La stalla sexy

calendario-fromgirls-2012-settembre

Uno degli aspetti della cultura patriarcale più difficili da affrontare e gestire, sul piano politico come nel personale, è quello della pervasività dello sguardo maschile reificante. Vorrei però subito sgombrare il campo dagli equivoci, sottolineando come tale modo di guardare – che si impone e prevarica l’esperienza soggettiva del corpo vivente – non appartenga solo a quegli individui identificati in quanto ‘maschi biologici’; non è, d’altro canto, difficile notare le tragiche analogie esistenti in questo specifico modo di guardare le donne e gli animali non umani (in particolare, ma non solo, di sesso femminile).

Partiamo da questo articolo – ma soprattutto dal servizio video che ne è all’origine. Nel pezzo in questione sono ben evidenziati molti aspetti critici – i doppi sensi usati in maniera assolutamente strumentale e consapevole (il servizio si intitola non a caso “La vacca più bella del Trentino”, non “la mucca più bella del Trentino”), i movimenti di macchina dal basso verso l’alto, e, dulcis in fundo, affermazioni assurde al limite dell’imbarazzante (“anche in stalla eleganza e sensualità non guastano”?!?!?!).

L’intenzione è chiara: le due vacche – quella umana agghindata come una coniglietta (l’abitino corto e sberluccicante pare più in stile sexy oktoberfest che tradizionale trentino!) e quella non umana, oggetto della “competizione di bellezza” (è quasi esilarante, se non fosse tragica, la capacità della cultura patriarcale di rendere fruibili i corpi, in primis quelli femminili, umani e non, che si trovano perennemente sotto alla lente di un desiderio coatto) –  sono offerte in maniera assolutamente simmetrica sull’altare del consumo  maschile (chi trovasse azzardato il parallelo in chiave sensuale donna-mucca, può vederlo messo in opera in direzione opposta ma simmetrica sulla pagina facebook di un giornale di settore che s’intitola Cowsmopolitan: le mammelle lucide e le code spazzolate e lucenti delle mucche offerte allo sguardo ricordano in maniera esplicita analoghe parti di corpi femminili!)

Un consumo che parte proprio dagli occhi, che scelgono di guardare due esseri senzienti, donna e mucca, nell’unico valore a loro riconosciuto di corpi consumabili. Non interessa la loro sensualità, nel senso di capacità sensoriale e sensibilità, ma solo quella che definisce il compiacimento, visivo prima e fisico poi, di un godimento personale ed egoistico.

E’ d’altro canto necessario spendere alcune parole sull’altra protagonista del video, la mucca Jolly, la quale, come candidamente e tragicamente afferma la sua padrona (poiché Jolly non è che una schiava, dopotutto) “ha 5 anni ed è alla terza lattazione”. Questa affermazione, resa maggiormente intelligibile, significa tante cose: partendo dal dato di fatto che una mucca può vivere 20 anni, che anche se “da latte” viene macellata intorno ai 5 anni (appena la produzione comincia a calare), che la pubertà bovina insorge intorno all’anno e, soprattutto, che non c’è produzione senza riproduzione, possiamo tradurre la frase “innocente” così: Jolly ha l’età equivalente di una ragazza di vent’anni, che appena entrata nella pubertà è stata stuprata (da un umano che l’ha inseminata artificialmente) tre volte, ha sostenuto tre gravidanze e tre parti, ha già vissuto tre volte la disperazione di vedersi portare via i propri figli dopo poche ore dalla loro nascita, e… sta per morire.

Tutto questo orrore spiegato con tranquillità e naturalezza da un’altra femmina, umana, che aderisce in maniera talmente acritica – e anzi, complice –  al diktat dello sguardo maschile reificante, da applicarlo con assoluta naturalezza su quella “vacca” a lei tanto simile perché a disposizione dell’uso e consumo maschile  (ma anche nella propria realtà  – misconosciuta e negata – di essere senziente, capace di generare –  ma non per questo costretta a farlo –  di provare attaccamento per la propria prole  – e pertanto dolore atroce nel momento in cui ne venga crudelmente separata – ma anche di autodeterminarsi, in maniera unica ma sempre valida).

Che lo sguardo maschile non sia una prerogativa dei maschi biologici è evidente nel video che pubblichiamo qui di seguito, una pubblicità di vini friulani destinata al mercato russo che ha sollevato diverse polemiche.

La regista, Iris Brosch, pare sia “conosciuta a livello internazionale per aver restituito dignità e forza all’immagine femminile nella fotografia”. Almeno così dicono, questo è il video:

Dove sarebbe qui la millantata “forza delle donne” (lasciamo perdere la dignità!)? A corpi patinati di baccanti in atteggiamenti saffici che non fanno nulla se non offrirsi al consumo altrui, risulta difficile riconoscere tale qualità.

Qualità riconoscibile in altri progetti, che raccontano storie di forza e coraggio di fronte alla sofferenza e all’oppressione, e che restituiscono  soggettività ed agency ad individui che ne sono stati violentemente privati: quelli di Jo-Anne McArthur – che ha realizzato WeAnimals o più recentemente UnboundProject, nei quali esplora rispettivamente il complicato rapporto tra animali umani e non umani e celebra l’impegno delle donne nell’attivismo antispecista – o di Carrie Mae Weems  – esemplare in questo senso il progetto From here I saw what happened and I cried nel quale viene smascherato il potere dello sguardo bianco (patriarcale e proprietario) di rendere inferiori e consumabili i corpi degli schiavi di colore, allo scopo di giustificarsi e autoassolversi eticamente di una pratica tanto abominevole.

Come vivete le vostre esistenze sotto la lente maschile? La subite o ne siete (consapevolmente o meno) complici? Riuscite a riconoscere quello sguardo che tutto divora nei vostri occhi?

Diventare donna significa diventare una puttana

LeaningonCab_03

Traduzione di questo post di Akynos – aka The Incredible Edible Akynos, performer burlesque e intrattenitrice.

Chi poteva immaginare che diventare donna significasse diventare una puttana?

Di questi tempi, la libertà sessuale delle donne è talmente oppressa, che l’unico modo per essere considerata onesta è quello di adottare una facciata da madonna.

Le donne rispettabili non bestemmiano, né dormono in giro. Passano la vita rincorrendo la speranza di sposare l’uomo dei loro sogni tristi e ottenere qualche lavoro succhiasangue, mentre conservano la loro energia sessuale per quel solo uomo – per sempre. Un uomo che, vorrei aggiungere, a causa della sconcertante doppia morale della nostra società, può ritenere suo diritto divino scopare ogni donna che desideri, solo perché è un uomo.

Umiliata fino alla repressione sessuale, la donna non dovrebbe mai ricorrere ad atti di espressione sessuale, perché verrebbe considerata empia – indegna d’amore, un’emarginata sociale. E di fronte all’opportunità di scopare senza pensieri, non dovrebbe mai cercare un profitto economico.

Dispensare fica gratuitamente, anche se comunque deplorevole moralmente, è leggermente più rispettabile e viene considerato con maggiore indulgenza rispetto all’accettare denaro in cambio di preziosa energia sessuale. Energia che, se priva di adeguato sfogo, può far impazzire chiunque. Sarebbe come cercare di esistere senza il sole; non è possibile!

In una cultura misogina e sessualmente repressiva, nella quale gli uomini guadagnano ancora più delle donne, il lavoro è poco, l’istruzione universitaria sta dimostrando di essere una farsa, e troppi uomini approfittano emotivamente e fisicamente delle donne senza alcuna conseguenza, come può una cagna redimersi?

Può prendere posizione e rifiutarsi di essere trattata come una stupida senza cervello. Nonostante la natura misogina della nostra società, resta il fatto che la fica è ancora potere. E il sesso vende sempre. Le brave ragazze non sono le uniche a realizzarsi. Vendere sesso può essere il modo in cui gli uomini imparano a trattare le donne. E in cui le donne possono comprendere il loro proverbiale valore.

Quando ci si stanca della corsa all’inseguimento di amore e di denaro, una soluzione è quella di tagliarsi le vene – l’altra è ricorrere alla prostituzione. La prima volta che ci si vende ricorda la prima dose di eroina, o il risveglio spirituale di coloro che hanno perso la fede. Ci si rende conto che esiste un potere tra le cosce, nella loro consistenza – nella loro stessa presenza. Si diventa testimoni della guarigione delle anime solitarie che attraversano le nostre porte, anche quando tutto quello che vogliono è una sveltina, e non si avrà mai un’altra occasione di incontrarli.

Si impara a dire di no a situazioni che non si ritengono degne dei propri sforzi perché, puntuale come un orologio, qualcosa di meglio arriva sempre. Si impara che alcuni dei ragazzi più belli non sono sempre i migliori a letto. E che anche i ragazzi più belli pagano per averti.

Cresce in te un amore più grande per te stessa, la fiducia trabocca. Non solo ottieni i mezzi per vivere, ma mentre una volta ti credevi brutta, scopri che molte, molte persone ti trovano così attraente che sono disposte a spendere soldi per te.

Impari che dispensare energia sessuale è un dono che nasce dentro di te. Anche se la società sostiene che sia un modo indegno di guadagnarsi da vivere, ti senti un’onesta cittadina ogni volta che spalanchi le gambe. E capisci che ci sono molti modi di dare energia e che in un modo o nell’altro, siamo tutt* in vendita.

Ti rendi conto dell’importanza del sesso protetto – più che mai. Perché quando uscivi solamente con una persona, spesso ti comportavi da incosciente. Ma ora che il sesso è il tuo mestiere, sei prudente con i tuoi numerosi partner. In quale altro modo potresti pagarti le bollette se fossi affetta da una patologia sessuale che avresti potuto evitare?

Mentre un tempo eri insicura e permettevi all’interesse amoroso del momento di calpestarti, ora ti rendi conto di avere potere – perché hai molte scelte. Perché quasi all’improvviso, puoi ottenere denaro. Ti rendi conto che quando una persona ti paga, è più incline a rispettarti. Comprare sesso dà luogo a una dinamica diversa rispetto a quando viene offerto gratuitamente.

Prima di diventare una puttana eri una bimbetta insicura, regalavi gratis quello che poteva liberarti.
Non eri una donna allora. Ma, accidenti, se lo sei ora!

Il privilegio di non riconoscere il proprio privilegio

web_animalrights_WendyShepherdRGB

“Il privilegio è insidioso”, afferma pattrice jones nel corso dell’intervento a cui questo articolo vuole essere una sorta di introduzione o riflessione. La trappola in cui cadono molt*, e particolarmente chi si dedica all’attivismo, umano o non umano, è quello di identificarsi con chi si trova in una, o all’incrocio di più condizioni di oppressione.

Questo accade per svariati motivi: sicuramente perché ognun* di noi ha vissuto delle oppressioni da cui ha desiderato ardentemente liberarsi, o ha visto agite su altr* dinamiche di potere, e in cuor suo ne ha magari preso sinceramente le distanze. L’intersezionalità, anche in questo caso, si rivela un utile strumento di critica e, ancor di più, di autocritica: perché esiste un rischio assolutamente reale e da non sottovalutare, che è quello di sottostimare il proprio privilegio e di sovradeterminare coloro delle/i quali vogliamo supportare le rivendicazioni nella – più o meno autentica – convinzione di sapere cosa sia meglio per loro.

Riconoscere il proprio privilegio è un primo, fondamentale passo: essere consapevoli di non poter, in tutta onestà, sapere cosa significhi essere una scrofa in una gabbia da gestazione, una persona di colore (qualsiasi colore eccetto il bianco) in un mondo razzista, una persona transessuale in un mondo rigidamente binario, una persona povera che  – per quanti sforzi faccia –  non riesce a risollevarsi dalla propria condizione di indigenza in un mondo che monetizza qualunque cosa, persino gli affetti e le relazioni… ci mette nelle condizioni di poter “gestire” il privilegio, rinunciandoci per quanto possibile, assumendo un atteggiamento critico e consapevole nei confronti di qualsiasi vantaggio che noi consideriamo scontato (di muoversi, di poter esprimere i propri pensieri ed emozioni, di vivere e di vivere dignitosamente, di poter godere in ogni caso di maggiore libertà rispetto ad altr*, perché anche poter dichiarare il proprio attivismo politico o la propria “devianza” rispetto alla norma stabilita non è un privilegio da prendere con leggerezza) e sostenendo con il nostro privilegio chi ne è priv*.

Il sistema ci opprime tutt*? Vero, ma assolutamente non allo stesso modo. E questa consapevolezza ci deve far capire che una delle fatiche più grandi di chi fa attivismo è quella di comprendere come poter essere alleat* efficaci ed evitare di sovradeterminare le lotte, anche quelle nelle quali, per un motivo o per l’altro, ci sentiamo protagonist*.

E’ quello che succede nel femminismo quando alcune, che non riconoscono i propri privilegi (ad esempio quelli di classe e razza, ma non solo) arrivano a privare altre donne della propria agency (le sex worker, le donne trans o le musulmane ad esempio) dichiarandole inconsapevolmente colluse col sistema patriarcale, e pertanto vittimizzandole e togliendo loro autorevolezza e autodeterminazione; nell’antirazzismo, ogni volta che l’agenda è dettata non da chi la discriminazione la subisce in prima persona, ma da chi si riconosce nel ruolo di ‘salvator* degli oppressi’ e cala dall’alto strategie buone in altri contesti evitando il confronto, a volte perché scomodo o difficile, con le persone alle quali si vorrebbe dimostrare solidarietà; nell’antispecismo, quando ci si dipinge come ammantati di ogni virtù nella convinzione di essere il non plus ultra dell’attivismo, o peggio quando ci si riconosce così tanto nei soggetti non umani oppressi da dimenticare di far invece sicuramente parte della categoria umana e di poter quindi agire il proprio privilegio su altri (animali), umani e non.

Tenendo ben presente che tutt*, volenti o nolenti, colludiamo e siamo allo stesso tempo vittime del sistema che vorremmo rovesciare, quello che ci resta da fare è sforzarci di dare voce a chi non ne è privo, ma è  – consapevolmente o meno – tacitato da chi ha maggior possibilità di esprimersi, o viene maggiormente ascoltato. Buona visione!

Stronzate che le femministe bianche devono evitare

tumblr_inline_myf7ulnaPi1qib5epArticolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di frantic.

Sono una femminista bianca, e lasciate che vi dica una cosa: il femminismo bianco* è una bella merda. E’ escludente, oppressivo, ed è utile a marginalizzare ulteriormente le persone maggiormente oppresse dalla misoginia. Sfortunatamente, il femminismo bianco è anche lo status quo del femminismo occidentale, nel senso che le femministe bianche hanno accesso alle più importanti piattaforme, maggiore accesso alle risorse e ai media, e sono generalmente considerate la voce del femminismo. In teoria, chi fosse così sinceramente preoccupat* dell’eguaglianza userebbe questi vantaggi per amplificare la voce delle donne di colore. Nella pratica, la supremazia bianca è reale e le femministe bianche spesso sembrano dimenticare che il proprio privilegio bianco rende loro una passeggiata calpestare le donne di colore che lottano per smantellare il patriarcato.

Pertanto, in onore della giornata Internazionale delle Donne, ecco una lista non esaustiva delle stronzate che le femministe bianche devono evitare:

1. Credere che le proprie esperienze di marginalizzazione siano universali

Alle femministe bianche piace far finta di capire. Lo capiscono perché ci sono passate. Hanno sperimentato il sessismo. Hanno sperimentato la misoginia. Sono state superate in caso di promozioni, hanno fischiato loro dietro per strada, e hanno dovuto stare a sentire tipi noiosi alle feste – quelli che hanno bisogno di circa dieci anni del vostro tempo per spiegarvi quanto siano incredibilmente affascinanti. Queste donne bianche sono state nella trincea femminista per anni, e alla stregua di vostro nonno, oramai disilluso, hanno visto tutto. Capiscono l’oppressione di tutte le donne, chiaro?
Tranne che non è così. L’intersecarsi delle diverse forme di oppressione significa che le donne queer, razzializzate, disabili o trans sperimenteranno la misoginia in modi molto diversi (e spesso più letali) di quanto le donne bianche facciano. Affermare che, in quanto donna, comprendi perfettamente tutti i diversi modi attraverso i quali le donne sono emarginate non solo è terribilmente inesatto, è anche chiaramente ignorante. Solo perché non disponete del privilegio maschile non vuol dire che non siate orgogliose portatrici di tutta una serie di altri tipi di privilegio. E che vi piaccia o no, queste varie forme di privilegio determinano come le altre persone ti trattano. Le donne bianche non sono le uniche depositarie della donnità, e non devono spiegarla alle donne di colore. Fine della storia.

2. Lamentarsi di come siamo tutte nella stessa squadra

Altrimenti detto: «Perché sei così cattiva con me?»
Le femministe bianche hanno solitamente questa fantasia nella quale affrontiamo questa belva schiavista e gigantesca chiamata Il Patriarcato, e poi una volta portato a termine questo compito, tutto sarà magico e i problemi del mondo saranno risolti. Spiegano in maniera vaga che distruggendo il Patriarcato finirà anche il razzismo, la transfobia, l’omofobia e praticamente tutti gli altri soprusi sociali, ma non sembrano avere una idea chiara di come esattamente questo avverrà. Ma succederà! Lo dice la scienza.
Queste femministe sceglieranno cause specifiche da sostenere – spesso quelle delle quali beneficiano maggiormente donne etero, bianche, cisgender – ed esiteranno, se qualcuno le metterà in discussione sul perché ignorino altri tipi di marginalizzazione che hanno un impatto maggiore, ad esempio, sulle donne di colore o transessuali. Ma siamo tutte nella stessa squadra, twitteranno freneticamente. Pensavo fossi dalla mia parte. Siamo tutte donne, no? Il sottotesto è: devi aiutarmi ora con le cose che mi danneggiano direttamente, e poi forse un giorno ti aiuterò. Non sembrano mai chiedersi perché sono sempre loro che decidono i confini tra “le parti”, o perché sono sempre loro a decidere chi è in che squadra.

3. Disquisire di Hijabs (o burqa, o dell’aborto selettivo, o qualsiasi altra cosa, in realtà)

Davvero: Voglio solo vedere tutte le femministe bianche farsi da parte quando si parla di hijab. E’ incredibile come queste donne parlino di libera scelta quando si tratta di gravidanza, ma poi diano di matto quando una donna decide di coprirsi i capelli.
Sentite, ho capito. Pensate che queste donne siano oppresse, anche quando molto gentilmente e pazientemente vi spiegano che non lo sono. Ma voi lo sapete meglio di loro, giusto? Perché vi siete liberate dall’oppressione di … qualcosa? Pensate che la loro cultura o religione le stia costringendo a fare qualcosa che in realtà non vogliono, e se la pensano in modo diverso, beh, è solo la loro misoginia interiorizzata a parlare. Donne bianche: non siete davvero più illuminate di chiunque altr*. Smettetela di parlare. Andate a dormire.
Inoltre, spiegatemi esattamente come, dire ad una donna che non dovrebbe indossare uno specifico articolo di abbigliamento sia “autodeterminazione”. Mi pare che limitare le scelte delle donne sia l’opposto del femminismo.

4. Essere convinte che tutte le sex worker siano disgraziate infelici che odiano le proprie vite

Questo non è in realtà specifico delle donne bianche, ma lo includerò perché ho visto un sacco di femministe bianche tirare fuori questa merda, che francamente è spazzatura.
Cioè, questo è letteralmente quello che state dicendo: “Credo che le donne abbiano capacità di decidere per sé stesse e siano in grado di prendere decisioni sulle loro vite, tranne quando si tratta di lavoro sessuale, a quel punto devo supporre che o qualcun* le stia sfruttando o che siano traditrici di genere autolesioniste, a cui importa solamente dello sguardo maschile.”
Dunque, solo per essere chiare, pensate che le donne siano in grado di fare delle scelte, tranne quando si tratta di una scelta con la quale siete in disaccordo, a quel punto siete decisamente sicure che si tratti di coercizione. Siete anche convinte che le sex worker debbano essere “salvate”, anche se sono contente di quello che fanno. Preferireste vedere le donne messe ulteriormente ai margini da leggi anti-prostituzione, piuttosto che trovare il modo di provvedere alla sicurezza delle sex worker. Anche in questo caso, mi spiegate in che modo questo si configuri come un atteggiamento pro-donna?

5. Sostenere che tutte le altre forme di oppressione sono finite e che abbiamo bisogno di concentrarci sulle donne

ARQUETTE TI STO GUARDANDO.
Sentite, so che il suo discorso in occasione degli Oscar è stato criticato e analizzato a morte, perciò non mi dilungherò troppo su questo punto, ma – che diamine, dai! Prima di tutto, affermare che abbiamo bisogno che “tutte le persone omosessuali e le persone di colore per le quali tutte abbiamo lottato, combattano per noi ora” insinua in qualche modo che nessuna di quelle persone omosessuali o di colore fosse donna, no? In secondo luogo, davvero, leggi un libro o informati in altro modo, perché il razzismo e l’omofobia e la transfobia sono tutt’altro che finiti. Terzo, sei una donna bianca che ha beneficiato di un enorme privilegio nel corso della sua intera vita. Non puoi dire agli altri gruppi marginalizzati cosa fare.
So che le sue osservazioni erano ben intenzionate. Lo capisco. Ma proprio questo costituisce gran parte del problema – le femministe bianche lanciano merdate di questo tipo a casaccio, quindi si sentono offese quando vengono criticate, e si ritorna direttamente al punto 2 di questa lista. Trattenete il vostro privilegio per un interminabile secondo, e smettetela di blaterare su come tutt* siano cattiv* quando vi fanno notare le vostre cazzate.
Femministe bianche: questo è un invito a piantarla con le stronzate. Il senso dell’uguaglianza non è quello di arrivare in cima con le unghie e coi denti, in modo da poter trattare le altre persone tanto male quanto hanno trattato voi dei tizi bianchi – abbiamo bisogno di sostenerci l’un l’altr*, amplificare le rispettive voci, e magari lasciare che qualcun’altr* ci dica se ci è permesso di stare nella loro squadra. Perché, come dice Flavia Dzodan, se il femminismo non è intersezionale, allora mi dispiace, ma è una stronzata totale.

* Con “femminismo bianco” intendo una certa tipologia di donne bianche etero, cisgender e normodotate, convinte che il loro “femminismo” sia migliore e più “autentico” di quello di chiunque altr*

Pramada Menon: Perché la famiglia occupa così tanto i nostri pensieri?

Pramada-Menon

 

Famiglia o famiglie? 

Abbiamo deciso di tradurre questa intervista a Pramada Menon (attivista queer e femminista che si occupa di giustizia sociale, genere, sessualità e diritti umani) perché va a toccare uno dei topoi tabù che attraversano in maniera universale l’esperienza umana, ovvero quello della famiglia. Il concetto di famiglia, propagandato come univoco e immutabile, conosce invece al momento attuale svariate declinazioni che ne dilatano il senso, ne ridisegnano i confini e spesso li abbattono nelle pratiche – anche quando queste ultime si trovano a scontrarsi con le resistenze sempre più ostinate di un’ideologia che fa della “Famiglia” un motore immobile attorno al quale orbitano tutte le limitazioni e oppressioni con le quali si cerca di soffocare qualsiasi alternativa al sistema integrato di irreggimentazione (ben esemplificato nel trittico dio-patria e, appunto, famiglia) dal quale tentiamo di liberarci.
Consapevoli che partire dal personale è sempre difficile e problematico, e che nonostante ciò la nostra politica non può farne a meno, proponiamo questo dialogo capace di evidenziare l’attuale movimento dall’idea unica di Famiglia ai tentativi – dalle alterne fortune ma sempre anticipatori di nuovi orizzonti umani – di sperimentare nuovi modi di essere ‘famiglie’, di ‘fare famiglia’ al di là dei vincoli apparentemente imposti dal sangue.

PRAMADA MENON: PERCHE’ LA FAMIGLIA OCCUPA COSI’ TANTO I NOSTRI PENSIERI?
Traduzione di feminoska

Pramada Menon è un’attivista femminista e queer che analizza tutte le questioni che ritiene più complesse. Quando non è impegnata a riflettere e procrastinare, lavora come consulente sulle questioni di genere e sessualità e sui diritti delle donne, e saltuariamente si esibisce in Fat, Feminist and Free, una performance a ruota libera su immagine corporea, sessualità ed esistenza.

Radhika Chandiramani: ‘La Famiglia’. Che ne pensi, Pramada?
Pramada Menon: Perché la famiglia occupa così tanto i nostri pensieri? Perché cerchiamo ossessivamente la comprensione e il supporto dei membri della famiglia, e vogliamo che conoscano ogni nostro pensiero? Forse è perché ci insegnano che queste famiglie biologiche sono noi e noi siamo loro? Cosa succederebbe se non sapessimo nemmeno chi sono i nostri genitori, le nostre zie e i nostri zii, i nostri fratelli e sorelle – proveremmo lo stesso un profondo attaccamento per loro, e cercheremmo ancora la loro approvazione? Me lo domando perché quasi sempre ci viene chiesto di mettere la famiglia prima di ogni altra cosa e la nozione di famiglia è chiaramente definita come quella biologica – una madre naturale, un padre la cui paternità non è mai in discussione, e fratelli e sorelle concepiti da questi genitori. Recentemente questa nozione di famiglia biologica ha lentamente cominciato a cambiare per via della pratiche dell’adozione, della tecnologia riproduttiva e della maternità surrogata. Ma resta centrale l’idea di un nucleo familiare guidato da ‘istinti’ materni o paterni. Una famiglia protettiva, attenta, amorevole e solidale, ma anche punitiva se e quando contestata o tradita.

RC: Consideri la famiglia un’alleata o un’istituzione in opposizione alla libertà sessuale personale?
PM: Le norme e i regolamenti della maggior parte delle nostre famiglie originano dal mondo in cui viviamo, dai costumi dei gruppi o della comunità di provenienza, l’apprendimento dei quali può aver spinto molti di noi a sfidare i codici che ci sono stati tramandati. E le trasgressioni all’interno della famiglia accadono per via delle differenze tra le persone che ne sono parte e delle diverse concezioni del mondo intorno a noi, e delle differenti modalità di interazione con ciò che ci circonda. E’ la famiglia che fornisce ai propri membri una serie di regole da rispettare, riguardo ai corpi e all’espressione della propria sessualità. Queste regole sono codificate, perlomeno nelle teste dei patriarchi della famiglia, e rompere completamente con queste norme non è un compito facile. Le regole di per sé sono molto semplici e si conformano a ciò che la società/cultura dispensa a chiunque: il matrimonio socialmente approvato da consumarsi all’interno della casta/ceto religioso o sociale di appartenenza, preferibilmente combinato; la gravidanza deve seguire il matrimonio; nessuna sperimentazione sessuale durante l’infanzia o la giovinezza; nessun fidanzato/a e ovviamente nessuna relazione romantica o sessuale con una persona dello stesso sesso. Questa è solo una serie di regole. Tutte le altre vengono poco prima o dopo – gli abiti che si possono indossare, dove si può andare, che cosa si può fare in pubblico, gli orari nei quali si può uscire di casa, ecc. Queste regole sono restrittive e sfidarle o trasgredirle risulta quasi sempre nella perdita della propria identità, e in casi estremi, della vita. Se una persona è in qualche modo disabile poi, le regole sono molto più rigorose e controllanti. E, naturalmente, questo discorso ignora quasi sempre il tema del consenso della persona all’interno della famiglia. La sessualità è complicata… tanto più che le nostre decisioni al riguardo sono decisioni individuali. Queste decisioni sono guidate dalla nostra comprensione di ciò che è accettabile per noi e ciò che non lo è, e sono influenzate dagli spazi che occupiamo nella comunità, dalla nostra educazione e dai valori coi quali siamo cresciut* da giovani. Gran parte di tutto ciò cambia anche con il tempo a causa delle interazioni con le persone intorno a noi, i film che vediamo, i libri che leggiamo, le immagini a cui siamo esposti e le storie delle quali facciamo parte. Quello che trovo interessante è come tante delle nostre idee riguardanti la sessualità siano influenzate dalle informazioni che abbiamo ricevuto nella nostra infanzia, e perlopiù l’influenza principale in quel momento è quella della famiglia. La famiglia interpreta ciò che è consentito o meno nelle modalità che meglio si adattano alla stabilità dell’istituzione della famiglia. Non cerca consapevolmente di limitare la libertà dei membri della famiglia, ma solamente di mantenere in vita e ‘pura’ l’istituzione sociale. Con ‘pura’ intendo dire che le famiglie non vogliono in alcun modo esporsi ad un mondo che le critica o le fa sentire carenti in qualcosa. Da ciò deriva tutto il monitoraggio delle attività, comportamenti, pensieri e azioni.

RC: Esistono anche regole riguardo al tacere di alcune cose…
PM: La famiglia considera la sessualità una minaccia, soprattutto quando espressa da giovani al di fuori dei confini delle modalità socialmente accettabili. Eppure la questione degli abusi non è quasi mai sollevata all’interno della famiglia, dal momento che l’autore è quasi sempre qualcuno che la famiglia conosce. I casi di abuso di ragazzi e ragazze rimangono tabù e non se ne può parlare, e la persona responsabile dell’atto non consensuale, molto spesso, continua ad avere accesso al membro della famiglia che ha subito violenza. Non credo che il silenzio sugli abusi abbia a che fare con l’incredulità rispetto al racconto della vittima, ma molto più a che fare con la vergogna e una certa riluttanza a rendere pubblica la storia per paura che la colpa ricada sulle vittime.
Molte famiglie hanno anche un ‘posto segreto’ in casa in cui nascondere tutte le storie percepite come ‘devianti’ rispetto alla norma. Quelle storie pacificamente note ma al tempo stesso celate del figlio gay, la figlia lesbica, lo zio bisessuale, il cugino ‘femminile’ nel proprio comportamento, il cugino che si è sposato al di fuori della comunità, la nonna che lasciò il suo primo marito, la zia ‘zitellona’, il parente che ‘gioca’ con i bambini – la lista è infinita. Queste storie sono magari note a livello privato, ma viene fatto ogni sforzo per nasconderle ad ogni costo nella storia di famiglia.

RC: Pensi che la tua idea di famiglia sia cambiata nel corso del tempo?
PM: Con l’età, si comprende meglio la censura della propria famiglia sulle questioni relative alla sessualità. Parte di ciò ha a che fare con il fatto che le nostre interazioni con la società, le persone e le istituzioni che ci circondano ci spingono a riconsiderare i modi nei quali definiamo noi stess* in quanto esseri sessuali. D’altra parte, molt* di noi hanno rielaborato la propria idea di famiglia, alterandone i caratteri e comprendendo al suo interno persone che in genere non sono percepite come membri della famiglia.

RC: Al giorno d’oggi, né il matrimonio né la procreazione sono essenziali e, inoltre, non devono necessariamente essere inscindibili. Può esistere una famiglia che non sia fondata sul sesso? Una famiglia amicale?
PM: Oggi viviamo in un mondo nel quale strutture familiari ‘altre’ vengono create ogni giorno. Sono finiti i giorni dei bambini nati biologicamente, dei matrimoni esclusivamente pilotati dall’approvazione dei genitori, delle famiglie costruite sulla premessa del matrimonio. Ciò che è cambiato è il modo in cui la gente vuole interagire con le persone intorno a sé, gli intimi, coloro con le/i quali condividono una visione comune del mondo e che sono dispost* a spingere e sfidare presunte norme sociali e culturali. Questo ha portato a nuove relazioni e nuove forme di interazione. Persone dalle preferenze sessuali e identità di genere differenti convivono in relazioni intime e sessuali senza che alcun riconoscimento legale venga ricercato (e in alcuni casi, cercato e ottenuto). Relazioni d’amicizia nell’ambito delle quali creare il proprio gruppo di sostegno sulla base dell’ amore, della cura e della condivisione delle responsabilità. Queste famiglie destabilizzano il concetto convenzionale di ‘famiglia’. Allontanandosi dalla nozione tradizionale, queste forme di interazione ci costringono a riconsiderare ciò che intendiamo come famiglia, chi escludiamo e chi includiamo al suo interno. Sfidano inoltre tutte le norme conosciute di ‘purezza’ e le rendono irrilevanti perché queste famiglie sono create sulla base di amore e comprensione, piuttosto che sulle norme sociali di classe, casta, religione ecc.

RC: Qual è la tua idea di ‘famiglia’?
PM: La mia idea di famiglia si è sempre estesa ben oltre la famiglia biologicamente determinata. Inoltre non ho mai cercato l’approvazione dalla famiglia perché per quanto mi riguarda, i valori che mi hanno instillato mentre crescevo erano proprio ciò che mi ha aiutato a mettere in discussione tutte le nozioni esistenti di giusto e sbagliato secondo le norme socialmente e culturalmente stabilite. I miei genitori sono cresciuti insieme a me, perché sono stati da me costantemente messi in discussione su tutte le questioni relative alla sessualità, e a loro volta, poiché mi amavano, si sono permessi di imparare. Ho combattuto ma anche imparato quando fare marcia indietro. Famiglia per me ha sempre significato i miei genitori, i miei fratelli e sorelle e le amicizie che sono presenti con il loro amore, sostegno e cura per me come io faccio per loro.
Nel mondo di oggi, tutti noi abbiamo bisogno di riconsiderare quello che  intendiamo con il termine famiglia. Si tratta di una nuova era, un’era tecnologica. Si possono avere delle/i figli*, senza mai avere un rapporto. Si ha più bisogno di un laboratorio e di una capsula di Petri, piuttosto che del sesso! C’è stato un tempo in cui l’amore era per sempre e finché morte non ci separi, ora ci si separa per molti motivi e pochissimi hanno a che fare con la morte. Le nostre idee in merito all’intimità sono cambiate con l’uso di Internet, le nostre idee sull’amore sono cambiate, nel mondo di oggi sorelle/fratelli sono adottat* o sono le nostre amicizie, i genitori possono essere un uomo e una donna, un uomo e un uomo, una donna e una donna, due uomini e una donna, e così via – perché dunque facciamo difficoltà a riconsiderare le nostre idee sulla famiglia? Forse se ci lasciassimo la possibilità di immaginare, potremmo sognare diverse mutazioni e combinazioni per creare la nostra famiglia, e poi forse impareremmo a guardare con soddisfazione a quella biologica, e a cercare comunque il sostegno, la cura e la comprensione di quella non biologica. Questo per me rappresenterebbe una nuova era!

La liberazione sarà animale (o non sarà!)

47509366_1250276672_handandpaw2grey

A tutt* quell* che oggi festeggiano la liberazione dal nazifascismo,  a tutt* quell* che lottano contro i regimi, le dittature, le gabbie, le catene, a tutt* quell* che si sentono schierat* contro il potere che mastica e maciulla vite, a tutt* quell* che stimo immensamente senza se e senza ma, per mettere i propri corpi e le proprie vite in gioco ogni giorno, nelle azioni, nelle scelte, nelle pratiche piccole e grandi di sovversione dell’ordine costituito: a tutt* voi, che non avete scelto la via più facile o più comoda in tanti aspetti delle vostre esistenze, voglio fare un augurio che suona anche come un’esortazione a non lasciare incompiuto il vostro sforzo: perché l’unica liberazione sarà animale, o non sarà affatto.

Fino a quando ci saranno gabbie ci saranno animali prigionieri, e quegli animali non saranno mai “solo” non umani: le gabbie sono gabbie, e gli umani troppo animali per non finirci dentro. E anche fossero davvero un giorno “solo” animali (non umani) ad esservi rinchiusi, potremmo davvero pensare di aver sconfitto il sopruso, la violenza, la sopraffazione? Davvero sentirci divers* da chi, per indifferenza o autentico odio, rinchiude, tortura e uccide i propri simili? Potremmo mai, in un mondo che continuasse a rinchiudere, torturare e macellare miliardi di non umani, sentire di aver “sconfitto il sistema”? Davvero in tutta coscienza potremmo illuderci, in un mondo ancora pieno di catene, coltelli, sangue e grida, di aver sconfitto quel paradigma del privilegio contro il quale ci scagliamo con tanta risolutezza?

Forse che gli animali non umani non possiedono come noi corpi, affetti, sensazioni, emozioni? Forse che la differenza che tanto osanniamo in quanto “ricchezza” vale solo per quegli animali che siamo? E le altre differenze dunque, per il solo fatto di non essere intelligibili alla nostra limitata esperienza, sono nulla, zero, ininfluenti?

Io credo che la sofferenza animale, quella umana che riconosciamo e quella non umana che derubrichiamo, sia esattamente la medesima, poiché animali siamo e animali resteremo, anche se tanto ci è piaciuto immaginare divinità ultraterrene di cui essere “figli* predilett*”.

Ma noi non nasciamo da divinità distanti, bensì da corpi urlanti e sanguinanti, perché i nostri corpi sanguinano e si lacerano come i loro, e i nostri corpi animali galleggiano sul mare dell’orrore.

Ed è sempre quello il compito più arduo di tutti, con il quale mai possiamo smettere di confrontarci:  dire “basta!” al fascista che ci portiamo dentro, che concepisce la libertà come il privilegio del sopruso sull’altr* – l’altro differente e perciò svalutabile, disprezzabile, smontabile –   e non come libertà di vivere e lasciar vivere, nelle proprie peculiarità, nelle proprie gioie e nei propri affanni, nella propria personalissima ricerca della felicità.

A tutt* i non umani che oggi saranno sacrificati per festeggiare l’altrui liberazione, va il mio pensiero e la tristezza che sento nel cuore: continuerò a combattere perché arrivi presto anche per voi l’agognata liberazione, perché finché voi non sarete liber*, non lo saremo davvero nemmeno noi.

 

 

Distruggendo l’Arca

wallpaper-1111535

Cannibali, necrofili, deamicisiani e astuti,
e si direbbe proprio compiaciuti!
Voi vi buttate sul disastro umano
col gusto della lacrima in primo piano!

Giorgio Gaber, Io se fossi Dio

Mi è difficile scrivere qualcosa dopo aver visto quei corpi galleggiare. Ancora più difficile dopo aver assistito allo scaricabarile dei politicanti sugli scafisti, comodi capri espiatori di responsabilità politiche da togliere per sempre il sonno, nonché alle aberranti dichiarazioni di quella fetta di popolino incline all’adozione di slogan d’odio, che non vede per nulla in conflitto con la contemporanea dichiarazione di fede, religiosa o laica poco importa, intrisa d’amore per l’Uomo, quello con la U maiuscola.

E’ proprio questo mondo umano, troppo umano, che pone le condizioni per le infinite tragedie di cui siamo, nostro malgrado, complici e testimoni. L’antropocentrismo è ciò che ci condanna inesorabilmente, umani e non, a questa eterna lotta per la dignità di esistere. Se l’Uomo è misura di tutte le cose, qual è questo “Uomo” che ha diritto di esistenza, di desiderio, di consolazione, di lutto?
Se possiamo uccidere il Capro, se esiste qualcuno che si può privare di ogni cosa, degli affetti, della libertà, della stessa vita, chi ci può ragionevolmente assicurare che non si tratti di chiunque, umano o non umano, uomo o donna, bianco o non bianco… La logica dell’eccezionalità umana spiana la strada alla banalità del male.

E’ un aspetto che appare evidente ogni qual volta accade una tragedia di queste proporzioni, e sul quale è fondamentale aprire una riflessione che sia seria, e onesta: davvero ha senso appellarsi all’umanità di chi non c’è più, per avere la speranza di salvare chi sicuramente verrà dopo, sugli stessi barconi, a reclamare il proprio diritto alla vita?

“L’indifferenza riduce l’Altro a un’astrazione… in un certo senso, essere indifferente alla sofferenza rende l’essere umano inumano” sosteneva Elie Wiesel. Un’affermazione rivelatrice, suo malgrado, poiché la grande verità che porta in sé è celata in un fraintendimento di fondo del suo senso profondo. Che non è, come potrebbe apparire ad una lettura superficiale, la necessità della presa di coscienza del valore intrinseco dell’ “umanità” ma il suo esatto opposto, ovvero: fino a quando sarà consentito uccidere un capro e si potranno “stipare bestie nella stiva”, fintantoché esisterà un Uomo misura di tutte le cose e si potrà essere indifferenti alla sofferenza tout court – ogni qual volta si eviti, consapevolmente o meno, di identificarsi con chi quella sofferenza la vive (ovvero quando non è quella provata dall’Essere Umano certificato con la U maiuscola…) – fino a quel dannato giorno, nessun essere senziente, che sia uomo o donna o cagna o vacca o altra favolosità, potrà essere al sicuro dal rischio di diventare numero spendibile, sacrificabile sull’altare delle “necessità Umane”, o peggio delle sue casualità.

Quei corpi dunque, quei corpi che galleggiano sul mare, sono lì dove sono anche grazie a noi. A noi, ogni volta che invochiamo l’umanità come ‘conditio sine qua non’ della dignità di esistere. A noi, e alla nostra perenne infatuazione per l’uomo vitruviano. A noi, che abbiamo paura di chiunque superi i confini di genere, classe, specie, e non solo quelli nazionali.

Svestire i panni di quell’Uomo “simile a un dio” indifferente e irraggiungibile, riscoprirsi capaci di com-patire la sofferenza altrui, piangere la morte di una lucertola sul ciglio di una strada e non trovare le parole per l’ennesimo naufragio del sogno di un mondo diverso in cui vivere. Decostruire la favola orrenda che ci hanno cucito addosso, e ricostruirci esseri chimerici e contaminabili.

Soprattutto, lasciar vivere: abbandonare l’indifferenza che uccide e smetterla di ragionare sulle dimensioni dell’arca, sempre troppo piccola di fronte ad un eterno diluvio universale.

Chi ha paura dell’asterisco?

asterisco

Non raramente capita, negli ultimi tempi, di sentire messa in discussione l’opportunità e l’importanza dell’uso dell’asterisco o dell’@, al posto delle declinazioni di genere nella scrittura; abbiamo così deciso di esplicitare i motivi per i quali noi,  invece, ne promuoviamo e incoraggiamo l’uso. 

***

“Incatenare le sillabe e frustare il vento sono entrambi peccati d’orgoglio”,  dalla prefazione al Dizionario di S. Johnson, 1755.

Cos’è un asterisco? Una stella che luccica in fondo ad una parola, il piccolo scoppio che segue una detonazione di vocali, un’anomalia agrammaticale che punta le sue piccole dita all’omissione consapevole di tutt* coloro che non sono compres* nell’ideologico “neutro universale”, ovvero il privilegio del maschile.

Un asterisco moltiplica le possibilità, invece di frazionarle come fa una barretta (i/e) – esplicita la variabile alla norma duale, sottolinea l’obbligatorietà di fermarsi a riflettere: perché salutando un gruppo di donne in cui è presente un solo uomo, si dice “ciao a tutti”   – e questo è ‘normale’ – ma se si dice allo stesso gruppo “ciao a tutte” l’uomo in questione terrà a rimarcare la sua estraneità alla desinenza femminile? E che dire di tutte le favolosità che non sentono di rientrare nelle i e nelle e? O di rientrare in entrambe? L’asterisco non fa distinzioni, abbraccia tutt* con lo stesso entusiasmo, e da tutt* può essere abbracciato!

Un asterisco non è leggibile, obiettano poi molt*, e allora che si fa? Già, che si fa? E perché mai l’asterisco dovrebbe essere la soluzione al problema? L’asterisco evidenzia il problema, e nella forma scritta è inclusivo di qualsivoglia soggettività, perciò dal canto suo ha già fatto tanto sporco lavoro.  E quando poi ci si trova a doverlo pronunciare, ci si sente spiazzat*: si comincia a farfugliare, a mescolare maschile e femminile, ad evitare le desinenze.

Ben venga il turbamento causato dall’asterisco, e fintantoché non si palesi anche nella lingua parlata una svolta davvero antisessista, ogni regola vale: i maschili universali allora saranno affiancati ai femminili universali senza che nessun* debba risentirsi! Potremo decidere di usare la -u, che non ha connotazioni di genere (fa strano dire “Ciao a tuttu?” Solo perchè nessunu ci è abituatu!), di passare fluidamente da un genere all’altro senza considerarlo un errore grammaticale.

La lingua è plastica per definizione, è uno strumento di descrizione della realtà e in sé non ha forma perché la sua forma è dettata dalla sua sostanza in perenne evoluzione; e proprio per questo il mutamento linguistico non è questione di poco conto, poiché la lingua dialoga con la realtà: ciò che non può essere nominato, non esiste, e il successo di una lingua o di determinate forme linguistiche hanno tutto a che vedere con il potere di chi la parla. A questo punto occorre domandarsi: chi esiste e chi non esiste nell’italiano con la I maiuscola? Chi detiene il potere prescrittivo, regolamentare e sanzionatorio delle desinenze?

La lingua deve fare gli interessi di coloro che la parlano,  e chi la parla è una vasta gamma di soggettività che hanno tutte egualmente diritto ad esistere, nel mondo come nelle sue parole;  non certo gli interessi culturali e politici di chi per malcelato conservatorismo, di destra o di sinistra, vorrebbe proteggere e coccolare l’idea, estremamente elitaria, di una lingua italiana ufficiale e perfetta elevata a divinità – etichettando di conseguenza qualsiasi sua variante meticcia e plebea  come peggiore dei mali possibili.

Il concetto di prescrittivismo grammaticale è innatamente reazionario, visto che predica il ritorno a uno ‘stato precedente’ di presunta correttezza grammaticale universale di fronte al trasformarsi (o, secondo la prospettiva dei suoi sostenitori, all’imbastardirsi) di una lingua. Riesce difficile pensare come chiunque si posizioni genuinamente contro lo stato di cose presenti possa voler sostenere una visione simile, senza contare che – non esistendo un modo oggettivo di stabilire cosa suoni bene e cosa no – le critiche, quand’anche presentate come puramente fonetiche, sono critiche politiche. Se una lingua è allora riformata sempre in senso ideologico, che sia l’ideologia di chi costruisce la libertà, non quella di chi la nega.

L’asterisco è una modifica grammaticale accettabile e coerente nel paradigma corrente di approccio normativo al linguaggio? Probabilmente no. Il problema è proprio questo, non l’uso atipico della punteggiatura e men che meno altre proposte di riforma linguistica in direzione antisessista. A chi è più cruschista della Crusca, la quale circa l’utilizzo di forme linguistiche più aperte e rispettose dei passi in avanti li sta compiendo, non rimane che accaparrarsi la tessera di Forza Nuova.

frantic & feminoska

* l’immagine usata nell’articolo (addizionata di immancabile asterisco) è di Araki, Tokyo Lucky Hole.

Negli occhi delle madri

0809220357181img_0275

Non sono madre, non lo sono mai stata e mai lo sarò letteralmente: e dunque questo dovrebbe togliermi la parola? L’amore e la compassione sono forse caratteristiche esclusive del mio utero messo a servizio del lavoro riproduttivo?

Vuoi sapere come mi sento a fissare gli occhi degli agnelli a Pasqua?
E non solo i loro, e non solo a Pasqua. Eppure è vero, in questo periodo dell’anno l’orrore mi si fa più intollerabile, perchè è primavera, ed in primavera tutto rinasce, tutto risorge, tranne dio, quello no: rinasce l’erba, e i fiori, e i canti degli uccelli indaffarati a costruire nidi, risorge il sole dal sonno invernale e la nostra voglia di mondo – sopita dal freddo che ci costringeva chius@ in casa in inverno. Condividiamo con qualsiasi altro essere vivente la gioia del sole caldo sulla nostra pelle. Dell’aria pungente al mattino e del tepore di mezzogiorno.

Vorrei scrivere un articolo politico, ma in questi giorni è il cuore che prende il sopravvento, e l’orrore che mi perseguita mi toglie il sonno e la lucidità necessaria. E allora prendo di pancia una decisione, scrivere di getto, con i brividi addosso, scrivere a partire dal mio corpo di animale, il mio corpo attraversato dal dolore di quelle madri, dalla paura di quei figli@. Scrivere di milioni di gole tagliate per i nostri festeggiamenti, di migliaia di sguardi di cuccioli terrorizzati e di madri circondate dal silenzio, in attesa di un ritorno che mai avverrà, più realisticamente del prossimo stupro, del prossimo parto, del prossimo strappo.

Ma io non ho mai voluto essere madre, e quindi mi mancano quelle qualità che mi rendono un’interlocutrice credibile. Il mio corpo non ha registrato ogni piccolo cambiamento della gravidanza, perciò cosa ne posso capire io? Rispondo: con che coraggio essere madre radiosa quando si è circondate di tante madri a cui i figli sono stati rapiti e uccisi? Con che coraggio rubare il latte, i corpi e le vite ad altri madri, ad altri cuccioli per nutrirsene? E come Antigone, conosco la pietà che va contro la legge.

Non sarò madre perchè non lo desidero, ma anche perchè mi vergognerei ad esserlo. Perchè quando vedo una madre umana fissare negli occhi il proprio figlio in estasi, sento i muggiti disperati delle mucche separate dai vitelli, lo sguardo triste delle scrofe nelle gabbie gestazionali e vedo le pecore inseguire il pastore che ruba loro l’agnello. Lo sguardo dell’inerme mi fissa, e a quello sguardo io devo una risposta. Una risposta che scrivo nella mia carne, nella mia mente, nel mio cuore, nella mia politica. E nella mia politica di femminista soprattutto, a cui non serve sentire il proprio ventre gonfiarsi per comprendere il dolore delle madri.

E non voglio nè posso distogliere lo sguardo; i miei occhi sono saldi in quelli degli altri animali, la cui fine violenta è tenuta ben nascosta per limitare al minimo indispensabile l’occasione di farci vergognare, codard@ che non siamo altro; e le mie orecchie percepiscono, in lontananza ma chiaramente, le loro voci inascoltate e i loro lamenti soffocati dalla violenza rumorosa e indifferente delle macchine del mattatoio; ferraglia sporca di sangue azionata da altre macchine, umane, che hanno perso ogni empatia, ogni compassione. Perché per ogni boccone di carne ingurgitato, c’è un essere umano spogliato di qualsivoglia (retorica e inesistente) ‘umanità’, che meccanicamente taglia una gola, poi un’altra, poi un’altra, con le mani sporche del sangue di migliaia.

E in questi giorni, mentre si fanno gli scongiuri augurandosi che il meteo sia clemente, mentre vengono preparate le tovaglie e le coperte per stendersi sui prati e felicemente, gioiosamente festeggiare la bella stagione, quanti avvertono il silenzio che ci circonda, il silenzio delle madri?

Quel silenzio io lo sento nel mio cuore, il silenzio del dolore del più debole che soccombe al capriccio del più forte, anche quando quest’ultim@ lascia che siano altr@ a sporcarsi le mani. E gli occhi delle madri mi guardano, mi interrogano, mi chiedono di rispondere a una domanda implacabile… perché, potendo scegliere la compassione, scegliamo sempre la violenza brutale?

Perché possiamo? Non è una risposta che possa bastare.

Così cerco di dare voce allo strazio di quelle madri di figli@ desaparecidi, immolat@ per il piacere di fauci mai sazie. E decido di condividere il loro dolore in tutto e per tutto, diventando incapace di festeggiare, io che amo la primavera sopra ogni cosa. E ascolto quel silenzio, il silenzio del lutto. Il silenzio che segue alle grida del mattatoio.

Aprile è il mese più crudele.

Smettetela di chiamarla vagina!

stop-calling-it-a-vagina-body-image-1426189037
Articolo originale qui, traduzione di feminoska, revisione di jinny dalloway… buona lettura!

L’altro giorno ero ad un corso universitario su Genere, Queer, eccetera eccetera, e il giovane professore ha detto: ” Il pene e i … [pausa di precauzione] genitali femminili “. Un mio compagno di classe ha subito replicato: “Hanno un nome”, ma non ha avuto il coraggio di dirlo. Più tardi, nel corso di una conversazione privata, il mio professore, che ha un dottorato di ricerca e tiene diversi insegnamenti su femminismo e sessualità, ha fatto ciò che fa la maggior parte della gente. Ha usato il termine improprio “vagina” invece di “vulva”. Ma una vagina non fa una vulva.

L’ apertura vaginale è solo una parte della vulva. La vulva costituisce tutto ciò che si vede all’esterno: la parte visibile della clitoride (che è solo la punta dell’iceberg clitoride, la parte più grande della clitoride si trova all’interno del corpo), le labbra (piccole e grandi), l’apertura uretrale (per la minzione o l’eiaculazione) e il punto di ingresso/uscita della vagina.
Il termine “vagina” viene usato così spesso in modo scorretto che non deve sorprendere che il mio coltissimo professore abbia usato il termine sbagliato. Anche testi e opere d’arte femministe, come I monologhi della vagina e Il grande muro della Vagina, cadono nella stessa trappola. Praticamente ogni volta che leggi/senti “vagina” nei media, viene usato in maniera errata al posto di vulva.

L’anatomia sessuale femminile, considerata un dato di fatto naturale, è in realtà socialmente costruita. Alcuni studi hanno dimostrato come la clitoride sia entrata e uscita dall’anatomia medica nel corso della storia occidentale. Le illustrazioni dell’anatomista danese Casper Bartholin degli “organi della lussuria” femminili nel 17° secolo mostravano il tessuto erettile della clitoride e delle crura in modo simile a come sono rappresentate oggi. Negli anni ’40 dell’Ottocento, l’anatomista tedesco Georg Ludwig Kobelt disegnò un ingrandimento della radice della clitoride simile a un pene, come la si conosce oggi. Nell’edizione del 1901 dell’Anatomia di Gray, la clitoride viene classificata e figura con una certa prominenza. Poi, nell’edizione del 1948: PUF! La clitoride scompare sia come organo classificato che nell’illustrazione. L’organo primario di eccitazione sessuale e orgasmo delle donne è stato eliminato dal testo principe dell’anatomia umana. Poiché la clitoride e l’orgasmo femminile non sono necessari per la riproduzione, sono stati ampiamente ignorati dalla scienza, in netto contrasto con quanto avvenuto col pene.

Quando diciamo ‘vagina’, stiamo ignorando collettivamente l’aspetto visibile dell’anatomia femminile, la clitoride e le labbra, attraverso il linguaggio. La vagina è il modo attraverso il quale i ragazzi che fanno sesso con le ragazze vengono. Dalla pubblicazione, nel 1953, di quella pietra miliare che è il libro di Kinsey dal titolo Il comportamento sessuale della femmina umana, sappiamo che la maggior parte delle donne ha bisogno della stimolazione diretta della clitoride (con la mano, la bocca o attraverso l’uso di altri oggetti) per avere un orgasmo. Eppure, quante volte vediamo ancora, nei film o alla televisione, la rappresentazione dell’orgasmo di una donna come risultato della sola penetrazione di un cazzo? Che noi chiamiamo i genitali femminili “vagina” la dice lunga sulle politiche del sesso. “Vagina” focalizza l’attenzione sul piacere maschile etero.

La dott.ssa Mithu Sanyal, autrice di ‘VULVA – una storia culturale della vulva’, è convinta che le idee sul corpo siano imposte attraverso le parole. “Il linguaggio è collegato alla nostra percezione del mondo. Non possiamo parlare di ciò che non possiamo nominare, e in ultima analisi, non possiamo pensarlo”, scrive. La psicologa clinica dott.ssa Harriet Lerner definisce questo fenomeno per cui si ignorano la clitoride e le labbra “mutilazione genitale psichica.” Secondo lei, “La lingua può essere potente e veloce come il bisturi del chirurgo. Ciò che non ha nome non esiste.”

Oggi, molte donne e persino ragazzine di 16 anni, si stanno spingendo ancora oltre in questa direzione, rendendo davvero invisibili i propri genitali. La labioplastica (che consiste nell’asportare parte delle piccole labbra per renderle più piccole) è uno degli interventi di chirurgia cosmetica in più rapida crescita nel Regno Unito e negli Stati Uniti. La mutilazione genitale femminile è l’atto rituale di rimuovere una parte o la totalità dei genitali femminili esterni. E’ eseguita in molti paesi africani e di solito non è considerata paragonabile alla chirurgia estetica genitale praticata in Occidente. È interessante notare che l’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce la MGF come “tutte le procedure che comportano la rimozione parziale o totale dei genitali femminili esterni o altre lesioni agli organi genitali femminili per ragioni non mediche.” Sia il ringiovanimento vaginale che la labioplastica rientrano nelle definizioni di mutilazione fornite dalle Nazioni Unite.

A Berlino, città famosa per i valori sessuali progressisti e una storia di campagne per i diritti omosessuali, alcune persone cercano di contrastare questa tendenza. La dott.ssa Laura Meritt, proprietaria di Sexclusivitäten, il più longevo sex shop femminista della capitale tedesca, sta attualmente raccogliendo “ritratti di fiche” per illustrare la diversità delle vulve e dimostrare che non vi è alcuna norma generale. Si può contribuire compilando il sondaggio online o di persona. “Qualsiasi università sarebbe invidiosa del risultato! Abbiamo avuto oltre 2.000 partecipanti e quello che abbiamo scoperto è incredibile”, ha detto Meritt.

I risultati saranno pubblicati nel mese di marzo come parte della Mösenmonat (“mese della fica”), una celebrazione annuale in cui la vulva è onorata in mostre d’arte, spettacoli, film e workshop a Sexclusivitäten. Il tema di quest’anno è “la verità clitoridea.” Meritt ha anche curato la versione tedesca del classico testo di anatomia femminista, Una nuova visione del corpo di donna. Le fotografie di questo libro rendono chiaro che le vulve variano notevolmente in forma, colore, consistenza e dimensioni.

Forse, tutto sommato, la parola “vulva” è troppo clinica per voi. Nessun problema. Che ne dite di “fica”, “yoni,” o una sfilza di altre parole? Personalmente, ho sempre scelto la via della della rivendicazione. Dico “fica” [cunt]. La parola cunt ha la stessa radice etimologica di queen, kin e country [regina, parente e paese]. Fica non dovrebbe essere la parola più offensiva in lingua inglese. Le fiche sono fantastiche! Dovrebbero essere celebrate, non denigrate. Non usate la parola “vagina”, a meno che non stiate parlando della vagina. Usare la parola “vagina” in maniera scorretta oscura erroneamente il piacere sessuale delle donne e perpetua il mito del mistero della sessualità femminile. Il misticismo non deve essere confuso con l’ignoranza o con la censura. Viva la vulva!