Il femminismo è stato sequestrato dalle donne bianche borghesi

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Questa è la trascrizione del discorso tenuto da Myriam Francois-Cerrah in occasione di un dibattito tenuto alla Oxford Union il 12 febbraio, in cui ha sostenuto la mozione approvata “Questa Camera è persuasa che il femminismo sia stato sequestrato dalle donne bianche borghesi“.

Myriam Francois-Cerrah, ricercatrice alla Oxford University, studia i movimenti islamici in Marocco e si occupa di Medio Oriente e di attualità in Francia. E’ giornalista, anche televisiva e  radiofonica, ed oltre a collaborare con testate quali  The Guardian, New Statesman, The Independent, Middle East Eye e Al Jazeera English, anima dibattiti televisivi su Sky News, BBC Newsnight, Channel 4 news, etc.

L’originale del suo intervento qui. Traduzione collettiva con La Pantàfika e Jinny Dalloway.

Signore e signori, è un piacere essere qui con voi stasera.
Lo so, lo so – l’apparente ironia della mia condizione di donna bianca borghese che ritiene che il femminismo sia stato sequestrato dalle donne bianche borghesi non vi sfuggirà, ne sono certa. Ma è sotto molto punti di vista una rivendicazione della mia condizione. Dopotutto, rappresento una minoranza nella mia comunità di appartenenza – non rappresentativa delle donne musulmane, né qui, né nel sud del mondo, né dal punto di vista del mio profilo socio-economico o etnico – nonostante molto spesso io venga chiamata a parlare proprio a partire da tale soggettività.

Prima di presenziare oggi, ho riflettuto a lungo e duramente se fosse il caso di lasciare il mio posto ad una delle mie molte eroine, donne di colore le cui voci sono spesso zittite non solo dalla narrazione bianca, ma anche dal privilegio bianco che, per quanto sia mitigato, per certi aspetti, dal velo che porto sulla testa, cionondimeno incarno. Alla fine ho deciso di partecipare per un motivo fondamentale, e cioè per sottolineare che la critica al femminismo bianco – o, in senso più ampio, alla cultura bianca – non è una discussione in merito alla razza – ma ad una categoria politica, che implica uno squilibrio di potere tra la cultura bianca dominante e le identità subalterne.

L’espressione “le/i bianch@” non si riferisce al colore della pelle delle persone, quanto piuttosto all’identificazione di queste ultime con le relazioni di potere dominanti che continuano ad assoggettare le persone di colore in una condizione di seconda classe, e a relegare le donne di colore proprio al punto più basso della piramide sociale. Non posso e mi rifiuto di parlare per le donne musulmane – io parlo solamente in quanto donna, femminista e musulmana, la cui solidarietà va in primo luogo al sud del mondo. E parlo in quanto femminista intersezionale che crede che la razza, la classe e il genere siano cruciali per il dibattito femminista.

Arundhati Roy ha affermato in un’occasione: “Non esiste chi è ‘senza voce’, solo chi è deliberatamente zittit@ e preferibilmente inascoltat@.” Quando si tratta di concezioni alternative di femminismo, il movimento femminista oppone una resistenza ostinata all’inclusione di voci altre. E per inclusione non intendo il mero riconoscimento che ai margini esistano voci “altre”, un cenno di benevolenza a chi non si conforma pienamente alle “nostre modalità”. Non intendo nemmeno l’epidermica molteplicità di visi differenti – ma la sostanziale differenza nelle svariate concezioni della “realizzazione femminile”. Mi riferisco all’accettazione del fatto che la cornice concettuale bianca, laica e liberale, non è l’unica prospettiva dalla quale le donne possano esprimere le proprie battaglie.

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Al posto di avallare l’assunto predominante secondo il quale le voci femministe alternative stanno cercando di raggiungere il più “avanzato” femminismo occidentale, intendo far comprendere che femminismo non significa “salvare” le donne del sud del mondo, ma imparare da loro, in quanto pari in una battaglia condivisa. Sebbene questo riconoscimento stia lentamente facendosi strada, spesso è troppo simbolico e alle volte profondamente condiscendente.

Il mio dottorato di ricerca riguarda il Marocco, paese nel quale molte delle donne che ho intervistato si identificano come credenti religiose impegnate: nella loro società, rappresentano l’avanguardia nella battaglia per la reinterpretazione dei testi religiosi in una luce egualitaria e combattono l’idea di supremazia maschile o di somma autorità, ma allo stesso modo – in molti casi – rigettano il termine “femminismo” in quanto concetto occidentale che mal si adatta ai loro bisogni di donne marocchine musulmane, un’idea d’importazione che una donna ha descritto come “un’altra forma di imperialismo culturale, concepito per alienare le donne native dalla reale fonte del proprio potere”, cioè la propria cultura di appartenenza.

Mentre, in quanto femminista musulmana, sono ben consapevole delle battaglie per l’uguaglianza nell’ambito della mia fede, riconosco anche che il problema della disuguaglianza di genere non è responsabilità esclusiva della religione. Infatti, la povertà e l’autoritarismo – condizioni non esclusive del mondo islamico, e derivanti dalle interconnessioni globali che implicano anche l’occidente – sono spesso le più decisive.

Il femminismo di cui mi sento parte, il femminismo a cui mi ispiro, è il femminismo di donne che resistono all’imperialismo, allo sfruttamento, alla guerra e al patriarcato – è il femminismo delle donne indiane che lottano contro la cultura dello stupro, delle palestinesi che resistono all’occupazione israeliana, delle bengalesi che reclamano condizioni minime di sicurezza nelle fabbriche dove producono vestiti per le false femministe alla moda – le innumerevoli donne delle primavera araba e la loro resistenza ancora in corso!

Quando affermo che il femminismo è stato sequestrato dalle donne bianche, intendo dire che la cultura bianca continua a dominare la narrazione in tutti i campi e riduce i punti di vista alternativi a pittoreschi contributi, funzionali alla conferma dell’eterna verità della supremazia bianca. Mi riferisco alla strumentalizzazione delle Malala Yousafzais del mondo, eroine locali trasformate in pedine politiche usate per giustificare le guerre e le occupazioni in corso, che alla fine colpiscono le donne ancor più duramente. La questione dell’educazione delle donne viene rielaborata allo scopo di giustificare l’imperialismo occidentale.L’esempio di Malala è solamente utile a ratificare le priorità del femminismo bianco e la percezione delle donne ‘altre’ quali bisognose di aiuto, come grate destinatarie di interventi esterni.

Malgrado tutte le giustificazioni femministe del saccheggio dell’Afghanistan, il tasso di morte delle madri afgane oggi è fra i più alti del mondo. Un recente rapporto delle Nazioni Unite individua la causa nei decenni di conflitti laceranti che si sommano alle attitudini repressive verso le donne.

Lo stesso schema viene replicato altrove: quando in Nigeria 200 studentesse vengono rapite da Boko Haram, piuttosto che focalizzare l’attenzione sulla ricerca delle ragazze, la storia è usata per giustificare la ‘guerra globale al terrore’ in corso. Una guerra che, tra l’altro, non sembra sia ancora servita a far ritornare le ragazze. Esistono molte ricerche sull’impatto della guerra sulle donne, che sono annoverate tra le vittime principali, non solo in termini di vittime effettive di guerra, ma anche nella propria lotta per l’autonomia, perché ciò che in realtà avviene in caso di conflitto è la polarizzazione dei ruoli di genere: la mascolinità diventa più aggressiva e le donne vengono idealizzate quali “vestali di un’identità culturale” – e i corpi delle donne diventano campi di battaglia. Questo avviene sia nella Repubblica democratica del Congo che in Afghanistan.

Ed è qui che il femminismo bianco continua a non rispondere al richiamo di una reale solidarietà femminista, non facendosi carico delle critiche che gli arrivano dai margini. C’è, da sempre, troppo poca autocritica, troppa reticenza a mettere in discussione la supremazia bianca. Le bianche hanno partecipato attivamente al sistema schiavistico americano, di cui sono state proponenti e beneficiarie, così come degli imperi coloniali, e verosimilmente continuano a essere beneficiarie dell’imperialismo e dello sfruttamento.
I vestiti che compriamo a basso costo, il petrolio con cui riforniamo le nostre macchine, i diamanti che desideriamo, sono tutti legati alla lotta femminista perché, per parafrasare bell hooks, se il femminismo cerca di rendere le donne pari agli uomini, allora ciò è impossibile perché la società occidentale non considera gli uomini tutti uguali.

Non ci può essere parità fra uomini e donne fino a quando non ci sarà una compensazione della inequità globale che pone la bianchezza all’apice della gerarchia umana e conseguentemente fa delle donne bianche borghesi lo standard per l’emancipazione femminile.
Ed è per questo motivo che gruppi come Femen sono parte del problema – quando fanno affermazioni quali “come società, non siamo stat* in grado di sradicare la nostra mentalità araba nei confronti delle donne”, perché è idea comune che TUTTI gli Arabi odino le donne, vero?

In risposta alla campagna delle donne musulmane per denunciare le Femen come razziste e paternaliste, Inna Shevchenko – che ci onora della sua presenza stasera, ha risposto: “Scrivono nei loro manifesti che non hanno bisogno di essere liberate, ma nei loro occhi c’è scritto ‘aiutatemi’.” Qualcun@ soffre del complesso della salvatrice bianca?
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Questa specie di pseudofemminismo che perpetua l’idea delle donne di colore quali passive, senza voce e bisognose di essere salvate dai propri uomini, se non da loro stesse, non è un femminismo che riconosco. Le donne del sud del mondo combattono contro i problemi portati dal patriarcato?

Certo che sì! Oltre a tutti gli altri problemi alimentati da un sistema capitalista fondato sulla disuguaglianza, combattono anche contro le varianti locali del problema virtualmente universale del patriarcato. Coloro che si sforzano di proclamare una solidarietà femminile onnicomprensiva devono cominciare ad affrontare la complicità continua di molte donne bianche nelle più generali condizioni di assoggettamento – militare ed economico – che opprimono le loro cosiddette “sorelle” del sud del mondo.

Un’attivista sudafricana ha detto una volta: “Entra nel mio spazio, rispetta le persone che ci vivono (…) non venire a sovradeterminare”.
Se il mio privilegio bianco è necessario per amplificare questo messaggio, almeno sarà servito ad un fine positivo nella più ampia lotta per l’uguaglianza dell’umanità.

Auguri, Intersezioni!

queer-your-tech-header_FINAL_640webL’intersezionalità non è una teoria perfetta.

L’intersezionalità è una teoria – e una pratica – che ci permette di affrontare questioni stringenti quali il privilegio, che ci riguarda tutt@ e funziona, come sottolinea pattrice jones, perchè si rende invisibile ai nostri stessi occhi.

L’intersezionalità rende visibili le connessioni, non solo tra le teorie o tra le lotte, ma quelle esistenti fra tutti gli esseri appartenenti al vivente. Avere un approccio intersezionale significa fare spazio all’altr@, a ciò che per l’altr@ è importante, fare spazio ai dolori, alle fragilità, alle difficoltà vissute dagli altri animali, umani e non; fare spazio ai desideri, non avere paura di sé stess@, nè sentire di aver già capito ogni cosa…tutto questo è intersezionalità.

Intersezionalità è confronto, rapporto, inclusione. E’ partecipazione, comunione, ascolto.

L’intersezionalità esiste nell’esperienza vissuta dall’altr@, dai suoi desideri frustrati, dalle sue speranze, dalla sua ricerca di spazio, fisico, mentale, di esistenza, di agibilità politica; nell’autocritica che ci spinge a svestirci dei nostri comodi panni per indossare quelli altrui, che ci spinge ad andare oltre ai nostri limiti, oltre alla nostra visione ristretta delle cose del mondo e alle nostre convinzioni.

L’ottica intersezionale (e queer, e transgender e…) supera i confini di spazio, di pelle, del dato una volta per tutte; rimescola le carte e il dna, amplia orizzonti togliendoci i paraocchi, ed è questa la sua potenza,  questa la sua qualità, questa la sua insopprimibile speranza: smascherare le nostre fragilità, i nostri attaccamenti, i privilegi che ognun@ di noi ha e che detestiamo dover guardare, per scoprire che quotidianamente agiamo le stesse dinamiche di sopraffazione che siamo così pront@ a criticare in quell@ che identifichiamo come “nemici”.

L’intersezionalità ci fa scoprire di essere meglio inserit@ nel sistema di quanto credessimo. Ci fa scoprire di essere confus@ e contraddittori@, ci mette di fronte ai nostri limiti e ci costringe ad accettarli, ma anche a volerli superare, in uno sforzo e una tensione estrema, e non abbassare mai la guardia. Perché in qualsiasi momento l’oppressor@ che è in noi può prendere il sopravvento, senza che nemmeno ce ne accorgiamo.

L’intersezionalità è uno strumento prezioso, e sicuramente ne verranno di migliori, ma oggi, nella nostra pratica di femministe, antispeciste, di persone che stanno cercando di smascherare un sistema di sfruttamento totale, l’intersezionalità è necessaria.

Vogliamo tutto, dicevamo un tempo: ma siamo anche disposte a rinunciare a tutto*?

 

* Quantomeno, a tutto il privilegio che riduce l’altr@ a …niente?

L’intersezionalità non è un tubino nero

little_black_dress_-1-1E’ in giorni come questo, quando mi appresto a leggere un articolo che penso possa interessarmi e trovarmi concorde e poi capito su certi abomini, che davvero perdo il lume della ragione. L’articolo in questione, capace di farmi avere un rigurgito di bile (l’ennesimo) della giornata è questo. E sì che l’ho cominciato pieno di speranza, trattandosi della critica all’atteggiamento miope di certo femminismo bianco alle istanze di categorie umane dallo stesso nemmeno contemplate come esistenti in galassie lontane.

Già gongolavo al rimando critico al sistema di polizia e carcerario statunitense e alla sua predilezione per l’arresto o l’omicidio di persone di colore, quando la riga dopo, in grassetto leggo “[…]quei giorni, ve li ricordate? Erano quelli in cui in Italia si parlava solo dell’Orsa Daniza.”

Proseguo l’articolo, già schiumante di rabbia, ed ecco che arriva la chicca, un rimando in chiusura all’intersezionalità!

Laura, o BettieCage come ti firmi su twitter, forse è ora che apri qualcuna delle gabbie mentali che nemmeno sai di avere, e ti rendi conto che quello di cui accusi Patricia Arquette lo stai facendo anche tu, proprio allo stesso modo! Sai, nella galassia femminista (o attivista) esistono delle femministe che si dichiarano, tra le altre cose, antispeciste. E non solo, dichiarano di riconoscersi in quella parola, intersezionalità, che tu hai usato davvero a sproposito, poiché l’intersezionalità è guardare alla comunanza d’oppressione che condividiamo non solo con le altre donne, ma con altri  individui (in virtù delle discriminazioni relative a razza, abilismo,  genere, orientamento sessuale, aspetto, età, classe) e… tadaaaan, anche con gli animali non umani, che sono oppressi in virtù della loro ‘animalità’ (concetto costruito ad arte sul quale forse potrebbe interessarti leggere questo articolo).

E diciamolo, non è che siamo proprio 4 gatte – nel senso letterale del termine – ma spesso ci troviamo di fronte altre femministe,  o attivist@ in genere, che sputano sulle nostre convinzioni, sui nostri sforzi, sulle nostre lotte, alle quali crediamo e diamo tutte noi stesse… un pò come Patricia Arquette fa nei confronti delle istanze che evidentemente o non conosce, o non la toccano più di tanto. Peraltro, questo gioco ad accusare altr@ attivismi, che magari non ci interessano direttamente, come sassolini nelle scarpe della grande rivoluzione, è davvero meschino e non porta ad un atteggiamento di critica costruttiva che possa dar conto delle difficoltà che attraversano i movimenti in generale, oltre che essere davvero il contrario di quello che significa avere un atteggiamento intersezionale.

Seguendo l’articolo che è linkato nella riga sopra citata, quella relativa all’orsa uccisa, mi trovo di fronte un nuovo atteggiamento scandalizzato per l’attenzione data alla morte dell’orsa, rispetto a quella di un ragazzo nero, Michael Brown.

Ora: esistono attivist@, INCREDIBILE!, che si addolorano per entrambe le morti, che hanno abbastanza lacrime per piangerle entrambe, o abbastanza rabbia per scriverne. Che sanno soffrire per Daniza e i suoi cuccioli come per Michael e i suoi familiari. Che non vogliono allargare il cerchio del privilegio a più categorie, ma vogliono abbatterlo, perchè credono fortemente che ciò sia non solo possibile, ma essenziale per scardinare davvero il sistema oppressivo nel quale viviamo.

Basterebbe affrontare l’argomento senza pregiudizi (bianchi o specisti), con la mente aperta a ciò che non ci è ancora familiare, con un atteggiamento realmente intersezionale. Non è quello che traspare dalle vostre pagine, che grazie a questi continui riferimenti a scale di valori – gli umani più dei non umani – ricalcano esattamente altrui scale di valori che non esitate a criticare con forza – quelle di Patricia Arquette ad esempio.

Non solo dunque dimostrate nei fatti di non aver capito granché dell’intersezionalità, che non è un abitino pret-à-porter per ogni stagione ma una teoria, nonché una pratica includente e dialogante che si mette in relazione con e non sceglie esclusivamente le oppressioni che si  sentono più vicine – ma riuscite in tal modo, invece di creare sinergie tra attivist@, a frammentare ancora di più le relazioni, le possibili pratiche e orizzonti di collaborazione con chi avete più vicino. Un doppio autogol e una pesante ed evidente mancanza di argomentazioni. Peccato, un’altra occasione persa.

 

Compagn@ è una parola vuota

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I compagni, le compagne, siamo compagn@… compagn@ è una parola vuota, anzi una parola svuotata, però fa molto figo usarla per definirsi in rapporto alle/agli altr@ attivist@.

Siamo compagn@, oh sì che lo siamo, siamo così compagn@ che non solo non ci poniamo alcun problema a sbranare costolette di fronte alle/ai compagn@ antispecist@, prendendol@ pure, e nemmeno velatamente, per i fondelli, ‘st@ sensibilon@, ‘st@ mollaccion@, ma soprattutto ‘st@ cagacazzi! O magari usiamo l’approccio ‘politicamente corretto’, quello del “ohmaguardachenoic’abbiamol’alternativavegana”, che ci fa sentire taaanto comprensiv@ nei confronti dei pover@ disagiat@, che insomma oh, ma fossero questi i problemi del mondo… che poi di ascoltare una volta tanto, di ragionare, di metterci il cuore e tutta la bella compagnitudine non ci passa per l’anticamera del cervello – che forse forse quel privilegio che ci stanno facendo notare, quello per cui maciulliamo vite tra i denti senza rimorso, mentre ci sentiamo taaanto virtuos@, taaanto militant@, un pò ci infastidisce, eh, ma giusto poco poco…

Alla fin fine, per quale motivo ci dovremmo rinunciare? Tanto quegli esseri inferiori che sono gli altri animali non ce li ammazzano davanti  (occhio non vede, cuore non duole!). E anzi quando possiamo e ci sentiamo particolarmente ispirat@ una bella battutona acida su faccialibro, a ‘st@ spocchios@ gentrificat@ veg non ce la facciamo mai mancare! Poi beh, ovvio che anche i veg anticapitalist@ che si dedicano all’autoproduzione sono sciroccat@, ma ti pare che con tutta la militanza che c’è da fare c’abbiamo il tempo di farci il tofu? Essù, eddai!

Siamo compagn@, oh sì che lo siamo, e siamo taaaanto antisessist@, così tanto che quando le compagne ci propongono la serata postporno ah, sì che siam d’accordo, w il postporno! Alla fin fine lo sappiamo, si vede la fica no, quello mica ci spiace, poi va be’,  siamo tutt@ poliamoros@, però lo sai che quella ci prova con quell’altro mentre ‘sta con il terzo, beh chiaramente è una “gran troia”, però insomma, siamo antisessist@, certo, guarda io al corteo mi vesto pure di ROSA, adooooro il bike smut. Oh, però, scusa mi viene da parlarti al maschile anche se ti fai chiamare Anna, cioè, va bé, mica è un problema no, mica sei suscettibile come ‘sti finocchi…

Siamo compagn@, eccome no!? E’ perchè siamo compagn@, tanto compagn@, che se non ti presenti agli appuntamenti militonti con un’altr@ compagn@ certificat@ non sei un cazzo di nessun@, cioè magari sì, ti ho visto ogni tanto ai cortei o alle serate,  beh anche più di qualche volta, anzi, forse avevamo pure fatto un volantino insieme, che era venuto figo, sì sì ricordo…sì ma alla fine…CHI CAZZO SEI? E come cazzo ti permetti di dire la tua, cioè forse ti sei fatt@ delle idee, ma non sei NESSUNO. Perché per essere qualcun@ devi mangiare tanta merda, un pò di sano nonnismo militante tempra gli animi e seleziona solo i più puri, quell@ che saranno davvero compagn@, senza se e senza ma.

Car@ compagn@, che pronunciate più voi la parola ‘compagn@’ che le/i quindicenn@ la parola ‘cioè’, voi siete tutto tranne che compagn@: poi vi chiedete, ogni tanto, in un barlume di coscienza, come mai si è sempre in 4 stronz@ alle iniziative… beh, fatevi una domanda e datevi una risposta.

Anzi, oggi la risposta ve la suggerisco io: perché siete davvero tanto stronz@ e ipocrit@.

 

Sfatiamo sei miti sulle persone che lavorano nell’industria del sesso

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Traduzione di questo articolo di Laura Kacere e Sandra Kim da everydayfeminism.com, a cura di feminoska e Lorenzo Gasparrini. Revisione a cura di Eleonora (grazie, grazie, grazie!)


Vivono barcamenandosi tra visibilità e invisibilità, criminalizzazione e cittadinanza, sicurezza e pericolo, sfruttamento e autodeterminazione.
Le persone coinvolte nell’industria del sesso oscillano costantemente tra questi estremi. Tra stigma e invisibilità, subiscono violenze e discriminazioni fortissime, e ciononostante finiscono troppo spesso per essere tagliate fuori dal discorso della violenza sulle donne. A causa della rappresentazione miope e poco accurata che ne danno i media e dello stigma culturale che circonda il commercio del sesso, troppi sono i preconcetti che circondano le persone coinvolte nell’industria del sesso. Storicamente, il femminismo ha semplificato (e continua a semplificare) la questione, non si fa fatica a imbattersi in una delle cosiddette “guerre del sesso” delle femministe. Troppo spesso non riusciamo a vedere la complessità e la varietà dei soggetti coinvolti nel commercio del sesso, le motivazioni che stanno alla base della loro scelta, e il grado di autodeterminazione o, al contrario, coercizione vissute. Forse anche tu, o qualcun@ che conosci, sei stat@ coinvolt@ nell’industria del sesso. O magari, quello che sai in proposito rispecchia le rappresentazioni ipersemplicistiche del traffico sessuale e delle sex worker sui media, e non sei sicur@ di capire che differenza c’è tra le due cose. Malgrado ciò, puoi essere un alleat@ delle persone coinvolte nell’industria del sesso. Ma dato il numero di luoghi comuni esistenti relativi all’industria del sesso, è utile sfatare alcuni dei miti che impediscono di vedere il fenomeno per quello che è in realtà.

Mito#1: Le parole che usiamo per descriverle non contano granché.

La nostra cultura descrive le persone coinvolte nell’industria del sesso come prive di valore, sporche, tossiche, vittime, sopravvissute, portatrici di malattie, poco raccomandabili, criminali, come “troie” e “puttane”. Anche coloro che non vogliono utilizzare etichette deumanizzanti spesso non sanno come riferirsi alle persone che lavorano nell’industria del sesso. Molto spesso ti sarà capitato di sentire la parola ‘prostituta’. E anche se alcune di queste persone potrebbero identificarsi proprio così, questa parola ha forti connotazioni negative, e molte preferirebbero non sentirsi chiamare così. Dal momento che esistono differenze enormi tra le persone che entrano volontariamente nel commercio del sesso, quelle costrette a farlo e tutte le variegate situazioni che stanno in mezzo a questi due estremi, è importante utilizzare il linguaggio in modo da riflettere questo aspetto. Per questa ragione, coloro che entrano volontariamente nel commercio sessuale generalmente preferiscono il termine ‘sex work’ e spesso si identificano come sex worker. Questo termine è stato coniato dalle sex worker per potersi rinominare e per riformulare il concetto per sé stesse – e definirlo in quanto attività professionale e scambio economico. Il termine ‘tratta’, invece, fa riferimento a persone costrette con la forza, l’inganno e/o la coercizione a vendere prestazioni sessuali. Se sono minori, sono vittime sopravvissute allo sfruttamento commerciale sessuale di minori, e/o alla tratta. Per via della loro età, non è necessario l’uso di forza, inganno e/o coercizione perché venga considerata tratta, secondo le leggi federali statunitensi e alcune leggi nazionali.
Queste categorie non sono in realtà così semplici come sembrano, né sono fisse. Spesso le esperienze delle persone si situano in qualche punto lungo questo spettro, e le ragioni per cui le persone si trovano nell’industria del sesso possono cambiare nel corso del tempo. Ora stai facendo le ipotesi più disparate riguardo alle persone che rientrano in queste categorie, anche ora che stai leggendo? Nel discutere questo problema, può essere utile esaminare i propri pregiudizi e preconcetti sulle le persone coinvolte in questa industria.
In questo articolo, si fa riferimento all'”industria del sesso”, cioè alle persone e alle attività coinvolte nello scambio di atti sessuali in cambio di soldi, riparo, cibo, vestiti e altri beni. Questo termine è usato qui in senso più ampio per includere non solo prostituzione di strada, bordelli e agenzie di escort, ma anche coloro che sono coinvolti nel sesso di sopravvivenza, nell’industria del porno, negli strip club, e nel sesso con contatto indiretto (via telefono o Internet).
Usiamo il termine “persone nell’industria del sesso” per riferirci a persone che offrono sesso a pagamento. Tuttavia, di solito vi sono altri soggetti coinvolti con molto più potere e privilegi nell’industria del sesso – sono soprattutto trafficanti e acquirenti.

Mito#2: Le persone nell’industria del sesso sono tutte etero, povere, adulte, donne americane di colore che lavorano nelle strade.

Quando immagini una persona che fa parte dell’industria del sesso, che aspetto ha? Anche se c’è un buon numero di persone nell’industria del sesso che rientra nelle categorie elencate sopra, al suo interno c’è anche un’ampia e varia gamma di identità, e molte persone vivono e lavorano dove si intersecano molteplici forme di oppressione.
Dal momento che la povertà e la mancanza di opportunità di lavoro sono spesso fattori che favoriscono l’ingresso di molte persone nell’industria del sesso molte persone nell’industria del sesso sono povere e di colore, ma molte altre provengono da ambienti borghesi, e tante sono bianche.
Troppo spesso, però, sono soprattutto donne e bambini di colore poveri a venire criminalizzati e incarcerati.
Nel settore del sesso, molte sono le donne eterosessuali (sia cis che trans), e la maggioranza delle persone che comprano sesso sono uomini eterosessuali, ma all’interno dell’industria del sesso consumano e si muovono persone di ogni genere e sessualità. L’immagine stereotipata del lavoratore del sesso è quella di una persona che “lavora sulla strada”, ma la tecnologia e Internet hanno un ruolo importante nell’industria del sesso e infatti, sempre più spesso, il sesso a pagamento passa attraverso la rete, mentre si continua a utilizzare altre forme di tecnologia come il telefono e i film. I minorenni costituiscono una parte importante dell’industria del sesso, e tendono ad essere bersagli facili dei trafficanti americani. Per via della loro età, i minori sono spesso marginalizzati e più vulnerabili, e questo vale per bambini e adolescenti di qualsiasi genere e razza. Inoltre, a causa dell’omofobia e della transfobia, molti giovani LGBTQIA+, in particolare di colore, scappano o vengono cacciat@ di casa, e lasciat@ senza un tetto. Ciò significa un rischio maggiore che debbano dedicarsi al sesso a pagamento per sopravvivere, o allo sfruttamento sessuale a pagamento. Anche se la maggior parte dell’industria del sesso negli Stati Uniti riguarda cittadini statunitensi, esistono molte reti nazionali straniere che fanno entrare negli USA donne da altri paesi per inserirle nel commercio del sesso a pagamento. Alcune di loro devono anche affrontare i pericoli derivanti dall’essere senza documenti e dall’incapacità di esprimersi in lingua inglese o di comprendere la società americana, che sono spesso ulteriori mezzi di controllo su di loro. L’industria del sesso esiste, come è evidente, in forme molto diverse e coinvolge soggettività assai differenti e, nonostante tutte queste differenze, coloro che sono già esclus@ e marginalizzat@ a livello sociale devono affrontare livelli assai più elevati di violenza individuale e strutturale rispetto alle loro controparti privilegiate.
Le soggettività che si trovano all’incrocio di identità privilegiate – come coloro che sono bianch@ e/o benestanti a livello sociale e/o economico – tendono a offrire sesso a pagamento attraverso mezzi meno visibili (per esempio, la rete) e sono meno esposte alla possibilità di venire arrestate. Nel contempo, coloro che sono più visibili e che sono soggett@ a livelli di controllo più alti – come le persone trans, nere e latin@, senza documenti, o con precedenti criminali, sono prese di mira e si trovano ingiustamente ad affrontare arresti e incarcerazioni in percentuali molto più elevate.

Mito#3: Le persone nell’industria del sesso? O sono tutte vittime o sono tutte autodeterminate!

Troppo spesso il discorso che ruota intorno all’industria del sesso si riduce alla nozione semplicistica che dipinge l’industria del sesso come un’attività sessista e vittimizzante, o al contrario come un’attività che dà forza e autodeterminazione alle donne. In realtà è ambedue le cose, nessuna delle due, e molto altro ancora. Le persone entrano nell’industria del sesso per vari motivi, che potremmo raggruppare in tre macro-categorie:
– Tratta: persone costrette ad entrare nell’industria del sesso tramite l’uso della forza, la frode o la coercizione se adulte, o semplicemente costrette a fare sesso a pagamento se minori (sfruttamento sessuale di minori).
– Necessità economica: persone convinte che il sesso a pagamento sia l’unica o la più percorribile modalità di guadagno per sopravvivere e soddisfare i propri bisogni.
– Sex work per scelta: persone adulte che scelgono di offrire sesso a pagamento.
Anche se abbiamo voluto semplificare utilizzando queste tre categorie, ciò non significa che per le singole persone il procedimento sia sempre così semplice e lineare. Molte delle persone nell’industria del sesso ci si sono trovate per ragioni o motivazioni diverse, che possono anche cambiare con il passare del tempo. Per esempio, molte donne cis e trans che si trovano ad affrontare una società transfobica e sessista, possono decidere di vendere sesso a pagamento perché è l’unico modo che hanno di sopravvivere e di sostenere le proprie famiglie. Alcune sono costrette da persone che hanno potere su di esse. Altre scelgono di entrare nell’industria del sesso e la vedono come un’altra forma di lavoro possibile. Alcune ancora la trovano un’esperienza arricchente e sono contente di dedicarsi al sesso a pagamento.
Una minorenne che venda sesso a pagamento viene considerata automaticamente una vittima di tratta e/o di sfruttamento sessuale di minori secondo le leggi federali (sebbene storicamente, e spesso ancora oggi sia considerat@ alla stregua di criminale dalle leggi dello stato). Ma spesso, dalla sua prospettiva, questa attività è percepita come autodeterminata poiché svolta per il proprio “fidanzato” adulto (ovvero il pappone).
A causa di questa vasta gamma di esperienze e delle differenze nel passato e nelle prospettive delle diverse persone nell’industria del sesso, la dicotomia vittimizzazione/autodeterminazione è chiaramente falsa e semplicistica.

Mito#4: Le persone nell’industria del sesso non possono essere stuprate.

Perché supponiamo che vi siano persone che “non possono essere stuprate”? Questo mito deriva da idee perpetuate dalla cultura dello stupro, che considera determinate categorie di persone – coloro che fanno sesso per denaro o altro – come impossibili da forzare ad avere un rapporto sessuale. Secondo questo preconcetto, le persone all’interno dell’industria del sesso non pongono confini né hanno potere decisionale sui propri corpi, e pertanto non possono rivendicare (o non rivendicare) il proprio consenso. Se una cultura considera una persona come priva della proprietà del proprio corpo, allora quel corpo diventa un corpo altrui, che non ha la possibilità né la capacità di dire sì o dire no.
Questo è un problema non solamente collegato allo stigma, ma che ha conseguenze reali nei rapporti con i clienti, la polizia e altri soggetti.
Secondo due studi del Sex Workers Project, il 17% delle sex worker intervistate ha denunciato molestie sessuali, abusi e stupri da parte della polizia. Ma dal momento che le persone all’interno dell’industria del sesso sono tanto marginalizzate e possono essere venire incarcerate, questi equilibri di potere permettono che sulle violenze compiute dalla polizia non vengano effettuate indagini. In realtà, la costrizione agli atti sessuali da parte dei poliziotti, così come la “scelta” tra il fare sesso o andare in galera, è un’esperienza assai comune. Denunciare questi eventi (ed essere prese seriamente) è abbastanza fuori questione. Al contrario, quando subiscono violenze sessuali, la nostra società tende a incolpare le persone nell’industria del sesso dichiarando che “se la sono cercata”. Ma la necessità del consenso nel sesso non scompare solo perché una persona fa sesso in cambio di soldi o altri beni.

Mito#5: le persone nell’industria del sesso dovrebbero vergognarsi di vendere i propri corpi.

Sappiamo bene che la nostra cultura fa sentire in colpa le donne che fanno sesso e ciò si applica ovviamente anche all’industria del sesso. Lo stigma e l’idea che le persone nell’industria del sesso dovrebbero vergognarsi, o che sia necessario farle sentire in colpa in maniera da farle uscire dall’industria, è completamente sbagliata. All’interno della categoria della tratta, questa stigmatizzazione ha condotto ad un altra dicotomia falsa eppure molto diffusa: quella che distingue tra vittima buona/vittima cattiva. Una “vittima buona” è qualcun@ (solitamente bianca, etero e giovane) che non aveva assolutamente alcuna idea del fatto che avrebbe dovuto vendere sesso e che è stata portata a farlo con l’inganno. Una ” vittima cattiva” è una persona (solitamente di colore) che sapeva che avrebbe dovuto vendere sesso e “ciononostante” ha deciso di dedicarcisi – anche quando vi è abuso per costringerla a restare.
Janet Mock, discutendo della sua esperienza nell’industria del sesso, trattò eloquentemente il tema della vergogna nel suo libro “Ridefinire la realtà”: “non credo che utilizzare il proprio corpo – spesso l’unico bene posseduto dalle persone marginalizzate, specialmente nelle comunità di colore povere e a basso reddito – per prendersi cura di sé sia vergognoso. Trovo vergognosa una cultura che esilia, stigmatizza e criminalizza coloro che sono coinvolte in economie sotterranee come il sex work quale mezzo per passare dall’indigenza alla sopravvivenza.” Indipendentemente dalla ragione che le ha portate a compiere quella scelta, le/gli alleat@ dovrebbero supportarle e lavorare per distruggere lo stigma che grava sulle persone nell’industria del sesso. Se vogliono lasciare il commercio sessuale, dovremmo fornire loro servizi di supporto che le aiutino nella transizione. E se non vogliono, dovrebbero comunque essere sostenute. I servizi destinati alle persone nell’industria del sesso dovrebbero essere organizzati in una maniera tale da rispettare la loro umanità e sostenere la loro capacità di iniziativa.

Mito#6: Le persone coinvolte nell’industria del sesso sono criminali.

Correzione: sono ‘criminalizzate’. Le persone nell’industria del sesso sperimentano un’intera gamma di violenze e minacce emotive, culturali e fisiche nelle proprie comunità e molto più spesso da parte della polizia. E chi è il bersaglio preferito della polizia e del sistema penale? Le donne di colore. Le donne trans. Le persone che vendono sesso per strada alla luce del sole. Le persone minorenni. Le persone con crimini o uso di droghe alle spalle. Le persone povere. Le persone straniere o senza documenti. In altre parole, le persone che si trovano già in una situazione di marginalizzazione e oppressione. Nonostante vengano criminalizzate anche le persone che comprano sesso a pagamento e i trafficanti, le forze di polizia non si focalizzano su questi soggetti tanto quanto su coloro che forniscono sesso a pagamento. Al contrario sono trattati con un’attitudine buonista stile ” i ragazzi sono pur sempre ragazzi” anche quando sono coinvolti dei minori. Le donne trans di colore sperimentano la discriminazione della polizia, sia che siano coinvolte o meno nell’industria del sesso. le donne Trans di colore spesso vengono schedate, arrestate e trattenute per adescamento poiché vengono considerate, da parte delle forze dell’ordine, attraverso la lente degli stereotipi razziali e sessuali. Fino a poco tempo fa, in ogni stato USA, i minori sotto i 18 anni coinvolt@ nell’industria del sesso venivano criminalizzat@ nonostante esistano leggi contro lo stupro e gli abusi sessuali su minori. Grazie alla legge “New York Safe Harbor Law” del 2008 e alle leggi di altri stati che sono seguite, stiamo assistendo ad una minore criminalizzazione e a una maggiore offerta di servizi a loro sostegno, anche se molto va ancora fatto.

***

Nonostante tutti i miti che circondano le persone nell’industria del sesso, è chiaro che esiste un ampio spettro di esperienze vissute, e quell@ di noi che scelgono di essere alleat@ hanno molto da imparare. Possiamo stare al fianco delle persone nell’industria del sesso lottando contro lo stigma, per la depenalizzazione, e fornendo servizi per aiutarle ad essere più sicure. Indipendentemente dal fatto che qualcun@ voglia lasciare il settore o rimanervi, possiamo lottare per difendere i diritti delle persone nell’industria del sesso e farlo attraverso modalità che ne favoriscano l’ autonomia e siano rispettose delle loro scelte. E quando le voci della gente nell’industria del sesso sono messe a tacere e le loro storie ignorate, è molto importante che noi lavoriamo per ascoltarle e per contribuire a farle risuonare.

Per ulteriori informazioni, si prega di fare riferimento a queste organizzazioni che sono impegnate a sostenere le persone coinvolte in diversi settori dell’industria del sesso:

GEMS e il loro film, Very Young Girls, sullo sfruttamento sessuale commerciale delle ragazze a New York
HIPS e il loro documentario, Be Nice To Sex Workers, sul sesso di sopravvivenza in strada a Washington, DC
Polaris: Lotta contro la tratta di esseri umani e la schiavitù moderna e il loro video, “America’s Daughters” , che è una poesia scritta da una sopravvissuta alla tratta
Sex Workers Project

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Laura Kacere scrive su Everyday Feminism ed è attivista femminista oltre che organizzatrice, volontaria in una clinica per aborti, studentessa e insegnante di yoga che vive e va a scuola a Chicago. Quando non studia o pratica yoga, pensa agli zombie, suona, mangia cibo Libanese e sogna di essere circondata da alberi. Seguila su Twitter @Feminist_Oryx.
Sandra Kim è fondatrice, amministratrice delegata ed editrice capo di Everyday Feminism. Integra esperienza personale e professionale su trauma, trasformazione personale e cambiamento sociale attraverso un’ottica femminista.

Prima froci, ora anche vegan: Satana è fra noi?

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Articolo originariamente apparso su Liberazioni e Antispecismo, ripubblicato per gentil concessione di Grazia Didio.

La pubblicazione in Italia del Manifesto Queer Vegan di Rasmus Rahbek Simonsen rappresenta, credo, un piccolo sforzo utile ad avviare riflessioni con ripercussioni sia teoriche che a livello di attivismo politico. Ma l’aspetto più sintomatico del fatto che Simonsen qualche cosa di significativo l’abbia effettivamente detto è rappresentato, paradossalmente, da una recensione firmata da tale Lupo Glori, alias Rodolfo De Mattei (un vero anti-identitario!), pubblicata di recente su un sito di ispirazione cattolica tradizionalista, diretto nientepopodimeno che da un ex vice-Presidente del CNR, Roberto De Mattei.

Lupo Glori sembra sinceramente spaventato dalla pubblicazione di questo librettino rosa. In effetti, l’”ideologia del gender” è già abbastanza destabilizzante di per sè per chi parla di famiglia “naturale”; l’antispecismo è già di per sè una “delirante visione”, “finalizzata a mettere sullo stesso piano gli uomini e le bestie” (sic). Figuriamoci se provano a dialogare fra loro…

“Cosa hanno in comune la teoria queer e l’animalismo vegano”? chiede Lupo. Molto semplice rispondere: sono entrambi fumo negli occhi per l’ortodossia cattolica. Ma se fosse solo questo non sarebbe molto interessante accostare le due parole, queer e vegan, in un saggio, come fa Simonsen. Per fortuna, qualche idea in più su cosa abbiano in comune questi due termini, Simonsen sembra averla.

De Mattei mostra di aver compreso bene quali siano questi elementi sottolineati dall’autore del Manifesto. Veganismo e femminismo queer condividono un’“orgogliosa rivendicazione della devianza, intesa come comportamento antisociale e antinormativo”, una critica radicale all’identitarismo, una “resistenza metaforica e materiale all’ordine sociale dominante”. Entrambi attaccano le istanze essenzializzanti condensate nell’idea di “contronatura”, un’idea non a caso applicata sia all’omosessualità che al veganismo. Entrambi sono oggetti di pratiche di discriminazione (De Mattei denuncia – pardon, cita – l’omofobia e la vegefobia).

Insomma, Satana è fra noi… vegetariano e frocio. Un vero finocchio.

E non poteva certo lasciare indifferente un giornale diretto da un vice-Presidente del CNR contestato perchè ha detto che il terremoto in Giappone è stato un segno della bontà di Dio o che la caduta dell’Impero Romano è stata causata dagli omosessuali.

A dare retta a gente come Simonsen, dice Glori, non si sa dove si va a finire. Si comincia con la dissoluzione della famiglia tradizionale, per arrivare alla morte della società e della specie umana, passando per un’allegra orgia interspecifica. Eh sì, perchè alla fine della sua invettiva, il Nostro evoca lo spettro della zoorastia: umani che sodomizzano animali e – orrore ancor più grande – animali che sodomizzano umani. In effetti, su un sito di De Mattei (Roberto…) l’allarme era già stato lanciato da tempo: i rapporti sessuali con animali dilagano ed è “davvero sorprendente la faccia tosta degli animalisti che anziché sdegnarsi per il fatto in sé rivendicano ancora una volta i pseudo diritti degli animali e ne denunciano la violazione”.

Insomma, Glori-De Mattei-Lupo-Rodolfo è davvero terrorizzato. Anche se, a leggere la sua fedele descrizione degli spunti di Simonsen, il suo appassionato riassunto dei temi più originali del libro, la sua padronanza delle tesi più ardite di Lee Edelman, sembra quasi che ne sia affascinato. Forse, questo “queer vegan” sotto sotto attrae anche gente insospettabile…

 

Grazia Didio

10 modi per essere un femminista migliore

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Articolo di Aaminah Khan, apparso originariamente sul suo blog. Traduzione di feminoska, revisione di Eleonora.

Chi dice che sono sempre negativa? Lasciando perdere quello che scrivo sul blog, le dichiarazioni furibonde su Twitter e le arrabbiature quando la mia squadra di calcio non sta vincendo, vi assicuro che sono in grado di essere ragionevole, costruttiva e anche – assicuratevi di essere sedut@ per quello che sto per dirvi – piacevole.

Potreste avere l’impressione che odi gli uomini. Non è così. Gli uomini mi piacciono! (Alcuni uomini mi piacciono davvero tanto, se capite cosa intendo – e sono sicura che abbiate capito, perché la mia frase aveva la delicatezza di un ubriaco ad una serata di gala [ndt: abbiamo evitato l’uso dell’espressione elefante nella cristalleria in quanto ritenuto specista, così abbiamo coniato una nuovo modo di dire]). Quello che mi fa impazzire è la misoginia. Quello che mi fa schiumare di rabbia è l’appropriazione del movimento femminista da parte di uomini che o non sanno cosa stanno facendo o stanno deliberatamente cercando di trarne profitto.
Diciamo che sei un esemplare del primo tipo – ben intenzionato, ma non abbastanza consapevole su cosa comporti essere un femminista. Sei nel posto giusto! Ho intenzione di smettere di urlare per un tempo sufficiente a dirti dieci cose che puoi fare per essere un femminista migliore, un alleato migliore e – diciamocelo – una persona migliore.

1.Lascia perdere i tuoi preconcetti
So che hai un sacco di preconcetti su che cos’è il femminismo e su quale possa essere il tuo ruolo nel grande schema delle cose. È perfettamente normale – tutt@ noi abbiamo dei preconcetti sulla vita basati sulle nostre esperienze precedenti. Ma è necessario lasciarli perdere tutti quando si entra in uno spazio femminista. Il femminismo è un movimento che si basa in gran parte su esperienze vissute dalle donne. Se non sei una donna, puoi provare empatia, ma naturalmente non puoi dire che sai cosa abbiamo passato. E non c’è nulla di male! Sostengo molte cause anche se non mi riguardano o toccano in prima persona. Nessun@ sta dicendo che non puoi essere femminista. Quello che stiamo dicendo è che devi seguirci nel farlo, perché questo movimento riguarda il modo in cui le strutture di potere influenzano la nostra vita in modi che potresti non riuscire nemmeno a percepire dalla tua posizione. Vieni a mente aperta e sii pronto a imparare, e non solo ti troverai di fronte a un mondo completamente nuovo, ma sarai molto più in grado di comprendere ed elaborare quello che vedrai e sentirai.

2. Preparati ad ascoltare. A lungo
Probabilmente hai molte tue idee che desideri condividere. Vuoi dirci perché gli uomini agiscono così come fanno, e come pensi che si possa cambiare questo comportamento. E c’è spazio per fare questo nel contesto femminista… fino a un certo punto. Ma per la maggior parte del tempo, abbiamo bisogno che gli uomini ascoltino. Voglio che pensi a tutte le donne che si vedono negata la possibilità di parlare da uomini di tutto il mondo – donne a cui è impedito di ottenere un’istruzione, donne che subiscono mutilazioni genitali, donne a cui non viene permesso di lavorare, donne vittime di abusi sessuali, donne di colore, trans e queer, lavoratrici del sesso. Non meritano la possibilità di essere ascoltate? Non ti piacerebbe essere la persona che dà loro questa possibilità? Sembra una sciocchezza, ma è davvero, davvero importante. Se vuoi essere un alleato si tratta soprattutto di essere pronto ad ascoltare le nostre storie – e ne abbiamo tante. Così tante. Potresti tirare fuori un bloc-notes e iniziare a prendere appunti. Potrebbe esserci una verifica oppure no, dopo. Ci hanno messo a tacere per così tanto tempo. Lasciaci parlare. Per favore.

3. Non aspettarti un’accoglienza automatica
Sei un uomo di parola, giusto? Eccoti, pronto a rimboccarti le maniche e a sporcarti le mani combattendo per una buona causa. Se solo ci fossero più uomini come te! Il fatto è – non prenderla sul personale – che abbiamo visto un sacco di tipi come te, che parlavano come te, erano entusiasti quanto te… che ci hanno prevaricato nelle discussioni, ci hanno zittite, avvilite e hanno usato il nostro movimento per trarne profitto. Ci vuoi far pesare di essere un po’ preoccupate? Ci vuoi far pesare di essere sospettose quando gli uomini cercano di entrare nei nostri spazi, non importa quanto apparentemente buone siano le loro intenzioni? Sotto le mentite spoglie del “femminismo”, gli uomini hanno molestato sessualmente e violentato donne di cui avevano guadagnato la fiducia, hanno usato le loro posizioni di influenza per intimidire e mettere a tacere le donne (Hugo Schwyzer, ve lo ricordate?) e farla franca addirittura in caso di omicidio. No, probabilmente tu non fai nessuna di queste cose – ma non possiamo esserne sicur@. Quindi preparati a ricevere un po’ di ostilità. Abbiamo dovuto imparare a nostre spese ad essere diffidenti con gli sconosciuti che portano doni. Se lavorerai duro e ti comporterai bene con noi, ti accetteremo col tempo.

4. Non aspettarti un trattamento speciale
Questa è una cosa che molti uomini faticano ad accettare, e a ragione – arrivano da una posizione di privilegio totale, nella quale le loro idee e opinioni hanno automaticamente un peso maggiore in virtù del loro genere. Potresti anche non rendertene conto, ma la tua mascolinità ti dà enormi vantaggi là fuori nel vasto mondo. Se vuoi essere un femminista, devi essere pronto a rinunciarci. È difficile. So quanto è difficile, perché ci sono stati momenti in cui ho dovuto farlo anche io. A volte ti sentirai offeso o maltrattato. Ti troverai a chiederti perché ti stai mettendo in discussione, se le persone non riconoscono i tuoi sforzi. È la tua posizione di privilegiato che parla, e devi imparare a mettere tutto questo da parte se vuoi fare le cose per bene. Benvenuto in un nuovo mondo, amico. Goditi l’uguaglianza!

5. Non parlarci addosso
Un sacco di uomini si offendono per questo, ma devi imparare a morderti la lingua. Questo è il nostro movimento. Siamo liete che tu sia qui al nostro fianco, ma devi accettare che non sarai mai al centro della scena. Quello spazio è riservato alle donne con reali esperienze vissute da condividere. Se ti viene voglia di parlare mentre una donna condivide la sua storia… non farlo. Non c’è modo più semplice di far arrabbiare una femminista che cercare di raccontare la sua storia per lei, o presumere di conoscerla meglio di lei. Ti assicuro che, non importa quale sia la situazione, non ne saresti in grado. Non hai vissuto la sua vita, non hai visto quello che ha visto o sentito quello che ha sentito, e non è possibile che tu, un uomo, possa capire al 100% cosa vuol dire essere una donna. Non sto dicendo che non ti è permesso di parlare. Sto dicendo che devi aspettare il tuo turno. Negli spazi femministi, l’esperienza vissuta di una donna ha la precedenza sulle tue idee di uomo. Siamo naturalmente esperte nel campo, sai? Lasciaci parlare.

6. Non restare in silenzio di fronte al sessismo
I tuoi amici scherzano sullo stupro. Ti fanno sentire a disagio, ma non dici nulla, perché non vuoi essere ”quel tipo d’uomo” – quello che non ha senso dell’umorismo, che fa il censore tutto il tempo. Sorridi goffamente quando il tuo migliore amico dice alle donne di andare in cucina, anche se pensi che non sia poi così divertente, e ti lasci trascinare in discussioni che disprezzano le donne, anche se non era tua intenzione. Ecco, questa cosa deve finire. Se vuoi fare qualcosa di concreto – e immagino tu lo voglia fare – questo è il modo migliore per iniziare. Combattere il sessismo quando lo vedi. Dì ai tuoi amici che quegli scherzi sullo stupro non sono divertenti. Alza gli occhi al cielo alle battute del tuo amico sulla cucina e digli che sta facendo lo stronzo. Quando vedi delle molestie per strada, fatti avanti e dì qualcosa. Sii l’uomo che non lascia che altri parlino male delle donne alle loro spalle. Sii l’uomo che non accetta il “se l’è cercata”. Non riesco a sottolineare abbastanza quanto tutto questo sia importante. Le tue intenzioni non significano nulla se non le sostieni coi fatti. Aiutaci, amico. Usa la tua voce per qualcosa di buono.

7. Non proporci mai, mai, la “spiegazione virile”
Stai parlando ad una sex worker, che ti sta raccontando la sua versione di come sia la sua attività professionale nel posto in cui vive. Ti sembra che vi siano alcuni dettagli sbagliati – forse hai capito una certa legge in maniera differente da lei, o fatichi a credere che la polizia sia così ostile. Le dici che non pensi che le cose stiano così, e procedi a spiegarle la realtà nel modo in cui la vedi tu. Questo è un esempio di “spiegazione virile”, e non dovrebbe sorprenderti se in tale occasione la reazione della sex worker sarà più che irritata. So che alcuni di voi lo fanno involontariamente, ma è necessario che vi accorgiate quando lo state per fare e che vi fermiate. La “spiegazione virile” fa deragliare le discussioni, banalizza le esperienze vissute delle donne ed è semplicemente maleducata. Pensi davvero di saperne di più sulla realtà del lavoro sessuale della donna che te ne stava parlando? Lei lo vive. Tu hai solo visto un documentario in TV. Non ha bisogno che le spieghi com’è la sua vita realmente.

8. Non dirci che dobbiamo calmarci
Penso di aver mantenuto un tono abbastanza pacato finora, ma il più delle volte, se sto parlando di giustizia sociale, sono abbastanza incazzata. Questa è la risposta naturale all’essere stata discriminata in quanto donna nel corso di tutta la mia vita. So che la rabbia può essere molto dura da affrontare e un po’ scoraggiante, ma ha le sue ragioni, ovvero che a) la realtà dell’esistenza in quanto donna nella nostra società è piuttosto dura, e b) essere messi di fronte a verità spiacevoli e brutali è molto scoraggiante per forza. Potresti essere tentato di dire qualcosa come ad esempio che indorare la pillola aiuta ad ingerirla. Il fatto è che non stiamo cercando di farti ingerire alcuna pillola. Stiamo cercando di cambiare il mondo, e non si cambia il mondo con la dolcezza (credimi, anche Gandhi era un vecchio stronzo manipolatore – nessun attivista è mai pacifico quanto può sembrare). Come mio padre amava dire: la persona ragionevole si adatta al mondo, la persona irragionevole adatta il mondo a sé; quindi, ogni progresso dipende dalla persona irragionevole. Siamo donne irragionevoli, e stiamo adattando il mondo a noi stesse, perché è così che si ottengono le cose. Chi ci dice di calmarci si comporta da ‘censore dei toni’, e se desideri una spiegazione del perché questa sia una cosa terribile da fare, clicca su questo link e preparati a sentirti come se venissi schiaffeggiato ripetutamente da diverse donne arrabbiate contemporaneamente. Oppure prendi per buona la mia parola e lasciaci essere arrabbiate quando abbiamo bisogno di esserlo. Fidati di me, è meglio così.

9. Amplifica, empatizza
Se su un blog trovi un bel post sui diritti delle sex worker in India, condividilo con i tuoi amici. Se qualcuno che conosci sta condividendo le proprie esperienze in quanto donna trans che affronta il sistema medico, ritwitta senza pietà e incoraggia le persone a seguirla. Se, per esempio, una giovane donna musulmana coraggiosa che conosci scrive sul suo blog un post meraviglioso che trovi davvero utile, diffondilo a tutte le persone che pensi possano trovarlo interessante. Gli alleati sono grandi amplificatori – contribuiscono a diffondere il nostro messaggio in modo che raggiunga il pubblico che potremmo non essere in grado di raggiungere in altro modo. È qualcosa di molto prezioso. E anche se potresti non essere in grado di capire quello che abbiamo passato e che cosa vuol dire essere quelle che siamo, quando condividiamo le nostre esperienze ascoltale empaticamente. Significa molto sapere che, anche se probabilmente non sai come ci sentiamo, ti interessa sapere che abbiamo sofferto e persino ti addolora. Sii lì per noi. Marcia con noi. Ascoltaci parlare. Vieni ai nostri seminari e dì a tutti i tuoi amici di venire. Partecipa alla creazione di spazi sicuri per noi perché ti interessano veramente la nostra sicurezza e il nostro benessere. Sii la grande persona che sono sicura sei in grado di essere. Questo è quello che fanno gli alleati.

10. Non mollare quando il gioco si fa duro
Non se: quando. Perché sarà duro, te lo posso assicurare. Sarai costretto a rivalutare quasi tutto quello che hai sempre creduto di sapere sulle donne e sul femminismo. Imparerai a conoscere esperienze che ti sono totalmente estranee. Probabilmente ti sarà chiesto di abbassare la cresta qualche volta quando farai qualche casino. (Non preoccuparti, siamo tutt@ incasinat@, ma dobbiamo ingoiare il boccone amaro. Per fortuna, Internet ha una memoria molto corta). E una volta che avrai cominciato non potrai smettere, perché anche se lo vorrai non potrai più chiudere gli occhi di fronte alla realtà, dal momento che li avrai aperti. Questa è una guerra che molte di noi non avrebbero voluto intraprendere. Non posso dirti quanto sia faticoso per me combattere per i miei diritti umani fondamentali giorno dopo giorno dopo giorno. È stremante e faticoso e, ad essere oneste, dannatamente demoralizzante a volte. Non sperimenterai sulla tua pelle tutto questo, ma potrai sperimentare abbastanza da farti chiedere perché ti ci sei buttato, in primo luogo. Ecco perché: perché l’uguaglianza conta. Questa roba non è una sorta di astratto dibattito accademico. Questa roba riguarda il modo in cui circa il 50% del mondo è costretto a vivere a causa di un sistema che ci considera cittadine di seconda classe. Non è sbagliato? Non è odioso? Non dovrebbe cambiare? E non vorresti essere una delle persone che realizzano il cambiamento?

Il femminismo è un compito di importanza vitale. E’ difficile, è incasinato e spesso ingrato, ma è anche molto, molto necessario. È necessario per tutti i motivi che ho detto e ridetto su questo blog decine di volte. È necessario, perché quando non ci dedichiamo a questo compito, le persone non solo soffrono – ma muoiono a causa della nostra inerzia. E non sono solo le donne a venirne colpite – ma ogni uomo criticato per aver scelto di stare a casa con i suoi figli, ogni uomo che ama i lavori artigianali più dello sport, ogni uomo che abbia mai pianto in pubblico, ogni uomo che non è arrogante e sicuro di sé abbastanza da spianare la propria strada nella vita come se fosse il padrone di tutto ciò che vede. Potresti essere uno di quegli uomini.
Se lo sei, tutto questo non riguarda solo noi, riguarda anche te. Riguarda un mondo in cui tutt@ possiamo essere liber@ di esprimere i nostri generi come vogliamo, senza affrontare il giudizio o la discriminazione per essere semplicemente quello che siamo. Voglio vivere per vedere quel mondo. Sono sicura che anche tu lo vuoi. Quindi benvenuto a bordo, amico. Sono contenta che tu abbia deciso di unirti a noi. Insieme salveremo il mondo.

Aaminah Khan opera a supporto dei rifugiati, è scrittrice e appena può attivista per i diritti umani. Vive nel Queensland settentrionale. 
Segui Aaminah Khan su Twitter: www.twitter.com/jaythenerdkid

Il poliamore è il nuovo nero

Jeffrey Alan Love polyamoryTraduzione di questo articolo di feminoska. Revisione di lafra e Serbilla.

Ora che il dibattito sulla monogamia è entrato nelle assemblee, non esiste spazio antagonista, libertario, postmoderno o femminista che non sbandieri la propria poliamorosità. La rottura – formale – dalla monogamia, incarnata in questo concetto sfuggente che è il poliamore, promette di liberarci da tutti i mali, come per magia: ci piace credere che dovunque passi il poliamore non crescano più le malerbe. Invece crescono, e quanto! Non bastano nomi nuovi o gesti grandiosi per far cadere un sistema: partiamo da ciò che siamo per sognare nuovi mondi, ma i nostri sogni si nutrono di sedimenti che ci trasciniamo dietro. Per la materia inevitabile che ci costituisce.

La costruzione di amori non-monogami è fatta di concetti, emozioni e sguardi ereditati dalla monogamia. Le riflessioni di Monique Wittig sull’eterosessualità come sistema di pensiero sono parimenti utili per la costruzione emozionale dell’amore:
“Questi discorsi dell’eterosessualità ci opprimono, nel senso che ci impediscono di parlare a meno che non si parli nei suoi termini. Tutto ciò che la mette in questione viene immediatamente squalificato come elementare. Il nostro rifiuto delle interpretazioni totalizzanti della psicoanalisi fa dire ai suoi teorici che trascuriamo la dimensione simbolica. Questi discorsi ci negano la possibilità di creare le nostre proprie categorie. Ma la sua azione più feroce è la tirannia inflessibile esercitata sul nostro essere mentale e fisico”.

Il sistema monogamico è una tirannia. E non è un’opzione: è un obbligo, ed è la violenza simbolica inscritta in questo obbligo che ci impedisce di scegliere percorsi diversi, anche quando crediamo di sceglierli. A volte vinciamo la lotteria e gli obblighi ci risultano opportuni, comodi, ma questo non li rende opzionali. Come spiega Pierre Bourdieu: “Di tutte le forme di persuasione nascoste, la più spietata è quella esercitata semplicemente dall’ordine delle cose.” La monogamia è un sistema di oppressione così ben codificato che ci ritroviamo lacerati di dolore ogni volta che cerchiamo di opporvi resistenza.

Abbiamo vinto la morale, la vergogna e le leggi che ci vogliono docili e cast@. Ma il mal di pancia di fronte alla rottura dalla monogamia non si cura con manifestazioni o striscioni. Lo straordinario apparato di propaganda e infiltrazione del sistema ci insegna fin dalla nascita che l’amore è a due, che la vita senza la coppia è un fallimento, e la vita a più di due è sospetta. Che se sei single, o se hai più di un amante, è perché hai delle mancanze. Ci insegna a sentirci minacciat@ da ciò che ci circonda, a passare da un amore all’altro per la pura incapacità di amare più di una persona, o ad amarne più di una per semplice incapacità di impegnarsi. La monogamia ci vuole limitat@, cup@, spaventat@, egoist@, divisi in coppie, in duetti. E tutti i disastri amorosi che accumuliamo nella maggior parte della nostra vita, tutte le volte che abbiamo sofferto per amore, tutti gli amori che son diventati battaglie, tutte le cicatrici che ci attraversano sono la prova che il sistema funziona bene e impregna di miseria il nostro potenziale più grande: la capacità che abbiamo, dopo tutto, di amare.

La lunga notte dei secoli
La monogamia non esige da tutt@ allo stesso modo. Le più grandi limitazioni e l’esclusività sono toccate storicamente all’identità femminile. Silvia Federici in Calibano e la strega, parla del controllo del corpo e della sessualità come di un prerequisito per l’attuazione dello strumento del capitalismo durante il Medioevo europeo. Un controllo che viene esercitato su tutti i corpi, ma che ha riservato alle donne l’orrore della caccia alle streghe.

“I processi alle streghe forniscono un elenco che fa riflettere sulle forme di sessualità vietate nella misura in cui erano ‘non produttive’: l’omosessualità, il sesso tra giovani e anziani, il sesso tra persone di classi diverse, il rapporto anale, il rapporto da dietro (si credeva che risultasse in rapporti sterili), la nudità e la danza. Venne anche vietata la sessualità pubblica e collettiva che ha prevalso durante il Medio Evo, e nelle feste di primavera di origine pagana che, ancora nel XVI secolo, si celebravano in tutta Europa. (…) La caccia alle streghe – che condanna la sessualità femminile come fonte di tutti i mali – ha rappresentato anche il principale strumento per effettuare una ristrutturazione globale della vita sessuale che, adeguata alla nuova disciplina del lavoro capitalista, criminalizza qualsiasi attività sessuale che minaccia la procreazione, il trasferimento di proprietà all’interno della famiglia o sottragga tempo ed energia al lavoro.”

Ancora più anticamente, in Europa, la monogamia implicava un patto di fedeltà sessuale delle donne agli uomini, ma non necessariamente il contrario. Michel Foucault ne scrive nella sua ‘Storia della sessualità’, a partire dai tempi della Grecia antica: “L’uomo, in quanto uomo sposato, ha l’unico divieto di contrarre un altro matrimonio; nessuna relazione sessuale gli è vietata per il solo fatto di essersi sposato; può avere avventure, uscire con prostitute, essere l’amante di un ragazzo, senza contare gli schiavi, maschi o femmine, che ha in casa. Il matrimonio di un uomo non lo lega sessualmente. All’interno del sistema giuridico, ciò comporta che l’adulterio non è considerato una violazione del vincolo del matrimonio da parte di uno qualsiasi dei coniugi; Non è considerato una violazione se non nel caso di una donna sposata che fa sesso con un uomo che non è suo marito; è lo stato civile della donna, mai dell’uomo, che consente di definire una relazione come l’adulterio. E, secondo l’ordine morale, si comprende come non vi sia stata per i greci questa categoria della “fedeltà reciproca”, che sarebbe poi entrata più tardi nella vita coniugale come una sorta di “diritto sessuale” con valore morale, effetto giuridico e componente religiosa.”

Il principio di un doppio monopolio sessuale, che rende la coppia di sposi compagni esclusivi, non è richiesta in una relazione matrimoniale. Ma mentre lei appartiene a tutti gli effetti al marito, il marito appartiene solo a sé stesso. La doppia fedeltà sessuale, in quanto dovere, impegno e sentimento ripartito in parti uguali, non costituisce la garanzia necessaria né l’espressione più alta della vita coniugale.
Il modello diffuso di rapporto eterosessuale poliamoroso in cui l’uomo è molto più prolifico e promiscuo nei rapporti rispetto alla propria compagna è erede di questa disuguaglianza sistemica. Così come il pubblico disprezzo che ricevono gli uomini dissidenti di un sistema che li vuole tuttora “macho”. Un paio di anni fa, alla radio, un compagno affermò che l’uomo che accetta il poliamore è quello che definiremmo un povero succube. E proferì queste parole senza battere ciglio.

Il privilegio etero, il privilegio maschile, il privilegio cisgender e tutti gli altri contribuiscono al grande terno al lotto poliamoroso. Non è una questione di differenze personali, ma di categorie inscritte nelle persone. La libertà simmetrica di decidere sulle nostre vite è una rozza illusione utilitaristica, in un mondo in cui ogni dissenso paga il suo prezzo, e nel quale l’amore è attraversato dal genere e dalle sue manifestazioni identitarie: classe, razza, capacità, identità sessuale e tutte le altre categorie di oppressione che possiamo aggiungere. Veniamo, quindi, alla lunga notte dei secoli. La domanda è: Dove stiamo andando? Dove desideriamo andare?

La riproduzione delle dinamiche di oppressione
Possono gli strumenti del padrone smantellare la casa del padrone? Può essere smantellata un’imposizione imponendone una nuova? Cosa intendiamo quando parliamo di liberare i nostri corpi, i nostri piaceri, la nostra sessualità e i nostri amori? La libertà ha una forma specifica e definita o è un concetto che si riferisce alla molteplicità di opzioni equivalenti tra cui scegliere senza costrizione? Se la monogamia è un obbligo, la sovversione è contro la naturalezza dell’obbligo stesso, contro l’inevitabilità dell’ordine delle cose. Il lavoro fondamentale che dobbiamo compiere è contro l’imposizione di un sistema che definisce i nostri desideri, i nostri spazi corporali, le nostre possibilità e proiezioni emotive, e che ci costringe a rimanere ancorat@ ad una singola opzione. Se la rottura della monogamia ha qualcosa di sovversivo, è l’aprirsi della possibilità di alterare il sistema imposto, di ripensare come e perché amiamo come facciamo. Costruire nuove possibilità tra cui scegliere.

Avere più relazioni sessual-affettive contemporaneamente è solo un aspetto formale e visibile di una vasta trama che, se non smantellata, riproduce sempre lo stesso sistema, ma con un altro nome. Nel suo libro “Transessualità. Altri sguardi possibili”, Miquel Missé racconta un aneddoto personale. Parte da una riflessione sull’autenticità che esprime il personaggio di Agrado in ‘Tutto su mia madre’ di Pedro Almodovar. Scrive Missé: “Diversi anni fa, una delle mie zie, che non aveva capito molto di questa storia della transessualità, mi regalò una cartolina su cui era scritto: “La saggezza della vita è quella di accettare i limiti”. Ero veramente arrabbiato, sentivo che era un modo per dirmi che il mio problema è che non mi accetto come donna, che accettare i limiti implicava il vivere come non volevo. Ma un paio di mesi fa ho trovato di nuovo la cartolina, persa in un cassetto, e improvvisamente ho pensato ad Agrado e all’autenticità che proclama nel film, e ho compreso maggiormente la frase che mi aveva fatto male al momento. Ora, a mia zia, direi che la saggezza della vita è ugualmente quella di accettare che i limiti sono costruzioni sociali, ma che, probabilmente, aveva in gran parte ragione: ciò che ci rende autentic@ non ha nulla a che fare con l’evitarli, ma con l’essere consapevole di dove sono e a che servono.”

E’ ingenuo pensare che tutta questa vasta trama del sistema monogamico si possa risolvere avendo più di una relazione. Ed è violento costringere le/gli altr@ ad accettarlo perché si ‘liberino’ di tutta questa sovrastruttura, con argomenti che si rifanno ai massimi sistemi senza comprendere i dolori e le difficoltà. Predicare la liberazione altrui ignorandone volutamente il prezzo è un altro dei discorsi infiniti che usano la libertà a fini neoliberali. Ogni volta che qualcuno si vanta della propria modernità e libertà di avere più partner non è cosa da poco, perché muore un futuro possibile: nessun@ può uscire da un sistema oppressivo con un click, firmando una petizione o leggendo un libro. L’unica via di fuga è quella di boicottare le dinamiche oppressive. Dalla rottura formale dalla monogamia alla costruzione di relazioni non monogame c’è un abisso. Ed è in questo divario il potenziale del movimento: nei dubbi, nei limiti, nelle paure, nei piccoli passi avanti e salti all’indietro. La sua carica eversiva, se ne ha, verrà dai gesti quotidiani e non dalle grandi gesta eroiche che devono il proprio immaginario a tempi gerarchici e individualisti che vogliamo lasciarci alle spalle, che appartengono a un mondo in cui il dolore, la vulnerabilità, la cura, il legame, l’empatia, non esistono neppure. Ci hanno imposto per secoli tali modelli, con risultati deplorevoli. Sapere dove sono i nostri limiti, i nostri dolori, le nostre speranze, i nostri sogni, e sapere a cosa sono funzionali fa parte del mondo nuovo. Unitevi a noi sul nostro cammino, nei nostri piccoli passi e balzi in avanti, amateci a partire dai piccoli gesti e costruiamo duetti, trii, o reti verso altri luoghi che siano liberatori; spazi amorosi in cui possiamo permetterci di cadere, aver paura, soffrire e comprendere, trasformarci e costruirci: è forse la nostra scommessa più radicale.

Non credo più in una solidarietà femminista transnazionale in sé

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Articolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di lafra.

Per molte persone il nome di Ochy Curiel suona esotico, per altre è un simbolo del cosiddetto ‘altro femminismo’. Non per niente è donna, nera, lesbica, femminista, intellettuale, attivista, artista, antirazzista, antisessista, radicale e critica. Ochy incarna tutto ciò che è antiegemonico. Con un piede nel mondo accademico e uno sulla strada, sono oltre 30 anni che lotta, come lei ama ricordare. Ritiene che far riflettere le persone sia essenziale, per questo ci invita a dare una svolta alle nostre pratiche politiche e rivedere i nostri privilegi a partire dal femminismo decoloniale.

Qual è l’origine del femminismo decoloniale? È una critica del femminismo egemonico? Come direbbe Sueli Carneiro, vuol dire femminilizzare la lotta antirazzista e rendere negra la lotta femminista?
Prima di tutto bisogna capire come è nata la geopolitica e il colonialismo come fatto concreto – che ha voluto dire porre l’Europa al centro della modernità e a partire da ciò l’esistenza di altri paesi, i barbari, quelli che devono essere civilizzati, studiati, modificati e sviluppati. Le donne nere o mulatte sono una costruzione razziale a partire dal ‘bianco’ considerato come paradigma. Il femminismo decoloniale critica non solo il femminismo egemonico, ma anche i movimenti e le teorie sociali che credono che agendo esclusivamente sulla classe si possa trasformare il mondo, e quei maschi di sinistra che ancora credono che la questione della donna debba essere affrontata in un secondo tempo, ma includono le questioni di genere per apparire politicamente corretti. 

Non si tratta di includere o meno le donne: questa è una strategia molto neoliberista, la diversità include ma non modifica o problematizza. Per questo non si tratta solo di femminilizzare la lotta antirazzista e rendere negra la lotta femminista, non significa accorgersi dell’esistenza di donne nere e povere, ma qualcosa di più complesso, ovvero capire perché ci sono donne nere e povere. E questa è la nostra più grande differenza rispetto alla tesi dell’intersezionalità, che afferma che la somma delle identità possa spiegare la subordinazione delle donne. Non è importante includere le altre oppressioni, ma vedere e capire l’oppressione, come si dispiega e analizzare come ciascuna di noi e tutte noi e negli altri movimenti sociali stiamo o meno riproducendo questa logica. E questo significa comprendere i nostri stessi privilegi. 

Questo è ciò che chiami “problematizzare la questione femminista”? Sarebbe a dire, realizzare una genealogia del proprio pensiero?
Certamente. Problematizzare significa distaccarsi, ridefinire tutto. Comincia da una rilettura di tutto quello che ci hanno raccontato in un determinato modo. E si comincia da sé stesse, con l’essere consapevoli delle proprie intersezionalità, sapere di trovarsi all’incrocio di molte oppressioni, ma senza guardarsi troppo l’ombelico… abbiamo bisogno di guardare il contesto generale perché questo è un problema sistemico che ovviamente attraversa le esperienze personali. E questo è il vantaggio del femminismo in cui credo, comprendere come ciò che chiamiamo ‘il personale è politico’ entri in relazione con tutto il resto. Ha a che fare con quello che hanno fatto molte femministe in tutto il mondo quando hanno smesso di credere nella storia di sesso maschile che era stata raccontata loro. Significa affermare che le schiave nere violentate dal proprio padrone o costrette a lavorare, organizzarono una serie di azioni di resistenza, quello che Celsa Ares definì ‘cimarronaje domestico’ (azioni di resistenza, nascoste o palesi, intraprese dalle schiave che lavoravano nella casa padronale). Se non recuperiamo questi aspetti, se non ci distacchiamo dalla storia lineare per osservare altre storie, continuerà ad esistere solamente la storia occidentale bianca, e se oggi definiamo il femminismo come le molte lotte delle donne in tutto il mondo, allora non è iniziato tutto nel 1789 con la rivoluzione francese e Olympia de Gouges. I privilegi implicano una reinterpretazione, una presa di posizione rispetto al modo in cui la storia è raccontata. Quali sono i racconti? Da dove partiamo per interpretarli?
È sistemico e contestualizzato. Come risolviamo la tensione che esiste tra locale e globale? Come articoliamo una strategia che tenga conto di entrambi?
È sistemico, però il capitalismo e la globalizzazione non ci danneggiano tutte allo stesso modo, ed è lì che sta il problema. Io non credo più nella solidarietà femminista e nemmeno credo in una solidarietà femminista transnazionale in sé. I cambiamenti non avvengono perché siamo tutte splendide donne meravigliose, ma perché si lavora sulle relazioni di potere che ci sono. Perché egemonicamente “le altre”, quelle del terzo mondo, le indie, le nere, le migranti, sono materia prima delle ricerche o delle pubblicazioni delle persone privilegiate? Questo sembra impossibile da mettere in discussione, lo diamo per scontato e, inoltre, ci sentiamo politicamente corrette, quando è invece uno sfruttamento dell’esperienza culturale e sociale delle donne. Ovvio che dobbiamo stringere alleanze come femministe, anche se non con tutte le femministe, perché alcune sono complici del patriarcato e del razzismo.
Una radicale messa in discussione, l’emergere di nuovi femminismi… non stiamo frammentando il movimento femminista? 
Dipende. Penso che i punti di rottura siano importanti, sono quelli che danno nuovi stimoli. Siamo uman*, ma siamo situat*. Questo modo di pensare, che dobbiamo per forza stare unite per rafforzare il movimento… non è così. Ci siamo rese conto che questa presunta solidarietà articolata è basata sullo sfruttamento e la subordinazione di altre, e alcune di noi non sono più disposte a sopportarlo. Per la propria salute mentale e perché non abbiamo tanto tempo nella vita, è necessario agire con coloro con cui abbiamo il piacere di agire. Io credo maggiormente agli affetti e alla fiducia costruita passo passo.
Parlando di affetti, fiducia e fratture… Questo mese di ottobre si svolgerà l’incontro lesbico femminista di Abya Yala in Colombia e ho sentito che le e i trans non vi troveranno spazio.
E’ una questione dibattuta. Non esiste una posizione condivisa. Infatti ha rappresentato un punto di disaccordo molto importante. Credo nel separatismo come questione di salute, non in negativo, ma piuttosto definendolo come autonomia. Non significa tu di là e io di qua, penso che debbano esistere spazi esclusivi per ner*, indigen* e – perché no? – anche per bianch*.
Non è il loro posto? Vuoi dire questo?  
Quando diciamo che donna non si nasce, si diventa – come diceva Simone de Beauvoir – significa affermare che le identità si costruiscono. E il risultato è che ora, con tutta la problematizzazione che abbiamo messo in campo, stanno venendo fuori una serie di nuove identità, come ad esempio quella transfemminista. Come faccio oggi a dire ad una compagna transfemminista che non può partecipare ad un incontro lesbofemminista? Si presume che le femministe lesbiche dicano: lesbica non è quella che dorme con le donne, lesbica è la messa in discussione del regime politico di eterosessualità. La domanda è: Quali sono i corpi che costruiscono il soggetto lesbico?  Penso che il movimento LGBT sia quasi l’opposto di quello femminista lesbico. Originariamente, Gayle Rubin disse che tutti i soggetti che si riconoscevano nella sessualità dissidente dovevano strutturarsi in qualche modo, però questa non rappresenta ununione, è una specie di comunità fittizia… possono esserci gay, trans, lesbiche, ecc. con una sessualità e identità di genere dissidenti, che non necessariamente mettono in discussione il regime eterosessuale. Per noi metterlo in discussione significa abolire il matrimonio e non rivendicare il matrimonio omosessuale, significa decostruire la famiglia come fondamento della società perché sappiamo come influisce sulla femminilità… Esistono alleanze tra le femministe e la comunità LGBT, ma sono cose diverse. Le uniche invitate alle riunioni in Colombia sono le femministe lesbiche, che cosa significa? Ci sono molte interpretazioni, perciò la questione verte sul modo in cui intendiamo l’essere una lesbica femminista e penso che ci vorranno anni per comprenderlo. Se ci si situa come identità politica lesbofemminista allora potranno essere presenti anche le trans. A me la figa non interessa, ho a cuore le persone che vogliono sfidare, rifinire e rimuovere il regime eterosessuale.
E a proposito di nuove identità… che ne pensi di quella queer?  
Il Queer è qualcosa di interessante dal punto di vista della messa in discussione delle identità essenziali, però credo anche che esistano concetti che vanno di moda … In America Latina, le poche persone queer che conosco partono da una posizione del tutto individualista; ‘Sono io, la mia identità, non voglio etichette’, dicono, oggi desidero essere donna e domani mi metto una cravatta e sarò un uomo, e andrò avanti così, plasmando la mia identità. Questo è un ragionamento decisamente bianco. Quant@ queer ner@ conosciamo? A livello teorico è qualcosa di interessante, perché mette in discussione l’identità, come ho detto, rompe il binomio … ma in pratica si scopre che non tutt@ al mondo possono farlo. Una persona nera non può giocare con la propria identità con tanta semplicità, poiché è attraversata dal proprio colore, dalla interpretazione sociale che viene fatta del suo colore, un colore politico. Solo le persone privilegiate possono essere queer. In breve, è molto teorico, molto individualista e molto ingenuo in un certo senso, ma lo si deve porre in relazione con la classe e la razza.

Uno dei fattori che più colpiscono le donne sono gli effetti della globalizzazione e del capitalismo. Pensi che il femminismo debba approfondire di più questo aspetto?  Le questioni relative alla globalizzazione non sono una categoria a parte: alcune ci stanno lavorando, ma non è un aspetto forte del femminismo, nè del nord nè del sud. Il femminismo è molto centrato sull’identità della donna. Il problema del partire dall’identità è di pensare che l’oppressione di genere, in questo caso, sia un problema da affrontare su base individuale e in termini di maschio o femmina, e credere che non sia legato al sistemico, alla classe o alla razza. Se non cerchiamo di comprendere in maniera più profonda come mai siamo fottute, allora esistiamo in un microcosmo e solo lì si verificano le oppressioni. E non è un caso che questa proposta di femminismo decoloniale provenga dal terzo mondo, penso che per poter mettere in discussione i privilegi sia necessario comprendere e avvicinarsi ad altre realtà: ma non è necessario andare in America Latina, né occupare gli spazi delle femministe europee,  quello che è interessante è domandarsi: Qual è il posizionamento femminista qui?

Depressione e suicidio tra anarchic@ e attivist@

hugsSM

Originale qui, traduzione di feminoska

“Prima di autodiagnosticarti depressione o bassa autostima, accertati di non essere, in realtà, semplicemente circondat@ da stronz@.” – William Gibson.

Il problema del suicidio: Non sei sol@

Sopravvissuto ad un problematico tentativo di suicidio, ho cominciato a riflettere su questo argomento un po’ più di quanto si faccia di solito. Nel corso degli anni ho visto amic@, familiari e persone amate togliersi la vita. Ogni volta che sento parlare dell’ennesimo suicidio mi viene in mente non solo il mio tentativo, ma anche quelli di coloro che ho conosciuto. Ad essere onesti… la mia reazione è probabilmente indicativa di una forma di disturbo da stress post-traumatico. Eppure, a più di un decennio dal mio episodio depressivo maggiore, sento di dover affrontare la questione della depressione e del suicidio.

Va subito evidenziato come il suicidio sia, attualmente, una delle principali cause di morte negli Stati Uniti. Tra i giovani adulti si classifica come la seconda o la terza causa di morte (a seconda della fascia di età esaminata). E’ anche una delle cause principali di morte in altre fasce di popolazione, in tutto il mondo. I fattori economici appaiono chiaramente connessi con il suicidio in molte nazioni. Alcune professioni hanno un più alto tasso di suicidi rispetto ad altre. E, per i soldati americani, il suicidio ha dimostrato di essere più letale dei combattimenti. Il suicidio potrebbe essere accuratamente descritto come emergenza di salute pubblica o epidemia.

Anche se tutta una serie di fattori contribuiscono ai singoli casi e al tasso generale di suicidi, sono convinto che progressist@, anarchic@ e attivist@ per la giustizia sociale abbiano l’aggravante di peculiari fattori psicologici. Anche se probabilmente hanno le stesse probabilità  di chiunque altr@ di soffrire di problemi quali isolamento sociale o tossicodipendenza, essendo maggiormente consapevoli delle miriadi di crisi che l’umanità attualmente si trova ad affrontare, hanno ulteriori ragioni per sentirsi sopraffatt@.  In aggiunta a tutti i propri problemi personali, sono anche consapevoli del fatto che il mondo stia davvero andando rapidamente a rotoli. E anche se mi pare una descrizione abbastanza puntuale dello stato delle cose, non ritengo il suicidio una risposta adeguata a questo dato di fatto.

La vita sotto assedio

Penso che, in particolare le/gli attivist@ più giovani così come i giovani in generale, non credano più all’idea che le cose possano improvvisamente e radicalmente cambiare. Dal momento che non hanno vissuto granché della vita, potrebbe non essere loro così evidente che le situazioni possono mutare – e che anzi, succede spesso. Il mondo non è statico e, per quanto terribili le cose possano apparire a livello generale – o personale – sono destinate a cambiare, anche se a volte si tratta, semplicemente, di assumere una diversa prospettiva sulle cose. Siamo tutt@ destinat@ a nuove esperienze, nuove intuizioni e nuovi modi di guardare alle cose. E, nell’ora più buia, bisognerebbe ricordarsi che l’ora successiva potrebbe casualmente essere quella più brillante. La vita senza dubbio può essere – e spesso è – una lotta. Tuttavia, in quanto attivista, in quanto persona che ha una coscienza ed è consapevole, conviene a tutt@ se continui a lottare.

In un apparente paradosso, la vita nei paesi sotto assedio effettivamente vede crollare i tassi di suicidio (la Gran Bretagna durante la seconda guerra mondiale ne è un esempio).  Se può essere d’aiuto, bisognerebbe considerare la totalità del mondo di oggi sotto assedio per qualche motivo. Non voglio entrare nei dettagli dei numerosi problemi che l’umanità affronta a livello globale – basti dire che esistono gravissimi problemi a questo mondo, e ognun@ di noi ha la propria opinione su ciò che va cambiato e di come questo possa accadere. La vita, la verità e la bellezza sono costantemente sotto attacco, e queste sono cose per le quali vale la pena combattere – e vivere.

Un@ attivista che si suicida è l’equivalente di  un’altra tacca sul fucile di un fascista. E’ la macchina da guerra che schiaccia sotto ai suoi cingoli un altr@ combattente per la libertà. Questi, spero, sono per molt@ motivi sufficienti ad evitare una morte autoinflitta.

Non lasciare che i bastardi ti annientino

Le/gli attivist@ sono persone spesso soggette  a scherno e derisione. L’esprimere preoccupazione per lo stato delle cose nel mondo, spesso viene apertamente ridicolizzato. Lo scherno e il disprezzo possono provenire da ogni dove – amic@, estrane@, familiari o media. E questo scherno può essere, senza dubbio, deprimente. Ma mentre singoli  individui dovrebbero probabilmente essere ritenuti responsabili della propria insensibilità ignorante, vorrei sottolineare che questo fenomeno dell’ “ignoranza insensibile” è solo un aspetto minimo della guerra psicologica totale sferrata dal sistema – che ha luogo ogni giorno, su tutti i fronti.

La strategia di fondo del sistema è quella di ridurre l’empatia nella popolazione in generale, in modo da produrre più lavoratori e consumatori ignari (e ignavi, ndT.). E’ una strategia sottile, ma è ciò che permette alla società attuale di continuare a percorrere il sentiero di  insostenibilità su cui si trova. Questo è ciò che permette a psicopatici in buona fede di raggiungere le posizioni più importanti tra le più alte cariche del paese –  governative o aziendali. L’atteggiamento indolente di questo post-modernismo contorto si fa beffe delle preoccupazioni sincere riguardo al mondo e anzi rinforza la solita solfa.

E’ preoccupante che, sia pure per via del moltiplicarsi delle cause, vari test psicologici abbiano mostrato che i livelli di empatia negli Stati Uniti sono diminuiti drasticamente. Le/i giovani di oggi, in generale, sono in realtà meno empatic@ di quanto lo fossero una generazione fa. Si possono solo immaginare le difficoltà sociali e psicologiche che un@ giovane  e brillante attivista deve affrontare oggi, quando si trova ad affrontare un numero crescente di coetane@ sociopatic@! Ma quest@ giovani a posto devono essere consapevoli che il problema non è loro. Il problema non è nemmeno dei loro coetanei dal cuore di pietra – il problema è nel sistema che crea e premia sociopatic@. Questo è ciò che deve essere chiaro, e questo è il motivo per cui le persone di buon cuore non devono arrendersi. Persino l’esistenza stessa di persone profonde e intelligenti è un colpo dato al sistema – ed è per questo che dovrebbero persistere nello sforzo di minare questo sistema.

Per le/gli attivist@, però, il problema della persecuzione a livello psicologico va oltre le semplici interazioni quotidiane con coetanei indolenti o freddi. E’ risaputo che persino Martin Luther King ha ricevuto una lettera che lo invitava a suicidarsi. E anche se non so, nello specifico, quanto sia comune questo particolare tipo di tattica… per esperienza personale vi posso dire che queste cose accadono ancora. Quando ero un giovane e schietto attivista (con una coda vistosa) qualcun@ mi ha lasciato dei volantini sull’uscio di casa che caldeggiavano il mio suicidio “per il bene dell’ambiente.” E mentre non posso affermare con certezza se questo abbia avuto un ruolo diretto nel mio tentativo di suicidio… è possibile che io possa non essermi avveduto di altri simili attacchi psicologici diretti contro di me.

Ciò riguarda anche le infiltrazioni governative e la sorveglianza. E’ chiaro che l’infiltrazione nei contesti di attivismo continua ancora oggi (forse più spesso che mai). Ma quale sottile effetto psicologico hanno le infiltrazioni sulle persone? Immagina di cominciare a percepire un certo livello di insincerità tra le/i compagn@. Se si inizia a tollerare tale mancanza di sincerità, o a ignorarla, si può cominciare a considerarla qualcosa di relativo. O, al contrario, è possibile cominciare ad evitare situazioni sociali comuni in cui si dovranno affrontare  persone considerate non sincere. Nell’uno e nell’altro caso, tutto questo potrebbe avere facilmente un effetto negativo su di te. E considera che non sei la/il sol@ a subire tutto questo,  ma anche altre persone sincere subiranno la stessa situazione e magari reagiranno modificando la propria modalità, normalmente bonaria, di comportarsi in mezzo alla gente.

Negli anni ’60 alcune organizzazioni rivoluzionarie hanno visto le loro riunioni popolate per lo più da agenti sotto copertura. Ora, 50 anni dopo, non vedo motivo di dubitare che spesso sia ancora così. In realtà, il problema potrebbe essere ancora più grave. Le infiltrazioni e la sorveglianza funzionano come un attacco psicologico sulle/gli attivist@ progressisti. E’ una forma di guerra psicologica. Sono operazioni psicologiche. Ho preceduto questo articolo con una citazione da Willam Gibson, lo scrittore di fantascienza distopico, e credo che la sua citazione abbia particolare rilevanza per anarchic@ e altr@ sostenitor@ della giustizia sociale. Se si rientra in queste categorie, e se ci si sente depressi o si hanno pensieri suicidi, si deve considerare che potrebbe essere esattamente ciò che è stato pianificato… E perciò, dunque, bisognerebbe riconsiderare la propria posizione.

Se questo genere di cose ti fa sentire paranoic@, bè, meglio, se ti tiene in vita. Inoltre, essere paranoic@ in un mondo come questo può essere spesso l’atteggiamento più sano. Ma è davvero paranoia se ti vogliono mort@? E pensi davvero che il governo e gli interessi delle multinazionali non abbiano mai voluto la morte dei rivoluzionari o che non si siano impegnati a tale scopo?

Vivere e scegliere come vivere è un tuo diritto

Se la tua vita è in malora  e non sembra più degna di essere vissuta… ripensaci. Si può davvero essere parte di qualcosa di più grande e migliore. Puoi cambiare la tua vita personale (abitudini, dieta, “amic@”) e ci si può impegnare per essere più sani e vivere in  un mondo più sano in generale. Anche semplici cambiamenti nella tua vita possono modificare il tuo punto di vista e ti daranno ragioni per vivere. La tua depressione potrebbe persistere … ma non lasciare che domini e controlli la tua vita. Non è mia intenzione che questo scritto suoni come un banale cliché di auto-aiuto, ma se è ciò che serve per mantenere in vita un paio di attivist@ … Non mi importa se suona così. Esistono ovvietà che rimangono vere anche se sono ripetute un milione di volte. Non voglio che nessun altra persona sincera e di buon cuore si tolga la vita. E, alla velocità a cui le stiamo perdendo, e alla velocità  in cui si trovano in inferiorità numerica, il mondo non può permettersi di perderne altre. Se stai pensando di suicidio… usa la tua intelligenza per pensare ad altro. La tua vita, la tua mente e le tue azioni sono TUE – puoi fare la differenza in questo mondo rimanendo in vita. E anche se non le hai mai incontrate… ci sono persone a questo mondo che vogliono che tu sia felice, e vogliono che tu viva.