modalità di far politica, che non passino dal delegare a sconosciuti una rappresentanza farlocca… fatto sta che nel mio mondo rotondo Bacchiddu contava meno di un paramecio.

Nelle ultime ore ho dovuto fare ammenda di questa mia terribile mancanza, approfondendo la conoscenza di lei medesima: prima del suo lato b, poi del suo ruolo ‘istituzionale’, infine delle intenzioni recondite celate nel suo criptico gesto – di sovversione comunicativa o di conformismo comunicativo, a seconda delle campane. Sopitosi l’interesse mediatico mainstream,  della durata di un battito di ciglia, è a livello della politica di base femminista che la bomba sganciata non ha ancora perso in virulenza, anzi.

Ma che noia però! Davvero ci stiamo lambiccando sulla foto di un culo? A me non importa un fico secco di arrivare ad una verità condivisa che determini inequivocabilmente se il culo mostrato sia eteronormato/normativo o se strizzi le chiappe al sessismo patriarcale. Certo, se mi si domandasse in merito alla foto posso dire che non è esattamente un’immagine sovversiva, o che il messaggio in 150 parole allegato poteva perlomeno sforzarsi di piegarla ad altri significati – magari non dichiaratamente sovversivi, ci si sarebbe accontentat@ di un pò di ironia/problematizzazione – ma così non è stato; questa è però soltanto una mia opinione personale su di un argomento che ritengo poco interessante, considerato per di più che tanta parte della comunicazione online si basa sulle ambiguità, sui non detti, e via discorrendo… chi ha pubblicato la foto, quei meccanismi che tirano un colpo al cerchio e uno alla botte li conosce bene. E’ chiaro che, volendo,  questo culo autoreferenziale si presta a scrivere interi trattati: de culibus non disputandum est, dei delitti e dei culi, psicopatologia dei culi quotidiani, ecc… ma è ciò che vogliamo?

La politica dei selfie (ah, en passant, questa mania di ritrarsi in ogni posa, se umanamente è vagamente egotistico,  politicamente è davvero penoso!) dimostra invece, se ce ne fosse ancora bisogno, che l’unico gesto sensato ancora non portato a compimento sarebbe l’astensione in massa dalle urne. Vorrei, con queste poche righe, invitare le femministe, tutte, a ritrovare la lucidità: non sarà questo culo a fare la rivoluzione, a prescindere dai suoi buoni – o meno – propositi, perché come sosteneva Audre Lorde, “Non si può smantellare la casa del padrone con gli attrezzi del padrone”. Ma intendiamoci, attrezzo del padrone è la politica istituzionale, non il culo in questione: quello lascia il tempo che trova, e a breve non ne resterà traccia.