Scopiamo fino a innamorarci

Dal nuovo libro di Ana Elena Pena, Vamos a follar hasta que nos enamoremos

Autoprodotto, curato fin nei minimi dettagli, pieno di rabbia, emozione, passione e poesia.

La prima cosa che penso leggendo questo libro, riflettendo sulla mia iniziale diffidenza, è che usare la parola “amore” non deve essere facile, un termine contenitore svuotato di un valore proprio, quasi sicuramente fraintendibile. Eppure sono proprio queste premesse caotiche a renderlo perfetto per esperimenti di risignificazione. Ana Elena Pena non si formalizza troppo nel farlo e lo riempie di se stessa.

Lancia invettive contro l’ideale di amore romantico che rende marionette e in cui si perdono le forme, i colori, il desiderio. Si schiera contro la ricerca di perfezione emozionale che si trasforma in superficialità, contro quell’ideale che rappresenta l’amore come una esperienza che non sporca, non macchia, non ferisce e che soprattutto non trasforma il nostro modo di vivere nuove relazioni.

Una condivisione di metafore e vissuto in cui ritrovare qualche pezzetto del proprio, per ricordare dove abbiamo fatto proprio l’opposto di quello che era prendersi cura di sé, non lasciando spazio ad alternative.

Riflessione sfaccettata sulle ansie e le delusioni di vivere il sesso come antitesi della complicità, attraverso schemi altrettanto predefiniti che mettiamo in atto come fossimo sconosciut*, lontan*, barricat* con le nostre paure o insoddisfazioni dietro maschere di indifferenza. Sesso che indebolisce e mutila i corpi.

Spunti poetici per risvegliarci dall’apatia individualista o dall’autolesionismo e per ricordarci che scopando si costruiscono affetti liberi o amore, che dir si voglia.

Il libro, insieme alle precedenti pubblicazioni (tutte in spagnolo) lo trovate qui. La versione originale di Vamos a hacerlo è invece pubblicata sul blog.

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Facciamolo lentamente
senza urgenza né pause,
senza rabbia e senza paura.
Facciamolo di fretta, con furia e con forza,
scricchiolando le ossa.
Spensierati e increduli, a colpi e a baci, senza scuse né pretesti,
sul cofano di un’auto, nel letto, sul pavimento,
tra grida laceranti, ma anche in silenzio. Come bambini che giocano, come
pazzi, come malati, con vizio e con lascivia, come animali in calore,
con piacere e godimento.
In un modo selvaggio,
delicato, sporco, lento, e fino all’agonia.
Vieni, andiamo a farlo…
Andiamo a scopare fino a innamorarci.

Ana Elena Pena, traduzione di lafra

L’amante migliore

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Ph Ana Alvarez-Errecalde
L’amante migliore, traduzione di Elena Zucchini, revisione di lafra e feminoska.
Pubblichiamo la conversazione su maternità e sessualità intercorsa tra Helena Torres e María Llopis per l’antologia Relatos marranos (Racconti Marrani). Tra gli altri argomenti, si discute di piacere ed erotismo durante la gravidanza, il parto, l’allattamento e la relazione fisica con il bebé.

Traduzione di un dialogo skype tra María Llopis (1) e Helena Torres. María è un’artista multimediale che propone una visione alternativa dell’identità sessuale e del genere – a partire dalla decostruzione del soggetto del femminismo –  per avvicinarsi al femminismo pro sex o al transfemminismo. I suoi video, performance, interviste, workshop e libri spaziano tra i temi dell’orgasmo e la violenza, della sessualità degli anziani, del sesso virtuale e della performatività di genere. Attualmente porta avanti un progetto sulla maternità sovversiva e sul parto orgasmico. Le note alla fine dell’articolo sono commenti alla conversazione di Aida I. Prada, coeditora di Relatos Marranos.

Helena Torres: Raccontami del tuo progetto sulle maternità sovversive.

Maria Llopis : Sono lanciatissima sul tema della maternità e della sessualità (2). Ho appena tenuto un seminario sulle maternità sovversive ad Olba, vicino Castellón, e si sono presentate tutte le madri punk e hippie neo-rurali con le loro creature e la loro nascita orgasmica, l’allattamento orgasmico, le gravidanze orgasmiche… tutto orgasmico! Io volevo realizzare per gioco una sorta di guida alla nascita orgasmica (dico per gioco, perché è qualcosa di molto più complesso rispetto al seguire specifici passi per arrivare ad un obiettivo), e anche se lo abbiamo fatto, è stato molto diverso da ciò che avevo immaginato. Inoltre sto facendo interviste su parto e orgasmo e stanno venendo fuori molti allattamenti orgasmici. Anche io ora sto allattando al seno e lo sto apprezzando immensamente.

H. Quello che non mi torna del [parto] orgasmico è che si tratta di un’esperienza che non riguarda tutte, per mille motivi che non dipendono solo da noi. Il mio parto, per esempio, era stato preparato tutto nel dettaglio: stavo partorendo in casa e per questo so che è vera questa cosa dell’orgasmo, perché l’ho vissuta, ma sono finita in ospedale e di orgasmico non c’era più nulla. Mentre ero in casa le prime contrazioni mi hanno sorpresa, perché non ho mai sofferto di dolori mestruali e non capivo cosa stesse succedendo, da dove venissero, cosa fare. Ho iniziato a respirare come avevo imparato a fare facendo Kundalini e mi sono dissolta, ho iniziato a volare, improvvisamente mi trovavo da qualche altra parte e non c’erano più dolore, né rumore. Sapevo che c’erano persone e suoni, solo che io non ero lì. Suppongo che questa sensazione sia quella che rende possibile avere un orgasmo e che il dolore si trasformi in piacere. Per questo ciò che trovo più frustrante sentendo parlare di parto orgasmico è che venga vissuto quasi come un obbligo.

M. Sì, capisco, sembra quasi sia obbligatorio averlo, come se non fosse sufficientemente cool partorire senza venire. Se la vedi in questa maniera, è come se dovessi essere Wonder Woman: ogni volta che scopi devi venire e ogni volta che vieni devi eiaculare. Ne abbiamo parlato durante il workshop e una delle cose che abbiamo fatto è stata cambiare il nome in “parto estatico”, invece che “parto orgasmico”. Di fatto esistono molti parti in cui le donne non arrivano a sperimentare un orgasmo, ma durante i quali si trovano in uno stato di estasi, di piacere, che le mantiene sulla soglia del dolore (3). È come fare una scopata fantastica senza venire. È stata una brutta scopata? Assolutamente no! Per questo sto prendendo in considerazione l’idea di cambiare nome al libro. Il parto non deve portare all’orgasmo per essere un’esperienza sessualmente soddisfacente. Forse dovremmo toglierci questa pressione dell’orgasmo, non solo per quel che riguarda il parto, ma anche per quel che riguarda le relazioni”.

H: L’importante è sottolineare che nel parto, come nelle relazioni sessuali, esiste il piacere e che la percezione del dolore, se ci sono le condizioni perché sia un parto estatico, non ha niente a che vedere con la percezione del dolore in un altro stato. In questo momento hai un’altra sensibilità, un altro odore, vedi in maniera diversa, con un’altra intensità… Per questo per me è necessario definire il parto come atto sessuale (4), non solo come orgasmo.

M: Esatto. Capire che fa parte della tua sessualità. Quando ho partorito tutta la parte della dilatazione è stata meravigliosa, mi sono connessa con questa sensualità, con questa sessualità. Stavo a quattro zampe come un’orsa, con Dani sotto, sul letto e io sopra, mordendolo, succhiandolo, godendo e dilatando… Dopo però mi hanno raccontato che lui usciva per prendere aria e rinfrescarsi la faccia, perché mettevo il riscaldamento al massimo e lo tenevo immobilizzato al letto. Avevo letto che dilatare la mandibola fa bene, perché aiuta ad aprire la vagina, l’utero e il collo dell’utero, così io lì, giù di morsi! Insomma, io tutta questa parte me la sono goduta moltissimo, anche se non mi ricordo niente.
Però c’è stato un momento, il cosiddetto “Vaso di Pandora”, che è quando sei completamente dilatata ed entri nella fase dell’espulsione. A quanto pare questo è il momento in cui vengono fuori i leoni, le belve, le farfalle o qualsiasi cosa ti tieni dentro senza saperlo. In questo momento ho avuto la visione di un uomo, da lontano, che era l’Uomo cattivo. Ho iniziato a dire: “È arrivato l’Uomo cattivo” e Dani mi ha raccontato che le ostetriche, che fino a quel momento erano molto sicure di quello che stavano facendo, sono rimaste tipo: “Ahi! E adesso che facciamo? Questo non c’era sul manuale!”. Fortunatamente c’era anche una doula fricchetonissima e fantastica, che è venuta e mi ha detto: “Ok, adesso tiriamo fuori l’Uomo cattivo” e con l’Uomo cattivo è arrivato il dolore, un dolore estremo, allucinante… Quel dolore di: “Ci siamo, ecco la testa del bambino” e tu: “Ma cosa stai dicendo? Che bambino e bambino d’Egitto! Aiuto!”. Ma si trattava della spinta finale: non è durato molto, una o due ore a dire tanto ed ecco che Roc era nato.
Adesso sto intervistando molte donne che hanno avuto parti estatici, in cui hanno provato molto piacere, come sarebbe successo a me se non fosse venuto l’Uomo cattivo, che io interpreto come il Signor Patriarcato. Ci sono donne che sono arrivate a venire dal piacere, però non un venire qualsiasi, l’orgasmo del secolo! Questo ha cambiato la loro sessualità e la loro vita. Adesso c’è un prima e un dopo.

H: Adesso che lo dici penso che anche se non ho partorito è stato a partire dal non-parto (n.d.t.: Helena Torres è ricorsa ad un parto cesareo, per questo afferma di “non aver partorito”, pur avendo un figlio) che ho cambiato completamente il mio modo di vivere la sessualità. Non mi riferisco a con chi scopavo o no, non si tratta di una questione identitaria (quella è venuta dopo), ma al mio modo di sentire il mio corpo e di concepire l’orgasmo. È stato tre anni dopo il mio non-parto che ho iniziato a eiaculare come una fontana. All’inizio non sapevo neanche di cosa si trattasse, col tempo mi sono resa conto che mi succedeva anche quando ero adolescente ma che, per vergogna, lo avevo represso.
Allora è uscito quello che potremmo definire il mio lesbismo segreto, perché me la facevo con le ragazze, ma politicamente non mi sentivo lesbica, non mi sembrava una cosa mia, era fuori dalla mia giurisdizione. In realtà quello che stavo facendo era reprimere la mia sessualità, perché non la stavo vivendo come avrei voluto realmente. Solo che allora non lo sapevo.

M: È molto interessante quello che stai dicendo, perché è una delle cose che sono venute fuori durante il workshop e che mi sembra un tema chiave: il fatto che essere madre, aver fatto quest’esperienza (partorendo o meno) ti fa scopare in maniera diversa.

H: È che il rapporto che hai con il tuo corpo, o meglio, la maniera in cui lo senti, cambia completamente. In una settimana tutto il mio corpo aveva iniziato a cambiare. Non solo le tette, tutto… i fluidi, il modo in cui si muoveva il sangue… Non ho avuto un parto orgasmico, ma la mia gravidanza è stata un orgasmo permanente… scopavo tutti i giorni… e lo stesso con l’allattamento. Il primo anno di bebé non volevo scopare. Non potevo. All’inizio la cosa era frustrante, non la capivo, non mi era mai successa. Parlavo con altre madri e mi dicevano: “Benvenuta nel club!”. Allora mi sono resa conto che non volevo scopare, perché stavo già scopando… con il bebé! Ed era una relazione monogama! Nessun altro poteva toccarmi le tette. Ero completamente innamorata. Stavo ore a guardarlo estasiata. Adesso quando guardo le foto di quando era neonato non lo riconosco. Io vedevo un essere che comprendeva tutto nella sua bellezza e fragilità… È come quando stai con qualcuno con cui hai scopato: si tratta di un altro corpo, ma è anche il tuo corpo (5), è una sensazione che non si capisce molto bene.
Un’amica, un paio di mesi dopo aver partorito, quando ci siamo viste per la prima volta dopo il suo parto, dopo un forte e lungo abbraccio, ha cercato i miei occhi e tra le lacrime ha detto: “È devastante!”. Durante il primo anno questa compenetrazione, questi sguardi, questo capirsi, crea momenti in cui se anche c’è un padre, si tratta di un essere a parte, al di fuori di questa relazione… molti padri si sentono rimpiazzati, perché è come se tu passassi da loro al bebé e neanche il bebè ha realmente bisogno di loro, non come ha bisogno di te e del tuo corpo… insomma, io ero come nella mia bolla e ci sono rimasta per tre anni…

M: Chiaro, il periodo dell’allattamento.

H: Quando ho smesso di allattare ho iniziato a scoparmi anche le pietre… E allora ho capito che è questo che ci tengono nascosto: che quando partorisci hai una relazione sessuale con tuo figlio.

M: Una relazione sessuale soddisfacente. Una relazione sessuale con amore infinito (6)

H: Infinito, sì!

M: Sei innamoratissima, il piacere è massimo, l’altra persona è pazza di te: è la relazione perfetta! Mi ha fatto molto riflettere sulle relazioni romantiche che ho avuto nella mia vita e penso a quanto tempo ho perso con l’amore romantico e con queste relazioni! Era questo che cercavo, questa sensazione di completezza!

H: L’amore è questo! (pum! un colpo sulla tastiera)

M: Stiamo uscendo di testa, Helena, stiamo uscendo di testa! Ci chiameranno biomadri! Ci chiameranno con qualsiasi etichetta! (pum! pum! pum! adesso è un libro sulla scrivania)

H e M: Hahahahaha!!!

M: Tornando al tema dell’allattamento c’è una tradizione che si è persa e che è molto importante, che è la condivisione. Noi lo facciamo con il gruppo di madri con le quali ci siamo riunite, in paese. Io sono stata operata quando Roc aveva quattro mesi e non potevo avere contatti con lui, allora ho pensato: che sia qualcun’altra a dargli la tetta! Ma, come esiste la monogamia nelle relazioni sessuali, esiste la monogamia della tetta.

H: Un tempo c’erano le balie…

M: Ma era diverso. Le signore ricche che non volevano allattare pagavano le balie, sì. Era un servizio sessuale, erano mercenarie dell’amore e del latte. La signora che non voleva avere questa relazione con il suo bebé, perché era molto verginale e molto vittoriana, pagava una puttana che gli desse affetto, sesso, piacere e latte. È un tipo di servizio sessuale che è caduto in disuso. Adesso invece di pagare una balia gli dai un biberon pieno di latte Nestlé.

H: (Quello che segue non lo trascrivo perché più che marrano è politicamente scorretto (7). In breve, abbiamo discusso animatamente della negazione dell’allattamento materno come piacevole atto sessuale, come diritto e non dovere, come possibilità e scelta che non tutte possono o vogliono fare.)

H:Credo che questa relazione amorosa così intensa di cui abbiamo parlato è la base di ciò che verrà dopo, per poi poter iniziare a separarsi. Perché non starai tutta la vita così, questo sarebbe un danno per tutti. Se però questa connessione iniziale è stata molto forte, non scemerà, ma si trasformerà. Impari a lasciar andare. Da questo dovremmo imparare che si tratta di un amore autentico perché non hai più bisogno di stare con l’altra persona: sei già con lei. La possibilità di lasciarti e lasciar andare è in questa connessione. Sempre in questo sta la comprensione che esiste solo con le persone con cui hai avuto una relazione molto intensa e ti capisci molto oltre le parole. Se c’è stata una connessione così forte non è solo che tu, in quanto madre, la capisci, l’altra persona anche ti capisce, anche lei ti conosce.

M: A questo non avevo pensato…

H: È che io lo sto vivendo in questo momento… (snif da entrambe le parti).

M: Occhio a quello che dici, perché allora sembra che una donna che non vuole o non può diventare madre non può sapere cosa sia l’amore… Forse la riflessione da fare è che ognuno nella vita trova le cose in un modo o nell’altro e che la maternità può portare a questo, ma può anche non farlo. Si tratta di non negare nessuna realtà. È importante rispettare le decisioni delle persone, ma non è che per rispettarle neghiamo altre realtà.

H: Esatto. Lo stesso vale per il parto orgasmico: non stiamo impostando modelli o guide di comportamento, ma solo possibilità o esperienze… Non tutte le madri devono amare i loro figli o le loro figlie. Possono crescerli con affetto senza essere perdutamente innamorate. Può succedere, oppure no, non bisogna negare nessuna di queste possibilità. I modelli sono sempre frustranti, lasciano sempre qualcosa fuori. Che succede se provi un senso di rifiuto? Se non sopporti questa creatura berciante, se odi la tua pancia gigante, i passi pesanti e i culi da pulire? Ti fanno a pezzi come fanno a pezzi quella che allatta fino ai tre anni…

M: È che i modelli standard di svezzamento, almeno nella Spagna mediterranea, partono dalla negazione della possibilità di questo innamoramento. Secondo questi modelli di svezzamento al più tardi all’anno inizierà l’asilo nido e quanto prima inizierà la scolarizzazione, tanto meglio. Come se l’obiettivo fosse liberarsi del bambino il prima possibile (8). È un argomento molto delicato. Io credo che tutti i problemi dello svezzamento e della maternità abbiano come origine la relazione di coppia stabile e monogama che non funziona in maternità. Ci sono società in cui esistono altri tipi di relazione e che funzionano meglio in questo contesto.

H: È questo modello relazionale di coppia stabile monogama che ha bisogno di negare la sessualità durante la maternità, ma non solo in questo momento, dopo viene la negazione della sessualità durante l’infanzia. Se ci fai caso quanto ti chiedono quando hai avuto la tua prima esperienza sessuale ti stanno chiedendo del coito, della prima scopata con qualcuno, perché si suppone che prima di questo non esista nessuna sessualità. E poi c’è l’esplorazione dei corpi tra la madre e il bebè… toccarsi, coccolarsi, scoprirsi…

M: Questo fa molta paura… Ho una collega che è terapeuta, si occupa di medicina cinese, ha un figlio e mi raccontava di queste interazioni sessuali con lui, in cui lascia che esplori il suo corpo e le tocchi la fica, insomma… Lei dice che la gente non fa differenza tra chi soddisfa i propri desideri sessuali su un bambino indipendentemente dai suoi desideri, senza nessun riguardo, e chi permette che quest* bambin* esplori la sessualità, aiutandol*. Tra queste due posizioni c’è un mondo. C’è la stessa differenza che c’è tra una relazione sessuale consensuale, in cui tutte le parti si tengono in considerazione, e una soddisfazione del proprio desiderio sessuale calpestando tutte le volontà che non sono la mia. Questo è stupro.

H: È importante anche non perdere mai di vista il contesto. Intendo dire quando la situazione è complicata perché sia la madre sia il figlio vivono in una società in cui questo accompagnamento alla scoperta della sessualità è considerato un’aberrazione. Allora bisogna fermarsi o fare molta attenzione, perché questa persona che stai accompagnando è molto piccola e potrebbe andare in giro a dire che vuole scoparsi sua madre senza capire che il mondo penserà che si tratta di una perversione imperdonabile.

M: C’è un’autrice molto interessante, che parla di crescita e svezzamento, si chiama Aletha Solter, a me piace molto e tratta proprio questo tema. Lei dice che se stai con tuo figlio o con tua figlia e provi il desiderio di abusare di lui o di lei (e dico abusare, che non è la stessa cosa di cui stavamo parlando), non devi aver paura, ma chiedere aiuto, perché è molto probabile che tu abbia subito abusi da piccola. Si tratta di eliminare questo tabù, perché ne consegue la perpetrazione dell’occultare, mentire e tenere sotto silenzio. Quest’autrice afferma anche che, se in preda alla rabbia, ti viene voglia di alzare le mani, non devi flagellarti. Punto 1: non picchiare. Punto 2: chiedi aiuto. È probabile che tu sia stata picchiata da piccola. Pensa a come sarebbe diverso il mondo se potessi andare al bar e dire: “Oggi ho sentito l’impulso di picchiare il mio piccolo… devo affrontare questa cosa, lavorarci su”.
Io credo che l’abuso sessuale, la violenza sessuale in generale, siano molto diffusi durante l’infanzia e sarebbe molto diverso se invece di nasconderlo, se ne parlasse apertamente (9).

H: Per questo il tuo libro è così importante, perché si tratta di dare visibilità a queste esperienze…

M: Ah, che bella è stata questa specie di intervista o come la vogliamo chiamare… mi aspettava un giorno di quelli con dentista, caldo, tutto molto poco glamour… e adesso mi è cambiata la giornata…

H: Potremmo chiamarla così: “Come trasformare una giornata poco glamour parlando dell’ amante migliore.

M: Ahahah! Sì! L’ amante migliore! È questo il titolo!

H: Dici?

M: Senza alcun dubbio! Dai, vado ad allattare.

H: A presto, bellezza.

M: Ciao (10).

Note a piè di pagina di Aida I. de Prada
1 http://www.mariallopis.com/  http://mariallopisdesnuda.com/
2 Mentre scriviamo questo libro, un embrione, che ora si può già dire feto, sta crescendo nel mio utero. È una gravidanza desiderata, un punto di partenza molto importante, e per fortuna non sento nessuno dei malesseri temuti, fisici o psichici. In un primo momento attendevo con impazienza l’annunciata estasi ormonale, come quando si prova una droga per la prima volta e si attende con ansia che salga, ma lo sballo che immaginavo non arrivava mai, perché si tratta di qualcosa di diverso, qualcosa di molto diverso da quello che avevo vissuto finora. Non mi sento sballata, né euforica, ma come se mi trovassi in una capsula protettiva, come nei videogiochi. Mi sento mostruosa, guardo e tocco il mio corpo più che mai, perché diventare un mostro mi dà una sensazione piacevole ed estrema: ora ho due teste, due cuori, 40 unghie e magari anche un micropene.Ho anche due sistemi nervosi e non so se è per questo, ma tutto si amplifica. La percezione è diversa. Non voglio vivere il parto come se fosse un intervento chirurgico ad alto rischio e sto preparandomi per evitarlo, ma non voglio farmi troppe illusioni, come hanno già detto non dipende da come io lo vorrei, anche se si verifica a casa. E mi chiedo: e se non raggiungo il piacere e mi invade questo dolore sconosciuto? Può questo dolore essere comunque soddisfacente?
3 Da quello che dite sembra che questo dolore peculiare sarà sempre presente, estatico o meno. Tuttavia, ciò che cambia in entrambe le situazioni è la percezione del dolore. Se la percezione di quel dolore non ha nulla a che fare con la percezione del dolore nell’altro stato, immagino che la stessa cosa accada con il piacere… e mi chiedo potrebbe essere stato il cocktail di dolore e di ormoni che mi ha portato a uno stato di estasi, che ha reso il parto un’esperienza sessuale estrema? Ciò che mi colpisce è che rimango tranquilla mentre faccio un patto con il dolore. Se il mio utero viene represso da una società patriarcale che rende difficile venire nell’atto di espellere un corpo con la mia fica, adotterò anche io questa prospettiva… e se il piacere non arriva, riuscirò a trovare nel dolore un alleato e non una punizione divina? Per ora, ho cominciato a mangiare un sacco di mele.
4 Alle visite all’Asl mi trattano come se fossi in uno stato ad alto rischio, pericolo! Pericolo! Per fortuna, l’ostetrica che mi visita parallelamente, lo identifica come parte della mia sessualità e non come parte di una malattia, il che cambia completamente il quadro. Tenere a mente che ciò che il mio corpo produrrà durante il parto saranno le stessa cose che potrebbero risultare da una scopata piena di felicità (estrogeni) e amore (ossitocina) è molto diverso dal pensare che stanno per sequestrare il mio corpo e che l’unica salvezza saranno iniezioni di ormoni sintetici e l’anestesia spinale iniettata nel mio midollo.
5 A volte sento di avere “un passeggero”, come cantavano i Parálisis Permanente. D’altra parte, so che non si tratta di un altro corpo, è il mio. Per ora non voglio pensare a me stessa come a due, perché penso che questo approccio prima ancora di favorire la logica cosiddetta “pro-life” potrebbe anche contenere lo scollamento tra la maternità e la sessualità, perché se non si capisce che quel corpo è – o è stato – una parte del tuo, è facile intendere questa sessualità come qualcosa di negativo… Ma ecco un tema troppo grande per me, che dire di quelle maternità che non sono passate attraverso una gravidanza? Come la vivono le madri che non partoriscono, le madri che non si riproducono? Questi argomenti non servono… ci deve essere altro… giusto?
6 Questo per ora non mi tocca, ciò che è chiaro è che già durante la gravidanza, il legame tra maternità e sessualità è una lotta. Tutti mi toccano, e questo mi piace, ma di solito si concentrano sul ventre, ed è un po’ strano che ti parlino guardandoti l’ombelico. I sorrisi degli sconosciuti, anche se mi fanno sentire un po’ un’incubatrice, non mi dispiacciono. Ora, questo sì, tutte queste interazioni le sento totalmente desessualizzate. Io non sono un corpo desiderabile, la cosa buona è la paura degli idioti di turno, ma rende anche difficile collegare la maternità e la sessualità. La bellezza del mostruoso è caratterizzata dai cliché, lo sconosciuto che ti dà la precedenza nei posti a sedere, o il fatto che sia più facile trovare un reggiseno per l’allattamento in un negozio di articoli ortopedici che in un negozio di intimo. E poi, con mio grande rammarico, ho addosso il marchio nazionalcattolico. Esistono molti più riferimenti atti a pensare la maternità come altruismo, purezza e decenza, piuttosto che come sessualità e piacere.  Per fortuna i femminismi mi aiutano a smascherare pratiche e discorsi egemonici.
7 Ultimamente mi capita di restare rapita a guardare chi allatta. Ho notato che, spesso, i bambini cercano l’altro seno con la manina e, a volte, con il pollice e l’indice… strizzano il capezzolo!!! Questa immagine mi rimanda ad un’altra, e sì, mi fa andare in cortocircuito… perché, anche se il latte dalle mammelle può essere un feticcio sessuale, sento che le tette smettono di essere qualcosa di sensuale per diventare distributori di cibo, e che il contrario sarebbe perverso. Forse se non ci fosse questo tabù, se il legame tra sessualità e allattamento al seno fosse politicamente corretto, non sussulterei nel vedere un bambino pizzicare un capezzolo, e allo stesso modo i brividi che mi causa un bambino attaccato alla mia tetta. D’altra parte, penso che non mi piace sempre essere toccata sulle tette… e se mi sentissi lo stesso quando allatto al seno? So che l’ossitocina è coinvolta, ma questa cosa degli ormoni non la capisco…
8 Già prima della nascita, – perché una volta che si resta incinte sembra che il tuo corpo diventi pubblico e tutti hanno voce in capitolo e possono esprimere i propri giudizi – mi ha raggiunto questo avvertimento con frasi come: “hai intenzione di portarlo in uno zaino porta-bimbo? Lo rovinerai, è meglio abituarlo a non essere sempre con te ” ” L’allattamento al seno, senza orari programmati? Lo farai diventare un tiranno! ” ” Hai intenzione di dormire con lui? Oops! Che viziato!”. Leggere i vostri pensieri mi fa pensare che forse queste reazioni sono fotografie della forma egemonica di intendere l’amore come scontro e concorrenza, piuttosto che complicità e cooperazione.
9 Da lì in poi cambia tutto, e anche poterlo dare alla luce tranquillamente, senza aver timore di quello che ti è successo da piccola, perché non tutte le persone che abusano hanno subito abusi, e non tutti coloro che sono stati abusati, diventano abusanti.
10 E’ stato un piacere leggere la vostra conversazione, non tanto per la sua “eccezionalità”, ma piuttosto in quanto strumento per modificare e costruire nuovi sistemi con i quali fissare nuovi parametri.

‘Yes, we fuck!’: la rivoluzione dei corpi dissidenti

Immagine tratta da Yes we fuck!
Immagine tratta da Yes we fuck!
Articolo pubblicato su Pikara, traduzione di Lafra, revisione di feminoska.
Avete dato una possibilità a persone, spesso considerate asessuate o al contrario ipersessuali – comunque sempre posizionate in un luogo quasi inverosimile rispetto alla sessualità – di vedersi rappresentate e di essere protagoniste. State introducendo una questione importante, quella della sessualità nelle persone diversamente abili, attraverso alleanze non sempre così evidenti come quelle con la sessualità non normativa, la critica alla grassofobia, la dissidenza sessuale e il genere. Antonio, come nasce questo progetto dal nome così arrapante?
Il  titolo è una parodia dello slogan della campagna di Obama “Yes, We  can”. Volevamo usare un linguaggio esplicito e un tono divertente, ci sembrava un modo particolarmente appropriato di gettare le basi per un documentario sulla sessualità e la diversabilità. Siamo partiti alla fine del 2012 con l’idea di fare qualcosa che contribuisse a cambiare l’immaginario collettivo sulle persone diversamente abili, rendendo visibile la loro condizione di esseri sessuali e  sessuati, mostrando i loro corpi come desiderabili e desideranti.
Immagine tratta da Yes we fuck! (con censura per facebook)
Immagine tratta da Yes we fuck! (con censura per facebook)
Avete collaborato non solo con collettivi di attivismo critico, ma anche con gruppi che fanno postporno, come Post-Op, o con progetti femministi che rivendicano, per esempio, l’eiaculazione femminile. Come sono andate queste alleanze?
Si sono rivelate esperienze inaspettate, e al tempo stesso ricche ed emozionanti. Andrea García-Santesmases, collaboratora di Yes, We  Fuck!, si è messa in contatto con Diana Pornoterrorista, che ha inserito nel libro Pornoterrorismo un capitolo sulle e sui “diversamente abili” e ci ha condotto da Post-Op, che si è offerto di realizzare un workshop di postporno e diversabilità che costituisce la prima storia del documentario. Ha rappresentato una sorta di  inaugurazione, dato che in questo incontro si è confermato quello che avevamo già intuito rispetto ai discorsi dei diversi collettivi: che condividevamo la stessa lotta per il diritto alla differenza e contro l’idea di normalità. A partire da questa esperienza, che si è rinsaldata con il workshop di eiaculazione femminile, Yes, We Fuck! si è costituito come spazio di incontro e alleanza tra differenti attivismi che fanno politica sul corpo. Mi piacerebbe evidenziare che questa visione sul vincolo tra il crip e il queer, con il quale si è arricchito moltissimo il documentario, è stata possibile solo grazie al lavoro di Andrea García-Santesmases, che oltre a realizzare i due workshop (oltre al tema della diversità intellettuale) è stato colei che ci ha costantemente orientati nella linea ideologica che avrebbe potuto renderlo possibile.

Cosa vi ha portato a privilegiare la forma del documentario invece di creare una associazione o un progetto sociale?
Non avevamo l’intenzione di essere particolarmente pedagogic@, quanto piuttosto quella di scuotere l’immaginario collettivo riguardo la sessualità e la diversabilità, e nulla risulta così potente come l’immagine esplicita. Nella nostra cultura, ciò che non si vede difficilmente si immagina.
Ripetiamo  spesso che il linguaggio è uno strumento per pensare, però come è possibile che non si conosca il termine “abilismo” allo stesso modo di altri termini quali razzismo, xenofobia, sessismo o classismo? Per chiarire, l'”abilismo” è la convinzione che alcune capacità siano intrinsecamente migliori, e che chi le possiede sia migliore del resto delle persone.
Questa assenza nel linguaggio è il segno inequivocabile di quanto questa forma d’oppressione basata sulla differenza corporea sia stata naturalizzata, per giustificare la disuguaglianza sociale che ci colpisce da tempo immemore. Siamo forse l’ultima roccaforte nella quale continua a sembrare naturale che la biologia giustifichi la disuguaglianza sociale, al contrario di quello che succede con le questioni di genere o di razza.
Sappiamo che avete all’attivo anche un crowdfunding, che cosa sperate di ottenere?
L’idea del crowdfunding è  di poter finanziare la produzione e la diffusione del documentario senza dover ricorrere a una casa di produzione classica, che quasi certamente significherebbe la perdita di un certo margine di libertà per esprimere le questioni più spinose. Una volta terminato il documentario e passata la fase di diffusione nei festival, in televisione, su internet e gli altri media, abbiamo intenzione di mantenere il sito, nel quale sia possibile continuare con la visibilizzazione dei temi relativi alle sessualità diversamente abili attraverso video amatoriali, fotografie, articoli, notizie…
Il vostro progetto vuole stimolare modi nuovi di intendere la sessualità fuori dai confini eteronormativi,  che includono –  tra le varie riflessioni emancipatorie e chiaramente generatrici di autodeterminazione – il godimento con le protesi, la degenitalizzazione e la ricerca di nuove forme di raggiungimento del piacere. Come viene accolto il vostro lavoro da parte dei movimenti di persone diversamente abili più generalisti? State incontrando resistenze?
Fino ad ora il progetto ha avuto più diffusione negli ambienti affini, come il Movimiento de Vida Independiente (Movimento per la Vita Indipendente) e altri spazi di attivismo, e li è sempre stato ben accolto. Rimane da scoprire come verrà accolto su terreni più tradizionali e di carattere maggiormente istituzionale.  Ad ogni modo, se andrà bene, ipotizziamo che entusiasmerà molt*, irriterà diverse persone e non lascerà indifferente quasi nessuno.
 Puoi saperne di più su ‘Yes, we fuck!’ visitando il sito, il canale Vimeo e appoggiando il crowdfunding.

Il corpo nudo

Spogliarsi fa paura. Anche quando lo fai solo per te stessa è difficile scrollarsi di dosso lo sguardo esterno. Ci si sente totalmente derubate del proprio punto di vista, della propria opinione, del proprio occhio amorevole che non sminuzza ma dà forza. Riuscite voi a guardarvi, magari rappresentat* in una foto o in un video, e sentirvi compiaciut* e serenamente distaccat* da qualsiasi altro punto di vista? Quanto è forte il valore e la pressione sociale nel momento di manifestare liberamente il proprio corpo, primo strumento di socialità?

Di che ragioniamo… di relazioni, violenze, disparità se è sulla nostra stessa materia che è costruito il primo recinto di paura e repressione? I nostri corpi nudi non sono solamente reclusi, sono sottratti. La volontà di vedersi e piacersi (o no) liberamente, senza il timore di qualsiasi giudizio, per la maggioranza delle persone è un lusso irraggiungibile. I nostri occhi, all’ora di incontrare la nostra carne, si trasformano in obiettivo svuotato e riprogrammato.

Spesso ci si domanda se sia sessista che alcune femministe prendano il proprio corpo e lo trasformino in veicolo di lotte. Io vorrei che queste stesse persone che si interrogano sul tema si mettessero davanti ad uno specchio, nude, e si facessero una fotografia. Non vale tirare la pancia, abbassare le luci, o stendere meglio il collo di tre quarti. Siete voi, nude.

Di chi è lo sguardo che tiene in mano la foto?

Non ho la pretesa naif che tutte le persone si piacciano. L’autocritica può essere molto utile o necessaria a volte. Non è proprio questo il punto. Mi fa incazzare a morte che la propria imperfezione diventi vergogna, ansia, inadeguatezza o malattia, perché sappiamo solo guardarci con occhi non nostri.

Questa secondo me è una premessa necessaria per affrontare questo tema, interessantissimo tra l’altro e che reputo necessario sviscerare più e meglio di come sento fare e di come posso fare io. Questo è un discorso che merita una riflessione personale e un dibattito pubblico acceso e onesto.

Prima di qualsiasi lotta o messaggio che si voglia lanciare passiamo dalla persona, dall’attivista, dall’individuo che sceglie il proprio strumento di comunicazione. E se questo strumento diventa il corpo nudo stesso, non posso non tenere in considerazione la volontà radicale di ribaltare lo sguardo esterno imponendo il proprio.

Rappresentare e mostrare se stesse è già un prendere in mano la propria soggettività e trasformarla per l’occhio altrui. Perché abbiamo paura a riconoscere la forza che questo comporta, svilendola con l’ennesima solfa della collusione col sessismo?

E’ una forza e potenza comunicativa che riesce, appunto, cavalcando il voyeurismo e l’ipocrisia di chi impone lo sguardo unico, a veicolare messaggi altri, femministi e antiautoritari.

Imporre il corpo nudo come strumento di lotta non sminuisce ne si contrappone alla parola, all’arte, alla protesta, a tutti gli altri mezzi comunicativi o di rivendicazione “onorevolmente” accettati e stimati.

Si somma a questi e si origina proprio nello stesso contesto.

Quello che mi lascia perplessa è che per muovere una critica a questa pratica di lotta ci si appelli al femminismo degli anni Settanta: io, come la stragrande maggioranza di queste nuove femministe “discinte”, negli anni Settanta non ero neanche nata. Il femminismo l’ho scoperto parlando, leggendo, facendomi domande. E quello che io da “autodidatta” del femminismo ho trovato negli anni Settanta sono due cose: la prima è che il personale e politico e la seconda, per me diretta conseguenza, è che il corpo è al centro del nostro discorso. Ah, e l’autodeterminazione ovviamente. Autodeterminazione che, partendo da sé, dalle proprie necessità e dal proprio vissuto, rivendica libertà e diritti che sono nostri e che non devono essere semplicemente richiesti, implorati, contrattati o svenduti. Vanno scelti e conquistati spezzando catene una dopo l’altra.

Il nostro corpo, autodeterminato, corrotto, imperfetto, indecoroso, potente e nudo è una tenaglia che arriva ovunque, perché ora sappiamo come renderci visibili, e per una attivista scegliere questa lotta è già aver tolto il primo anello, quello che ci nega il nostro sguardo.

Perché ci piace il postporno

SprinkleGoddessPerchè ci piace il postporno?
Di Lafra

“C’è vita al di là del mondo normalizzato”
Beatriz Preciado

Nella storia della lotta delle donne per la liberazione sessuale alcune problematiche hanno sempre provocato difficoltà di analisi e grandi imbarazzi. Tra queste la più controversa è indubbiamente quella sulla pornografia.

L’industria pornografica contemporanea, caratterizzata da una produzione seriale e una distribuzione su larga scala, nasce negli anni ’50 negli Stati Uniti. Nel 1953 Hugh Hefner lancia una rivista nuova, dedicata agli uomini. Nel primo numero di questa rivista compare la foto a colori di una giovane donna seminuda destinata a diventare una diva erotica del XX secolo. La ragazza è Marilyn Monroe, la rivista Playboy.

In piena guerra fredda Playboy, trasformandosi nella rivista maggiormente distribuita negli Stati Uniti (alla fine degli anni ’60 era arrivata ad avere un pubblico maschile di più di sei milioni di lettori), apportò un contributo eccezionale al cambiamento del panorama culturale e dell’immaginario sessuale maschile. Nascono con Playboy nuovi miti erotici: la ragazza della porta accanto, la coniglietta, la cameriera, la segretaria… Lo sguardo dell’uomo si insinua in una artificiosa intimità per spiare le vite surreali di donne giovanissime, chirurgicamente rimodellate e apparentemente prive di una ricerca del piacere non funzionale a quello maschile. I corpi nudi che vengono mostrati sono frutto di una ricercata architettura di genere, i canoni estetici rappresentano l’esasperazione di ciò che è considerato “femminile”: il risultato è un paradosso. Il mondo dell’immaginario pornografico è popolato di superfemmine che svolgono azioni quotidiane, come passare l’aspirapolvere o battere a macchina, e che con espressione di sorpresa e accondiscendenza soddisfano le voglie del maschio di turno.

E’ proprio questo immaginario sessuale, che ha popolato le fantasie degli uomini per decenni, ad aver contribuito alla costruzione di un modello sociale fortemente eteronormativo, ossia di imposizione della eterosessualità come norma, dove la divisione tra il maschile e il femminile era stabilita e rappresentata da corpi esasperatamente sessualizzati e da ruoli ben definiti.

Inoltre, la pornografia era, e prevalentemente rimane, un prodotto di uomini per gli uomini. La ricerca del piacere, che non sia quella del maschio, non è immaginata, tagliata fuori da ogni narrazione e rappresentazione. Sebbene l’industria pornografica si sia con gli anni allargata, cercando di aprirsi a nuovi mercati, come al pubblico omosessuale, il punto di vista che prevale è sempre quello dell’uomo. E con uomo intendo quello che è stato definito il grado zero di normalità nella società eteropatriarcale capitalista: il maschio bianco occidentale eterosessuale di classe media. Con queste premesse è comprensibile la critica mossa da molte femministe all’industria pornografica, accusata quindi di commercializzare i corpi delle donne, svilirne la sessualità e creare stereotipi e modelli lontani dalle persone reali con ripercussioni violente sulle loro vite. Meno comprensibili sono alcune scelte politiche di alcuni gruppi femministi che, soprattutto negli Stati Uniti degli anni ’80, hanno mosso una guerra alla pornografia in quanto tale.

L’oscenità della pornografia sta nel collocare al centro ciò che è considerato intimo e privato. La sessualità è infatti considerata un fatto personale. L’industria pornografica rompe questo tabù, non con l’intento di liberare la sessualità degli individui ma imponendogli un modello e arruolando un esercito di maschi addestrati a “marciare a tempo”. Il meccanismo funziona così bene che non è un caso che televisione e pubblicità ci bombardino di corpi e ammiccamenti a sfondo sessuale. L’allusione viene recepita perfettamente da sensibilità sovrastimolate e sovraeccitate. In questo panorama a dir poco inquietante, nascono nuovi progetti e nuove forme di lotta. Se la sessualità è un fatto personale allora, come ha teorizzato Kate Millet, è anche una questione politica. E altrettanto è la sua rappresentazione. Dal rifiuto alla pornografia mosso dal femminismo degli anni ’70-’80, si stanno aprendo nuovi orizzonti nella lotta alla normalizzazione sessuale agita dall’industria pornografica. Nasce il postporno nelle sue molteplici forme e pratiche. Tra le anticipatrici di questo movimento c’è indubbiamente Annie Sprinkle, che da attrice porno diventa regista e performer, con l’intento di smascherare il maschilismo della pornografia fino ad allora realizzata. A lei si deve l’inizio del Do it Yourself postporno. Iniziano a circolare lavori realizzati da donne per un pubblico femminile, si girano i primi “porno per donne”, e i video porno femministi come la più attuale raccolta di cortometraggi Dirty Diaries della svedese Mia Engberg o i film della regista Erika Lust. Progetti ancora legati al circuito commerciale ma che inseriscono comunque elementi di rottura all’interno dell’industria pornografica. Nascono laboratori di postporno creati da gruppi e collettivi queer o femministi, completamente autogestiti, dove alla riflessione teorica si affianca la pratica di produzione e sperimentazione di nuove forme di desiderio.

Il postporno non vuole togliere la rappresentazione della sessualità dalla scena pubblica, quindi dal piano politico, ma vuole intervenire per sovvertire e dare voce all’immaginario di tutti quei soggetti esclusi, marginalizzati, umiliati dalla pornografia maschilista funzionale al mercato e alla riproduzione della divisione binaria dei generi. Il postporno si rivolge alle persone e le sprona a smettere di subire i modelli sessuali imposti e diventare le proprie personali pornostar. La sua azione non è semplicemente dare voce (e gemiti) a chi non si considera il pubblico della pornografia mainstream, ma quella di inventare nuove forme condivise, collettive, visibili, aperte. Il postporno è il copyleft della sessualità che supera le barriere imposte dalla rappresentazione pornografica dominante e il consumo sessuale normalizzato. Il suo obiettivo è modificare la sensibilità e la produzione ormonale attraverso un movimento politico che costruisca in maniera liberata e partecipata ciò che è considerato privato e vergognoso. Perché ci piace? Perché scardina le dinamiche di genere, è insubordinazione, divertimento e desiderio. È la nostra rivoluzione sessuale.

Per approfondimenti puoi cliccare qui.

 

Nel corpo. Lettera di una ex detenuta

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Diffondiamo una lettera scritta recentemente da una ex detenuta delle Vallette ripubblicata da Macerie, che racconta la sezione femminile del carcere, l’oscenità della repressione. Quella faccia della “giustizia” legale che tortura, rinchiude e punisce con ottusa crudeltà.
Negare la libertà non si può realizzare con quattro stupide mura ed ecco che li interviene l’Istituzione, creando regole, limiti, negazioni continue di tutto ciò che è essere se stesse, che è bellezza e creazione di legami sociali con individui umani e non. Di tutto ciò che è lotta.

Libere tutte!

«È nel corpo che si sente la sofferenza immediata del carcere. Vi racconto le piccole materialità che traumatizzano le membra e fanno del carcere di Torino una delle galere più invivibili (a detta di chi di galere ne ha girate molte e a lungo).
Nel femminile, diviso in 4 sezioni, sono collocate circa 200 donne, 2 in ogni cella.
Le celle sono piccole e scure, hanno dimensioni di 4 metri per 2 nello spazio abitativo che dispone di un letto a castello, un tavolino a muro, 2 sgabelli -se si è fortunati- e 4 piccoli pensili. Il bagno è di dimensioni 4 metri per 1 con water, lavandino e bidet. In cella non c’è acqua calda, che è invece fredda e terribilmente terrosa. Se lasci la moka bagnata il giorno dopo puoi scorgere la traccia grigiastra lasciata dall’acqua. Se le due concelline non sono entrambe smilze e piccoline è quasi impossibile muoversi contemporaneamente senza toccarsi e intralciarsi.
Le finestre sono piccole e basse, infossate verso l’interno e circondate da sbarre e da una grata a maglia fine (messa dopo la protesta delle lenzuola). L’aria già riciclata dall’esterno, chiusa dalle alta mura dei vari perimetri, non riesce a circolare e ad arieggiare la cella. Chi ha problemi di claustrofobia ed asma ne patisce molto.
Di conseguenza il minimo da pretendere è che le celle rimangano aperte, mentre c’è la possibilità di uscire dal proprio cubicolo solo 4 ore su 24.
Dalle 9 alle 11 della mattina c’è la possibilità di uscire all’aria, in un cortile spoglio con alte mura e nessuna fontana. Nello stesso orario è concesso fare il bucato e la doccia con l’acqua calda in un unico locale che dispone di 3 docce e un lavandino. Solo 3 persone alla volta possono recarsi a fare la doccia, in sezione si è in 50 donne.
Al pomeriggio la stessa storia. Dall’una alle tre c’è l’aria e ci sono le docce aperte. Se non si fa né l’una né l’altra si rimane chiuse.
All’aria c’è una rete di pallavolo e due porte barcollanti da calcio, ma c’è solo una palla bucata e sgonfia con cui oltre che calciarla per scaricare il nervoso non si può fare nessun gioco.
In più le guardie portachiavi riducono il tempo d’apertura. Ad un quarto aprono e a meno un quarto chiudono, mai all’orario giusto.
Riassumendo… la concomitanza degli orari dell’aria e della doccia riduce il tempo di stare all’aperto e crea l’impossibilità di fare entrambe le cose. Le docce sono poche e fanno schifo, il soffitto è giallo dall’umidità e sgocciola, l’acqua troppo dura fa squamare la pelle, lo spazio per l’aria è triste, troppo assolato e senza fonti d’acqua corrente durante l’estate, senza riparo per l’inverno. Una bella lista di ovvi motivi per lottare. I tempi e gli ambienti delle ore d’aria sono fondamentali per un minimo di sopravvivenza possibile.
Rispetto alla possibilità di fare movimento e sport… ecco non c’è nessuna possibilità.
Esiste una palestra, inagibile da oltre un anno. Hanno aperto un corso di pallavolo per 15 persone che hanno fatto richiesta e dopo mesi sono state chiamate a partecipare.
L’inattività, causata da mancanza di strutture e mezzi, facilita il corpo a sformarsi, a deprimersi di più, a non avere la stanchezza sufficiente per dormire, a trattenere il nervoso, il malessere e la mente affranta. Gli spazi ci sono e dovrebbero essere utilizzati. Ma possiamo aspettare che qualcuno ce li conceda per generosità o sarebbe ora di esigerli con forza?
Per ogni malessere non fisico il carcere propone la Terapia. La visita dallo psichiatra è quella più suggerita dalla direzione carceraria e la somministrazione di farmaci consigliata dallo psichiatra la più generosa.
La maggioranza delle detenute utilizza psicofarmaci per affrontare la sofferenza e l’insonnia. Il carrellino dell’infermeria passa tre volte al giorno per dispensare anestetici all’angoscia della carcerazione.
Per i mali fisici, per qualsiasi male, c’è il Brufen. Mal di collo, Brufen, mal di schiena, Brufen, mal di denti, Brufen… e così via.
Il personale medico non pare così professionale, a volte di fronte a non ovvi malesseri si destreggia nello sperimentare miscugli di farmaci. Al femminile ho visto donne gonfiare con il passare degli anni (io sono entrata più volte per brevi soggiorni), altre dimagrire di molti, molti, molti chili, altre mi hanno raccontato di terribili mali a causa di cure dentistiche errate e rimedi bestiali, siringhe di miscugli di antidolorifici intramuscolo. (se hai male ai denti è la fine. Il dentista in carcere fa schifo, se si sta anni dentro con qualche problema ai denti si rischia di uscire sdentate).
Ricordo che lo scorso Natale nella sezione maschile è morto un detenuto per una terapia sbagliata. Il caso è rimasto all’oscuro. Qualche suo compagno di sezione ha protestato per l’accaduto, ma come risposta ha ricevuto un immediato trasferimento in un altro carcere. I tentativi di zittire chi prende il coraggio di raccontare non devono scoraggiare. Affinché questi episodi non colpiscano più chi è costretto all’interno di un carcere, per la propria incolumità, le violenze, gli abusi e la negligenza di chi gestisce queste gabbie dovrebbero essere diffuse il più possibile e la vigilanza di chi è dentro dovrebbe essere al massimo grado, altro che psicofarmaci.
I problemi di salute derivano anche dall’alimentazione.
Il cibo che passa il vitto è abbondante, ma spesso è immangiabile e misterioso. Nei carrelli della casanza si sono visti frittate spugnose, sughi di carne e hamburger verdi, pasticci di patate acidi, riso sempre crudo e uova vecchie. Chi non ha soldi, chi vive da anni senza alcun legame con fuori o con una famiglia indigente impossibilitata ad aiutarla, oppure chi si è vista arrestare e sequestrare le proprie cose sospettate de essere i proventi dell’attività illecita commessa, si vede costretta a doversi cibare principalmente del cibo che passa il carcere. Diventa impossibile concedersi quei piccoli vizi che ti renderebbero un po’ più lieta, e allora rimandi tutto al desiderio.
L’amministrazione offre a chi non ha soldi 15 euro al mese. Con 15 euro puoi comprarti un pacco di caffè, un pacco di carta igienica, uno shampoo, un bagnoschiuma, un pacco di assorbenti, un pacco d’acqua da 6 bottiglie e un dolcino di quelli economici. E i francobolli? Le buste? Una penna? Una bottiglia d’olio per condire l’insalata? Sei poverella? Mangi insipido e sei costretta ad elemosinare i bolli.
I prezzi dei prodotti della spesa sono in continua variazione, solitamente in crescita. Si sospetta che i prezzi siano aumentati rispetto ai prezzi del supermercato, a volte la cosa risulta palese, quando il prezzo originario è ancora appiccicato sulla scatola da dove vengono distribuiti i prodotti. Dove va quel sovrapprezzo? Ad alimentare l’amministrazione carceraria che si lamenta di mancanza di fondi e di scarsità di strumenti? Secondo le normative i prezzi della spesa in carcere dovrebbero essere uguali alla prima area di commercio al di fuori. Risulta difficile capirlo visto che non esiste un elenco noto con la lista di tutti i prodotti disponibili elencati con relativo prezzo precisato. Quindi altro che mantenuto dallo Stato come suole dire la gente indifferente, il carcere è mantenuto dalle stesse detenute che inoltre lo puliscono in cambio di una paga misera e ancora più misera se hai una pena definitiva, dai soldi dello stipendio ti tolgono le spese del vitto e dell’alloggio carcerario.
Altra privazione che è degna di nota è l’impossibilità di tenere il fornellino in cella per 24 ore. Esso viene ritirato alle 9 di sera alla chiusura dei blindi e ridato alle 7 del mattino. E se qualcuna insonne volesse farsi una camomilla oppure degli spaghetti aglio, olio e peperoncino? O se qualcun’altra è mattiniera e vuole bersi il caffè alle 5? “I fornellini non rimangono nelle celle perché alcune detenute sniffano il gas” questa è la scusa che hanno utilizzato le guardie, l’ispettrice e i colleghi civili, mettendo le detenute le une contro le altre, sniffatrici di gas contro cuoche notturne. E perché non incazzarci con chi ha deciso di togliercelo? C’è chi tre volte al giorno somministra terapie stordenti, chi chiude e rinchiude con mille mandate porte che ci fanno soffocare, che portano al suicidio… si preoccupano che con del gas una si possa stordire e così giustificano il fatto che ci possono levare tutto?
Non sarebbe ora di smettere di essere trattate da scolare monelle, ma di comportarci come donne dignitose che si incazzano e si riprendono quello di cui hanno bisogno?
In carcere si sopravvive grazie agli incontri. Nonostante la storie completamente differenti si trovano donne con le stesse paure e la stessa voglia di libertà. C’è sempre una storia divertente o colma di sfighe che vale la pena di essere ascoltata. A volte nascono discussioni su vicende avvenute nel trantran quotidiano, sui fatti di cronaca con punti di vista strampalati, su sogni su fuori, su vicende del passato, su lamentele sullo schifo del carcere. Non c’è mai tempo però per parlare a lungo. Le ore d’incontro sono quelle d’aria, da far incastrare con la doccia e due ore la sera di socialità (si può stare in 4 in cella). È poco il tempo per superare la superficialità delle cose che si dicono, per iniziare a dire le cose che si pensano, non sufficiente per concluderle. Proprio impossibile invece è comunicare con le altre sezioni dello stesso braccio. Al femminile si sono solo quattro sezioni una vicina all’altra ma è come se fossero distantissime, se sei in terza non sai quasi nulla di quello che succede in prima e sono una sull’altra.
È vietato ogni tentativo di comunicare. Se urli troppo dalla finestra per parlare con una tua amica che è in un’altra sezione vieni rimproverata. Con il maschile nel 2011 esisteva ancora la posta libera, senza dover mettere i francobolli. La corrispondenza era fitta, nascevano rapporti epistolari d’amore e c’era l’opportunità di scambiarsi informazioni sulle differenti situazioni di detenzione, di far girare notizie di maltrattamenti e ingiustizie, di tirar su il morale di uno/a sconosciuto/a. Oggi le lettere interne bisogna spedirle, e il tempo di una risposta può essere anche di due settimane, perché l’attesa di una missiva che esce dal carcere ha inspiegabilmente questa durata. Riducendo al minimo l’incontro fisico con le compagne di detenzione, aumentando le distanze tra sezioni differenti, tra maschile e femminile, tra dentro e fuori i legami sono più fragili, aumenta la sensazione di isolamento, diminuisce la possibilità di far girare notizie di maltrattamenti, pestaggi o iniziative di protesta che se comunicare velocemente potrebbero avere una simultanea reazione solidale nelle altre parti del carcere e fuori.
Ma per superare le difficoltà di comunicazione, e gli ostacoli che l’amministrazione penitenziaria frappone internamente tra i detenuti e tra i detenuti e il mondo di fuori è necessaria la consapevolezza che la solidarietà e la determinazione individuale e collettiva sono gli unici strumenti che abbiamo contro le violenze, gli abusi e le umiliazioni che subiamo quotidianamente. Se ci lasciamo drogare tutti i giorni, se accettiamo passivamente le condizioni in cui ci costringono a vivere, se continuiamo ad essere isolate e indifferenti perdiamo la dignità che sola ci rende libere tra quelle mura e non costruiamo nessuna ancora di salvataggio a cui aggrapparci per resistere al mare aperto in cui siamo esiliate.
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macerie @ Luglio 8, 2013

Pride: piume sì, piume no?

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Frequenze Lesbiche è un giovanissimo blog (siamo quasi coetanee) nato in seno ad ArciLesbica con “l’obiettivo di creare uno spazio di condivisione politica, sociale e culturale dove possano dibattere tra loro voci diverse sui temi della comunità LGBTIQ”.

Riportiamo alcune interessanti riflessioni sul pride di una delle voci di questo blog, Carlotta, sul ricorrente dibattito sulla rappresentazione che questo evento deve dare della comunità LGBTIQ.

Buona lettura!

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PIUME O CRAVATTE? ECCO A VOI IL PRIDE

Tempo di Pride, tempo di polemiche. Come tutti gli anni inizia la solita sterile manfrina: piume sì, piume no, meglio la cravatta, la rispettabilità, la famiglia o meglio i lustrini, il divertimento e la poliaffettività?
Meglio l’autodeterminazione.

 

È frustrante leggere accorati appelli a un Pride sobrio, per una normalizzazione della parata, come questo (interessante il passaggio su noi e loro, come specie antropologiche differenti) e questo.
Sulla pulciosa diatriba estiva pre-Pride si gioca ogni anno una sorta di dibattito attinente alla meritocrazia dei diritti: ai froci buoni, integrati, che ambiscono al matrimonio e ai figli i diritti (e la dolce Euchessina)…e a quelli cattivi, che vanno in giro con le paillettes? Che spingano, avrebbe detto Marcello Marchesi.

Sarcasmo a parte, cosa permea questi discorsi?
Intanto, la presunzione di conoscere a fondo chi è il soggetto LGBTIQ normale, come se ci fosse un ben definito tipo LGBTIQ, di lombrosiana memoria, con la differenza che al soggetto LGBTIQ matur* si attribuiscono caratteristiche quali il desiderio di famiglia e figliolanza, mentre la radicalità, il gioco con il corpo ed il sesso sono proprietà del soggetto immaturo e imbrattato di rossetto. Poco importa se poi esistano soggetti che appartengono a entrambe o nessuna di queste categorie.

Beninteso, non ho nulla contro il mettere su famiglia e sposarsi, penso anzi che sia un diritto che deve essere riconosciuto, nella sua pienezza, anche alle persone LGBTIQ che lo vogliano per sé, per le loro vite, ma non credo che tutt* abbiano questi desideri: penso che ci siano modelli relazionali differenti, affettività non riassorbibili unicamente nel concetto di coppia, famiglie di scelta che si discostano dalla famiglia tradizionale mononucleare, identità più ampie che quelle comprese nella narrazione dominante.
Penso che ci siano tante storie differenti e tracciati di vita diversi, che hanno uguale diritto di essere.
Quest’impianto teorico, dicotomico, mi rimanda invece al concetto di morale vigente, di cosa sia considerato perbene e cosa permale.
Il punto è, quindi, da un lato la cristallizzazione che esce da questa dicotomia: o sei padre/madre di famiglia, a modo, con la cravatta (o la t-shirt), un lavoro rispettabile e buon*, oppure sei cattiv*, indecente, vestit* da checca o da puttana, con le macchie di leopardo e il rossetto sbavato; dall’altro è la normalizzazione, cioè l’impossibilità di autodefinirsi secondo altri parametri che non siano quelli identificati come giusti e decenti, di fatto arrivando a bandire la radicalità, la possibilità di critica e di dissacrazione.
In questo modo si costruisce anche un immaginario povero, in cui la libertà di azione di ognun* è minima e in cui la differenza spaventa meno, perché viene ricompresa, ridotta a qualcosa di noto e meno destabilizzante.
Dove finisce allora la mia possibilità di scelta, la mia libertà di azione, nel momento in cui posso essere soltanto in un certo modo?

In seconda battuta, trovo che sia puro marketing -e nemmeno troppo efficace- quello di far sfilare la “normalità”. La normalità ha a che fare più con il concetto di normazione che con il concetto di realtà. Chi è normale? Il soggetto che in una valutazione di frequenze sta al centro di una curva gaussiana, o poco distante, con un massimo di due deviazioni standard dalla media? Chi rimane tagliato fuori da questo discorso che tutto disciplina? Chi è la coda esclusa? Chi sono, in altre parole, i soggetti fuoriusciti, diventati un discorso marginale? Quali relazioni sono promosse e quali punite?
Penso che sia marketing perché si parte dall’assunzione che, in una società dove l’educazione alle differenze è ancora difficile, mostrarci come simili, come uguali, contribuisca a renderci più accettabili, venda bene il prodotto, truccato ad hoc per il pubblico che lo apprezzerà facilmente (fosse poi vero). Con una definizione della normalità edulcorata, tutta sorrisi e famiglie felici, come se quella fosse la rappresentazione più veritiera e desiderabile della società attuale. Come se quella, per giunta, fosse la fotografia della famiglia eterosessuale a cui essere simili, che, a ben vedere, è comunque molto più sfaccettata di così.
Via libera allora al «panettiere, che ogni giorno ci regala un sorriso al bancone, o l’insegnante di nostro figlio, che stimiamo per la sua cultura», ma che ne sarà della vicina di casa lesbica ma antipatica e avvezza a intrattenere numerosi rapporti sessuali con più e differenti partners? Chi si ricorderà della transgender brasiliana, che si prostituisce per mantenersi (e questo non è per il facile e sbagliato accostamento transgenderismo/prostituzione, ma per calcare la mano su chi si prenderà cura dei soggetti non conformi)?

Nella retorica delle narrazioni, credo che il discorso sulla rispettabilità e la decenza sia pericoloso, perché nega che il diritto di esistenza e di relazione sia universale e debba essere garantito a priori a qualunque essere umano- in quanto fa parte dei diritti umani poter esprimere liberamente il proprio orientamento, la propria identità ed espressione di genere- ma fa del diritto una concessione dall’alto, esclusiva del soggetto conforme alla società e socialità.
Introducendo implicitamente la meritocrazia del diritto: i diritti come appannaggio di chi se li merita.
Nell’invocare sobrietà e cravatte ai Pride, leggo tra le righe il desiderio -che è ben più ampio del Pride stesso- di disciplinare corpi e sanzionare comportamenti: sorvegliare e punire, in un meccanismo di controllo sociale, reciproco, che spacca la stessa comunità che rivendica il proprio diritto ad esistere.
In una riduzione asfittica dell’agibilità politica e della possibilità di contrattazione.

Reuters/Jim Urquhart, dal sito www.charismanews.com

L’assimilazionismo e l’omofilia hanno attraversato la storia del movimento omosessuale di rivendicazione: negli anni ’50 il movimento omofilo guardava con sospetto, nel più benevolo dei casi, e con sdegno e livore più di frequente, alla liberazione e al culto del corpo, ai locali di intrattenimento, al divertimento, opponendo a questo tipo di subcultura che stava prendendo piede un netto rifiuto in nome della rispettabilità. Secondo il movimento omofilo era infatti colpa dell’ostentazione se c’era una stigmatizzazione e un accanimento così forte nei confronti della popolazione LGBTIQ. Poi vennero il Gay Liberation Front, l’epoca della liberazione, il ’68, momento dal quale, si sperava, non si sarebbe tornat* indietro.
Corsi e ricorsi.

Penso però che si possa superare un ragionamento di così vecchio stampo, al grido di Pride libera tutt*, rinfrescando la memoria, come primo atto dovuto di quella che di fatto si chiama Marcia di Christopher Street.
Cos’era Stonewall, il 28 giugno 1969?
Era un moto di insurrezione, un momento di insubordinazione e lotta, era il grido ora basta, una bottiglia lanciata, con rabbia e con esasperazione, da Sylvia Rivera, una transgender, contro un poliziotto, dopo l’ennesima retata nel bar Stonewall Inn, in Christopher Street, a New York.
Erano scontri di migliaia di gay, lesbiche e transessuali contro le forze dell’ordine in assetto antisommossa, in un’intifada di bottiglie e pietre. Ma era anche la provocazione irridente di dire:

«Siamo le ragazze dello Stonewall
abbiamo i capelli a boccoli
non indossiamo mutande
mostriamo il pelo pubico
e portiamo i nostri jeans
sopra i nostri ginocchi da checche!»

[coro di drag-queen in fila contro i poliziotti, riportato in PIONTEK, T., 2006. Queering Gay and Lesbian studies. Champaign: University of Illinois Press. Pag. 7]

Il Pride si è arricchito successivamente, di altri significati.
Oltre alla marcia per i diritti, si porta così in strada, in una festa collettiva, alla luce del sole e ben visibile, una cultura variegata, che tiene dentro molti contenuti e soggettività diverse: la cultura LGBTIQ. Che non è certo univoca e unitaria, ma frammentaria, come si addice a una comunità molteplice come quella LGBTIQ, accomunata dalla volontà di liberazione, ma spesso differente nella sua composizione per ceto, provenienza, etnia, istruzione, genere ed identità di genere, orientamento sessuale.

Dunque, come scendere in piazza?
Come si vuole, ognun* con la propria identità, storia ed individualità. Con i propri desideri e il proprio corpo, con gli abiti che ci stanno meglio o peggio addosso, con le relazioni che abbiamo, se le abbiamo. Con le cravatte e le sciarpe, con i boa di struzzo e i capezzoli in nastro adesivo nero.
Con le famiglie e le figlie, ma anche con le amiche e sorelle o da sole.
E in due, e in tre. Con i mariti, le mogli, le compagne, le amanti.
Marciando e gridando slogan ma anche ballando, cantando, spogliandoci e celebrando la bellezza dei nostri corpi.
Favolosamente.
Con la sola regola di sentirci a nostro agio, perché il Pride è un momento in cui essere orgoglios* di ciò che siamo e l’orgoglio porta con sé tanta felicità.

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De-individualizzarsi

– fakin iurop, Ideadestroyingmuros

idmQPer noi sperimentare con il corpo e la sessualità nella performance è un atto di spostamento continuo dei limiti che il vissuto quotidiano genera.
La nostra diaspora, tanto territoriale quanto sessuale, dall’italia alla spagna, dall’eterosessualità normativa a una sessualità diasporica, ha implicato una presa di coscienza di quanto i limiti corporali e le relazioni sessuali siano profondamente relazionati in maniera situata a un contesto determinato.
Le pratiche artistiche quando sono politicamente compromesse permettono mettere in dialogo le differenze.
Si tratta di materializzare i nostri immaginari: esprimendo metafore con il corpo, traducendo concetti in situazioni reali e collettive, proponendo la critica alla religione cattolica, alla monogamia dello stato, alla famiglia, alla superficialità emozionale e sessuale, all’infantilizzazione del corpo femminile desiderabile, alla costruzione dell’’uomo stallone vecchio bavoso e al capitalismo di matrice italiana, questioni che possono scomodare ma che non possono rimanere nascoste dietro una locandina.
Per noi il linguaggio della performance è ciò che più si avvicina a generare una esperienza condivisa, trasformando la nostra finzione in una realtà in potenza.
L’odore a sesso, la nostra respirazione, i flussi e arrivare a toccarci, sono strumenti che mettono in pericolo la distanza con lo spettatore, distanza alla quale siamo abituate nelle nostre vite mediate dalle tecnologie.
Il discorso istituzionale scommette molto spesso per l’individualismo artistico, crediamo quindi importante sottolineare che per noi parlare di reti significa inevitabilmente parlare di incontri e di innamoramenti che hanno permesso creare situazioni collettive, spostamenti e collaborazioni.

M.Foucault, “Introduzione alla vita non-fascista”

Come fare per non diventare fascisti anche se (soprattutto se) si crede di essere militanti rivoluzionari ? Come liberare i nostri discorsi e i nostri atti, i nostri sentimenti e i nostri piaceri dal fascismo? Come snidare il fascismo rintanato nel nostro carattere ?

Azione politica libera da qualsiasi paranoia totalizzante e unitaria.

Sviluppo di azioni, pensieri e desideri mediante proliferazione, giustapposizione, disgiunzione, e non per suddivisione e gerarchizzazione piramidale.

Non fidarsi più delle vecchie categorizzazioni del Negativo (legge, limite, castrazione, carenza, lacuna), per troppo tempo sacralizzate dal pensiero occidentale come forma di potere e accesso alla realtà. Preferire ciò che è positivo e molteplice, la differenza all’uniformità, i flussi all’unità, le disposizioni mobili ai sistemi. Credere che ciò che è produttivo è nomadico e non sedentario.

Non credere che occorra essere tristi per essere militanti, per quanto sia abominevole ciò che si combatte. E’ la connessione del desiderio con la realtà (e non la sua fuga nella forma della rappresentazione) che possiede forza rivoluzionaria.

Non usare il pensiero per fondare una pratica politica sulla Verità, né l’azione politica per screditare – in forma meramente speculativa – una linea di pensiero.

Usare la pratica politica come un intensificatore del pensiero, e l’analisi come un moltiplicatore delle forme e degli ambiti d’intervento dell’azione politica.

Non chiedere alla politica il ripristino dei “diritti individuali”, come sono stati definiti dalla filosofia. L’individualità è un prodotto del potere. Ciò che occorre è “de-individualizzarsi”, con la moltiplicazione e la dislocazione, in combinazioni diverse.

Il gruppo non dev’essere un legame organico che unisce individui gerarchizzati, ma un costante generatore di”de-individualizzazione”.

Non innamorarsi del potere.

Michel Foucault
tratto dalla prefazione  all’edizione americana del 1977 di Deleuze, Guattari, Antiedipo (1972)

Traduzione di Pesce Babele

Testo originale francese della prefazione

Edizione americana completa a cura di B.Massoumi di Deleuze, Guattari, Antioedipus, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1977

Mujeres Libres: S-corporati dalla norma!

adesivo

Dalle meravigliose Mujeres Libres di Bologna rilanciamo la loro campagna: Schifosa pubblicità sessista!

Buona lettura!

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Circa un anno fa ci siamo ritrovate ad affrontare, nel nostro percorso di autocoscienza, il tema dei corpi e dei modelli di donna che ci vengono quotidianamente riproposti dalle pubblicità e dai mass media.

Ci siamo ritrovate a raccontarci i nostri corpi, a chiederci cosa ci piace e cosa non ci piace di loro, a mettere in luce quanto il nostro giudizio sia assoggettato ai modelli di bellezza femminile che esaltano unicamente corpi magri, aggraziati, glabri, profumati, abbronzati e con le forme giuste al posto giusto. Da qui è scaturita la volontà di analizzare uno tra gli strumenti principali attraverso i quali vengono veicolati questi modelli: la pubblicità. Perciò è nata l’idea di lanciare la campagna “Schifosa pubblicità sessista” che incita tutt* ad attaccare un adesivo di denuncia sopra tutte le pubblicità sessiste che ci circondano per le strade (tutte le info le trovate qui ). Leggi tutto “Mujeres Libres: S-corporati dalla norma!”

La legge svedese in materia di prostituzione: presunti successi ed effetti documentati

nobadwhores

Presentiamo una sintesi dell’articolo The Swedish Sex Purchase Act: Claimed Success and Documented Effects. Le autrici Susanne Dodillet e Petra Östergren (studiose che hanno approfondito diversi aspetti della legge antiprostituzione svedese, condotto ricerche sul campo, ecc.), hanno concepito l’articolo per svelare al pubblico internazionale le conseguenze reali del ‘modello svedese’ e ci offrono la prima compilazione dei suoi effetti che sfronda l’insidiosa narrativa ufficiale con il ricorso ai dati oggettivi effettivamente disponibili. Questo Conference paper è stato presentato all’ International Workshop: Decriminalizing Prostitution and Beyond: Practical Experiences and Challenges (The Hague, 3-4 Marzo 2011).

Il testo completo è molto lungo, per agevolare la lettura pubblichiamo un prima parte, una traduzione sintetica dell’introduzione realizzata da H2O e revisionata dal gruppo traduzioni militanti che collabora anche con il blog Intersezioni. Quando sarà pronta la traduzione del testo completo pubblicheremo un .pdf da distribuire tra gli/le addetti ai lavori (e non solo).

Buona lettura!

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Il fatto che la legge svedese che criminalizza l’acquisto di prestazioni sessuali venga considerata una misura unica nel suo genere perché punisce solo l’acquisto (e non la vendita) di prestazioni sessuali è una semplificazione discutibile: innanzitutto perché il Sex Purchase Act non è dissimile da altre leggi e regolamenti utilizzati in altri paesi per la riduzione o l’estirpazione della prostituzione mediante strumenti legislativi. Inoltre, perché è riduttivo attenersi unicamente alle parole di un atto di legge (‘sono solo coloro che acquistano le prestazioni sessuali ad essere puniti’) e tralasciare gli effetti indiretti da esso conseguenti. È ovvio infatti che una legge che proibisse l’acquisto dei servizi offerti nel massaggio terapeutico, nella psicoterapia o nel counselling per la salute sessuale ad esempio, nel punire chi acquista tali servizi produrrebbe conseguenze negative anche su chi quei servizi li offre.
La cosa che rende certamente unico il Sex Purchase Act è la maniera in cui è stato giustificato dai legislatori femministi fin dal principio: con la motivazione che la prostituzione sia una forma di violenza maschile sulle donne, che prostituirsi sia fisicamente e psicologicamente dannoso e che non vi siano donne che vendono prestazioni sessuali volontariamente. Ai tempi della sua introduzione la prostituzione veniva considerata come un ostacolo al raggiungimento dell’uguaglianza di genere non solo per i motivi appena citati ma anche perché l’idea stessa che un uomo potesse pensare di poter ‘comprare il corpo di una donna’ veniva ritenuta lesiva per tutte le donne. Il fatto che l’interdizione dalla prostituzione fosse lesiva per le donne che vendono prestazioni sessuali, o che violasse il loro diritto all’autodeterminazione non era ritenuto importante. Il valore simbolico veicolato dal Sex Purchase Act per l’uguaglianza di genere risulta(va) più importante: questa visione ispirata al femminismo radicale è esistita in occidente a partire dagli anni Settanta ma non è mai stata tradotta in un provvedimento governativo. Tranne che in Svezia (nel 1998 e ancora nel 2006).

Un altro aspetto unico del Sex Purchase Act è stata la persistenza con cui tale divieto, o ‘modello svedese’, è stato propagandato. L’esportazione ad altri paesi era uno degli obiettivi dichiarati fin dall’inizio — ed è stato perseguito da entità governative e non governative con l’ausilio di pubblicazioni cartacee ed elettroniche, filmati, iniziative, workshop, seminari e dibattiti. Prova ne è che quando i paesi iniziano a interrogarsi sugli emendamenti da apportare in materia di prostituzione si rivolgono alla Svezia in cerca di ispirazione.

Il pezzo forte della campagna di divulgazione del Sex Purchase Act sono stati i successi attribuiti alla sua applicazione, tra cui vengono generalmente annoverati il calo della prostituzione, la diminuzione della tratta a fini sessuali, l’effetto deterrente sui clienti e il mutamento della percezione della società nei confronti della prostituzione. E non risultano conseguenze negative (la versione ufficiale più recente di questa tesi, ripresa dalla CNN, risale al 2010). Ad un’analisi più attenta, il punto debole di questo tipo di asserzioni è la mancanza di dati o ricerche che ne possano supportare la dimostrabilità. Nel processo di consultazione previsto dall’iter di emendamento della legge svedese (successivo alla pubblicazione della valutazione ufficiale del 2010) i dati riferiti sono stati contestati soprattutto dalle entità impegnate nello studio della prostituzione e dagli organismi di riferimento in materia di salute e discriminazione. Tra le obiezioni sollevate: la mancanza di rigore scientifico e di obiettività (l’unico scenario contemplato è infatti quello in cui l’acquisto di prestazioni sessuali è illegale), una definizione incompleta della prostuzione, l’omissione delle interferenze ideologiche (invece significative), dei limiti del metodo, delle fonti e dei potenziali fattori di distorsione; l’inclusione di incongruenze, contraddizioni, la mancanza di rigore bibliografico, l’uso di parametri di confronto irrilevanti o inesatti e la redazione di conclusioni non supportate da dati dimostrabili e spesso di carattere meramente speculativo.

Segue un’analisi dettagliata della discrepanza tra gli effetti positivi attribuiti al divieto e la mancanza di dati dimostrabili a supporto di tali affermazioni. Perché dall’analisi della letteratura e delle relazioni disponibili risulta evidente che gli effetti del Sex Purchase Act sul calo della prostituzione, sulla riduzione della tratta a fini sessuali e sugli effetti deterrenti sui clienti sono di gran lunga inferiori a quanto dichiarato nella valutazione ufficiale. È inoltre impossibile sostenere che la percezione della prostituzione da parte dell’opinione pubblica sia mutata in maniera significativa nella direzione auspicata dal femminismo radicale o che si sia registrato un aumento di consensi rispetto al divieto. E contrariamente a quanto ribadito nella versione ufficiale riguardo al fatto che il divieto non avrebbe avuto effetti negativi per le persone che si prostituiscono sono stati identificati pesanti effetti negativi del Sex Purchase Act, soprattutto in materia di salute e benessere delle/dei sex-worker.

Dopo una panoramica sulle leggi e i regolamenti esistenti in Svezia in materia di prostituzione, l’articolo analizza gli effetti documentati del Sex Purchase Act e presenta alcune conclusioni.

I sottotitoli dell’articolo:

  • Introduzione (sintetizzata sopra)
  • Legislazione svedese in materia di prostituzione (quali leggi e regolamenti costituiscono il ‘modello svedese’, con una breve spiegazione dei dettami e degli effetti di ciascuno)
  • Materiali di riferimento (e fonti) utilizzati dalle autrici dell’articolo
  • Diffusione (i dati disponibili sul fenomeno della prostituzione in Svezia, prima e dopo l’entrata in vigore della legge)
  • Tratta per fini sessuali (la contraddittorietà dei dati disponibili al riguardo)
  • Effetto deterrente sui clienti (il ‘cazzotto a vuoto’)
  • Effetti sulla percezione del fenomeno da parte dell’opinione pubblica (da dove vengono dedotti e quali sono)
  • Effetti indiretti (non contemplati dalla legge e negativi per la salute e la salvaguardia delle/dei sex-worker)
  • Conclusioni (ruolo dell’ideologia sulla discrepanza osservata tra gli effetti dichiarati della legge e quelli riportati con il ricorso al metodo scientifico)