#Guerrieri… Giochiamo a far la guerra?

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Il mio primo pensiero, quando ho letto lo slogan della nuova iniziativa promozionale di ENEL, non poteva che andare al film “I guerrieri della notte”.

“Siamo i #guerrieri al comando di noi stessi”

“Siamo i guerrieri dei salti nel buio e degli investimenti oculati”

“Se la loro battaglia è anche la tua, raccontala su guerrieri.enel.com”

Il secondo pensiero arriva immediato, terra terra: “Ma l’ENEL non è quella che se non le pago le bollette mi toglie la luce? Bollette che in dieci anni sono aumentate del 38,5 %?”

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Fate qualcosa!

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“Nessuno fermerà la Tav”, mantra inarrestabile che il governo ripete incessantemente attraverso i suoi burattini, sempre pronti a benedire l’arrivo in Val di Susa di altri militari ‘per la sicurezza interna’ – ovvero per la repressione violenta di uomini, donne, anzian* e bambin* trattati come pericolosi terroristi.

Alla continua violenza reale e mediatica che la popolazione della Val di Susa (rea di difendere un territorio e i suoi abitanti da una distruzione funzionale solo ad arricchire le tasche dei soliti pochi attori senza scrupoli, e che peserà enormemente sulle tasche di tutti i cittadini di un paese in crisi, già in ginocchio e sempre più carente di qualsivoglia servizio essenziale) subisce da decenni, anche questa volta segue l’appello alla solidarietà, questa volta delle Donne in Movimento: un appello che volentieri condividiamo e che non può lasciare indifferenti.

Fate qualcosa!

La rete di persone che in questi lunghissimi anni è stata tessuta in Italia e anche all’estero si fa viva con telefonate, e-mail, sms per chiedere che si faccia qualcosa (con urgenza), che ci si materializzi per cercare di arginare la valanga di fango che scientificamente orchestrata tenta di sommergerci. (Fate qualcosa).  Ma come, ancora? Pensavamo di aver fatto e detto/di tutto. Cos’altro ci dobbiamo ancora inventare? Strano come questa domanda rappresenti bene il quotidiano femminile (domanda storica). Sempre pronte ad interrogarci a inizio come a fine giornata: Ho dimenticato qualcosa? E’ tutto a posto? Ho fatto tutto? (come sempre e sempre di più delegate a coprire le mancanze dello stato sociale).

 

Questa volta in ballo c’è la difesa di un grande movimento popolare, di più, c’è una storia di oltre vent’anni dove ogni giorno è stato vissuto con intensità. Migliaia di persone quotidianamente hanno contribuito a renderla concreta mettendoci la faccia, portando idee, rendendosi disponibili, finanziandola. Una lotta, un’esperienza di territorio che molti non esitano a definire unica e che è partita e ha messo le sue basi non su un preconcetto ideologico ma studiando i progetti, i flussi di merci, l’impatto ambientale, i costi, verificando sul campo i dati in possesso. Negli anni è cresciuta anche la consapevolezza di avere fra le mani, di veder crescere qualche cosa che va oltre la semplice opposizione ad una grande opera inutile e devastante. Un modello di presa di coscienza collettiva che difficilmente può retrocedere, anzi, si allarga assumendo in sé tutti i temi più attuali: dal lavoro, ai servizi, alla sanità ecc. Partecipando e interrogandosi sempre.

 

Come ora. Ci si interroga sui fatti accaduti, sul significato che tutto questo assume, è un clima pesante, opprimente e sentiamo soprattutto ingiusto. E’ tale la violenza del linguaggio usato, la sproporzione dei racconti sui fatti realmente accaduti che vengono a mancare le parole per spiegare ai nostri figli increduli (e smarriti). Vediamo e sentiamo raccontare da giornali e Tv una storia che Non ci appartiene. Non siamo un problema di ordine pubblico, siamo una risorsa per questo Paese, siamo una risorsa perché in tutti questi anni il movimento è diventato una comunità critica, consapevole, che sa scegliere. E’ questo che fa paura?

 

Rivendichiamo il diritto alla partecipazione e alla gestione della cosa pubblica nel rispetto del bene comune e della volontà della popolazione.

 

Fate qualcosa, ci chiedono da tutte le parti.

Possiamo per esempio fare due conti (siamo abituate a far quadrare bilanci), e dunque siamo consapevoli dello spreco enorme di denaro pubblico sia per l’opera e sia per la badanza armata all’opera. E’ evidente che le dichiarazioni dei ministri che si dicono pronti a sborsare laute ricompense facciano venire l’acquolina in bocca a molti: imprenditori avvezzi a trafficare con fatture false, giri strani, fallimenti e nuove società a scatole cinesi. A chi ha sperato di guadagnare dalle olimpiadi costruendo mega hotel (che neppure in riviera potrebbero trovare clientele tali da soddisfare centinaia di posti letto), ed ora non ha gli occhi per piangere fa tanto comodo buttare la croce addosso ai notav e invocare lo stato di crisi sperando nelle compensazioni.

 

Chiediamo alle donne (e però non solo alle donne), di prendere parola su quello che sta succedendo.

Conosciamo direttamente sulla nostra pelle la violenza, per questo la rifiutiamo, per questo deve fermarsi lo stupro della nostra valle, e deve finire l’autoritarismo militare su un intero territorio.

Fate qualcosa. Ci verrebbe da ribaltare la domanda e dire noi a voi: fate qualcosa.

Aiutateci ad impedire lo stato di polizia permanente in cui ci vogliono far vivere.

Fate qualcosa per denunciare questa campagna di stampa (che non si pone domande, non fa distinzioni, non esamina fatti e cose decisamente incongruenti che pure sono sotto gli occhi di tutti).

Fate qualcosa perché la storia di un movimento popolare come il nostro non venga liquidata manu militari fra le carte di una procura.

Stiamo resistendo perché vogliamo andare avanti, vogliamo vivere in pace nella nostra valle,vogliamo raccogliere i frutti di oltre vent’anni di crescita collettiva su tutte le questioni a noi care: ilfuturo delle prossime generazioni, le risorse del nostro territorio, intervenendo per risparmiarlo,risanarlo, non per rapinarlo; mettendo a disposizione le nostre capacità come alternativa al consumo dissennato e per un uso responsabile e consapevole delle risorse. Vogliamo riappropriarci del nostro tempo per partecipare alla gestione e alla cura della nostra comunità. Liberarci dal tav.

 

                                               Donne in Movimento Valle di Susa

(per il gruppo DIM Annamaria, Chiara, Daniela, Doriana, Ermelinda, Patrizia, Paola, Rita ecc ) 21 settembre 2013

Il carcere per la produzione artistica in Tunisia

1017033_10201795287144766_1715159933_n Ripubblichiamo da INFOaut.

Pubblichiamo il comunicato diffuso stasera, 22 settembre, dal gruppo di attivisti e di sostegno agli 8 arrestati, che si sta ritrovando a radio Chaabi, a Tunisi. Il testo si riferisce all’ennesimo arresto di militanti del movimento rivoluzionario, e come consuetudine degli ultimi tempi, dei sui artisti e mediattivisti. In questo caso il ministero degli interni ha puntato contro Nejib Abidi, e il suo gruppo. Nejib, militante dell’UGET, e poi mediattivista della prima fila del movimento è stato arrestato nella sua casa dopo una perquisizione in cui la polizia ha sequestrato diversi hard disk e altri strumenti e documenti di lavoro. Negli ultimi mesi stava lavorando ad un documentario sui tunisini dispersi durante le prime traversate del mediterraneo post-Ben Ali di cui in italia ricordiamo soprattutto le atroci giornate di Lampedusa, dove la polizia italiana soffocò a manganellate la giusta rivolta di quanti erano riusciti a raggiungere l’Italia dalla Tunisia e si trovavano internati per essere deportati manu militari nel paese magrebino. Il governo islamista continua la sua campagna reazionaria attaccando in questo caso la libertà d’espressione e gli attivisti impegnati nella contro-informazione. Già domani sono attese manifestazioni di protesta sia in Tunisia che in Francia.

Seguiranno aggiornamenti… liberi tutti, libere tutte!

Nella notte tra venerdi e sabato 21 settembre 2013, verso le 4, Nejib Abidi, Yahya Dridi, Abdallah Yahya, Slim Abida, Mahmoud Ayed, Skander Ben Abid, insieme a due amiche artiste e studenti attiviste, sono stati arrestati a casa di Nejib Abidi, nel quartiere Lafayette a Tunisi.

Non siamo ancora riusciti ad avere molte informazioni: sappiano che prima sono stati portati al commissariato di Bab Bhar a Tunisi, dove sono rimasti per circa dodici ore e dove sono stati visti per l’ultima volta da un’amica. Ad ora, ignoriamo totalmente il luogo dove sono stati condotti e il loro stato di salute. Non è stata fornita alcuna ragione ufficiale che giustifichi il loro arresto e la loro detenzione.

NEJIB ABIDI, 29 anni, è cineasta e presidente di AssoChaabi, e già sindacalista all’UGET (unione generale studenti tunisini) . E’ conosciuto per le sue posizioni giudicate radicali verso il governo di Ben Ali e  quelli che gli sono succeduti dopo il 14 gennaio 2011. Il giorno prima del suo arresto, uno dei due hard disk, contenente i rushs del suo documentario in preparazione, sono stati rubati in casa, e i dati dell’altro sono stati definitivamente cancellati, dopo una formattazione. Nejib è apparso in pubblico per l’ultima volta durante le manifestazioni di sostegno a  Jabeur Mejri e a Nassredine Shili. Quest’ultimo è il produttore del suo film.

YAHYA DRIDI, 26 anni, è ingegnere del suono e segretario generale di AssoChaabi. Lavora con Nejib da diverso tempo. Sono stati in Italia insieme per le riprese del film sui tunisini scomparsi nel 2011. Attento alle cause di giustizia sociale, Yahya si è occuparo prioritariamente a film impegnati. Abita tra la Tunisia e la Franca dove svolge le sue attività artistiche.

ABDALLAH YAHYA,  34 anni, è regista. Il suo documentario « Nous sommes ici », uscito l’anno scorso, mette in luce la quotidianità degli abitanti di Jebel Jloud, quartiere situato a qualche km dalla capitale dove sono concentrti disoccupazione, miseria economica e difficoltà sociali. Il suo prossimo film  «Le Retour», in fase di realizzazione finale, è parimenti prodotto da Nassredine Shili.

SLIM ABIDA, 33 anni, è musicista, bassista, fondatore del gruppo Jazz Oil. Vive tra Tunisi e Parigi. P resente sulla scena musicale contestatrice da più di 10 anni, lavora con  Nejib, Yahia et Mahmoud sulle tracce sonore del loro prossimo film.

MAHMOUD AYAD, 29 anni, è pianista.  Ha lavorato con numerose personalità della scena alternativa e contestatrice in Tunisia.

SKANDER BEN ABID, 20 anni, è clarinettista e studente alL’ISEC, come le due amiche studenti, artiste e attiviste.

L’arresto è avvenuto mentre erano insieme per lavorare sulla musica del film di Nejib. Questo arresto prova ancora una volta che il sistema securitario e  repressivo perseguito dal governo e dalla polizia è sempre in piedi.

L’attuale governo, che deve la sua nascita a tutti questi giovani e meno giovani che hanno superato le propria paura e deposto il dittatore durante la Rivoluzione, non ha nessuna riconoscenza verso il popolo tunisino e la sua gioventù attiva. Spoglia la nostra Rivoluzione e viola i nostri diritti.

I nostri amici si battono ogni giorno per la libertà e la giustizia. Attraverso una scelta di vita che mira a far avanzare la nostra società, mostrano una sincera preoccupazione e attenzionenei confronti degli altri e soprattutto dei loro concittadini, disprezzati dal sistema.

Il loro arresto si inscrive nella scia di quelli di  Jabeur Mejri, Ghazi Beji, Weld El 15, Klay BBJ, Nessreddine Shili, arresti che mirano a pugnalare la Libertà d’Espressione e la Libertà di Coscienza.

Queste libertà fondamentali sembravano acquisite dopo il 14 gennaio. Alcuni deputati ne avevano anche garantito l’iscrizione nella Costituzione e il governo si vantava di avere instaurato uno Stato di Diritto.

Siamo sconvolti nel vedere tutta questa ingiustizia che colpisce i giovani tunisini rivoluzionari, quando, al tempo stesso, membri del RCD vengono rilasciati, criminali escono dai tribunali con remissione di pena e la condizionale, e soprattutto non si sa ancora chi ha ucciso Chokri Belaid e Mohamed Brahmi.

Con questo comunicato, rivendichiamo a gran voce:

– LA LIBERAZIONE IMMEDIATA E SENZA CONDIZIONI DI NEJIB, YAHYIA, ABDELLAH,SLIM, YAHYA, MAHMOUD, SKANDER, AYA, AMAL, NASSREDDINE, JABEUR, WELD EL 15, KLAYBBJ E DI TUTTI QUELLI CHE SUBISCONO LA REPRESSIONE, CONTRO LA LIBERTA’ DI ESPRESSIONE E DI COSCIENZA

– LA FINE DELLE PERSECUZIONI NEI CONFRONTI DEI GIOVANI E IN PARTICOLARE DI COLORO CHE CONTINUANO A LOTTARE PER REALIZZARE GLI OBIETTIVI DELLA RIVOLUZIONE

– LO SMANTELLAMENTO DELL’APPARATO REPRESSIVO E LIBERTICIDA, EREDITA’ DEL REGIME DEL 7 NOVEMBRE E CHE POGGIA SULLA COLLABORAZIONE TRA LA POLIZIA E LA GIUSTIZIA

Maschio e femmina dio li creò!? Il binarismo sessuale visto dai suoi zoccoli, di Lorenzo Bernini

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Inauguriamo oggi una nuova categoria, l’Archivio Intersezionale, nella quale saranno pubblicati tutti quegli articoli scovati in rete che, a nostro personalissimo giudizio, meritano di essere raccolti in un ‘archivio del pensiero’ intersezionale. L’articolo che segue, pubblicato su Nazione Indiana nel 2008, è l’estratto di una lezione su transgenderismo e intersessualità che Lorenzo Bernini ha tenuto il 9 settembre 2008 presso il corso di dottorato di ricerca in Studi Culturali dell’Università degli Studi di Palermo.

Pur non trovandomi assolutamente d’accordo su una delle conclusioni tratta dall’autore – la chiusa della prima parte auspica un ‘progetto riformista, e non rivoluzionario, che oggi potrebbe scontentare un certo pensiero queer, ma a me sembra un progetto autenticamente libertario e soprattutto mi sembra l’unico progetto realmente praticabile. […] La mia proposta è quindi di abbandonare ogni progetto di fuoriuscita dal dispositivo binario della sessualità, per tentare di mobilitare le categorie del dispositivo dal suo interno’ – reputo questo articolo puntuale sotto molti aspetti e meritevole di attenzione… buona lettura!

 

1. Perché questi punti, perché questi zoccoli: Il titolo che ho scelto per questa lezione è una citazione del versetto 1, 27 della Genesi – “Maschio e femmina Dio li creò” – a cui ho aggiunto un punto esclamativo e uno interrogativo. E per iniziare vorrei spiegarvi il senso di questa aggiunta poco elegante e piuttosto “pop”. Ho aggiunto il punto esclamativo per esprimere un tono imperativo: infatti, dal momento che tutto quello che Dio fa è cosa buona e giusta, le descrizioni degli atti divini contenute nella Bibbia devono essere lette come prescrizioni. In particolare, il versetto 1, 27 della Genesi deve essere letto come una frase che ci ordina: “Tu devi essere maschio oppure femmina – punto esclamativo! – perché così vuole Dio”. Il punto interrogativo simboleggia, invece, la collocazione che ho scelto di assumere di fronte a questa ingiunzione divina. Per illustrarvi questa collocazione, mi è però necessaria una breve digressione.
In un breve saggio del 1950, Hannah Arendt riflette sul proverbio secondo cui “non si può fare una frittata senza rompere le uova”, e per farlo assume il punto di vista delle uova. Il testo si intitola, infatti, The Eggs Speak Up: Le uova prendono la parola. La filosofa ebrea sostiene che al proverbio secondo cui “non si può fare una frittata senza rompere le uova”, le uova preferirebbero il principio enunciato da Clemenceau in occasione dell’affaire Dreyfus. Nel 1894, quando Alfred Dreyfus, capitano dello stato maggiore francese di origini ebraiche, fu ingiustamente accusato di alto tradimento, Georges Benjamin Clemenceau (che sarebbe poi diventato presidente del consiglio francese) ne prese le difese sostenendo che “l’affare di uno è affare di tutti”. Con queste parole, Clemenceau intendeva affermare che nessun cittadino francese poteva sentirsi garantito nelle sue libertà di fronte a uno stato che discriminava gli ebrei, perché la libertà delle minoranze è garanzia anche della libertà della maggioranza. Parole che non dovremmo dimenticare di fronte alle attuali politiche sull’immigrazione del governo italiano, ma che ci saranno utili anche per comprendere l’attuale biopolitica dei sessi.
Con il punto interrogativo ho voluto segnalare che la mia collocazione, nell’analisi che sto per fare, non sarà quella di un soggetto che si pretenda universale e neutrale, ma sarà consapevolmente particolare e parziale. L’oggetto del mio intervento sarà il binarismo sessuale, cioè quel dispositivo biopolitico che impone alla nostra sessualità una divisione netta a due termini: maschio-femmina, uomo-donna. Seguendo la lezione di Arendt, nelle mie riflessioni cercherò di dare la parola a quelle uova che devono essere rotte per fare quelle frittate che sono le identità tradizionali degli uomini e delle donne – ai soggetti intersessuali e transgender che non si conformano a queste identità, che di fronte alle alternative binarie del sesso e del genere non sanno che cosa scegliere e restano perplessi. Per usare un’altra metafora che chiarirò in seguito, potrei dire che vorrei dare la parola a quegli zoccoli che restano piantati, e stritolati, negli ingranaggi della fabbrica della sessualità. Questo spiega il sottotitolo che ho scelto per questo seminario: “il binarismo sessuale secondo i suoi zoccoli”.

2. Premesse di metodo. Ma prima di parlarvi dei soggetti intersessuali e transgender, vorrei soffermarmi sui tre criteri diagnostici, sulle tre coppie di concetti opposti – di concetti binari – con cui oggi psichiatri, psicologi e sessuologi classificano le identità sessuali delle persone. E ancor prima vorrei fare qualche precisazione sul mio metodo: nella mia analisi seguirò l’impostazione inaugurata da Michel Foucault nel primo volume della sua Storia della sessualità, intitolato La volontà di sapere (1976). In questo libro, il filosofo francese sostiene, contro le teorie della “rivoluzione sessuale” che erano molto in voga nei movimenti della contestazione degli anni settanta, che la relazione che lega potere e politica non è principalmente la repressione: a suo avviso il potere, piuttosto che reprimere la sessualità, la produce. Agendo attraverso la cultura, la socializzazione, l’educazione, il potere produce dialetticamente tanto la norma sessuale, quanto le identità perverse che le sono correlate. La sessualità per Foucault, lungi dall’essere un nucleo di desideri originario e naturale come volevano le teorie della “rivoluzione sessuale”, è un dispositivo della biopolitica – è uno dei meccanismi attraverso cui il potere esercita la sua presa sulla vita biologica della specie umana plasmandola in una specifica forma di vita. Nell’analisi di Foucault, che poi è stata ripresa dal pensiero femminista e dalla rielaborazione che di quest’ultimo ha operato Judith Butler, il dispositivo di sessualità è un meccanismo culturale complesso attraverso cui convenzioni linguistiche, religiose, morali, scientifiche, giuridiche si applicano all’individuo condizionando i suoi rapporti con gli altri e con se stesso. Gilles Deleuze ha sostenuto che uno dei grandi insegnamenti di Foucault consiste proprio nell’aver messo in evidenza che “il dentro” altro non è se non “un fuori ripiegato” – che il modo in cui il soggetto pensa la propria interiorità deriva da significati culturali che provengono dall’esterno. Ognuno impara infatti a nominare se stesso, a interpretare i propri desideri, a relazionarsi alle altre persone attraverso l’educazione, la cultura, la morale: attraverso un mondo esterno che lo determina, e che gli offre i sostantivi, gli aggettivi, tutti gli strumenti linguistici e teorici con cui gli è possibile pensarsi come dotato di un’identità.

3. La recente storia degli invertiti. Affermare che la sessualità non è legata alle profondità della natura, significa aprire la possibilità di analizzare la sessualità nella superficialità dei suoi eventi, tratteggiandone una storia. Secondo le ricostruzioni di Foucault, ad esempio, l’omosessualità non è esistita da sempre: l’omosessuale è, piuttosto, un personaggio che appare soltanto nell’Ottocento. Presso gli antichi, nel Medioevo e ancora all’inizio dell’età moderna, la sodomia designava infatti una tipologia di atti vietati, ma non un’identità: solo a partire da uno studio del 1870 dello psichiatra Karl Friedrich Westphal (Die Konträre Sexualempfindung) l’omosessuale maschio è diventato invece un «tipo umano». Da quel momento in avanti, l’omosessualità ha cessato di essere un problema di atti ai quali il soggetto può decidere se abbandonarsi o no, ed è diventata una questione di desideri, di fantasie, di personalità che richiede tutto un lavoro di comprensione e di decifrazione che il soggetto può condurre nel confessionale con il prete, sul lettino con l’analista, o attraverso un silenzioso dialogo con se stesso. Questo lavoro coinvolge non solo gli omosessuali, ma anche gli eterosessuali: anch’essi sono costretti a confessare i loro desideri omosessuali, a riconoscerli per allontanarli da sé e per accedere così all’identità eterosessuale.
Ne La volontà di sapere, Foucault rivolge però la sua attenzione al solo concetto di omosessualità, trascurando di ricostruire la genealogia del concetto di transessualità. In realtà la categoria di könträre Sexualempfindung (sensibilità sessuale invertita), coniata da Westphal e a lungo utilizzata nella letteratura medica, non faceva differenze tra omosessualità e transessualità, e le comprendeva entrambe in quanto inversioni tra gli elementi maschili e femminili della psiche. Soltanto nel 1953, nel saggio Transvestitism and Transexualism di Harry Benjamin, l’identità dell’invertito si è “sdoppiata” nelle due identità dell’omosessuale e del transessuale come le conosciamo oggi. È stata così concettualizzata la differenza tra sesso, genere e orientamento sessuale con cui oggi medicina e psicologia pensano non solo l’omosessualità e la transessualità, ma anche l’eterosessualità.

4. Criteri diagnostici della sessualità contemporanea. Come sapete, per “sesso” si intende la dotazione genotipica e fenotipica di un individuo: essere maschi significa avere nella propria dotazione genetica un cromosoma X e uno Y, avere pene e testicoli, e poi avere spalle larghe, barba baffi e un po’ di peli, il pomo d’adamo e la voce profonda; essere femmine significa invece avere due cromosomi X, avere vagina ovaie e seni, avere fianchi larghi e meno peli, e una voce sottile e possibilmente aggraziata. Per “genere” si intende invece l’adesione al modello culturale di mascolinità e femminilità che agisce nella propria società di appartenenza. Non basta essere maschi per essere uomini, né essere femmine per essere donne. Ad esempio un maschio che indossi abitualmente minigonna e tacchi alti difficilmente dirà di sentirsi uomo nella nostra società. Il sesso quindi è una dimensione fisica, il genere una dimensione psicologica e assieme culturale. L’”orientamento sessuale” designa invece la direzione prevalente dei propri desideri: è eterosessuale chi desidera persone di sesso opposto al proprio, omosessuale chi desidera persone del proprio stesso sesso.
Nelle società del nostro mondo globalizzato, attraverso la psichiatria, la psicologia, la medicina, ma anche e soprattutto attraverso la cultura e – come vedremo – attraverso il diritto, sull’identità sessuale agisce quindi una sorta di «operatore logico», che possiamo chiamare binarismo sessuale. Questo operatore logico impone alle identità sessuali alternative a due termini che riguardano il sesso, il genere e l’orientamento sessuale. Combinando i concetti del binarismo sessuale si possono comporre differenti identità: uomini etereossesuali, gay, bisessuali; donne eterosessuali, lesbiche, bisessuali; donne transessuali o transessuali MtF (male to female: persone nate maschi che vogliono diventare donne) che possono a loro volta essere eterosessuali, lesbiche o bisessuali; uomini transessuali, o transessuali FtM (female to male: persone nate femmine che vogliono diventare uomini) che possono a loro volta essere eterosessuali, gay o bisessuali. Ci sono poi le persone transgender, di cui vi parlerò tra poco, che possono desiderare uomini, donne, o altre persone transgender. Se consideriamo tutte queste soggettività nella prospettiva teorica di Foucault, se li consideriamo come prodotti di quel dispositivo di sapere-potere che è la sessualità, appare evidente come i concetti di sesso, genere e orientamento sessuale, messi a punto negli anni cinquanta del secolo scorso, definiscano ancora oggi tanto la norma sessuale quanto la “perversione”. Non si tratta, infatti, di categorie puramente descrittive, ma di concetti che servono per istituire una gerarchia: per classificare gli esseri umani attribuendo solo ad alcuni di essi, considerati “normali”, e non ad altri, considerati “anormali”, lo statuto di un’umanità “piena” – di un’umanità pienamente meritevole di godere dei diritti umani, pienamente tutelata giuridicamente.

5. Una nuova Bibbia che fabbrica zoccoli. Nel DSM (Diagnostical and Statistical Manual of Mental Disorders), l’elenco ufficiale dei disturbi mentali dell’American Psychiatric Association che dagli anni cinquanta del secolo scorso è considerato una sorta di Bibbia della psichiatria, l’identità sessuale viene definita appunto attraverso quei tre “criteri diagnostici” che sono il sesso, il genere e l’orientamento sessuale. Ma in questa definizione, la Bibbia della psichiatria contemporanea ha ereditato il punto esclamativo della Bibbia ebraico-cristiana. Infatti, sulle pagine delle quattro edizioni del DSM, l’eterosessualità non è mai comparsa come malattia mentale, mentre vi sono comparse altre identità prodotte dal dispositivo binario della sessualità. L’omosessualità è stata definitivamente depennata dal DSM solo il 17 maggio 1990 – e questa è la ragione per cui la data del 17 maggio è stata scelta come “giornata mondiale contro l’omofobia”. Mentre ancora oggi transessualità e transgenderismo sono considerate affezioni psichiatriche e catalogate come GID: Gender Identity Disorder, disturbo dell’identità di genere – definizione rispondente all’imperativo che impone coerenza tra sesso, genere e orientamento sessuale. Quindi: se nasci maschio ma ti senti donna, o se nasci femmina e ti senti uomo, per il DSM sei affetto da un disturbo psichiatrico. L’intersessualismo invece non compare nel DSM – non perché l’associazione psichiatrica americana non lo consideri un malattia, ma perché non lo considera un malattia mentale. Come dirò più avanti, dalla medicina contemporanea l’intersessualismo è infatti considerato una malattia fisica, e quindi una malattia da correggere con il bisturi prima che con gli psicofarmaci.
Nella prospettiva costruttivista di Foucault, quindi, anche transessualità, transgenderismo e intersessualismo sono prodotti del dispositivo di sessualità – ma prodotti difettosi, scarti, malfunzionamenti. Io vorrei invitarvi, appunto, a porvi nella prospettiva di questi malfunzionamenti, a cercare di immaginare la loro perplessità, il punto interrogativo che è la loro reazione di fronte agli imperativi del binarismo sessuale. Vorrei invitarvi a seguire il principio di Clemenceau e di Arendt (“l’affare di chi viene patologizzato dall’attuale dispositivo biomedico di sessualità è affare di tutti”), dando la parola alle uova che servono per cucinare la frittate delle identità di genere – a quelle uova che però preferisco chiamare zoccoli – e ora vi dirò perché.
Provate a pensare al dispositivo binario della sessualità come a una fabbrica di zoccoli, che con i suoi ingranaggi produce soprattutto zoccoli “normali” – zoccoli maschi e uomini e zoccoli femmine e donne – ma che ogni tanto, con gli stessi ingranaggi produce per errore anche “zoccoli difettosi”: gay, lesbiche, transessuali, transgender, intersessuali… In francese zoccolo si dice “sabot”, e dal sostantivo “sabot” deriva il verbo “saboter”, che significa “fabbricare zoccoli”, ma anche “sabotare”! Lo zoccolo era infatti, un tempo, la calzatura dei poveri, e quindi degli operai. Calzatura che all’occorrenza poteva diventare un efficace strumento di lotta politica: lo zoccolo poteva infatti essere incastrato ad arte tra gli ingranaggi di una fabbrica, anche della stessa fabbrica che lo aveva fabbricato, per arrestarne la produzione. Questa è la ragione per cui ho scelto di utilizzare questa poco elegante metafora degli zoccoli. Nella prospettiva interpretativa di Foucault, o almeno nella mia lettura di essa, le identità perverse, le minoranze sessuali – e in particolare le soggettività transgender e intersessuali -, non sono situate “prima”, “fuori”, o “oltre” il dispositivo binario della sessualità (come vorrebbero le teorie della rivoluzione sessuale): esse stanno, semmai, piantate (e stritolate) come zoccoli tra le sue ruote dentate. Ed è proprio da questa posizione, e non da un immaginario “fuori” (“prima” o “oltre”) della fabbrica, che le minoranze sessuali possono sabotare il sistema che le produce, senza pretendere di farlo saltare in aria, ma cercando di rinnovarlo per renderlo più accogliente, cercando di assumere al suo interno una posizione più confortevole. Si tratta sicuramente di un progetto riformista, e non rivoluzionario, che oggi potrebbe scontentare un certo pensiero queer, ma a me sembra un progetto autenticamente libertario e soprattutto mi sembra l’unico progetto realmente praticabile. Anzi mi sembra che questa sia la strada fino ad ora percorsa, più o meno consapevolmente, dal movimento lesbico gay trans – una strada tutt’altro che conclusa che occorre continuare a edificare.
La mia proposta è quindi di abbandonare ogni progetto di fuoriuscita dal dispositivo binario della sessualità, per tentare di mobilitare le categorie del dispositivo dal suo interno. Per tentare di reinterpretarle, di renderle più vivibili per tutti senza pretendere di sussumere l’identità di tutti sotto un’unica categoria – come a volte mi sembra accadere in una certa vulgata queer. Judith Butler utilizza a questo proposito il verbo “to displace”, dislocare. Per Butler è possibile dislocare i significanti del binarismo sessuale, senza illudersi si dislocarsi al di fuori di essi. Come una lingua parlata evolve nel tempo a opera dei parlanti, così è possibile modificare i significanti culturali dell’identità mediante la stessa ripetizione delle pratiche che li generano. È quello, mi pare, che è successo nel movimento lesbico-gay-trans quando è stato coniato il termine “transgender”: categoria che non pretende di designare un oltre del binarismo sessuale, ma che opera una risignificazione fluida e non esclusiva della sua logica binaria. È, appunto, di questa categoria che vorrei parlarvi ora…

6. Violenze giuridiche su corpi trans. Per affrontare la questione del transgenderismo, occorre affrontare preventivamente la questione della transessualità. I primi interventi di riassegnazione chirurgica del sesso sono stati praticati negli anni cinquanta, e infatti, come già ho ricordato, solo dagli anni cinquanta nella letteratura medica è stata operata la distinizone tra transessuale e omosessuale attraverso quelle categorie di sesso, genere e orientamento sessuale che sono oggi utilizzate anche per definire l’eterosessualità. Si tratta naturalmente di una distinzione che ha le sue ragioni pratiche oltre che teoriche, e che non ho alcuna intenzione di mettere in discussione.

Poco ragionevolmente giustificabile e molto discutibile mi sembra invece l’attuale trattamento giuridico della condizione transessuale in Italia. Un trattamento in cui appare evidente come, ancora nelle nostre società postmoderne, il binarismo sessuale mantenga pesantemente il suo carattere imperativo (il suo punto esclamativo). Come vi dicevo prima, secondo il DSM gay e lesbiche non sono persone malate – fino al 1990 sì, gay e lesbiche erano malati, ma dal 1990 sono tutti guariti! Le persone trans invece sono malate tuttora, affette da disturbo dell’identità di genere. E chi è malato deve essere curato. La cura a cui un transessuale FtM deve sottoporsi prevede assunzione di testosterone, mastectomia (asportazione del seno), isterectomia (asportazione di utero ed ovaie) ed eventualmente falloplastica (ricostruzione chirurgica di un simil-pene). La cura a cui una transessuale MtF deve sottoporsi consiste invece nell’assunzione di estrogeni e di farmaci antagonisti del testosterone, nella rimozione di pene e testicoli ed eventualmente nella mastoplastica additiva (ricostruzione chirurgica del seno) e nella vaginoplastica (ricostruzione chirurgica di una simil-vagina). Vaginoplastica e falloplastica sono interventi molto pesanti, che durano anche 10 ore, e che danno spesso scarsi risultati. La falloplastica nella maggior parte dei casi dà forti reazioni di rigetto: spesso la protesi viene rifiutata dal corpo. La vaginoplastica invece, oltre ad essere un intervento molto invasivo, talvolta va ripetuta perché la vagina artificiale tende a chiudersi (il termine medico è stenosi). Ma soprattutto la vaginoplastica spesso comporta la rinuncia al piacere sessuale.

Fortunatamente nessuno e nessuna è obbligato a sottoporsi a questi trattamenti contro la sua volontà; tuttavia in Italia è necessario sottoporvisi per chi vuole che il proprio desiderio di cambiare genere sia riconosciuto dalle istituzioni. Infatti, secondo la legge 164, del 14 aprile 1982, tuttora in vigore, questi interventi (almeno nella loro forma demolitiva) sono necessari per poter ricevere l’autorizzazione di cambiare il nome sulla carta di identità. Quindi l’identità di genere per lo stato italiano dipende non dal senso di sé di un soggetto, ma esclusivamante da ciò che un soggetto ha tra le gambe, si tratti di un organo genitale naturale o di una sua copia artificiale. Il nostro sistema giuridico risponde quindi a una logica binaria molto rigida: o sei maschio e quindi devi essere uomo, o sei femmina e quindi devi essere donna. Se sei maschio ma vuoi essere donna, il nostro sistema giuridico ti concede di diventare legislativamente donna o uomo solo a patto che tu ti faccia demolire ed evenualmente ricostruire i genitali, anche se probabilmente questo potrebbe farti rinunciare al piacere dell’orgasmo o dare forti reazioni di rigetto, e anche se l’operazione di ricostruzione genitale potrebbe non riuscire affatto.

Non vorrei che le mie parole venissero fraintese: io difendo fermamente il principio secondo cui le persone trans debbano avere il diritto di autodeterminare i propri corpi, anche intervenendo chirurgicamente su di essi se lo desiderano. Ma credo anche che il diritto di autodeterminazione debba includere un’informazione completa e dettagliata sui risultati realmente possibili e soprattutto un contesto istituzionale e legislativo che renda la scelta realmente libera. Le mie critiche non sono quindi in alcun modo rivolte alle persone transessuali, ma sono rivolte alla legge secondo cui il riconoscimento giuridico dell’identità di una persona transessuale deve passare dall’intervento chirurgico. Non è così in tutta Europa: ad esempio in Spagna nel 2007 è stata approvata una legge che afferma il principio secondo cui “il riconoscimento giuridico dell’identità di genere non deve necessariamente dipendere dall’intervento chirurgico di riattribuzione dei genitali”. E già dal 1980 in Germania è prevista quella che vien chiamata “piccola soluzione” (kleine Lösung), cioè il cambiamento dei dati anagrafici senza alcun intervento né chirurgico, né ormonale. La legge italiana, rendendo obbligatoria l‘operazione genitale per il cambio dei documenti, a mio avviso è una legge violenta, che induce le persone ad operarsi per normalizzarle secondo i criteri del binarismo. Un uomo con ovaie, utero e vagina o una donna con testicoli e pene per la legislazione italiana sono soggetti intrattabili.

7. Soggetti intrattabili (1). Il fatto è che questi soggetti intrattabili in realtà esistono, si autodefiniscono transgender, e a mio avviso possono essere assunti come figure esemplari di possibili pratiche di riappropriazione creativa del binarismo sessuale. “Transgender” è un termine polisemico che si è diffuso nel movimento lesbico gay trans in seguito alla pubblicazione, nel 1992, di un libro di Leslie Feinberg intitolato Transgender Liberation. In senso stretto, si definiscono transgender le persone che si identificano con il genere opposto al sesso di nascita ma che scelgono di non sottoporsi alla riassegnazione chirurgica del sesso: si può essere transgender ad esempio vestendo i panni del genere desiderato, scegliendo per sé un nome proprio del genere desiderato, assumendo eventualmente ormoni e modificando alcuni tratti del proprio corpo, ma senza intervenire chirurgicamente, o intervenendo solo parzialmente, sui propri genitali. In senso lato, la categoria può essere estesa anche alle persone transessuali, che sono invece quelle persone che desiderano modificare anche i propri genitali per diventare il più possibile simili al “sesso” di elezione: secondo questa interpretazione “transgender” è un termine di ampio significato che contiene al suo interno tanto il concetto di transessuale, quanto quello di transgender in senso stretto. Ma si definiscono transgender anche persone come Leslie Feinberg, l’autrice/autore di Transgender Liberation, e anche di altri saggi come Transgender Warriors (1996); Trans Liberation (1998), e dei romanzi Stone Butch Blues (1993) e Drag King Dreams (2006) (http://www.transgenderwarrior.org/). Feinberg è nata con corpo femminile e ha avuto in sorte un nome, Leslie, che in inglese è sia maschile sia femminile. Nel tempo ha reso il suo corpo parzialmente somigliante a un corpo maschile, ma non ha voluto completare la transizione verso il sesso maschile, e ha poi scelto per sé un genere intermedio come il suo nome. Oggi lascia ai suoi commentatori la libertà di scegliere il pronome con cui sostituire il suo nome, e al tempo stesso insiste sulla necessità di introdurre nel vocabolario pronomi personali intermedi come “s/he” (she/he) e aggettivi possessivi come “hir” (her/his). “Transgender” indica quindi anche quei soggetti che nel corso della vita hanno sperimentato differenti ruoli di genere, e che collocano la propria identità tra il maschile e il femminile. Un esempio italiano è Porpora Marcasciano, militante del Movimento Identità Transessuale (http://www.mit-italia.it/) e autrice/autore di libri come Tra le rose e le viole (manifestolibri, 2002), Antologaia (Il dito e la luna, 2007), e Favolose narranti (manifestolibri, 2008): Porpora è nata con un corpo maschile che ha in parte modificato per renderlo somigliante a un corpo femminile, e oggi, come Feinberg, usa per sé indifferentemente il genere maschile e femminile.

In un testo del 2004, La disfatta del genere, Butler utilizza il termine transgender per contestare il senso comune (che, come vi ho mostrato, è anche senso medico e giuridico) secondo cui il genere è una conseguenza del sesso. Assumendo la prospettiva genealogica di Foucault, Butler opera un interessante rovesciamento di prospettiva e sostiene che sono le norme di genere a rendere culturalmente significative le differenze sessuali dei corpi, anche le differenze genitali: è il sesso che deriva dal genere, e non il genere dal sesso. Butler si spinge ancora oltre: fin da Scambi di genere (1989) ha sostenuto infatti che nell’ordine simbolico tradizionale il genere è un epifenomeno dell’orientamento sessuale. Al cuore del binarismo sessuale si troverebbe cioè il dogma dell’eterosessualità obbligatoria: sarebbe il dovere dell’eterosessualità a rendere culturalmente significativa le differenze tra i generi, e sarebbe poi l’importanza culturalmente attribuita alle differenze tra i generi a rendere culturalmente significative anche le differenze corporee tra i sessi. Una legge che impone con nettezza il binarismo sessuale, come la legge italiana, rendendo giuridicamente intrattabili i soggetti transgender, secondo Butler sarebbe quindi in ultima istanza riconducibile a una rigida interpretazione del dogma dell’eterosessualità obbligatoria: poiché la norma eterossessista impone che gli uomini debbano desiderare le donne e viceversa, allora è fondamentale che non esistano ambiguità nello stabilire chi è uomo e chi è donna. E affinché non ci siano ambiguità, la norma stabilisce che a decidere siano i genitali: naturali o chirurgicamente ricostruiti. Il fatto è che, in realtà, non è affatto detto che i genitali siano il modo migliore per disambiguare le identità sessuali, e ora vorrei dirvi perché. Vorrei infatti concludere sulla questione dell’intersessualismo, l’altra condizione a cui allude il punto interrogativo del mio titolo, l’altro zoccolo piantato negli ingranaggi della fabbrica moderna della sessualità.

8. Soggetti intrattabili (2). Come ho anticipato, il DSM non comprende l’intersessualismo tra i disturbi mentali, perché l’intersessualismo è una condizione fisica prima che psicologica. Intersessuale è infatti un individuo il cui corpo presenta caratteri intermedi tra quelli maschili e quelli femminili. Secondo le stime statistiche dell’Intersex Society of North America (http://www.isna.org/), nasce intersessuale un bambino ogni duemila. Questo significa che, se la popolazione italiana è stimabile attorno ai 60 milioni di abitanti, le persone intersessuali in Italia sono probabilmente attorno alle 30 mila unità. Ma naturalmente anche se fossero meno, quello che vi dirò non sarebbe meno valido, perché abbiamo detto che gli zoccoli di cui abbiamo assunto il punto di vista, vorrebbero essere trattati secondo la massima di Clemenceau e di Arendt: “l’affare di uno è affare di tutti”. Al di là dei dati statistici, mi sembra infatti che l’intersessualismo, al pari del transgenderismo, possa valere come cartina tornasole per comprendere la violenza insita nel binarismo tradizionale così com’è stato interpretato nelle società tradizionali, e come ancora è interpretato nel nostro ordinamento giuridico. Come le persone transgender, infatti, anche le persone intersessuali sono considerate intrattabili dal nostro sistema giuridico e simbolico, e per questa ragione vengono “trattate” dal nostro sistema sanitario.

Un esempio di intersessualismo, è la sindrome di Klinefelter (cfr. wikipedia), che è l’esito di una variazione genetica: chi ne è affetto non ha due cromosomi sessuali (i canonici XX delle femmine, e XY dei maschi), ma tre: due cromosomi X e un cromosoma Y. Per la presenza del cromosoma Y, i portatori della sindrome, o meglio le persone XXY – come loro preferiscono chiamarsi – sono classificati dalla medicina come maschi. Alla nascita, in effetti, appaiono maschi, ma quando giunge la pubertà non sviluppano i caratteri secondari maschili: non hanno barba, né pomo d’adamo, né spalle larghe, né voce profonda, non sviluppano pene e testicoli di dimensioni “normali”. Hanno invece voce sottile, fianchi arrotondati, spalle spioventi, e spesso sviluppano il seno. Un altro esempio di intersessualismo è la sindrome di Morris (http://www.sindromedimorris.org/): le persone che ne sono affette, geneticamente sono uomini XY, ma, per una incapacità di razione agli ormoni maschili durante la gravidanza, nascono come bambini micropenici con testicoli introflessi. Hanno quindi genitali ambigui: il loro pene assomiglia a una clitoride, ma lo scroto introflesso forma una piccola cavità cieca, che non sfocia in una vagina. Non avendo i testicoli non produrranno mai testosterone, e quindi non potranno in adolescenza acquisire i caratteri secondari maschili. Un altro caso che può essere associato all’intersessualismo è quella che una volta veniva chiamata sindrome adrenogenitale, e che ora si preferisce chiamare iperplasia surrenale congenita (http://www.adrenogenitale.it/): può colpire sia uomini, sia donne, e consiste in un malfunzionamento delle ghiandole surrenali che producono poco cortisolo e poco aldosterone. La conseguenza è un aumento di testosterone, che nelle donne provoca la comparsa di caratteri secondari maschili: peli, barba, voce profonda. Il testosterone agisce anche sulla conformazione dei genitali: le donne affette da iperplasia surrenale congenita presentano spesso una clitoride ipertrofica, simile a un pene, e in alcuni casi una vagina poco profonda e la fusione delle grandi labbra.

Nella storia dell’umanità le persone intersessuali sono state celebrate da miti e leggende (pensate a Ermafrodito e a Tiresia), ma sono anche state ampiamente perseguitate. Nel 1978 Foucault ha curato la pubblicazione delle memorie di Herculine Barbin, detta Alexina B., un intersessuale francese vissuto nell’Ottocento. Nelle memorie si legge che ad Herculine Barbin, soprannominata Alexina, alla nascita fu attribuito il sesso femminile. Fu quindi educata come una bambina, in un convento. Con l’adolescenza scoprì di essere attratta dalle compagne, si innamorò di una di esse e ne divenne amante. Per questo fu processata, e la sentenza decretò la sua trasformazione legale in uomo, stabilendo che il suo vero sesso fosse quello maschile, e che i medici che l’avevano visitata da neonata avessero commesso un errore: in una società dominata dal dogma dell’eterosessualità obbligatoria, se un soggetto si innamora delle donne, allora è un uomo. E se è un uomo, allora deve essere anche biologicamente maschio. Così Alexina fu costretta a indossare abiti maschili – e si suicidò.

9. Violenze chirurgiche su corpi intersessuali. Nel caso ottocentesco preso in esame da Foucault, quindi, le autorità mediche cercarono nel corpo intersessuale di Alexina, e soprattutto nella sua biografia, i segni del suo “vero sesso”. Invece a partire dalla metà del Novecento, da quando si è iniziato a praticare interventi di riassegnazione genitale, negli Stati Uniti e in Europa, e in buona parte del mondo, i medici hanno iniziato a intervenire direttamente sul corpo delle persone intersessuali, normalizzando chirurgicamente poco dopo la nascita l’aspetto dei genitali ambigui, e in seguito modificando i caratteri sessuali secondari con terapie ormonali. Questo avviene abitualmente anche in Italia. Anche in questo caso, la mia intenzione non è di negare, ma al contrario di difendere il diritto delle persone intersessuali a modificare chirurgicamente il proprio corpo e ad assumere ormoni in modo da adeguare il proprio corpo alla propria identità. Ma la mia intenzione è anche quella di contestare la normalizzazione forzata delle persone intersessuali, denunciando il fatto che il sistema giuridico italiano da un lato impedisce a persone transgender maggiorenni di cambiare genere sui documenti a meno che non si sottopongano a un intervento chirurgico, e dall’altro permette a genitori e medici di intervenire chirurgicamente sul corpo di minorenni o peggio ancora di infanti per “normalizzarli” secondo i dettami del binarismo sessuale. Non è così in tutto il mondo: in Colombia è vietato intervenire sui genitali ambigui di persone che non abbiano ancora raggiunto l’età del consenso. E a me sembra una legge giusta: perché questi interventi chirurgici e queste prescrizioni di ormoni, se sono praticati su neonati incapaci di scegliere sulla propria identità e il proprio corpo, oppure se sono presentati come cure necessarie o come unica scelta possibile a degli adolescenti in situazione di grave disagio emotivo, altro non sono se non mutilazioni genitali e corporee dettate dal dogma del binarismo sessuale. L’occidente grida giustamente allo scandalo di fronte all’infibulazione che viene praticata in alcuni paesi islamici africani; ma farebbe bene a farsi un esame di coscienza e a proibire una volta per tutte le mutilazioni genitali che vengono praticate nei propri ospedali.

Vorrei farvi un esempio: la storia di Cheryl Chase, la fondatrice (nel 1993) dell’Intersex Society of North America. Nata con genitali ambigui, fino a 18 mesi è stata cresciuta come un bambino. Poi i medici hanno detto ai suoi genitori che si trattava in realtà di una bambina, e che bisognava quindi procedere all’asportazione della pronunciata clitoride. A 8 anni è stata operata di nuovo per rimuovere ciò che in seguito ha saputo essere la porzione testicolare delle sue ovaie-testicoli. Oggi vive come una donna lesbica, ma le operazioni subite l’hanno privata della sensibilità clitoridea e della risposta orgasmica, proprio come succede alle donne infibulate in Africa. Il caso di Cheryl Chase dimostra quindi che la logica con cui questi interventi vengono praticati spesso non è il rispetto degli interessi soggettivi, come il mantenimento della possibilità di provare piacere, ma l’obbedienza a un imperativo di normalizzazione.

Secondo questo imperativo, alla nascita un pene non deve misurare meno di 2,5 cm; e una clitoride non deve essere più grande di 0,9 cm. Bambini con membri tra 0,9 e 2,5 cm sono quindi considerati inaccettabili e bisognosi d’intervento chirurgico. La maggior parte degli intersessuali viene fatta diventare donna semplicemente perchè è più facile costruire una simil-vagina piuttosto che allungare un micropene. Così ad esempio, le donne affette da sindrome adrenogenitale subiscono un intervento di “apertura” della vagina e di “accorciamento” della clitoride, anche a costo di perdere la sensibilità clitoridea. Ma anche chi ha la sindrome di Morris, pur essendo genotipicamente maschio (XY), a causa della micropenia e dei testicoli introflessi viene ricondotto al genere femminile: si accorcia il pene, si pratica una vaginoplastica, si prescrivono estrogeni. Un uomo diventa così una donna dotata di una similvagina a rischio di stenosi, che spesso va rioperata nel corso degli anni. Sembra che i medici non abbiano dubbi: è meglio essere una femmina imperfetta piuttosto che un maschio imperfetto – forse perché il regime del binarismo sessuale è un regime maschilista, in cui le donne sono considerate imperfette per natura.

A chi è affetto da sindrome di Klinefelter, invece, una volta giunto all’età dell’adolescenza, i medici “prescrivono” la mastectomia (l’asportazione del seno) e la somministrazione di testosterone. L’assunzione dell’ormone provoca la comparsa di caratteri secondari maschili (barba, peli, voce profonda) ma provoca anche cambiamenti caratteriali nella sfera della libido e dell’aggresività che in alcuni casi possono produrre profondo turbamento e perdita del senso di sé. Non sono poche nel mondo le persone XXY che rifiutano questo trattamento forzato: alcune scelgono la strada della femminilizzazione, altre rivendicano per sé il diritto di essere semplicemente quelle che sono – di mantenere il proprio corpo intersessuale e la propria personalità ipodesiderante – (si veda, a questo proposito, la testimonianza di Michael Noble), ma tale diritto, di solito, viene loro riconosciuto con grande fatica dai medici con cui hanno a che fare.

10. Il sabotaggio del binarismo: le teorie transgender. Di fronte a questi fatti, credo che sia facile intuire come le teorie transgender, che mettono in discussione la rigidità del binarismo sessuale dichiarando la possibilità che un’identità abiti uno spazio intermedio tra il genere maschile e quello femminile, possono diventare uno strumento prezioso per rinnovare il nostro ordinamento giuridico, per rendere più vivibile la vita delle persone intersessuali e trans (transessuali o transgender), e per allargare la gamma delle definizioni identitarie disponibili per tutti.

Transgenderismo e intersessualismo sono condizioni psicologiche e fisiche prodotte dalla logica binaria del dispositivo moderno della sessualità e rese intelligibili dalle sue categorie. Non rappresentano pertanto un “oltre” del binarismo, perché non negano il fatto che la sessualità degli umani, così come riusciamo a pensarla oggi, si dia tra gli estremi del maschile e del femminile. Però la presa di parola di soggetti transgender e intersessuali, la loro rivendicazione di una piena umanità, può provocare un dislocamento del binarismo sessuale, un suo sabotaggio che potrebbe portare a un suo migliore funzionamento. Dare ascolto ai soggetti transgender e intersessuali significa infatti disporsi ad accettare che la sessualità non si esaurisce in un’alternativa rigida e netta tra il maschile e il femminile, ma si configura come una gradazione tra il maschile e il femminile ricca di sfumature. Guardare alla fabbrica moderna della sessualità assumendo il punto di vista di quegli zoccoli difettosi che si trovano piantati e stritolati tra i suoi ingranaggi, induce a concludere che all’interno di quel continuum tra maschile e femminile che è la sessualità umana, ogni essere umano dovrebbe avere il diritto di scegliere dove collocare il proprio corpo e la propria identità. Senza condizionamenti e pregiudizi, ognuno dovrebbe avere il diritto di sperimentare quale sia la collocazione che più gli risponde – quella da cui potrà trarre maggior piacere.

Testo di Lorenzo Bernini (lorenzo.bernini@unimi.it)

Su depressione, sperma e sesso orale – la ricerca

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ph spiderspaw (farsela leccare non cura la depressione, ma fa comunque piacere)

Avrei voluto intitolare questo post: “Donne, la depressione si può curare facendo sesso orale: fatevela leccare!”, sarebbe stato di impatto, ma dato che la depressione è un disturbo serio nessun@ è autorizzat@ a scrivere stupidaggini in merito.

Solo un@ specialista (medic@ di medicina generale, psicolog@ o psichiatra) può diagnosticare il disturbo depressivo e aiutarvi a guarire con il metodo a voi più congeniale, metodo che nulla ha a che vedere con l’ingestione di sperma. Non solo fare pompini non fa guarire dalla depressione, ma farli senza protezione ci espone al rischio di contrarre ogni tipo di malattia sessualmente trasmissibile. Oltre a continuare ad essere depresse rischiamo seriamente di contrarre AIDS, HpV, Erpes, epatiti e altre malattie non mortali, ma che ci costringono a lunghe cure mediche (le quali, piuttosto, favoriscono il calo d’umore).
Comunque farvela leccare non vi deprimerà, se vi dovesse deprimere provate a spiegare come vi piace, se proprio non funziona potete sempre cambiare lingua. Un post divertente e intelligente sulle proprietà rallegranti del cunnilinguo è già stato scritto qui.

Questo post nasce per fare chiarezza sulle tesi riguardanti le  proprietà antidepressive del pompino con ingoio – di questo si tratta – portate avanti da questo articolo (opportunisticamente linkato e fatto rimblazare da quanti non riescono ad ottenere questa pratica da mogli e compagne). Il pezzo blatera di depressione e sperma, ossia di me, voi, noi che guariamo dalla depressione spremendo cazzi con la bocca, pura disinformazione medica di stampo goliardo-maschilista.

L’articolo che rimbalza qui e lì, ma vedremo nel prossimo post che si tratta solo dell’ultimo di una lunga serie di articoli che hanno funzionato da telefono senza fili, fa riferimento a una ricerca condotta nell’aprile del 2001 da una ricercatrice e due ricercatori della State University di New York, sita in Albany, N.Y., intitolata “Lo sperma ha proprietà antidepressive?”, recuperabile in pdf qui, pubblicata sulla rivista di sessuologia Archives of Sexual Behavior nel 2002. Ad esso sono giunta tramite questa chiave di ricerca su google: “State university New York+sperm and depressive disorder”, di non difficile combinazione.

La questione della reperibilità è molto importante, perché ci permette di vedere con chiarezza dove finisce la ricerca e dove iniziano maschilismo e disinformazione.
Le parti dall’inglese che seguono sono state tradotte da me.

Un po’ di luce sulla ricerca.

Dall’introduzione ricaviamo l’informazione che quando si tratta di disturbi depressivi la differenza tra maschi e femmine diventa consistente, perché “Le donne sono più inclini a sviluppare disturbi depressivi rispetto agli uomini”, che “L’incidenza della depressione clinica nelle donne supera quella indicata nei maschi di un fattore pari a tre su cinque volte” e “nelle donne, la depressione è spesso associata a differenti  esiti riproduttivi come la morte di un bambino, un aborto spontaneo e la menopausa.” Ney[1] nel 1986, “ipotizzò che lo sperma potesse avere un effetto sull’umore delle donne.” Questo effetto sarebbe dovuto agli ormoni nel plasma seminale, tra i quali “testosterone, gli estrogeni, l’ormone follicolo-stimolante e l’ormone luteinizzante, la prolattina, e un certo numero di differenti prostaglandine.” Questo perché “testosterone ed estrogeni sono assorbiti attraverso l’epitelio vaginale”, come gli altri ormoni, ma si sottolinea che “il testosterone viene assorbito più rapidamente attraverso la vagina che attraverso la pelle”.
La ricerca, per testare l’ipotesi di Ney, ha “misurato i sintomi depressivi nelle donne del college in funzione dell’attività sessuale e dell’uso del preservativo. La coerenza di uso del preservativo è stata utilizzata per indicizzare la presenza di sperma nel tratto riproduttivo femminile.”

Dunque al sesso orale non si fa alcun riferimento, perché l’ipotesi è che ad avere effetto sul comportamento delle donne siano gli ormoni contenuti nello sperma assorbiti attraverso l’epitelio vaginale.

Le donne che hanno partecipato alla ricerca sono 293, tutte volontarie anonime, che frequentavano lo stesso college in cui la ricerca è stata effettuata. Esse hanno accettato di compilare “un anonimo questionario progettato per misurare i vari aspetti del loro comportamento sessuale, inclusa la frequenza dei rapporti sessuali, il numero di giorni dopo il loro ultimo incontro sessuale, e tipi di contraccettivi usati.
Tra le donne sessualmente attive nel campione l’uso dei preservativi è stato presa come misura indiretta della presenza di sperma nel tratto riproduttivo. La frequenza dei rapporti sessuali è stata recepita nel numero di atti coitali all’anno. Ad ogni intervistata è stato anche chiesto di completare il Beck Depression Inventory, una misurazione di uso frequente per individuare le differenze individuali nei sintomi depressivi“.

L’87% delle donne campionate era sessualmente attiva, secondo i dati raccolti i sintomi della depressione variano rispetto all’utilizzo del preservativo, in pratica è emerso che la maggior parte delle donne che usavano i preservativi accusavano sintomi depressivi, di contro le donne che il preservativo non lo usavano presentavano minori sintomi depressivi, anche rispetto a quelle che si astenevano dal sesso.  E’ stata individuata una correlazione tra sintomi depressivi e distanza temporale dall’ultima relazione sessuale.

Rendiamoci però conto che: gli ipotetici benefici sull’umore, dell’assorbimento attraverso la vagina degli ormoni contenuti nello sperma, sono niente rispetto alla paura di una gravidanza o di contrarre malattie a trasmissione sessuale, entrambi eventi altamente probabili se non si usano i preservativi. Più giù è specificato che molte delle donne che non facevano uso di preservativi, assumevano comunque un contraccettivo orale (“oltre 7 su 10 delle donne sessualmente attive in questo campione che non ha mai usato i preservativi usavano contraccettivi orali”).

Leggi tutto “Su depressione, sperma e sesso orale – la ricerca”

La femminista specista, ovvero facciamola finita con l’idea di ‘natura’ solo se non è in gioco la mia bistecca!

2008-07-16-speciesist

Io amo le femministe, davvero.
Mi dichiaro femminista e antisessista da molto tempo, e lo faccio con orgoglio:  il femminismo ha avuto, ha (e auspico avrà!)  un ruolo essenziale nel mio percorso di donna e di persona che lotta per la propria – e l’altrui – libertà di autodeterminarsi all’interno di questo sistema.
Un sistema che, tra i tanti paradigmi dell’oppressione che agisce sui diversi soggetti che si ritrovano – loro malgrado – catturati al suo interno, vede nel sessismo una delle proprie punte di diamante.
E’ stato il femminismo (più ancora dell’antispecismo, al quale in realtà cronologicamente ero arrivata prima) che non solo mi ha liberato, ma mi ha aperto gli occhi anche su tutti i legami esistenti tra le diverse forme di discriminazione e di oppressione che prima sentivo più distanti dal mio cuore e dal mio attivismo.
Perché, ne sono convinta, se abbracci il femminismo veramente, tutto intero, nella sua dirompente capacità di rottura, se ti ci lasci attraversare, lacerare, se lasci che faccia luce anche sulle tue zone d’ombra, se permetti che rivoluzioni DAVVERO il tuo modo di pensare, allora ti cambia tutto… cuore, mente e pratiche politiche, tanto che la tua vita e la tua politica diventano un tutt’uno inscindibile.
Ed è per questo che ogni persona che si avvicina al femminismo (già, ogni persona, non ogni donna, che il femminismo rivoluziona anche gli uomini quando lo abbracciano, alla faccia di quegli altri così piccini e aggrappati al loro ruolo di genere che li definiranno con ridicoli neologismi come ‘maschiopentiti’, o quelle donne che definiranno il femminismo ‘cosa nostra’ in quanto Femmine con la F maiuscola, come se la rivoluzione la si potesse fare solo sui cromosomi XX senza per forza coinvolgere anche tutte le altre possibili combinazioni) è per me una gioia, una conquista, una speranza di quel mondo che oggi non esiste ma per il quale lotto… e del quale ho comunque la fortuna di vedere delle splendide avanguardie, già qui, già ora, in quelle  ‘Zone Temporaneamente Autonome’ (Taz) di libertà, che fortunatamente a tratti emergono nello stagnante oceano di inciviltà nel quale cerchiamo di galleggiare. Ma ahimé, spesso anche in ambito femminista mi scontro con realtà che mi deprimono, mi scoraggiano e avviliscono.

Bazzicavo sulla pagina Facebook di Femminismo a Sud, uno degli spazi che ho contribuito ad animare e al quale mi sento ancora molto legata, e mi trovo davanti agli occhi un post con una frase attribuita a Gary Francione, noto e controverso attivista animalista (sui suoi meriti e demeriti non mi soffermo in quanto la frase poteva essere attribuita, per quanto qui mi interessa, anche ai soliti Jim Morrison, Martin Luther King o Madre Teresa di Calcutta).

La frase, tradotta in maniera un pò zoppicante (cercherò di renderla un pò più scorrevole), è la seguente:

“Se dichiari di essere femminista… ma non sei vegana, hai le idee confuse, perché qualsiasi teoria femminista coerente richiede il veganismo. Una vera femminista si oppone alle gerarchie basate sul potere. Prima di tutto, il nostro consumo di prodotti animali non è null’altro che un’espressione di potere. Consumare prodotti animali ha lo stesso valore dello stupro in quanto rappresentano l’imposizione di sofferenza (ad altri) basata su questioni di potere. Secondariamente i prodotti animali, in particolare quelli dell’industria lattiero-casearia, derivano dallo sfruttamento della maternità.”

Nei commenti, molte sono state le femministe che hanno reagito negativamente a questa frase, spesso in maniera quantomeno verbalmente violenta e riportando brevi luoghi comuni al posto di ragionamenti articolati – it’s facebook baby! – ed a loro dedico le righe che seguiranno.

A prescindere perciò da chi sia Gary Francione, e dal tono catechizzante della frase che sicuramente ha avuto un effetto boomerang (visto che fa mettere le persone sulla difensiva anziché metterle nella disposizione d’animo di ascoltare e mettersi in discussione) poiché parlare di ver* femminista o antispecista o antirazzista non ha alcun senso ed è una delle peggiori piaghe dell’attivismo che definirò purista, o ‘a punti militanti’ – quello che per scardinare delle gerarchie ne crea altre di supposto merito basate su differenti parametri, ma seguendo le stesse logiche contro cui si scaglia –  quello che noto è che forse, a volte, sopravvaluto il potere del femminismo di rivoluzionare la vita delle persone. Non perché non sia una pratica dirompente, anzi: ma perché, come recita il proverbio, non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire.

E a malincuore devo dire che molte femministe, donne che lottano anche strenuamente per liberarsi e liberare altre donne dal giogo patriarcale, hanno, nei confronti dell’antispecismo lo stesso atteggiamento di dileggio, sfottò, quando non aperta rabbia e fastidio, del più becero dei maschilisti di fronte all’antisessismo.

Se c’è una cosa che ho imparato del mondo dell’attivismo in generale, è che essere attivist* non coincide automaticamente con l’essere non solo eroi/eroine, ma nemmeno persone particolarmente coerenti/empatiche/aperte… o persino socievoli!

Perciò sono consapevole che anche in questo, come in ogni ambito, troverò persone di ogni tipo – con le proprie incoerenze, idiosincrasie, disinteressi e limiti.
E va bene così, fintantoché quello che traspare non è aperto disprezzo, cosa che non sono in grado di tollerare.
Per quanto mi riguarda, il discrimine tra un comportamento accettabile e uno inaccettabile – in generale, ma soprattutto e ancor di più in ambito militante – sta nella capacità di ascolto e di confronto nella differenza. Facile restare nel proprio mondo rotondo di certezze acquisite, è quello che ci insegnano a fare nel sistema nel quale siamo scagliat* alla nascita, a fare quello son buon* tutt*.

Difficile ascoltare e accogliere, soprattutto quando ci mette in discussione in prima persona, dimostrandoci senza tanti giri di parole che il sistema di dominio è un sistema non verticale, piramidale, ma complesso e multiforme, nel quale nessuno è vittima tout court, ma tutt* anche carnefici di altre vite ed altre esistenze, che non possono restare inascoltate e respinte quando le loro grida, la loro sofferenza, il loro anelito di vita viene spento nella violenza (ancorché tenuta ben lontana dal ‘paradiso artificiale’ – si fa per dire – nel quale ci vogliono immers*).

Dei legami tra femminismo e antispecismo (senza escludere antifascismo e antirazzismo) si parla tanto e già da tanto, come sanno ormai tante persone.
Abbiamo dato vita al progetto intersezioni proprio perché sentiamo che quei luoghi dove si parla SOLO di femminismo, o di antispecismo, o di antirazzismo, o di antifascismo non ci corrispondono, o meglio, noi vogliamo di più … vogliamo tutto!

‘Nessun* sarà liber* finch* qualcun* sarà oppress*’.
La libertà non può e non deve essere prerogativa di poch*, o tant*, deve essere prerogativa irrinunciabile di tutt*, altrimenti non è libertà ma privilegio.

E l’ultimo baluardo di privilegio, quello più irrinunciabile per molt*, uomini e donne, è quello che ci dona acriticamente, in quanto ‘esseri umani’ (categoria del pensiero e non di natura inventata allo scopo di sfruttare altri esseri viventi e anche altri umani, modulando sulla presenza o meno delle ‘migliori’ prerogative umane – essere umani, bianchi, maschi, abbienti e di classe elevata – la gerarchia dello sfruttamento di tutt* coloro che non possiedono l’optimum dei requisiti) – il dono di FOTTERCENE APRIORISTICAMENTE della dose di violenza che imponiamo ad altri animali, umani e non, spesso comodamente per interposta persona, ma non per questo meno orrendi.

Fatevene una ragione: siamo animali, che vi piaccia o meno.
Abbiamo, come animali, caratteristiche peculiari? Sicuramente, come tutte le altre specie, vedi quelle che volano senza ausili meccanici, o nuotano e non affogano.
Sono queste nostre caratteristiche peculiari motivo sufficiente per sfruttare ed uccidere gli altri animali?
Non proprio, considerato che ci siamo creat* una scala di valori a nostro personale uso e consumo (la ‘razionalità’ un valore? Eh sì, tanto quanto la dotazione di un pene!) e abbiamo potuto farlo semplicemente costruendo il nostro privilegio con l’imposizione della forza e di immane violenza su altre e altri.

A quelle femministe che derubricano ad inessenziale, dileggiano o apertamente osteggiano l’antispecismo voglio far notare che nel non prendere in considerazione il proprio ruolo di oppressione sugli altri animali, nel non lasciare aperta la porta alla novità e al cambiamento, nel non mettere in dubbio il proprio ‘privilegio’ umano, voltano le spalle ad una enorme potenzialità, e non solo rivoluzionaria per loro stesse ma anche per la ‘causa’ per cui dicono di lottare, ossia quella delle donne, le cui istanze sono inscindibili dalla messa in discussione di un sistema basato sull’oppressione di determinati gruppi su altri, in tutte le possibili e immaginabili combinazioni.

Non è ancora giunta l’ora di mettere in discussione anche i propri privilegi oltre a quelli patriarcali?
Meditate femministe, meditate.

Ps: Affermare lapidariamente che antispecismo e femminismo non c’entrano nulla, sminuendo così il lavoro di tante studiose femministe che hanno contribuito con i loro preziosi scritti a porre nella giusta luce la questione animale e quella femminista in un’ottica intersezionale è, come dire… un pò superficiale, e dimostra di non avere le idee molto chiare a riguardo. Perciò, dopo aver affermato con soddisfazione che la terra è piatta, sarebbe possibile guardare senza pregiudizi a quelle teorie che la postulano rotonda?

Approfondimenti:
Guarda il video ‘intersections’ di Breeze Harper sottotitolato in italiano:

Esauriente bibliografia ecovegfemminista.
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zoofobia
mentalità della carne
antifascismo e antispecismo
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Da quante cose viene definita una donna?

Gli acquerelli di Jay ci dicono che:

aillustrazione di Jay happyblood.tumblr.com

illustrazione di Jay happyblood.tumblr.com

Dal suo blog:

“Le donne sono fantastiche, non sei d’accordo?

Volevo fare una semplice collezione di belle donne in acquerello, così l’ho fatta. Ho deciso di aggiungere del testo di accompagnamento per dargli una voce. Il mio intento non era quello di abolire ogni stereotipo, ma semplicemente di illustrare donne di varie personalità, tipi di corpo, età ed etnie. Ogni donna è bella!”

Leggi tutto “Da quante cose viene definita una donna?”

Nessuno sa di noi – Simona Sparaco

2Nessuno sa di noi, scritto da Simona Sparaco e candidato al Premio Strega 2013, racconta il dolore di una gravidanza attesa, ma destinata a interrompersi prematuramente.

I personaggi principali del romanzo sono Luce, una giornalista free lance che sembra non aver mai preso realmente in mano la propria vita, Pietro, suo compagno benestante e paziente, al quale lei si affida completamente, e  Lorenzo, figlio desiderato, immaginato, sentito, che la coppia è costretta a seppellire prematuramente. Personaggi che agiscono in funzione del vero protagonista: l’aborto tardivo e il suo significato per chi lo vive dall’interno. Sullo sfondo un mondo opaco, sordo ai bisogni delle persone, feroce.

Siamo tutte qui.
Ognuna con il proprio trofeo, più o meno in evidenza, e la cartella clinica sottobraccio. Tutte ordinatamente sedute, come a scuola per un richiamo dal preside. Qualcuna sfoglia una rivista, con l’espressione vaga e compiaciuta di chi sa che la passerà liscia. Qualcun’altra, invece, se ne sta a testa bassa, con le mani serrate in un intreccio nervoso. Come se dietro quella porta color pastello ci fosse davvero la minaccia di un’espulsione.
Siamo tutte madri nell’attesa di un’ecografia.

Nessuno sa di noi

pag. 7

Displasia scheletrica. Due parole che insieme suonano così infauste. Le digito in un motore di ricerca e non per scrivere un articolo sulla malasanità, ma per la vita di mio figlio.

Nessuno sa di noi
pag. 35

«Non posso suggerirvi un’interruzione di gravidanza» prosegue il dottor Piazza, incrociando le braccia, in un gesto di chiusura definitiva. «Anche se le condizioni del feto potrebbero rivelarsi incompatibili con la vita. In Italia è consentita solo fino alla ventitreesima settimana, non oltre.»
«Che significa?» domanda ancora Pietro, e mi stringe forte la mano.
«Se rientrassimo nei limiti di legge, potrei proporvi di anticipare il parto. Alla ventitreesima settimana e in queste condizioni, il feto non ce la farebbe. Stiamo parlando di un aborto conosciuto come terapeutico o eugenetico. Ma nel vostro caso siamo ben oltre i termini consentiti.»
Parla ancora al plurale. Questa volta di sopravvivenza, di leggi e limiti. Il pronome è sbagliato, però, non c’è un noi in questa stanza. O forse sì; noi siamo io e Lorenzo.
«Mi faccia capire» lo esorta Pietro. E’ pallido, deglutisce a fatica, si muove nervoso sulla sedia, non come la madre, che mantiene la testa alta e la schiena dritta. «Queste malattie così gravi e incompatibili con la vita si possono scoprire solo quando si è arrivati così avanti con la gravidanza che non si può più interrompere?»
«Per interruzione, in questo paese, si intende la possibilità di anticipare il parto. Il limite è stabilito in base all’autonomia del feto rispetto al ventre materno. Un feto di ventitré, anche di ventiquattro settimane, non sopravvive al di fuori dell’utero e può essere quindi abortito.»
Il dottore ci guarda, forse in attesa di una reazione. Ma siamo tutti e tre ammutoliti. «A dire la verità» riprende, come se si sentisse in dovere di precisare «ci sono stati casi in cui feti abortiti sono spravvissuti ugualmente, perché le tecniche di assistenza neonatale progrediscono di anno in anno, e per legge un medico ha il dovere di metterle in pratica qualora ce ne fosse bisogno. Un feto abortito che sopravvive è però un feto con una grave patologia a cui si aggiunge una serie di problematiche legate al fatto che è nato pretermine, per dirvela in parole chiare. Ed è per questo che a livello parlamentare si sta pensando di abbassare ulteriormente il limite consentito a ventidue settimane.»
Sono travolta da flash di bambini microscopici e malati costretti al sacrificio crudele di venire al mondo, solo per esalare il loro primo e ultimo respiro. O che riescono a sopravvivere al parto, e crescono, isolati, malnutriti, dentro un’incubatrice, nient’altro che un ventre di plastica, asettico e rigido, che li accoglie invece di ripudiarli.
«Noi siamo alla ventinovesima settimana» riassume Pietro, stringendo la mia mano ancora più forte. «Abbiamo davanti ancora due mesi abbondanti. Ma lei mi sta dicendo che mio figlio potrebbe non farcela, oppure, da quello che so, andare incontro a una vita breve, dolorosa, con dei ritardi cerebrali, o peggio, un quoziente intellettivo al di sopra della norma?»
«Lo so.»
«E allora?» lo incalza Pietro. Ha gli occhi fissi sul dottore. Il panico si sta trasformando in rabbia e in sfida. Mi lascia andare la mano. Sento la sua presa salda venire meno un dito alla volta. Il bottone del pulsante che s’allenta, l’emicrania che mi spacca in due la scatola cranica. Impazzisco. Mi spengo.
«E allora» ripete il dottor Piazza inarcando le sopracciglia «sarà fatta la volontà di Dio.»

Nessuno sa di noi
pag. 54-55

Numerose sono le critiche piovute su questo libro a causa dello stile non particolarmente brillante, con personaggi abbozzati o troppo stereotipati che agiscono meccanicamente. E pure, spostandoci dal piano della pura critica letteraria a quello del solo contenuto, Nessuno sa di noi, colpisce perché si fa carico di una tematica tabu, l’aborto in fase avanzata, senza sconti emotivi, mettendoci di fronte ai dubbi e al dolore di una donna, e di una coppia, in fin dei conti fortunata rispetto alla media, perché potrà permettersi un viaggio in Inghilterra, dove sarà possibile interrompere la gravidanza oltre il termine stabilito dalla legge italiana, e avrà la possibilità di giungere, in fine, a un nuovo equilibrio di coppia e personale. In questo senso Nessuno sa di noi offre un servizio che si rende ormai urgente, inderogabile, alla nostra società, che stigmatizza e oscura il ricorso all’aborto: parlare di interruzione di gravidanza senza pregiudizi, mettendo in un angolo tutti i “se” e i “ma” con i quali si riempiono la bocca i moralisti con la vita degli altri, i ‘coscienziosi’ detrattori del diritto alla scelta. Non dà risposte, mette in campo la libertà di scelta, in un contesto, quello italiano, in cui da anni il dibattito sull’aborto è inquinato a causa di interessi politici, inciviltà e derive inquisitorie. Ma amore, coscienza e rispetto, possono esprimersi attraverso modalità inaspettate, al di sopra delle tifoserie del ‘pro’ e del ‘contro’.
E’ così che Nessuno sa di noi si trasforma in romanzo commovente e necessario.

Nessuno sa di noi
Simona Sparaco
Isbn 9788809778047
Giunti, 2013
pag. 256
€ 12,00

La sexy parodia di Blurred Lines realizzata da Mod Carousel: il rovesciamento dei generi che invita alla riflessione.

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Del video originale avevamo parlato qui.

Oggi leggiamo sull’Huffington Post:

Considerata la massiccia polemica – per non parlare del successo clamoroso – della hit dell’estate ‘Blurred Lines’ di Robin Thicke, non è sorprendente che alla fine qualcun* abbia deciso di realizzare una versione del video a ‘ruoli invertiti’. La recente parodia realizzata da Mod Carousel, è intelligente, stimolante e molto sexy!

Mod Carousel, una troupe boylesque con sede a Seattle, ha ricreato il video con Caela Bailey, Sydni Devereux e Dalisha Phillips alla voce – che assumono i ruoli che, nel video originale, erano rispettivamente di Thicke, Pharrell e TI – mentre Trojan Original, Paris Original e Luminous Pariah dei Carousel assumono qui il ruolo delle semi-vestite (o per lo più nude, a seconda della versione) modelle presenti nel video di Thicke.

Anche i testi sono un pò cambiati. “Vado a prendermi un bravo ragazzo,” Bailey canta e continua, “Sei così virile …. Tu sei il c…o più caldo qui.” […]

In proposito, i Mod Carousel affermano: “E ‘nostra opinione che la maggior parte dei tentativi di mostrare l’oggettivazione femminile nei media scambiando i ruoli di genere servano più a ridicolizzare il corpo maschile che ad evidenziare la misura in cui le donne vengono reificate, e ciò rende a tutt* un cattivo servizio. Abbiamo perciò realizzato questo video proprio per mostrare l’ampio spettro della sessualità, e presentare sia le donne che gli uomini in una luce positiva, in cui gli uomini possono essere resi oggetto e dove le donne possono essere forti e sexy, senza ripercussioni negative per entrambi.”

Ed ecco il video: che ne pensate?

 

 

Qualche consiglio musicale militante #1

The Casual Terrorist – Michel Foucault is My Favourite Skinhead

The Casual Terrorist vive in quel di Newcastle. Dice che beve troppo latte di soia al cioccolato, che è un artista a tempo perso, che gli piace leggere Foucault e che ama vedere poliziotti bruciacchiati. Qui il link per poter scaricare e/o acquistare canzoni ed album. Altre tracce consigliate: We Are Born For the Sea, This Universe Terrifies Me, Anarchists Make Better Lovers.

7 Seconds – Man Enough To Care 

http://youtu.be/gJJEHM_2BoU

Il testo parla per sé: All your life they told you, never shed a tear, cuz boys don’t crave affection / Boys ain’t got no fear / But did they ever show you how to shut those feelings on then off again / And now you gotta hide yourself, hide yourself away / Show you care and you might show the world that you’re only gay /Crying is for babies, for boys is it a sin /To be a caring, sharing, loving, human one. Altre tracce consigliate: Not Just Boys’ Fun, Racism Sucks, Young Till I Die.


Laura Jane Grace – Transgender Dysphoria Blues

Qualcun@ l’ha conosciuta in passato come Tom Gabel, il front(wo)man degli Against Me. Ora si chiama Laura Jane Grace ed è una meraviglia di donna. Altre tracce consigliate: Black Me Out (ma anche la sua produzione con gli Against Me).


Harum Scarum – Civilization’s Dying

Questa è una cover dei Zero Boys, ma preferisco la versione delle Harum Scarum.
Altre tracce consigliate: CCTV, The Fight Inside of Me, Fear.


L7 – Fast and Frighening

http://youtu.be/hCm32cE_XKo

Popping wheelies on her motorbike / Straight girls wish they were dykes / She’ll do anything on a dare / Mom and Daddy’s worst nightmare / Down at the creek smoking pot / She eats the roach so she don’t get caught / Throws her mini off in the halls / Got so much clit she don’t need no balls. Altre tracce consigliate: Pretend We’re Dead, The Masses are Asses, Bad Things.