Siate come i maiali

Riceviamo, e volentieri condividiamo, questo post di Sara Romagnoli. Buona lettura!

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In questi giorni, centinaia di allevatori si sono radunati in piazza, davanti a Montecitorio.

Lo hanno fatto con alcuni maiali, che inconsapevoli, insieme a loro, protestavano perché non riconosciuti come maiali italiani da forchette, coltelli e più in generale signori palati e compagne papille.

Chiusi in un recinto, sdraiati su giacigli di paglia nel vano tentativo di dormire, cuccioli di maiale si stringevano forte gli uni sugli altri, un unico roseo corpo. Tra gli esponenti della Coldiretti qualcuno li accarezzava – i cuccioli fan sempre un certo effetto, nonostante tutto – e nel fragore di clacson, fischietti, megafoni e microfoni giornalistici si sbraitava, si accusava, si denunciava e soprattutto si pretendeva di argomentare facendo uso di termini come “materia prima”, accomunando quegli stessi cuccioli alle spighe di mais i cui chicchi macinati al mulino diventano farina, ed in seguito filoni di pane.

Svolgendo quell’equazione matematica frutto di sociopatia per la quale i maiali stanno al Parmacotto come le conifere della Russia stanno all’Ikea, il teatrino svoltosi in piazza a Roma costringe l’antispecismo teorico ad inventare nuove teorie e ad affinare quelle già discusse, perché con la protesta di oggi (e a dire il vero con proteste simili già svoltesi anni addietro), ha chiamato in causa qualcosa di peggiore del fatidico “referente assente”, giacché il referente era presente eccome, in carne ed ossa – è proprio il caso di dirlo – al centro del dibattito, spalleggiato da parenti più o meno stretti sotto forma di cosce affumicate.

Nella recriminazione di una folla arrabbiata che rivendica diritti per se stessa, in quanto categoria lavoratrice, nessuno pare cogliere l’irrazionalità di un comportamento quasi bipolare che dispensa carezze al suo protetto ed al tempo stesso esige il rispetto ed il riconoscimento per la sua futura carriera di cotechino.

Inutile sottolineare in questa sede, quanto al danno si aggiunga la beffa per coloro che, volenti o nolenti, si ritrovano a contribuire ANCHE di tasca propria a questa forma di follia istituzionalizzata, giacché le sovvenzioni agli allevatori incarnano talmente bene lo spirito democratico del Paese che non fanno distinzioni ed attingono in egual misura da animalisti, vegetariani, vegani, antispecisti, che diciamolo chiaramente, spenderebbero più di buon grado quegli stessi soldi in cubetti di ghiaccio in Antartide.

E mentre nella capitale della politica italiana va in scena la mistificazione distillata della felice storia di tutte le Peppa Pig del mondo, nella capitale della Cina italiana (Prato), il palco è impegnato con la citazione delle tre scimmiette: Io non vedo, Io non parlo, Io non sento.

Complice la crisi, l’assenza di questi ulteriori referenti dagli occhi a mandorla è diventata man mano sempre più accentuata, ma si tratta di un accento che si limita a farsi (non)sentire solo sul piano nominale.

Che piccole mani orientali tessano, cuciano, incollino, taglino, sferruzzino e tanto altro ancora 24h su 24 è risaputo da tutti ormai, ma i cinesi ci rendono le cose molto più semplici: si rendono “assenti” senza che ci sia bisogno che qualcun altro lo faccia per loro; si fanno piccoli, più piccoli di quanto già non siano, e si calano talmente bene nell’occidentalissimo ruolo di “risorse umane” (quanto fa schifo questo termine? Diciamo anche questo suvvia), da diventare schiavi.

Schiavi che stipati, pigiati, pressati e sfruttati lavorano in silenzio per meno di 3€ l’ora senza lamentarsi, senza denunciare, senza quasi scomporsi. Limitandosi a tentare di salvarsi la vita quando proprio sono al limite e quando arriva il fuoco a lambire gli scatoloni ove a conti fatti dormono, mangiano e lavorano.

Le analisi di premesse e dinamiche che permettono che cose come queste avvengano sono complesse e meriterebbero interi saggi.

A quei cinesi qui possiamo solo limitarci a dire di essere come i maiali. I maiali da vivi, ben inteso.

Avete mai provato a forzare un maiale? A costringerlo a fare qualcosa che capisce esser male per lui, o anche semplicemente a fargli fare qualcosa che non vuole, che non gli piace?

Il maiale strepita, si dibatte, si agita, si impunta, si dispera, urla, piange. Il maiale si ribella.

E a dispetto dello specismo che lo prende a prestito per indurre la vergogna ed indicare perversione e lordura, il maiale è un animale nobile che sconta l’esser divenuto l’incarnazione del concetto di risorsa al massimo livello.

Perché del maiale non si butta via niente dice l’antico adagio.

Niente esclusa la vita. Aggiungiamo noi.

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Paura dei sentimenti: trauma e guarigione nel movimento di liberazione animale

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di Pattrice Jones, traduzione di feminoska, revisione di Eleonora.

Anche nel caso di questa traduzione sottolineiamo che nel testo viene usato il termine ‘animali’ a designare gli animali non umani; pur rispettando la lettera del testo originale, ci preme sottolineare che animali non umani sarebbe stato un termine più felice, nell’ottica di riaffermare la ns. consapevolezza di essere anche noi animali – seppure umani – ed inoltre perché la dicotomia umano-animale è funzionale a quell’idea di ‘superiorità morale’ dell’animale umano sull’animale non umano che vogliamo demolire (come ben spiegato nella traduzione del testo Farla finita con l’idea di umanità precedentemente pubblicata su Intersezioni)… buona lettura!

Sola su di un palco alla Syracuse University, Sarahjane Blum trema dall’emozione mentre racconta ciò che ha visto all’interno di una fabbrica di foie gras. Ascoltando ma anche vivendo le sue parole, il pubblico assiste alla sofferenza delle anatre attraverso gli occhi di Sarahjane. Quando le parole vengono a mancare, Sarahjane mostra alcune scene del video ‘Delicatezza della Disperazione’. Seduti nella sala buia, studiosi e attivisti vorrebbero sottrarsi, ma si sforzano di assistere alla sofferenza visibile sullo schermo.

Su un banchetto informativo appena fuori dall’auditorium, uno schermo trasmette in loop video di maltrattamenti animali filmati sotto copertura all’interno dei laboratori dell’Huntingdon Life Sciences. Ripetutamente, un uomo urlante in camice bianco da laboratorio compie abusi su cuccioli di beagle. Si possono solo immaginare le elucubrazioni mentali necessarie alle/agli attivisti seduti al banchetto per tollerare la raffica incessante di rabbia umana e sofferenza animale. E che dire dell’attivista che è entrata all’HLS sotto copertura, come dipendente, per far emergere la realtà di tali abusi? Come ha potuto gestire le proprie emozioni in quel momento? Che cosa sente ora?

In un bel pomeriggio di fine settembre, Karen Davis, Presidente di United Poultry Concerns si ferma al rifugio Eastern Shore. È sconvolta, ha appena assistito all’eutanasia di una gallina malata e incurabile dal veterinario. Come sempre, Karen è rimasta con la gallina fino alla fine. Le persone le chiedono di continuo: “Come puoi andare avanti senza sentirti turbata?” Quello che non capiscono, dice, e il tono di voce si fa più alto, è che “io sono sempre turbata!” Tutto quello che può fare, sostiene Karen, è andare avanti, incanalando i propri sentimenti in qualcosa – qualche documento, qualche discorso, qualche parola – in grado forse di fare la differenza.

Il disastro ha colpito un’altra fabbrica di uova. I soccorritori convergono sul posto, cercando di salvare il maggior numero possibile di galline. Migliaia sono già morte. Essendo rimasti senza cibo né acqua per molti giorni, gli uccelli sopravvissuti – intrappolati nelle gabbie con i loro compagni morti – sono ancora più sconvolti delle solite galline in batteria. Qualcuno sbatte le ali freneticamente, altri stanno immobili, i dorsi ricurvi esprimono i loro sentimenti di impotenza. Uno dei soccorritori nota alcune galline intrappolate nelle fosse degli escrementi sotto le gabbie e guada il letame nel tentativo di salvarle, ma deve tornare indietro quando, ormai immerso fino alla cintola, rischia di essere risucchiato. Nelle settimane successive, soffrirà di insonnia, sogni ricorrenti di essere impotente in mezzo ad animali non umani che hanno bisogno di aiuto e ricordi intrusivi degli uccelli che non ha potuto salvare.

Le nostre emozioni animali

Le persone sono animali. Gli animali hanno sentimenti. Gli animali hanno corpi che sperimentano ed esprimono i loro sentimenti. Come tutti gli altri processi fisiologici, i sentimenti persistono anche quando vengono ignorati o negati.

Uno dei miti della superiorità umana è che siamo in grado di trascendere le nostre percezioni, mentre gli altri animali ne sono vincolati. Questo va di pari passo con l’idea che possiamo e dobbiamo superare la nostra corporeità, mentre gli animali non umani vi coincidono sempre. Questa idea è così profondamente radicata in molte culture occidentali ed orientali che anche le/gli attivist* per la liberazione animale possono implicitamente abbracciarla.

Quando ci rifiutiamo di riconoscere i nostri limiti fisici o ci aspettiamo di essere immuni dal fattore emotivo che influenza gli altri animali, siamo pericolosamente vicin* alla mentalità “mente (umana) contro corporeità (animale)” che porta alla biotecnologia e agli altri sforzi per rimodellare il mondo naturale secondo le nostre fantasie di onnipotenza e di controllo.

In realtà la vita segue le proprie regole, non le nostre. Non abbiamo più controllo sulle nostre emozioni animali di qualsiasi altro vertebrato. Possiamo scegliere quello che facciamo dei nostri sentimenti e anche, in certa misura, se sperimentarli pienamente. Ma non possiamo scegliere di non arrabbiarci per le ingiustizie o di sentirci tristi di una perdita, più di quanto un pollo possa scegliere di non avere paura di un falco o di sentirsi frustrato da una gabbia.

I sentimenti possono essere sia spaventosi che seducenti poiché rimangono selvatici, indipendentemente da quanto invece siamo diventati addomesticati noi. Tuttavia, l’unica cosa da temere dei sentimenti è la paura di quei sentimenti. Come fiumi, i sentimenti sono più pericolosi quando arginati o impropriamente incanalati. Come fiumi, fluiranno in ogni caso e possono diventare imprevedibilmente distruttivi, se non gli si permette di seguire i propri percorsi naturali.

Spesso, le/gli attivist* esitano a parlare dei propri sentimenti – o anche a pensarci – perché la sofferenza degli altri animali è, a confronto, molto più grande. I motivi di questa auto-repressione sono altruistici, ma i risultati possono essere controproducenti. Ovviamente, il disagio causato dall’assistere alla violenza non è paragonabile al terrore e al dolore vissuto dalla vittima della violenza. Ma l’angoscia del testimone è reale e non può essere cancellata dai paragoni. Recenti ricerche hanno dimostrato che gli eventi traumatici possono avere un impatto emotivo ugualmente potente sui testimoni e sulle vittime. Sia i testimoni sia le vittime di stupro e violenza domestica, per esempio, possono sviluppare sintomi di stress post-traumatico (PTSD). Secondo la PTSD Alliance, segni di stress post-traumatico possono svilupparsi dopo ogni esperienza che porti a sentimenti di “paura intensa, orrore e senso di impotenza.” L’impotenza di fronte al pericolo per sé o altr* è un enigma per il corpo. I sensi gridano “Questa è un’emergenza!” e il sistema nervoso risponde bloccando la digestione, pompando sangue extra per i muscoli di braccia e gambe, liberando adrenalina nel sangue, rendendo la visione più acuta, e in ogni modo preparando l’organismo a combattere o fuggire. Ma il corpo non ha nulla da fare! Il sistema nervoso mantiene su di giri i motori interni e i sensi continuano a gridare “Emergenza!”, ma non c’è nessun posto per tutta quell’energia ed emozione. Se questa situazione persiste abbastanza a lungo o si ripete abbastanza spesso, l’organismo può venirne danneggiato permanentemente. Era facile notare atteggiamenti come questi durante la prima guerra mondiale, quando i soldati bloccati nelle trincee sopportarono bombardamenti apparentemente senza fine senza poter fare nulla per combattere o difendersi. Molti finirono colpiti da psicosi traumatica, seduti immobili in letti d’ospedale mentre i loro cuori battevano come se fossero ancora sotto il fuoco.

Stress traumatico

Gli americani hanno scoperto lo stress traumatico – come lo intendiamo oggi – sulla scia della guerra in Vietnam. Incubi, flashback e sentimenti debilitanti di paura o rabbia – scoprimmo – erano le conseguenze più comuni dell’esposizione agli orrori della guerra. Come Judith Herman ha ampiamente dimostrato nel suo libro ‘Trauma e guarigione’, è una lezione che abbiamo dimenticato prima ancora di impararla. Ogni generazione cerca di dimenticare i traumi che ha subito e, così facendo, diventa più probabile infliggere un trauma alla generazione successiva.

Un trauma è una lesione o uno shock. Lo stress dovuto all’aver vissuto un evento traumatico, di avervi assistito, o persino di esserne venut* a conoscenza può scatenare reazioni cognitive, emotive o fisiche. Recenti studi sulle persone con PTSD hanno mostrato che episodi traumatici, in particolare quando sono subiti o ripetuti, possono portare a cambiamenti nella chimica del cervello, nel flusso del sangue e nel metabolismo. I liberatori, le persone che compiono investigazioni nei luoghi dove si commettono crudeltà sugli animali non umani, il personale dei rifugi e le/gli attivisti per i diritti animali affrontano e spesso testimoniano direttamente e ripetutamente sofferenze estreme, sperimentando continuamente la combinazione di emergenza e di impotenza che è il segno distintivo di ogni evento traumatico. Come risultato di ciò, spesso lottiamo con disturbi del sonno, ricordi intrusivi ed emozioni troppo acute o al contrario assenza di emozioni.

Se hai livelli elevati di noradrenalina, livelli più bassi di serotonina e un flusso anormale di sangue al cervello, raccontarti che gli animali non umani hanno la peggio non cancellerà i problemi. Se questi problemi ti impediscono di riposare a sufficienza, interferiscono con la tua capacità di concentrazione, o compromettono la tua capacità di mantenere rapporti di lavoro produttivi con le altre persone, allora è probabile che anche l’efficacia del tuo attivismo per gli animali non umani peggiori. Le quattro caratteristiche dello stress post-traumatico sono:
• Tendenza a rivivere l’esperienza traumatica. Incubi, ricordi intrusivi, flashback e forti risposte emotive nel richiamare l’esperienza sono tutti i modi in cui una persona rivive le esperienze traumatiche.
• Intorpidimento emotivo. Può assumere la forma di sentimenti di distacco o estraneità, perdita di interesse per attività solitamente piacevoli, mancanza di sentimenti positivi, o mancanza di qualsivoglia sentimento.
• Tendenza ad evitare ricordi legati all’esperienza. Le persone spesso evitano o addirittura sviluppano reazioni fobiche a persone, luoghi, cose o attività che ricordino in qualche modo l’esperienza traumatica. A volte, cambiamenti di comportamento che sembrano non avere alcun senso risultano essere sforzi per evitare di ricordare il trauma.
• Maggiore eccitazione. Può assumere la forma di una reazione amplificata a rumori forti o altri stimoli, ma anche di una maggiore soglia di vigilanza nei confronti tutto ciò che riguarda il trauma vissuto.

Se subisci un trauma, devi essere pront* ad una reazione di stress. Fai il possibile per prenderti cura di te stess* o permetti ad altr* di farlo, ricordando che – se ci si prende il tempo di farlo immediatamente – puoi così prevenire o attenuare l’emergere di sintomi di PTSD più persistenti e debilitanti. Trova il modo di vivere e di esprimere i tuoi sentimenti, soprattutto parlando con persone che si immedesimino facilmente, ma anche attraverso il movimento, la musica, l’arte, o altre modalità sicure di espressione. Presta particolare attenzione al riposo e all’alimentazione, in modo che il corpo abbia le risorse per far fronte agli aspetti fisiologici del trauma. Se noti che tu o altr* state sviluppando sintomi riconducibili allo stress post-traumatico da un mese o più e che queste reazioni sono causa di disturbo o disagio significativo, è il momento di agire. I gruppi di lavoro – che si tratti di una terapia di gruppo con un terapista o una serie di discussioni tra pari con regole di base in uno spazio sicuro e moderato da un mediatore esperto – possono essere modalità d’elezione per gli attivisti che hanno a che fare con lo stress legato al proprio lavoro con gli animali. La terapia individuale si è dimostrata efficace contro i casi di PTSD legata a un’ampia gamma di traumi. Conosco divers* attivist* animalist* che hanno cercato una buona dose di psicoterapia con psicolog*, assistenti sociali, o altri consulenti professionisti.

Diversi farmaci hanno dimostrato di essere efficaci nel trattamento di sintomi fisici come nervosismo e insonnia. Coloro che evitano i prodotti farmaceutici commerciali a causa della sperimentazione animale, dovrebbero sapere che esistono una serie di rimedi a base di erbe che, in studi clinici con volontari umani, hanno dimostrato un’efficacia pari o superiore a quella dei farmaci sintetici. Consulta un medico qualificato, allopatico o olistico, può aiutarti a decidere se e come trattare i sintomi. Qualunque cosa decidi di fare, non vergognarti di essere un animale. Qualunque cosa senti è la risposta naturale del tuo corpo a ciò che hai vissuto. Nascondere o negare i tuoi sentimenti non li farà svanire, ma potrebbe anzi farti sentire peggio. Al contrario, portare i tuoi sentimenti allo scoperto spesso aiuta ad indirizzarli. Prima li affronti, prima ti senti meglio e sei in grado di fare ciò che desideri.

Depressione.

La depressione è un’altra conseguenza comune dell’esposizione prolungata o ripetuta a ingiustizie e sofferenze. Come nel caso del disturbo da stress post traumatico, la depressione può compromettere in modo significativo la capacità di agire dell’attivista ed è spesso accompagnata da cambiamenti nel sistema nervoso e nel metabolismo. La depressione è una condizione debilitante spesso associata allo stress post-traumatico, ma può anche essere causata da fattori che vanno da una carenza vitaminica temporanea a conflitti intra-psichici persistenti. Chiunque passa attraverso brevi periodi di tristezza che si possono definire “depressione”. Ma si tratta di una depressione diversa dalla depressione clinica, che è una condizione grave che l’Organizzazione Mondiale della Sanità considera una minaccia a livello mondiale. Se non trattata, la depressione clinica può durare per anni senza sollievo. Con un trattamento adeguato, la depressione può sparire completamente o diventare molto più gestibile.

I sintomi della depressione clinica includono:
• Tristezza prolungata o pianto inspiegabile.
• Cambiamenti significativi nelle abitudini alimentari o di riposo.
• Irritabilità persistente, rabbia, preoccupazione, agitazione o ansia.
• Pessimismo o indifferenza.
• Perdita di energia, letargia persistente o stanchezza inspiegabile.
• Sentimenti persistenti di vergogna, senso di colpa, o inutilità.
• Difficoltà di concentrazione o incapacità di prendere decisioni.
• Isolamento sociale o mancanza di interesse per attività precedentemente piacevoli.
• Dolori inspiegabili.
• Pensieri ricorrenti di morte o suicidio.

Se hai cinque o più di questi sintomi per più di due settimane, o se uno qualsiasi di questi sintomi provoca grave sofferenza o disagio, è il momento di chiedere aiuto a un medico. Poiché molti dei sintomi della depressione possono anche essere causati da patologie gravi, è fondamentale parlare con qualcuno che sia qualificato per determinare se la depressione sia il problema primario e, in caso affermativo, decidere quali misure adottare per trovare un po’ di sollievo, mentre si cercano la causa o le cause.
Esistono persino più modalità di trattamento per la depressione rispetto al PTSD. Le terapie cognitive, comportamentali e psicodinamiche hanno dimostrato di aiutare alcune persone che soffrono di depressione. Se un tipo di terapia non funziona, prova una terapia o un trattamento del tutto diversi. Come nel caso del PTSD, esistono rimedi a base di erbe con efficacia dimostrata pari o superiore a quella dei farmaci sintetici, così non devi scendere a compromessi con i tuoi principi per ottenere un sollievo sintomatico. Come nel caso del PTSD, la mente e il corpo influenzano e sono influenzate dalla depressione. Oltre al riposo e alla nutrizione, l’esercizio fisico è molto importante per le persone che convivono con la depressione.

Se qualcuno che conosci sta parlando di morte o di suicidio, non esitare: chiama l’1-800-SUICIDE per avere consigli su cosa fare. Dimentica quello che pensi di sapere su omicidio e suicidio. Parla con persone competenti in materia e ascolta i loro consigli.
Se sei tu che stai pensando al suicidio, ricordati che il suicidio è una decisione irreversibile che non dovrebbe essere presa alla leggera. La maggior parte delle persone che si suicidano lo fanno perché non si rendono conto che possono liberarsi della propria depressione. Puoi sentirti meglio, e succederà, una volta che avrai avuto il tipo di aiuto giusto per te. Allora, avrai a disposizione molti altri anni per lavorare per gli animali non umani. Anche se non credi che riuscirai a fermare lo sfruttamento animale, devi sapere che l’essere salvato è la cosa più importante per ogni singolo animale che viene salvato. Se stai pensando al suicidio, chiama senza indugi l’1-800-SUICIDE, un numero verde locale, il tuo ex insegnante preferito, il tuo migliore amico, o la persona più simpatica del tuo gruppo per i diritti degli animali non umani.
Prima di proseguire, vorrei offrire un pensiero a qualsiasi attivista che stia lottando contro la depressione: puoi non avere alcuna speranza in questo momento, ma io ne ho tanta e te la posso prestare finché non recuperi la tua. Poi potrai passarla a qualcun altr* e saremo pari, perché anche io ho dovuto prenderla in prestito da altre persone in passato. Dico sul serio. Pensaci un minuto e la percepirai. E quando arriverà il momento di trasmetterla, saprai cosa fare.
Ciò che ognun* di noi può fare.
Che ne siano o meno consapevoli, tutt* coloro che si occupano di rifugi per animali, indagini o salvataggi devono gestire le conseguenze naturali di un lavoro emotivamente pericoloso.

Tutt* abbiamo visto cose che nessuno dovrebbe vedere perché tale sofferenza non dovrebbe esistere. Tutt* abbiamo affrontato il peggio che le persone sono in grado di fare e siamo consapevoli che nessuno è veramente sicuro nel mondo perversamente violento dell’attività umana. Siamo tutt* traumatizzati dalla nostra incapacità di fermare la violenza e perseguitat* dai ricordi di animali che non siamo stati in grado di salvare. Sappiamo tutt* che il nostro è un trauma secondario, che il trauma primario è subito dagli animali. Ma sappiamo anche che dobbiamo prenderci cura di noi stess* e delle/gli altr*, anche solo allo scopo di agire in modo più efficace per gli animali.

Stando così le cose, ci sono una serie di cose che gli individui, i gruppi, e il movimento come entità possono fare per aiutarci a essere più in salute possibile nel contesto profondamente malsano del mondo sociale che le persone hanno creato.
Il primo passo è quello di ricordare che sei un animale e che gli animali hanno dei sentimenti. I sentimenti associati con PTSD e depressione sono le reazioni normali di un organismo sottoposto a stress innaturale. Prima impariamo a riconoscere e rispondere ai sintomi di depressione e stress post-traumatico in noi stess* e nelle altre persone, più forte diventerà il nostro movimento.

Strategie personali

Riposati. Stress e depressione sono sia cause che conseguenze dell’insonnia. Da sola, la privazione del sonno può trasformare persone altrimenti felici in persone ansiose, arrabbiate, o abbattute. Se sei già alle prese con sentimenti difficili, la mancanza di riposo adeguato può rendere la lotta più difficile. Riposa il corpo anche se hai difficoltà a dormire. Puoi provare un rimedio di erbe per la mancanza di sonno che non crei dipendenza, come la camomilla, o prendere in considerazione altre strategie per favorire il sonno. Prendi delle vitamine. I corpi sani sono più in grado di sopportare forti emozioni senza crollare. Inoltre, una carenza di alcune vitamine può a sua volta causare depressione. Parla dei tuoi sentimenti. Ascolta quelli degli altri. Esprimi empatia quando si può.
Ascolta il tuo corpo. Dove ti fa male? Che cosa ti aiuta? Che cosa sta cercando di dirti? Ricorda che il tuo corpo ha i propri diritti animali. Non fargli del male. Dagli aria fresca, molto esercizio fisico, e qualsiasi piacere sicuro e consensuale che desideri. Non peggiorare le cose. Le persone a volte cercano di “curare” il loro stress o la loro depressione con alcol o droghe. Se bere in compagnia va bene, bere regolarmente o in maniera compulsiva crea più problemi di quanti ne risolva. Dal momento che l’alcol ha effetti depressivi, le persone alle prese con la depressione dovrebbero evitarlo del tutto.

Strategie collettive

Il tuo gruppo è impegnato in un lavoro che potrebbe portare a stress post-traumatico? Se è così, cosa fa il gruppo per aiutare i propri membri a prendersi cura di se stessi e degli altri? Un gruppo non è altro che un insieme di relazioni. Se queste relazioni sono forti e nutrienti, il gruppo durerà più a lungo e svolgerà più lavoro utile. Il tempo investito nel rendere il gruppo più sano e più solidale sarà restituito con un aumento di produttività e una diminuzione dei tassi di abbandono.

Strategie di movimento

Se potessi, vieterei l’espressione “(x) è niente in confronto a (y)” da tutte le riunioni di movimento e conferenze. Le persone la usano per rimproverarsi le une le altre ed evitare i propri sentimenti di stress e depressione.
I polli “da carne” vivono in capannoni affollati e sono trasportati dai camion verso una morte dolorosa e terrificante a circa sei settimane di età. Le galline ovaiole nelle fabbriche di uova sopportano fino a due anni di tortura nelle gabbie prima di essere trasportate, magari con un viaggio lunghissimo, verso le proprie morti dolorose e terrificanti. Non diremmo mai che ciò che i polli da carne sopportano “non è niente” rispetto a quello che sopportano le galline ovaiole. Anche se è relativamente minore, la sofferenza dei giovani polli da carne è reale e significativa. È particolarmente reale e significativa per loro.

No, il trauma della persona che per svolgere indagini sotto copertura osserva scimmie torturate non è così grave come la sofferenza delle scimmie stesse. Ma non è “niente”. Tutta la sofferenza è reale e significativa, in particolare per chi la subisce. Dobbiamo cambiare l’atteggiamento del nostro movimento verso un’empatia per tutt*, inclus* noi stess*.

Dobbiamo anche iniziare a costruire un’infrastruttura di movimento che aiuti a far fronte in modo più efficace al trauma insito in molte forme di attivismo animale. Perché non abbiamo gruppi di sostegno con moderatori addestrati a tutte le nostre conferenze? Perché non esiste una rete di psicologi per i diritti degli animali che offrano trattamenti gratuiti o a basso costo per gli animalisti che hanno subito traumi? Perché si parla – quando lo si fa – dei nostri sentimenti solo in conversazioni frettolose tra una riunione e l’altra?

Io e la mia compagna gestiamo un rifugio per polli nel bel mezzo di una regione dominata dall’industria avicola. Camion per il trasporto dei polli rombano proprio di fronte alla nostra porta di casa. Non posso dire quanti uccelli siano morti tra le mie braccia. Questo mese sarà il nostro quinto anniversario. Dubito che avrei superato il dolore del primo anno se non fosse per la vicinanza e il sostegno di altre persone che salvano polli. Ci capiamo allo stesso modo – ne sono certa – delle persone che devono affrontare le sfide estreme ed uniche del lavoro sotto copertura. Cerchiamo di trovare modi di sostenerci l’un l’altr* in modo che nessuno di noi si senta sol* nella lotta!

Prima di co-fondare l’Eastern Shore Sanctuary and Education Center, Pattrice Jones ha studiato e lavorato nella psicologia clinica, specializzandosi in terapia individuale e di gruppo per i sopravvissuti ai traumi.

Genuino clandestino e la Fattoria (in)Felice

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Negli ambienti militanti e non, si sta diffondendo la solidarietà e la partecipazione attiva alla campagna Genuino Clandestino, promossa dall’associazione Campi Aperti per denunciare un insieme di norme ingiuste che, equiparando i prodotti contadini trasformati a quelli delle grandi industrie alimentari, li rende fuorilegge. La campagna si è nel tempo trasformata in una rete dalle maglie mobili di singol* e di comunità in divenire che, oltre alle sue iniziali rivendicazioni, propone alternative concrete al sistema capitalista vigente.

Andando a leggere il manifesto che è stato discusso nell’estate di quest’anno emergono dei punti assolutamente condivisibili, che però meritano di essere contestualizzati e analizzati per quello che in realtà comportano e per le contraddizioni che fanno emergere.

Leggi tutto “Genuino clandestino e la Fattoria (in)Felice”

Quando si tratta di animali, per alcune persone niente è già troppo.

Quando si tratta di animali, per alcune persone niente è già troppo.

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Traduzione di questo articolo uscito sull’Huffington Post di Marco Reggio e feminoska, revisione di Eleonora.

N.B.: Nel testo in questione viene usato il termine ‘animali’ a designare gli animali non umani; pur rispettando la lettera del testo originale, ci preme sottolineare che animali non umani sarebbe stato un termine più felice, sia nell’ottica di riaffermare la ns. consapevolezza di essere anche noi animali – seppure umani – ed inoltre perché la dicotomia umano-animale è funzionale a quell’idea di ‘superiorità morale’ dell’animale umano sull’animale non umano che vogliamo demolire (come ben spiegato nella traduzione del testo Farla finita con l’idea di umanità precedentemente pubblicata su Intersezioni)… buona lettura!

Qualche giorno fa, ventiquattro intellettuali scuotevano l’opinione pubblica per far emergere finalmente una riflessione collettiva sullo status giuridico degli animali, considerati finora come delle “cose” dal Codice Civile francese.
In risposta a tale appello, Guy Birenbaum ha pubblicato una nota indignata: com’è possibile emozionarsi per la sorte degli animali mentre il paese versa in una così grave situazione? – ha spiegato Birenbaum in sostanza (sostanza che il “bilancio” da lui aggiunto in fondo alla nota, in fin dei conti, non riesce a mitigare). Non analizzerò qui il ricorso – probabilmente considerato spiritoso dall’autore – a prese in giro nei confronti delle/gli intellettuali e a metafore sessuali, per non dire sessiste (“anche se non sono un intellettuale, voglio che vengano protette le cagne a pelo lungo, i maiali e le pecorine “). Ciascun* potrà apprezzare o no… Io vorrei analizzare la sostanza.
La sostanza è la seguente: la sofferenza animale dovrebbe, pare, restare assolutamente inespressa. Ciò che sconvolge il signor Birenbaum, – e non è un caso isolato – non è il dolore che viene inflitto, ma il fatto che qualcuno abbia l’impudenza – o il cattivo gusto? – di evocarlo. Straordinario. Puo darsi che sia questo, d’altronde, il senso di quella legge americana approvata recentemente, che mira non a prevenire le torture nei confronti degli animali (quasi sistematicamente impunite nei fatti), ma a vietarne la… diffusione (e dunque la denuncia)! Straordinario. I social network sono la dimostrazione di questa impossibilità di evocare la questione: citare il dolore animale porta in modo quasi sistematico e istantaneo a una deviazione del dibattito verso esplicite prese in giro, verso la denigrazione dell’umanità del messaggio o la derisione in riferimento all’uso alimentare dell’animale in questione. Non è questa la sede per analizzare questo malessere le cui radici sono molto profonde. Che nessun carnivoro, o quasi, sia capace di guardare in faccia – e dunque di accettare – ciò che accade realmente ed effettivamente in un mattatoio è problematico in relazione alla coerenza delle nostre scelte di vita. Senza dubbio. Ma si tratta di un’altra questione.
Atteniamoci ai fatti: non è ragionevole sostenere che il nostro spazio mediatico sia invaso da manifesti riguardanti gli animali. Innegabilmente, la questione del loro status giuridico – di cui sarà facile mostrare la centralità dal punto di vista filosofico, etico e scientifico – non occupa affatto il dibattito! Ma i pochi secondi di eco mediatica che questo appello ha suscitato sono già troppi per Guy Birenbaum.
Tutte le sue argomentazioni, se così le vogliamo chiamare, poggiano sull’idea implicita che lo status giuridico attuale degli animali sia un’ovvietà. Un’ovvietà come potrebbero probabilmente esserlo anche le rappresentazioni della terra come piatta o dei neri come inferiori. Che potrebbero e che, senza dubbio, dovrebbero. Ma non voglio arrischiarmi a andare oltre, per rispetto di Guy Birenbaum. Il problema deriva interamente dal fatto che questa “ovvietà” è un errore scientifico. Lo studio dei comportamenti, così come quello dei neurotrasmettitori e della struttura cerebrale, mostra esattamente l’opposto. Questo non implica, in sé, che sia necessario cambiare comportamento nei confronti degli animali. Ma mostra, quantomeno, che se si continua a considerarli come delle “cose” o dei “beni”, bisogna farlo tenendo in grande considerazione le conseguenze logiche ed etiche di tale decisione.
Anche supponendo che la questione animale sia effettivamente secondaria, qual è il senso dell’avvertimento di Guy Birenbaum? Oggi ogni sei secondi un bambino muore di fame. Si tratta incontestabilmente di un abominio insopportabile. Ma dovremmo quindi dedurne che evocare ogni altra questione (poichè ognuna delle altre questioni può effettivamente essere considerata secondaria in rapporto a questa) sia indegno?
La reificazione di cui gli animali sono oggi vittime è di una violenza senza precedenti. Qual è dunque la logica – quella cui fa riferimento implicitamente ed energicamente la nota di Guy Birenbaum quando insiste sul tempismo disastroso – che permette di affermare che finché persiste il dolore umano, ogni altra preoccupazione che non lo riguardi direttamente non è accettabile? Un doppio errore sottende l’argomentazione: da un lato lascia intendere che prendersi cura degli uni (o, potremmo dire, massacrarli con meno violenza) implicherebbe trascurare le/gli altr*; dall’altro, presuppone che verrà un tempo in cui questa questione potrà finalmente essere affrontata, poiché i guai degli esseri umani saranno scomparsi. Queste due ipotesi sono inesatte. Se avessimo dovuto attendere che tutti i nostri mali fossero svaniti per preoccuparci d’arte, di sport o di fisica di base, non avremmo mai iniziato ed evidentemente non inizieremmo mai!
È straordinario come, quand’anche il destino degli animali risultasse perfettamente indifferente a Guy Birenbaum, costui non consideri l’idea che l’empatia verso gli uni si accompagni quasi strutturalmente a empatia verso le/gli altr*. Naturalmente alcuni contro-esempi vengono in mente (no, non Hitler, che come ormai sappiamo probabilmente non era nemmeno vegetariano) ma la questione dello status giuridico degli animali e il riconoscimento giuridico della loro capacità di soffrire – che la scienza ha oggi confermato senza lasciar spazio a dubbi – non può non riecheggiare la nostra indifferenza verso altre sofferenze umane. Queste questioni non sono opposte, anzi. Se la parola “comunità” ha ancora un significato oggi, è certamente quello di “comunità dei viventi”.
Così poco, pochi secondi alla radio, tra i risultati di calcio e il meteo, per accennare l’articolata questione dello status giuridico degli animali che oggi subiscono un trattamento che mai ha avuto precedenti nella storia, è quindi già troppo…
Guy Birenbaum non ci ha risparmiato nulla. Né la presa in giro nei confronti delle/gli intellettuali (di second’ordine, suppongo…), né i luoghi comuni più triti riguardo alla questione animale (fino alla scelta della fotografia e della didascalia), né l’eterno ritornello trito e ritrito: gli esseri umani soffrono, è dunque indegno (o meglio indecente) preoccuparsi – fosse anche solo per qualche istante – degli animali. La più ridicola delle preoccupazioni o informazioni umane (e ne abbiamo già in abbondanza!) sarebbe dunque più degna e decente di una discussione, così breve, sullo status giuridico degli animali. Straordinario. Questo anche se i progressi dell’etologia e della biologia – l’unica cosa che Guy Birenbaum non contesta, perché non può farlo – hanno dimostrato che le loro sofferenze e i loro dolori sono, nella maggior parte dei casi, del tutto paragonabili ai nostri. E lascio peraltro in sospeso una questione fondamentale: anche se fossero diversi dai nostri, questo cambierebbe la loro realtà, perdendone quindi in legittimità? Fino a che punto possiamo spingerci con questo criterio pericoloso della somiglianza come criterio di dignità?
Io ho alcune riserve, che ho esplicitato in altri contesti, su alcune delle opere filosofiche di alcuni delle/dei firmatari* di questo appello. Ma, data la reazione di Guy Birenbaum, è chiaro che passano più che in secondo piano. La sua reazione non è nemmeno insolita visto che molti dei media più importanti hanno ritenuto di dover trasmettere l’informazione come se si trattasse quasi di una… burla.
Il manifesto pubblicato – come ci si poteva aspettare e probabilmente come era necessario – era più che prudente. Non abbatteva alcun tabù. Chiedeva il minimo indispensabile: la presa in carico dell’evidenza dei fatti, vale a dire lo status giuridico degli animali come “esseri senzienti”. Ma era già troppo per Guy Birenbaum. Così “troppo” da mostrarsi visibilmente offeso e decidere di rendere pubblica la sua rabbia.
No! Questo “niente”, questo appello che sarà probabilmente dimenticato nel giro di pochi giorni, questa aspirazione a cominciare a considerare possibile porre un freno all’infinito, incondizionato e inalienabile diritto di infliggere agli animali una sofferenza illimitata e deregolamentata , io non trovo affatto che fosse troppo. E anzi quell’impegno – siatene certo, signor Birenbaum – non mi impedirà di continuare a sostenere i diritti dei rom e degli irregolari, per citare solo alcuni dei “temi caldi” attuali e nazionali. Conoscere la sofferenza degli animali non mi fa amare meno gli umani. È anzi l’esatto contrario. Queste lotte non sono in contrasto tra loro. Non avrebbe alcuna ragion d’essere, se non quella di decidere – arbitrariamente – di renderle reciprocamente esclusive.
Lascio a Kundera il compito di concludere: “La bontà umana, in tutta la sua purezza e libertà, può venir fuori solo quando è rivolta verso chi non ha nessun potere. La vera prova morale dell’umanità (quella più radicale, che si situa ad un livello così profondo da sfuggire al nostro sguardo) è rappresentata dall’atteggiamento verso chi è sottoposto al suo dominio: gli animali. Ed è qui che giace il fallimento fondamentale dell’umanità, un disastro così grave che tutti gli altri ne scaturiscono.”

Ma forse già si trattava di un intellettuale folle? Uno in più, uno… di troppo?

Farla finita con l’idea di umanità – parte seconda

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Poter imporre il proprio dominio non significa essere nel giusto.

Continua da qui.

Bisogna anche liberarsi dell’idea dominante di naturalità.

Per noi è scontato essere parte della specie umana, e questo è un concetto importante, poiché rappresenta  un criterio morale: siamo nat* in quest’evidenza, ce l’hanno insegnata. Ci riconosciamo l’un l’altr* come esseri umani e sappiamo che ci sono diritti e doveri impliciti in questa nozione. Ci percepiamo come uman*, piuttosto che come animali, esseri senzienti o individui.  Ci percepiamo come individui attraverso il nostro percepirci come uman*. Siamo individui, persone, perché siamo umani. Mentre gli animali sono reificati dall’appartenenza alla loro specie, spersonalizzati, l’appartenenza alla specie umana è qualcosa che ci rende persone, individui, esseri unici. Dobbiamo sbarazzarci dell’idea della naturalità della nostra appartenenza all’umanità.

La situazione non è sempre stata questa. Ho già fatto l’esempio del Medioevo in Occidente, quando il senso di appartenenza che superava tutti gli altri era la cristianità; tra gli antichi greci, l’appartenenza fondamentale che permetteva di riconoscersi come eguali, pari, era la cittadinanza: chi non faceva parte della polis poteva essere ridott* in schiavitù. In altre culture, il gruppo di appartenenza fondamentale non è l’umanità ma il gruppo tribale, l’etnia, o un gruppo più ampio – comunque non la specie. È un processo storico e politico quello che ha portato alla situazione attuale, in cui è la specie a costituire la nostra appartenenza fondamentale.

Questo processo è sempre presentato come un fenomeno positivo. In un certo senso lo è stato, in quanto ha incluso sempre più persone nel gruppo di eguali che hanno diritto ad essere rispettat*. Allo stesso tempo, però, ha rafforzato la distinzione con i non-umani e, man mano che si allargava il gruppo dell’appartenenza fondamentale, sono aumentate le strategie per escludere alcuni gruppi dall’ avere accesso pieno all’insieme principale: le donne, i neri, non erano considerat* pienamente uman* perché erano relegat* al polo opposto all’umanità, quello della natura e dell’animalità.

Oggi quest’umanesimo fonda l’etica della nostra società su scala mondiale (perché l’umanesimo è un’ideologia praticamente universale) e non solo l’etica: anche la politica. La politica di tutti i paesi del mondo fa esplicito riferimento a quest’idea di eguaglianza, anche se certi casi sono abbastanza ambigui: penso per esempio a certi stati teocratici, nonostante anche in essi ci si rifaccia a un’idea di umanità…

Voglio dire che oggi viviamo in un mondo in cui quest’idea è centrale, imprescindibile a priori, praticamente un tabù. In Francia, per esempio, c’è una legge che punisce penalmente qualsiasi attentato alla dignità umana. Ma cos’è la dignità umana? Siamo noi che l’abbiamo creata – per punire atti razzisti e simili – ma siamo sempre noi che rischiamo di diventare estremamente repressivi se accresciamo le sue applicazioni. Infatti, la nozione di dignità umana è una nozione estendibile all’infinito ed è oggetto di dibattiti appassionati e contradditori – come quello tra cattolici e atei, o tra chi è favorevole all’aborto e chi non lo è, eccetera. In effetti avrei anche potuto intitolare il mio intervento “Farla finita con l’idea di dignità umana”, perché l’idea di umanità è l’idea di un gruppo biologico al quale spetta una dignità specifica – e dire “dignità” è in qualche modo come dire “onore”: questa parola era un sinonimo di “onore” nell’antichità, risulta perciò la versione democratica di un concetto aristocratico.

Fondamentalmente, la critica antispecista dell’idea di umanità è la critica del fatto che la nostra comune umanità, anche se include delle caratteristiche che possono essere straordinarie o eccezionali, non ci assegna una dignità speciale che sia possibile negare ad altri esseri senzienti. Quando parliamo di umanità, parliamo in realtà delle caratteristiche che le sono abitualmente associate, come il fatto di riconoscerci in  esseri pensanti, razionali, sociali, capaci di libertà, di linguaggio, di astrazione, di fare progetti per il futuro. Le caratteristiche dell’essere umano sono infinite. E anche se non chiamiamo in causa l’idea di umanità – ma delle idee più precise, come le caratteristiche che ho appena elencato – tuttavia non c’è ragione per cui si debba pensare che l’essere umano debba godere di una dignità particolare. Non c’è ragione, per esempio, di ritenere che il fatto di essere ‘pensante’ invece di non esserlo debba avere una dignità particolare.

Inoltre, non si tratta di mettere da una parte gli esseri ‘pensanti’ come gli esseri umani e dall’altra quelli definiti come ‘non pensanti’ (!) ovvero gli animali: sappiamo piuttosto che esistono gradazioni costanti dagli uni agli altri e sappiamo anche che è un espediente antropocentrico parlare di classificazione, di progressione, da animale a umano. In verità esistono tipologie differenti d’intelligenza: per esempio, situarsi nello spazio è un’intelligenza molto più forte negli animali, o altri esempi di intelligenze sono la facoltà di ricordare, quella di riconoscere… Il problema è che, parlando di intelligenza, si parte sempre con un’idea già precisa di che cosa sia ciò che chiamiamo intelligenza, ossia qualcosa legato alle nostre facoltà.

Al contrario, vi è un continuum tra le facoltà intellettive degli esseri appartenenti al mondo animale e quelli appartenenti alla specie umana. Inoltre, anche all’interno della specie umana molte persone non corrispondono all’idea consueta di intelligenza su cui è costruita la libertà umana: è il classico argomento degli emarginati, ma anche dei bambini, degli anziani, dei disabili, delle vittime di incidenti cerebrali – che si vedono comunque riconoscere una qualche umanità e dignità umana specifica, pur senza possedere gli attributi che dovrebbero essere essenziali. Ovviamente, non vedo perché si dovrebbe negare loro la garanzia dei diritti fondamentali col pretesto che non possono, per esempio, fare calcoli alla stessa maniera, o non possono reagire in modo adeguato a delle situazioni complesse, eccetera.

Fondamentalmente quest’idea di umanità, da un punto di vista etico, è un’idea che non intrattiene legami logici con le conseguenze che se ne traggono: non è chiaro quale significato particolare dovrebbe avere il fatto di essere uman* o non uman*, così come l’essere nero o bianco o donna o altro. Quindi il fatto di definirla come il valore più alto non ha altra funzione se non quella di evitare di prendere in considerazione la nozione di eguaglianza, che è la nozione etica fondamentale, e di evitare di prendere in considerazione la senzienza (cioè la capacità di provare sensazioni) come criterio fondamentale a partire dal quale possiamo dire di trovarci di fronte a degli esseri che hanno degli interessi da difendere – di cui bisogna tenere conto. Questa nozione di umanità gioca un ruolo anti-etico, come l’idea di natura, perché ci impedisce di ragionare in termini etici, in termini di presa in carico degli interessi delle/gli altr*. Di fatto, la morale umanista sostiene la necessità di prendere in considerazione non i vostri o i miei personali interessi, ma la nostra umanità – che è definita indipendentemente da voi e da me.

Spesso diventa la “parola sociale” del momento. Per esempio, attualmente, prendere in considerazione l’umanità che c’è in me significa nella pratica vietarmi di suicidarmi, proibirmi l’eutanasia anche se soffro enormemente, per il solo motivo che la vita umana è ‘sacra’. Ecco, allora, un altro caso in cui l’idea di umanità si ritorce contro gli stessi esseri umani. Può trattarsi del considerare gli embrioni – che non sono che cellule, che non sentono ancora nulla – come degli esseri umani, e riconoscere loro una dignità umana e dunque dei diritti umani fondamentali. Ne consegue che quest’idea di umanità va ad accordare una sorta di diritto sacro di vita a degli ammassi di cellule che non sentono alcunché, anche a spese della donna incinta – che ha degli interessi, quelli sì, reali e concreti e presenti. Questa è un’altra delle critiche che possiamo fare a quest’idea di umanità, ovvero l’entrare in conflitto con la riflessione etica.

[…] Quest’idea di umanità si definisce attraverso l’incontro/scontro con l’idea di natura e quella di animalità: sono tutte nozioni che è facile mettere in discussione, mentre sono difficili da difendere con concetti precisi e pretese scientifiche: l’idea di umanità e l’idea di natura da un punto di vista scientifico non esistono, l’idea di animalità da un punto di vista scientifico non significa nulla. Per esempio, dal punto di vista scientifico l’umanità si definisce attraverso quali caratteristiche? Comportamentali – in termini di capacità cognitive, mentali? Al contrario, per un certo tipo di genoma? Ma, in che senso, genoma?

Siamo tutt* divers*, tutt* dotat* di genomi diversi, e trovare dei criteri che ci permettano di distinguere chiaramente il genoma umano da uno non umano è arbitrario, e non si tratta mai di un’operazione definibile come necessaria.

E ancora: dovremmo dichiarare umani gli spermatozoi o gli ovuli perché sono portatori di genoma umano? Appare chiaro che la nozione di umanità è lontana dall’essere immediata. Gli umani che hanno delle anomalie genomiche sono degli umani – è dato per scontato che si debba avere un certo numero di coppie di cromosomi, eppure si sa anche che esistono persone – che noi continuiamo a considerare essere umani – che non possiedono lo stesso numero di coppie cromosomiche, per esempio le persone con un cromosoma in più.

Vediamo dunque che anche le definizioni di umanità che si vorrebbero scientifiche, fondate su nozioni scientifiche – come il genoma, eccetera – sono definizioni per partito preso: delle definizioni a tutti gli effetti, e non delle descrizioni del reale che si sono imposte autonomamente.

Criticare la nozione di umanità in questo modo è puramente aneddotico, ma serve per rendersi conto che si tratta di una nozione costruita, risultato di scelte sociali, politiche e storiche: non si tratta affatto di qualcosa di innato, come ci hanno insegnato. Il punto è che fino a quando il valore fondamentale di una società in termini etici e politici resterà l’idea di umanità, cioè un’idea fondamentalmente specista, è ovvio che gli animali continueranno a farne le spese.

E’ possibile immaginare uno specismo – o un umanesimo – ‘soft’, che riconosca negli animali una sorta di ‘fratelli inferiori’? Si resterebbe comunque all’interno di una visione gerarchizzata, con un disprezzo di fondo, in cui il problema non è nemmeno tanto il disprezzo, ma il fatto che persiste comunque una classifica, un ‘più’ e un ‘meno’. Fondamentalmente, quest’idea di umanità – da collegare a quella di eguaglianza – è un’idea che pone la questione in termini di superiorità o inferiorità. Si è più oppure meno umani. È la stessa idea che ha dato vita a concetti che oggi non sono più molto in voga, ma che comunque hanno fatto la loro comparsa nel corso della storia: quelli di sovrumanità e subumanità, che ritengo essere legati alla nozione di umanità.

Non sono concetti accidentali, in quanto rivelano la realtà dell’idea dell’umanità. Rivelano come essa si costruisca per opposizione e distinzione rispetto all’idea di animalità. Questa idea di umanità si basa sulla necessità di distinguersi, di differenziarsi e allo stesso tempo di “valorizzarsi”, nel senso di assegnarsi un valore.

È nel nostro pieno interesse, in quanto attivisti per la questione animale, cercare di attaccare l’idea di umanità, di indebolirla (anche se è difficile) e sovvertirla, per privarla del suo carattere di evidenza naturale e per farla apparire per ciò che è: un costrutto politico che non è neutro, che non è positivo come tentano di descrivercelo, ma collegato a degli istinti di dominazione mostruosi e sanguinari, senza i quali questa stessa idea non avrebbe senso. Se non vivessimo in un mondo in cui gli animali sono sfruttati in modo assolutamente mostruoso, senza scrupoli, senza il minimo rispetto nemmeno dei loro diritti basilari… Se non vivessimo in un tale mondo, ci potremmo allora anche domandare a cosa potrebbe mai servire quest’idea di umanità, che volto potrebbe avere, per cosa si è fatta reale. Ma quest’idea di umanità è legata al sistema di dominio specista e svanirà con esso, e viceversa, per lottare contro il sistema di dominio specista è fondamentale minare quest’idea.

Eid-ul-Adha

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Domani, 15 ottobre 2013, sarà Eid-ul-Adha, ovvero la Festa del Sacrificio.

Nel corso di una delle più sentite celebrazioni musulmane – che rappresenta la commemorazione della disponibilità del profeta Abramo a sacrificare il proprio figlio a Dio – avverrà in tutto il mondo, Italia compresa, un cruento massacro di massa di animali (pienamente coscienti) per dissanguamento, tramite giugulazione.

Trovo assai difficile e pericoloso parlare di questo argomento, poiché si tratta di un tema capace di fomentare l’intolleranza e l’odio di molte persone, che piegano e strumentalizzano le tematiche antispeciste in chiave razzista. Da una breve ricerca in rete, ho scoperto dell’esistenza di diversi blog/siti di musulmani vegani per i diritti animali, sui quali l’argomento dei sacrifici rituali animali è assai dibattuto e in maniera decisamente critica.

Da un articolo intitolato Musulmani, per favore risparmiate gli animali in occasione di questo Eid, di Bina Ahmad e Farah Akbar:

“Il primo incontro di molti musulmani di tutto il mondo con gli animali avviene in occasione delle celebrazioni di una gioiosa festa religiosa – Eid-ul-Azha. In molti paesi musulmani, le famiglie acquistano una capra, mucca, o altro animale domestico dai mercati di animali, settimane prima della festa. In alcune culture, i membri della famiglia decorano con delicatezza l’animale con corone di fiori, perline variopinte e colori. Spesso i bambini si affezionano a queste creature, per via della naturale affinità che i bambini sentono per gli animali. Ciononostante, il giorno dell’ Eid-ul-Azha, giunge per i bambini la traumatica e straziante esperienza di assistere alla macellazione dell’animale a cui si sono affezionati, ucciso pienamente cosciente tramite l’utilizzo di un coltello affilato. E in molti casi, l’uccisione avviene proprio all’interno delle mura domestiche.”

Il sacrificio non è obbligatorio secondo il Corano, ma fa parte di quelle consuetudini che vengono male interpretate come legge. Il testo scritto recita:

“Le loro carni e il loro sangue non giungono ad Allah, vi giunge invece la vostra devozione”(Quran 2:196 ; 2:28 . 35-37)

Syed Rizvi, fisico e fondatore della associazione “Engineers and scientists for Animal Rights”, scrive in proposito:

“Ancora una volta, i musulmani di tutto il mondo hanno “sacrificato” milioni di animali (circa 100 milioni ogni anno, n.d.t.) nel corso di tre giorni durante il mese di Eid-ul-Adha, per onorare Dio.
Eppure sacrificarsi significa, in senso stretto, rinunciare a qualcosa di molto caro, e provare quindi una certa dose di sofferenza nel farlo. Abramo era pronto a sacrificare il figlio, che amava molto e a cui era molto legato.
Questo atto di Abramo rappresenta il vero spirito del sacrificio.

Se io oggi sacrificassi un vecchio divano per una causa più alta, sicuramente verrei deriso, perché un vecchio divano non significa nulla per me. Ma questo mio atto ipotetico non è molto diverso da quello di qualcuno che sgozza una capra per onorare Dio e lo chiama sacrificio, dal momento che la persona non prova alcun attaccamento all’animale se non per i pochi soldi che ha pagato e che sono in fretta dimenticati.
Mi domando se è questo quello che Dio immaginava quando ci ha chiesto di seguire le orme di Abramo e della sua devozione a Dio. Quello che avviene oggi per le strade di Karachi durante l’Eid-ul Adha è una presa in giro della devozione di Abramo per Dio. Va oltre alla mia comprensione come il nostro Dio, che dipingiamo come compassionevole e pietoso, provi piacere nel vedere un cammello indifeso, legato a terra per una delle zampe anteriori e con quelle posteriori legate assieme così strettamente da non poterle muovere, le mascelle legate così strette da non poter emettere alcun suono, e una persona dall’aspetto caritatevole infilare un coltello nella gola del cammello. Il cammello sanguina per decine di minuti, in un’agonia lunga e dolorosa fino alla morte.”
Qui, qui e qui alcuni esempi.

L’articolo prosegue sottolineando come l’argomento della necessità del sacrificio animale sia attualmente molto dibattuto dagli studiosi musulmani, e termina affermando lapidariamente che:
“Quello che succede per le strade di Karachi nei tre giorni della festa dimostra come il ‘sacrificio’ si sia trasformato in un’orgia di sangue che si sottrae a qualsiasi norma di decenza umana.”

 

Farla finita con l’idea di umanità – prima parte

 

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Gli sfruttatori distorcono sempre la realtà, camuffandola in una bella confezione che inganna la maggioranza delle persone.

Uno degli aspetti che sicuramente impedisce a molt* attivist* (e alla generalità delle persone, ovviamente) di vedere le connessioni tra antispecismo e antisessismo/razzismo/fascismo, deriva da quell’idea – tutta specista, ma oramai peculiare al nostro modo di stare al mondo – che ci viene inculcata fin da piccol*, che quella che chiamiamo la nostra umanità porti con sé in ‘dote’ un valore di merito intrinseco alla nostra specie e solo ad essa. Un valore a ben vedere molto ambiguo, dal momento che, se ad un livello teorico viene associato con caratteristiche assolutamente positive (umanità, gentilezza, generosità, ecc…), nella pratica diventa la giustificazione incontestabile per brutalità e violenze efferate e continue su altri animali, umani e non.

La conferenza che abbiamo qui tradotto, di Yves Bonnardel, smaschera questo meccanismo perverso e mette in luce come l’umanità non sia assolutamente una caratteristica ‘naturale’ e connaturata all’essere umano, bensì un costrutto politico volto alla dominazione e alla giustificazione della violenza.

Essendo il testo abbastanza lungo, si è scelto di dividerlo in due parti per renderne più agevole la lettura.

Farla finita con l’idea di umanità

Conferenza tenuta da Yves Bonnardel in occasione de Les Estivales de la Question Animale

Traduzione di feminoska ed Eleonora.

Il titolo che ho proposto è “Farla finita con l’idea di umanità” perché a mio avviso [questo] è un tema cruciale in rapporto alla questione animale. È proprio l’idea di umanità il vero ostacolo che impedisce di prendere in considerazione gli interessi degli [altri] animali.

È una questione che sembra difficile affrontare direttamente: una questione che ritorna ciclicamente negli scritti animalisti, ma sempre all’interno di una frase, in un capoverso, mai secondo me con l’importanza che dovrebbe avere. Forse perché, molto semplicemente, è una questione davvero enorme. È un’impresa quella che andiamo ad affrontare.

Avrei potuto intitolare la presentazione in maniera diversa, magari un po’ meno polemica, per esempio con formule quali “Farla finita con l’idea di umanità e di animalità”, oppure “Farla finita con l’umanesimo”, o anche “Farla finita con lo specismo”… Ma qui parleremo di quell’incarnazione particolare dell’ideologia specista che mette l’accento, per l’appunto, sulla nostra umanità: è la nostra umanità che ci assegna un valore, abbiamo un valore in quanto esseri umani; ed è il fatto che questa umanità è assente negli altri animali che invece li priva di ogni valore, di ogni diritto.

Quest’idea di umanità è lo zoccolo duro della nostra civiltà. E’ un’idea fondamentale per la nostra civiltà almeno a partire dal Rinascimento, dalla crisi (potremmo definirla la laicizzazione) del Cristianesimo. Prima di allora, nel Medio Evo, era il fatto di essere cristiani ad essere fondamentale, a stabilire la nostra identità e fondare il nostro gruppo d’appartenenza. Era così che si definivano le persone: cristiane.

Progressivamente, a partire dal Rinascimento, inizia a delinearsi un movimento – che si affermerà poi verso la fine del secolo – e che oggi è veramente al suo apogeo. Da un lato, si tratta di un movimento che vede le persone definirsi sempre di più esseri umani, facenti parte di una specie biologica; dall’altro vi è una sorta di processo antropologico di civilizzazione, di libertà, che vede la nozione di umanità – in termini di identità – affermarsi sempre di più come un concetto positivo, un concetto che accresce i significati che può rivestire, che racchiude sempre più contenuti.

Se prima era dunque la cristianità il gruppo d’appartenenza fondamentale, ora l’umanità in generale è diventata la specie biologica a cui si deve di appartenere. Eppure, all’inizio, con molte limitazioni: per esempio l’umanità del diciassettesimo secolo è essenzialmente un’umanità maschile, bianca, adulta e ricca; è un’umanità occidentale, un’umanità civilizzata. Questa nozione di umanità fa chiaramente riferimento al concetto di specie, ma l’appartenenza alla specie [umana] non è sufficiente per fare pienamente parte dell’umanità. Bisogna possedere alcune caratteristiche: essere uomo e non donna, adulto e non bambino, ricco (aristocratico o borghese, ma mai di un ceto basso) e non povero.

Appare chiaro, dunque, come questo concetto di umanità non sia mai stato un concetto puro. Come tutte le identità, è sempre stato un concetto basato su una sorta di descrizione che si dà ad un gruppo: per cui l’umanità è il fatto di appartenere al gruppo dell’umanità… il che si rivela quasi una definizione descrittiva.

Alla fine, in pratica, ‘umano’ è chi soddisfa alcuni criteri che vanno oltre la semplice appartenenza ad un gruppo biologico: per essere umani non si deve essere inumani, non si deve essere mostruosi o troppo animali, bestiali… Ci sono delle caselle da barrare per rientrare a pieno diritto nella categoria. Ed esistono alcune categorie che, di fatto, si vedono negato l’accesso al gruppo principale. Per esempio, le donne sono state a lungo considerate non pienamente umane e ricondotte al polo opposto all’umanità, il polo della natura. Le donne sono state ridotte a rappresentare la parte naturale dell’umanità, per via del fatto che sono rivestite di una sorta di ‘missione procreativa’ dall’ideologia patriarcale. Allo stesso modo i popoli colonizzati e schiavizzati non sono stati considerati come facenti parte dell’umanità: la loro umanità era considerata incompleta, in divenire… Non avevano accesso alla ragione, alla libertà, alla civiltà, come accade alle/i bambin*.

Tornando sul concetto di umanità: esso si è creato in opposizione all’animalità e alla natura, e ritengo sia stato creato fondamentalmente per separare, per opporre un “noi ” a degli “altri”. È ciò che ha sottolineato Françoise Armengaud, universitaria, femminista (partecipò alla stesura della rivista “Nouvelles quéstions féministes”) nell’Enciclopedia Universalis nel 1984:

http://www.universalis.fr/auteurs/francoise-armengaud/

Se ci si domanda dove risiede la pertinenza di queste categorie antinomiche che sono l’animalità e l’umanità – e se si tiene a mente che l’essere umano è un animale – la sola risposta è che, evidentemente, prima viene il “noi” e poi vengono gli “altri”, e che l’atto di classificare innalza una barriera che imprigiona tutti gli altri, confusamente, all’interno della stessa barbarie.

Armengaud sostiene dunque che la pertinenza delle categorie di animalità e umanità è funzionale allo scopo di realizzare una divisione, una classificazione, necessaria a tracciare un confine tra un “noi” e degli “altri”, e a rinchiudere questi “altri” in una sorta di estraneità, di barbarie, da cui il “noi” è dispensato. Il testo in questione è datato, è del 1984, ma troviamo analisi simili anche da parte di chi, ai giorni nostri, ha analizzato la questione animale pure quando questa non rappresentava il punto centrale della trattazione: Levi Strauss, Derrida, Burgat…

Questo concetto di umanità è un concetto talmente centrale nella nostra civiltà da renderlo estremamente difficile da attaccare direttamente. Eppure non possiamo fare a meno di questo attacco, non possiamo astenerci dal rompere il tabù che è legato a quest’idea di umanità. È un’idea criminale, non solo per la questione animale, ma anche per altre questioni umane. È un’idea anti-etica. Pensare in termini di morale, di umanità, significa evitare di ragionare in maniera davvero etica, esattamente come avviene quando si pensa in termini di natura: ci si pone il problema di definire cosa è umano e cosa non lo è, cosa è naturale e cosa non lo è… e non ci si chiede invece cosa è giusto e cosa non lo è. È una questione che non possiamo non porci e che non possiamo non porci nella maniera corretta.

La critica che sto muovendo parte da un punto di vista preciso che è un punto di vista animalista e antispecista, di opposizione allo specismo – discriminazione basata su criteri di specie di cui sono vittime alcuni individui, così come accade alle vittime di razzismo e di sessismo (per via di discriminazioni basate su criteri di razza e sesso).

È anche un punto di vista egualitario. Io sono egualitario, sono convinto che tutti gli esseri senzienti[1], proprio perché hanno delle sensazioni, reputino la propria vita importante, abbiano degli interessi ugualmente importanti da difendere: ad esempio evitare sofferenze e dolore, vivere il più a lungo possibile la miglior vita possibile… E penso che non vi sia alcuna buona ragione per non prendere in considerazione gli interessi di tutti quegli esseri che hanno dei propri interessi da difendere, né per non prenderli in considerazione esattamente quanto i miei – che, peraltro, sono molto simili: bisogna prendere in considerazione, in maniera equa, anche gli interessi di chi non fa parte della propria specie.

La critica allo specismo è quindi una critica al criterio di specie: un criterio che non è moralmente pertinente, un criterio che non ha alcun senso logico, esattamente come i criteri di razza, sesso, età… La sola cosa rilevante è l’importanza degli interessi in gioco, che è poi ciò che dà peso agli avvenimenti.

Sono egualitario nel senso che – indipendentemente dai concetti di specie, razza, sesso – penso che vadano presi in considerazione gli interessi di tutti gli esseri in egual misura. È quindi in nome dell’idea di eguaglianza che critico l’idea di umanità, in quanto idea che entra in conflitto con quella di eguaglianza.

Viviamo in una società in cui, a seconda che si sia umani o non umani, ci si vede riconoscere o meno diritti –  da quelli accessori ai diritti fondamentali (diritto alla vita, alla libertà, a non essere torturat*, alla libertà di coscienza…) – che rappresentano il minimo necessario per vivere una vita soddisfacente in questo mondo. Questi diritti sono negati a tutti quegli esseri di cui si nega l’umanità, in cui non si riconosce un’umanità… fondamentalmente, all’insieme dei non-umani per definizione.

Abbiamo negato l’umanità anche ai disabili: ai disabili mentali, per esempio, sterminati dal regime di Vichy durante la seconda guerra mondiale in quello che è stato definito “sterminio dolce” – che non è stato dolce per niente, visto che si è trattato di negare le razioni di cibo minime per sopravvivere a più di quarantamila disabili mentali, lasciandoli così morire di fame e malattie – semplicemente perché erano considerati dei subumani.

Esistono anche altre categorie di umani a cui viene negata l’appartenenza piena all’umanità. [Ad esempio] coloro che vengono giudicati colpevoli di qualche reato, considerati non all’altezza della loro umanità, a cui vengono revocati quei privilegi e i vantaggi legati al concetto di umanità poiché considerati criminali, mostri, non-umani… Rinchiusi nelle prigioni, vittime di trattamenti disumani e degradanti, non vengono loro garantiti quei diritti di cui godono tutti gli altri esseri umani. La situazione nelle carceri, peraltro, è molto simile a livello mondiale, e penso che ciò risponda ad una logica profonda – che non si tratti di un caso o di una sorta di malfunzionamento – ma esista veramente una volontà generalizzata di far andare le cose così, anche da parte della popolazione: si vuole che le persone che hanno commesso un crimine soffrano, paghino… Lo si sente nelle discussioni di tutti i giorni: la maggior parte delle persone desidera che i “colpevoli” non godano più degli stessi diritti di cui godono gli altri esseri umani. Questi sono solo alcuni esempi: le principali vittime di questa idea di umanità rimangono comunque i non-umani.

Quest’idea di umanità che oggi si propone come un’idea estremamente positiva (non si fa mai riferimento alle implicazioni negative che può avere), si presenta come collegata alle idee di gentilezza, di bontà, di moderazione… Infatti, si sente parlare di “azioni umanitarie“. Nella nostra mente, essa è legata all’idea di eguaglianza e a quella di universalità. Le grandi dichiarazioni dei diritti fondamentali degli esseri umani aspirano ad essere egualitarie e si pongono come dichiarazioni universali.

Stando così le cose, come antispecista devo sottolineare che l’idea di eguaglianza [tra esseri umani] ha invece consentito la creazione di un gruppo specifico che ha certi privilegi e che è investito di certi diritti, compresi quelli fondamentali – come il diritto di vita e di morte, il diritto a non essere torturati/e, il diritto alla libertà. Non si tratta allora di universalità, di universalismo, ma piuttosto di un particolarismo.

Potremmo paragonare questa idea di “eguaglianza” a un nazionalismo o a uno sciovinismo. Infatti, abbiamo preso un gruppo, lo abbiamo reso il “gruppo di preferenza” e abbiamo definito un criterio morale fondamentale, un’identità morale fondamentale, come in un qualsiasi nazionalismo. Abbiamo quindi sviluppato uno sciovinismo. Nella nostra società si tessono elogi dell’umanità ad ogni livello. Come nell’ambito di un nazionalismo qualsiasi, la difesa di quest’idea di umanità è la difesa di un particolarismo proposto come universalismo. In realtà si tratta di un particolarismo. Il vero universalismo sarebbe invece l’eguaglianza: il farsi carico degli interessi di qualsiasi essere abbia degli interessi da difendere, di ogni essere senziente.

Attivismo e rappresentazioni della violenza

Usare o non usare certe immagini, questo è il problema!

Nell’ambito dell’attivismo femminista e antispecista esistono diverse scuole di pensiero a riguardo: c’è chi sostiene che l’uso di immagini forti sia controproducente, in quanto indurrebbe una reazione di rifiuto in chi osserva – con il risultato di rendere la comunicazione inefficace – chi invece sostiene che sia l’unico modo per mettere le persone di fronte a realtà che vengono loro celate o preferiscono non conoscere.

Comunicare la violenza visivamente non è mai facile: prima di tutto perché viviamo ormai bombardati di immagini, spesso violente, reali o artefatte. Inoltre il risultato non sarà mai completamente prevedibile… quello che noi troviamo efficace può scatenare reazioni di disgusto in alcun*, cinismo e disinteresse in altr*.

Eppure, la violenza va in qualche modo documentata o rappresentata, perché spessissimo agisce nell’ombra in modo tale che nessun* possa testimoniarla e/o intervenire per evitarla, e non c’è dubbio che un immagine efficace colpisca la nostra immaginazione più di mille parole.

In questi giorni mi è capitato di vedere due diversi tipi di immagini relative a rappresentazioni di violenza sugli animali non umani,  e sinceramente non so quale delle due sia più efficace nel veicolare il proprio messaggio, ma vale la pena spenderci sopra qualche parola.

La prima immagine è questa:

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In essa si vuole rappresentare la violenza che subiscono le cosidette ‘ mucche da latte’, le quali, ingravidate artificialmente (potremmo definirle anche come  vittime di stupro interspecifico, visto che colui che agisce l’inseminazione è solitamente un animale umano di sesso maschile) al momento del parto vedono il proprio vitello strappato alle loro cure, poiché il latte che producono deve chiaramente essere destinato al consumo umano. Questo momento straziante, nel quale la mucca e il suo vitello muggiscono disperatamente per tentare vanamente di ricongiungersi, avviene in luoghi distanti dai nostri occhi (e dal nostro cuore), e si ripete diverse volte nella vita di una mucca, fintantoché può produrre ancora una quantità di latte sufficiente… come è scontato, appena non più produttiva, viene mandata prontamente al macello.

Che senso ha, qualcun* chiede, utilizzare un’immagine di donna che ha appena partorito a cui viene strappato via il proprio bambino e che sta per subire lo stesso destino delle mucche, per veicolare quel contenuto? Dal mio punto di vista immagini come queste hanno un loro senso. Prima di tutto, perché spesso le persone non vogliono affrontare la realtà della violenza (sugli animali o sulle persone, poco importa), e più ancora, la realtà della propria complicità e accettazione passiva rispetto a molte pratiche violente e di abuso di potere.

Inoltre, lo specismo nel quale siamo immersi fin da bambini, ci desensibilizza efficacemente nei confronti della sofferenza animale: mille volte capita di trovarsi di fronte alla completa inconsapevolezza e incapacità di lettura – quando non completa indifferenza – della sofferenza di un animale da parte delle persone…

Da questo punto di vista, l’immagine in questione di sicuro cattura l’attenzione, e ristabilisce la connessione tra la sofferenza degli animali umani e quelli non umani. Quest’immagine dice:

“Se non sei capace di leggere la sofferenza negli occhi e nei gesti di una mucca, riesci a leggerli in quelli di un’appartenente alla tua specie? Riesci a stabilire una connessione?” L’unico dubbio che ho rispetto all’efficacia di questa immagine, e delle immagini simili a questa, risiede nel fatto che lo specismo è potente e pervasivo, e sebbene sicuramente esistono molte persone inconsapevoli dello sfruttamento estremo e brutale subito dagli animali non umani, molte altre semplicemente se ne fregano. Lo specismo è una forma di esercizio del dominio che ci viene inculcata fin dalla più tenera età come ‘naturale’, pertanto la maggior parte delle persone è incapace di vedersi per ciò che veramente è, qualcun* che con ogni giorno rinforza l’uso e l’abuso e la distruzione non necessaria ma consuetudinaria di vite animali assolutamente a noi corrispondenti in termini di emotività, sensibilità, e desiderio di felicità.

La seconda immagine è relativa ad un’opera che circola da ieri nelle strade del Meatpacking district (non a caso!) a NY… si intitola the Sirens of the Lambs, ed è realizzata da Banksy, nell’ambito del suo nuovo progetto di street art “Better out than in”.

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Un camion per il trasporto animali – verso il macello – pieno all’inverosimile di pupazzetti di animali  -molti tipici animali da carne, ma tra essi c’è pure un panda – animati, che con i loro versi attirano l’attenzione dei passanti e sembrano chiedere aiuto. In un audio guida dedicata all’opera, presente sul sito dell’artista, si danno due diverse letture della stessa: una chiaramente riferita alla rappresentazione della realtà di violenza dell’industria zootecnica, l’altra alla perdita dell’innocenza che subiamo crescendo in questa società (impossibile non pensare ai bambin* quando vediamo i peluche).

Personalmente mi fa anche pensare alla costante desensibilizzazione che subiscono i bambini, i quali sono tipicamente molto empatici di fronte agli animali (e alle loro sofferenze), mentre crescendo perdono questo ‘dono’ e spesso in età adulta non riescono più a riacquistarlo.

Questa immagine è disturbante, bizzarra, ma non traumatica, comunque meno truculenta della prima: sarà comunque efficace nel veicolare la sofferenza reale degli animali? O forse l’effetto complessivo risulta troppo paradossale per indurre alla riflessione, quantomeno un pubblico adulto?

A giudicare dalle reazioni di fuga e disperazione di alcuni dei bambin* presenti nel video, è probabile che nel loro caso il collegamento funzioni: ma quale sarà la reazione degli adulti, riflessione o ridicolizzazione?

La questione rimane aperta.

Vedi il video di The sirens of the lambs su youtube

 

La femminista specista, ovvero facciamola finita con l’idea di ‘natura’ solo se non è in gioco la mia bistecca!

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Io amo le femministe, davvero.
Mi dichiaro femminista e antisessista da molto tempo, e lo faccio con orgoglio:  il femminismo ha avuto, ha (e auspico avrà!)  un ruolo essenziale nel mio percorso di donna e di persona che lotta per la propria – e l’altrui – libertà di autodeterminarsi all’interno di questo sistema.
Un sistema che, tra i tanti paradigmi dell’oppressione che agisce sui diversi soggetti che si ritrovano – loro malgrado – catturati al suo interno, vede nel sessismo una delle proprie punte di diamante.
E’ stato il femminismo (più ancora dell’antispecismo, al quale in realtà cronologicamente ero arrivata prima) che non solo mi ha liberato, ma mi ha aperto gli occhi anche su tutti i legami esistenti tra le diverse forme di discriminazione e di oppressione che prima sentivo più distanti dal mio cuore e dal mio attivismo.
Perché, ne sono convinta, se abbracci il femminismo veramente, tutto intero, nella sua dirompente capacità di rottura, se ti ci lasci attraversare, lacerare, se lasci che faccia luce anche sulle tue zone d’ombra, se permetti che rivoluzioni DAVVERO il tuo modo di pensare, allora ti cambia tutto… cuore, mente e pratiche politiche, tanto che la tua vita e la tua politica diventano un tutt’uno inscindibile.
Ed è per questo che ogni persona che si avvicina al femminismo (già, ogni persona, non ogni donna, che il femminismo rivoluziona anche gli uomini quando lo abbracciano, alla faccia di quegli altri così piccini e aggrappati al loro ruolo di genere che li definiranno con ridicoli neologismi come ‘maschiopentiti’, o quelle donne che definiranno il femminismo ‘cosa nostra’ in quanto Femmine con la F maiuscola, come se la rivoluzione la si potesse fare solo sui cromosomi XX senza per forza coinvolgere anche tutte le altre possibili combinazioni) è per me una gioia, una conquista, una speranza di quel mondo che oggi non esiste ma per il quale lotto… e del quale ho comunque la fortuna di vedere delle splendide avanguardie, già qui, già ora, in quelle  ‘Zone Temporaneamente Autonome’ (Taz) di libertà, che fortunatamente a tratti emergono nello stagnante oceano di inciviltà nel quale cerchiamo di galleggiare. Ma ahimé, spesso anche in ambito femminista mi scontro con realtà che mi deprimono, mi scoraggiano e avviliscono.

Bazzicavo sulla pagina Facebook di Femminismo a Sud, uno degli spazi che ho contribuito ad animare e al quale mi sento ancora molto legata, e mi trovo davanti agli occhi un post con una frase attribuita a Gary Francione, noto e controverso attivista animalista (sui suoi meriti e demeriti non mi soffermo in quanto la frase poteva essere attribuita, per quanto qui mi interessa, anche ai soliti Jim Morrison, Martin Luther King o Madre Teresa di Calcutta).

La frase, tradotta in maniera un pò zoppicante (cercherò di renderla un pò più scorrevole), è la seguente:

“Se dichiari di essere femminista… ma non sei vegana, hai le idee confuse, perché qualsiasi teoria femminista coerente richiede il veganismo. Una vera femminista si oppone alle gerarchie basate sul potere. Prima di tutto, il nostro consumo di prodotti animali non è null’altro che un’espressione di potere. Consumare prodotti animali ha lo stesso valore dello stupro in quanto rappresentano l’imposizione di sofferenza (ad altri) basata su questioni di potere. Secondariamente i prodotti animali, in particolare quelli dell’industria lattiero-casearia, derivano dallo sfruttamento della maternità.”

Nei commenti, molte sono state le femministe che hanno reagito negativamente a questa frase, spesso in maniera quantomeno verbalmente violenta e riportando brevi luoghi comuni al posto di ragionamenti articolati – it’s facebook baby! – ed a loro dedico le righe che seguiranno.

A prescindere perciò da chi sia Gary Francione, e dal tono catechizzante della frase che sicuramente ha avuto un effetto boomerang (visto che fa mettere le persone sulla difensiva anziché metterle nella disposizione d’animo di ascoltare e mettersi in discussione) poiché parlare di ver* femminista o antispecista o antirazzista non ha alcun senso ed è una delle peggiori piaghe dell’attivismo che definirò purista, o ‘a punti militanti’ – quello che per scardinare delle gerarchie ne crea altre di supposto merito basate su differenti parametri, ma seguendo le stesse logiche contro cui si scaglia –  quello che noto è che forse, a volte, sopravvaluto il potere del femminismo di rivoluzionare la vita delle persone. Non perché non sia una pratica dirompente, anzi: ma perché, come recita il proverbio, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

E a malincuore devo dire che molte femministe, donne che lottano anche strenuamente per liberarsi e liberare altre donne dal giogo patriarcale, hanno, nei confronti dell’antispecismo lo stesso atteggiamento di dileggio, sfottò, quando non aperta rabbia e fastidio, del più becero dei maschilisti di fronte all’antisessismo.

Se c’è una cosa che ho imparato del mondo dell’attivismo in generale, è che essere attivist* non coincide automaticamente con l’essere non solo eroi/eroine, ma nemmeno persone particolarmente coerenti/empatiche/aperte… o persino socievoli!

Perciò sono consapevole che anche in questo, come in ogni ambito, troverò persone di ogni tipo – con le proprie incoerenze, idiosincrasie, disinteressi e limiti.
E va bene così, fintantoché quello che traspare non è aperto disprezzo, cosa che non sono in grado di tollerare.
Per quanto mi riguarda, il discrimine tra un comportamento accettabile e uno inaccettabile – in generale, ma soprattutto e ancor di più in ambito militante – sta nella capacità di ascolto e di confronto nella differenza. Facile restare nel proprio mondo rotondo di certezze acquisite, è quello che ci insegnano a fare nel sistema nel quale siamo scagliat* alla nascita, a fare quello son buon* tutt*.

Difficile ascoltare e accogliere, soprattutto quando ci mette in discussione in prima persona, dimostrandoci senza tanti giri di parole che il sistema di dominio è un sistema non verticale, piramidale, ma complesso e multiforme, nel quale nessuno è vittima tout court, ma tutt* anche carnefici di altre vite ed altre esistenze, che non possono restare inascoltate e respinte quando le loro grida, la loro sofferenza, il loro anelito di vita viene spento nella violenza (ancorché tenuta ben lontana dal ‘paradiso artificiale’ – si fa per dire – nel quale ci vogliono immers*).

Dei legami tra femminismo e antispecismo (senza escludere antifascismo e antirazzismo) si parla tanto e già da tanto, come sanno ormai tante persone.
Abbiamo dato vita al progetto intersezioni proprio perché sentiamo che quei luoghi dove si parla SOLO di femminismo, o di antispecismo, o di antirazzismo, o di antifascismo non ci corrispondono, o meglio, noi vogliamo di più … vogliamo tutto!

‘Nessun* sarà liber* finch* qualcun* sarà oppress*’.
La libertà non può e non deve essere prerogativa di poch*, o tant*, deve essere prerogativa irrinunciabile di tutt*, altrimenti non è libertà ma privilegio.

E l’ultimo baluardo di privilegio, quello più irrinunciabile per molt*, uomini e donne, è quello che ci dona acriticamente, in quanto ‘esseri umani’ (categoria del pensiero e non di natura inventata allo scopo di sfruttare altri esseri viventi e anche altri umani, modulando sulla presenza o meno delle ‘migliori’ prerogative umane – essere umani, bianchi, maschi, abbienti e di classe elevata – la gerarchia dello sfruttamento di tutt* coloro che non possiedono l’optimum dei requisiti) – il dono di FOTTERCENE APRIORISTICAMENTE della dose di violenza che imponiamo ad altri animali, umani e non, spesso comodamente per interposta persona, ma non per questo meno orrendi.

Fatevene una ragione: siamo animali, che vi piaccia o meno.
Abbiamo, come animali, caratteristiche peculiari? Sicuramente, come tutte le altre specie, vedi quelle che volano senza ausili meccanici, o nuotano e non affogano.
Sono queste nostre caratteristiche peculiari motivo sufficiente per sfruttare ed uccidere gli altri animali?
Non proprio, considerato che ci siamo creat* una scala di valori a nostro personale uso e consumo (la ‘razionalità’ un valore? Eh sì, tanto quanto la dotazione di un pene!) e abbiamo potuto farlo semplicemente costruendo il nostro privilegio con l’imposizione della forza e di immane violenza su altre e altri.

A quelle femministe che derubricano ad inessenziale, dileggiano o apertamente osteggiano l’antispecismo voglio far notare che nel non prendere in considerazione il proprio ruolo di oppressione sugli altri animali, nel non lasciare aperta la porta alla novità e al cambiamento, nel non mettere in dubbio il proprio ‘privilegio’ umano, voltano le spalle ad una enorme potenzialità, e non solo rivoluzionaria per loro stesse ma anche per la ‘causa’ per cui dicono di lottare, ossia quella delle donne, le cui istanze sono inscindibili dalla messa in discussione di un sistema basato sull’oppressione di determinati gruppi su altri, in tutte le possibili e immaginabili combinazioni.

Non è ancora giunta l’ora di mettere in discussione anche i propri privilegi oltre a quelli patriarcali?
Meditate femministe, meditate.

Ps: Affermare lapidariamente che antispecismo e femminismo non c’entrano nulla, sminuendo così il lavoro di tante studiose femministe che hanno contribuito con i loro preziosi scritti a porre nella giusta luce la questione animale e quella femminista in un’ottica intersezionale è, come dire… un pò superficiale, e dimostra di non avere le idee molto chiare a riguardo. Perciò, dopo aver affermato con soddisfazione che la terra è piatta, sarebbe possibile guardare senza pregiudizi a quelle teorie che la postulano rotonda?

Approfondimenti:
Guarda il video ‘intersections’ di Breeze Harper sottotitolato in italiano:

Esauriente bibliografia ecovegfemminista.
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mentalità della carne
antifascismo e antispecismo
prede

Antifascismo e antispecismo: dipaniamo la matassa

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Noto con tristezza che un sacco di vegan e/o antispecist@ adottano la politica del ‘se non si palesano come fascisti, allora non lo sono, oppure me ne fotto’. Quello che intendo fare è esprimere delle perplessità circa questa politica, che mi risulta essere totalmente fallimentare in materia di prevenzione del fascismo nel milieu antispecista. Piccola nota sul termine: quando uso questo termine non sto escludendo a prescindere la presenza di fascisti/razzisti/sessisti/eccetera, perché, per l’appunto, se ‘in teoria’ così dovrebbe essere, nella pratica così non è. E il primo passo per risolvere un problema è ammetterne l’esistenza.

A volte vengono promossi concetti reazionari proprio da coloro che non lo sono, o che non vorrebbero esserlo. Si pensi ad esempio a quante volte le argomentazioni antispeciste vertono sull’agire secondo natura o quantomeno in rispetto della natura.  In realtà il concetto stesso di natura appartiene alla cultura ed è usato dal dominio per naturalizzare l’oppressione, cioè renderla naturale, normale (e da normalità a normatività, il passo è davvero breve): in tutto questo, non dovrebbe meravigliare che un sacco di organizzazioni ecofasciste bazzichino il filone dell’ecologia profonda, che purtroppo condivide i presupposti di un biocentrismo troppo spesso declinato in termini non difformi da quelli in cui lo declina il dominio; vedasi la loro definizione di natura e di vita (hanno spesso anche posizioni antiabortiste; il che la dice lunga su quanto ci tengano alle vite che già esistono). Con questo non sto affermando che non può esistere una declinazione di natura che non sia ecofascista, beninteso; soltanto che quello attuale è tale – proprio perché la natura è (anche) cultura, è possibile immaginare una ‘cultura della natura’ non ecofascista. Si pensi infine all’interclassismo insito nel concetto, in odor di estinzionismo, per cui davanti agli animali saremmo tutti nazisti: davvero nel sistema la mia vicina di casa, donna immigrata, ricopre la stessa posizione di un borghese, bianco, a capo di una multinazionale leader nel mercato dei derivati animali? L’evidenza dimostra il contrario, a prescindere dall’eventualità che la mia vicina di casa possa essere o meno vegana.

Il fascismo non bussa mai alla porta presentandosi come tale. Si presenta ‘oltre destra a sinistra’, come ‘apolitico’ (c’è differenza tra apartitico e apolitico), come ‘alternativa’, come ‘terza via’. Codesti individui non si palesano in nessun caso come fascisti, se non in rarissimi casi, ovvero quelli in cui non riescono a camuffarsi con successo. Sicché questa è la storia delle infiltrazioni neofasciste in qualsiasi ambito non esplicitamente politicizzato, come ad esempio quello associazionista, bisogna stare attenti. Il purismo militante è fuffa; la coerenza fra mezzi e fini, invece, è fondamentale.

Si dice spesso che agli animali non importa se a liberarli è un fascista, ma se è per questo, agli animali non importa nemmeno se a liberarli è qualcuno che non è né vegetariano, né vegano e tantomeno animalista e antispecista. Cosa si penserebbe di un’associazione antispecista i cui membri finanziano in maniera attiva uno dei capisaldi della prassi specista? Si può supporre che se ne pensi tutto il male possibile. Perché agire differentemente con i fascisti, allora, mi chiedo; e nel caso in cui questi si dichiarino non fascisti o addirittura antifascisti ma aiutino organizzazioni che diffondono fascismo, che differenza c’è? nessuna. Non si danno giudizi politici in base all’autoidentificazione di una persona, ma in base agli esiti del suo agire politico.

Un’altra accusa punta il dito sul dibattito fascismo/antifascismo dipingendolo come antropocentrico, ma non è possibile ottenere la liberazione animale a fianco di gente che nei secoli dei secoli ha oppresso e ammazzato animali umani al soldo di quello stesso sistema economico che sfrutta e uccide gli animali non umani; coloro che parlano di etica dicendosi apolitici, non sanno lo ‘stato etico’ è proprio del fascismo. Si parla di antispecismo debole (o di animalismo) come se l’etica non fosse pertinente ad un antispecismo politico; ma l’etica non è avulsa né al personale né al sociale, e pertanto al politico.

Sarebbe opportuno quindi incominciare fare i nomi. A quelli pronti ad accusarmi di caccia all’uomo, chiedo di riflettere su questo: voi un macellaio che fa un’associazione (dove vi sono anche persone genuinamente vegane/antispeciste) per raccogliere fondi (destinati anche, ma non soltanto, alla sua macelleria) presso attivisti “all’acqua di rose” e inconsapevoli vari, lo tollerereste in virtù di quel poco che fa per la causa? (quale  causa, soprattutto, verrebbe da aggiungere). E che non mi si chieda cosa fare con i casi ambigui, perché chiunque possiede un minimo di cultura, di capacità e di esperienza sa distinguere le ambiguità fortuite da quelle intenzionali.