La dignità dell’orango

ArB

In Animal equality: language and liberation, Joan Dunayer afferma:

“Applicato all’essere umano, il semplice nome di un altro animale diventa insulto: ‘Tu sorcio, puzzola, serpe…’ Perché? Perché le altre specie sono ritenute inferiori.[…] Il linguaggio specista, oltre a supportare una gerarchia arbitraria che vede gli animali umani al vertice, afferma una falsa dicotomia tra animale e umano. Per quanto molte persone odino ammetterlo, SIAMO TUTT* ANIMALI. Ciononostante, l’epiteto ‘animale’ designa una persona che ha compiuto un atto particolarmente brutale (verso un’altra persona). Al contrario, proferiamo le parole ‘pienamente umano’ con un palpito di reverenza. I nostri occhi si appannano di fronte alla nostra peculiare umanità e il nostro autocompiacimento impenna. In tali momenti, dimentichiamo che la gorillità è più pacifica, la gufità più acuta visivamente, e l’apità più ecologicamente benigna. Le altre specie hanno capacità e qualità che a noi mancano, per quanto possiamo analizzare e inventare.”

Di sicuro, l’oranghità ha, tra le proprie caratteristiche peculiari, l’intelligenza e la dignità, caratteristiche che evidentemente mancano a taluni individui che, purtroppo, rappresentano vestigia di grettezza umana delle quali vorrei, con tutta me stessa, poter perdere la memoria.

Sarebbe bene però, che tutt* coloro che si sono indignat* nell’udire il termine ‘orango’ indirizzato alla Ministra Kyenge, fossero consapevoli che davvero la parte lesa è l’orango**. Sentirsi offes*, indignat*, sconvolt* dal nome di un altro animale utilizzato per designare un animale umano dimostra come, purtroppo, anche l’attenzione a talune forme di discriminazione ed oppressione, se non inquadrate in un’ottica intersezionale ed includente, non è sufficiente ad evitare di replicare, su altri piani, lo stesso ragionamento oppressivo dal quale sembra voler prendere le distanze. Il risultato è tornare a ragionare per dicotomie, opposizioni nette. Bianco/nero, bene/male, uomo/donna, umano/animale, superiore/inferiore, vincitori/vinti…ecc.ecc. L’incontro non avviene, differenza fa rima con diffidenza, le comunicazioni cessano. Lo scontro diventa – nuovamente – inevitabile.

Tutto questo può essere evitato rifiutandosi di parlare la lingua del dominio, e di alimentare continuamente quello scontro creato ad arte di (apparentemente) opposti valori.

Come affermava Virginia Woolf in Craftmanship riguardo alle parole:

“Tutto quello che possiamo dirne è che sembrano preferire le persone che pensano prima di usarle, e che sentono prima di usarle […] Detestano essere utili; detestano fare soldi; odiano le conferenze. In breve, detestano qualsiasi cosa che le fissi in un significato o che le confini ad una posa, perché è nella loro natura cambiare. Forse è questa la loro caratteristica più sorprendente – la loro necessità di cambiamento. Poiché la verità che cercano di catturare ha tanti aspetti, e la trasmettono rimanendo sfaccettate, mettendola in luce prima in un modo, poi nell’altro. Così significano una cosa per una persona, un’altra cosa per un’altra persona; sono inintelligibili a una generazione, chiare come la luce del sole alla successiva. Ed è a causa di questa complessità, questo potere di significare cose diverse per differenti persone, che sopravvivono.”

Per questo sono convinta che essere paragonat* ad un orango non sia un’offesa… ancor di più quando il termine di paragone umano che ha proferito tali parole è… quello che è.

L’orango, che è stato unanimemente – e in maniera assolutamente bipartisan –  preso a termine di paragone quale essere inferiore. Potere del linguaggio specista.

Certo, l’intento era chiaro: offendere, provocare, ecc.ecc. E sappiamo anche bene da quale retaggio profondamente razzista proviene l’accostamento (le pseudo-teorie del razzismo scientifico che consideravano i neri come stadio evolutivo intermedio tra le scimmie e gli esseri umani, partendo però, per chi non se ne fosse accort*, dal pregiudizio specista menzionato nella citazione di Joan Dunayer) … si capisce perciò anche la reazione ad una simile affermazione.

Ma se quella frase ha colto nel segno, se il termine orango è salito alla ribalta su tutte le maggiori testate come imperdonabile offesa, non è soltanto per il suo passato razzista (della parola e di chi l’ha proferita), ma soprattutto perché chiunque, in un mondo specista, riconosce il nominare una persona con il termine che designa un animale non umano tra i peggiori insulti.

** E non perché, come ha asserito l’assessore regionale alla protezione civile del Veneto, Daniele Stival, sul proprio profilo Facebook “Riteniamo vergognoso che si possa paragonare un povero animale indifeso e senza scorta a un ministro congolese”. Sembra superfluo puntualizzarlo, ma già che ci siamo preferiamo mettere i puntini sulle i, e rincarare la dose chiedendoci come sia possibile che, in questo paese, figure pubbliche possano esprimersi in tale maniera senza pagarne alcuna conseguenza.

Nel corpo. Lettera di una ex detenuta

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Diffondiamo una lettera scritta recentemente da una ex detenuta delle Vallette ripubblicata da Macerie, che racconta la sezione femminile del carcere, l’oscenità della repressione. Quella faccia della “giustizia” legale che tortura, rinchiude e punisce con ottusa crudeltà.
Negare la libertà non si può realizzare con quattro stupide mura ed ecco che li interviene l’Istituzione, creando regole, limiti, negazioni continue di tutto ciò che è essere se stesse, che è bellezza e creazione di legami sociali con individui umani e non. Di tutto ciò che è lotta.

Libere tutte!

«È nel corpo che si sente la sofferenza immediata del carcere. Vi racconto le piccole materialità che traumatizzano le membra e fanno del carcere di Torino una delle galere più invivibili (a detta di chi di galere ne ha girate molte e a lungo).
Nel femminile, diviso in 4 sezioni, sono collocate circa 200 donne, 2 in ogni cella.
Le celle sono piccole e scure, hanno dimensioni di 4 metri per 2 nello spazio abitativo che dispone di un letto a castello, un tavolino a muro, 2 sgabelli -se si è fortunati- e 4 piccoli pensili. Il bagno è di dimensioni 4 metri per 1 con water, lavandino e bidet. In cella non c’è acqua calda, che è invece fredda e terribilmente terrosa. Se lasci la moka bagnata il giorno dopo puoi scorgere la traccia grigiastra lasciata dall’acqua. Se le due concelline non sono entrambe smilze e piccoline è quasi impossibile muoversi contemporaneamente senza toccarsi e intralciarsi.
Le finestre sono piccole e basse, infossate verso l’interno e circondate da sbarre e da una grata a maglia fine (messa dopo la protesta delle lenzuola). L’aria già riciclata dall’esterno, chiusa dalle alta mura dei vari perimetri, non riesce a circolare e ad arieggiare la cella. Chi ha problemi di claustrofobia ed asma ne patisce molto.
Di conseguenza il minimo da pretendere è che le celle rimangano aperte, mentre c’è la possibilità di uscire dal proprio cubicolo solo 4 ore su 24.
Dalle 9 alle 11 della mattina c’è la possibilità di uscire all’aria, in un cortile spoglio con alte mura e nessuna fontana. Nello stesso orario è concesso fare il bucato e la doccia con l’acqua calda in un unico locale che dispone di 3 docce e un lavandino. Solo 3 persone alla volta possono recarsi a fare la doccia, in sezione si è in 50 donne.
Al pomeriggio la stessa storia. Dall’una alle tre c’è l’aria e ci sono le docce aperte. Se non si fa né l’una né l’altra si rimane chiuse.
All’aria c’è una rete di pallavolo e due porte barcollanti da calcio, ma c’è solo una palla bucata e sgonfia con cui oltre che calciarla per scaricare il nervoso non si può fare nessun gioco.
In più le guardie portachiavi riducono il tempo d’apertura. Ad un quarto aprono e a meno un quarto chiudono, mai all’orario giusto.
Riassumendo… la concomitanza degli orari dell’aria e della doccia riduce il tempo di stare all’aperto e crea l’impossibilità di fare entrambe le cose. Le docce sono poche e fanno schifo, il soffitto è giallo dall’umidità e sgocciola, l’acqua troppo dura fa squamare la pelle, lo spazio per l’aria è triste, troppo assolato e senza fonti d’acqua corrente durante l’estate, senza riparo per l’inverno. Una bella lista di ovvi motivi per lottare. I tempi e gli ambienti delle ore d’aria sono fondamentali per un minimo di sopravvivenza possibile.
Rispetto alla possibilità di fare movimento e sport… ecco non c’è nessuna possibilità.
Esiste una palestra, inagibile da oltre un anno. Hanno aperto un corso di pallavolo per 15 persone che hanno fatto richiesta e dopo mesi sono state chiamate a partecipare.
L’inattività, causata da mancanza di strutture e mezzi, facilita il corpo a sformarsi, a deprimersi di più, a non avere la stanchezza sufficiente per dormire, a trattenere il nervoso, il malessere e la mente affranta. Gli spazi ci sono e dovrebbero essere utilizzati. Ma possiamo aspettare che qualcuno ce li conceda per generosità o sarebbe ora di esigerli con forza?
Per ogni malessere non fisico il carcere propone la Terapia. La visita dallo psichiatra è quella più suggerita dalla direzione carceraria e la somministrazione di farmaci consigliata dallo psichiatra la più generosa.
La maggioranza delle detenute utilizza psicofarmaci per affrontare la sofferenza e l’insonnia. Il carrellino dell’infermeria passa tre volte al giorno per dispensare anestetici all’angoscia della carcerazione.
Per i mali fisici, per qualsiasi male, c’è il Brufen. Mal di collo, Brufen, mal di schiena, Brufen, mal di denti, Brufen… e così via.
Il personale medico non pare così professionale, a volte di fronte a non ovvi malesseri si destreggia nello sperimentare miscugli di farmaci. Al femminile ho visto donne gonfiare con il passare degli anni (io sono entrata più volte per brevi soggiorni), altre dimagrire di molti, molti, molti chili, altre mi hanno raccontato di terribili mali a causa di cure dentistiche errate e rimedi bestiali, siringhe di miscugli di antidolorifici intramuscolo. (se hai male ai denti è la fine. Il dentista in carcere fa schifo, se si sta anni dentro con qualche problema ai denti si rischia di uscire sdentate).
Ricordo che lo scorso Natale nella sezione maschile è morto un detenuto per una terapia sbagliata. Il caso è rimasto all’oscuro. Qualche suo compagno di sezione ha protestato per l’accaduto, ma come risposta ha ricevuto un immediato trasferimento in un altro carcere. I tentativi di zittire chi prende il coraggio di raccontare non devono scoraggiare. Affinché questi episodi non colpiscano più chi è costretto all’interno di un carcere, per la propria incolumità, le violenze, gli abusi e la negligenza di chi gestisce queste gabbie dovrebbero essere diffuse il più possibile e la vigilanza di chi è dentro dovrebbe essere al massimo grado, altro che psicofarmaci.
I problemi di salute derivano anche dall’alimentazione.
Il cibo che passa il vitto è abbondante, ma spesso è immangiabile e misterioso. Nei carrelli della casanza si sono visti frittate spugnose, sughi di carne e hamburger verdi, pasticci di patate acidi, riso sempre crudo e uova vecchie. Chi non ha soldi, chi vive da anni senza alcun legame con fuori o con una famiglia indigente impossibilitata ad aiutarla, oppure chi si è vista arrestare e sequestrare le proprie cose sospettate de essere i proventi dell’attività illecita commessa, si vede costretta a doversi cibare principalmente del cibo che passa il carcere. Diventa impossibile concedersi quei piccoli vizi che ti renderebbero un po’ più lieta, e allora rimandi tutto al desiderio.
L’amministrazione offre a chi non ha soldi 15 euro al mese. Con 15 euro puoi comprarti un pacco di caffè, un pacco di carta igienica, uno shampoo, un bagnoschiuma, un pacco di assorbenti, un pacco d’acqua da 6 bottiglie e un dolcino di quelli economici. E i francobolli? Le buste? Una penna? Una bottiglia d’olio per condire l’insalata? Sei poverella? Mangi insipido e sei costretta ad elemosinare i bolli.
I prezzi dei prodotti della spesa sono in continua variazione, solitamente in crescita. Si sospetta che i prezzi siano aumentati rispetto ai prezzi del supermercato, a volte la cosa risulta palese, quando il prezzo originario è ancora appiccicato sulla scatola da dove vengono distribuiti i prodotti. Dove va quel sovrapprezzo? Ad alimentare l’amministrazione carceraria che si lamenta di mancanza di fondi e di scarsità di strumenti? Secondo le normative i prezzi della spesa in carcere dovrebbero essere uguali alla prima area di commercio al di fuori. Risulta difficile capirlo visto che non esiste un elenco noto con la lista di tutti i prodotti disponibili elencati con relativo prezzo precisato. Quindi altro che mantenuto dallo Stato come suole dire la gente indifferente, il carcere è mantenuto dalle stesse detenute che inoltre lo puliscono in cambio di una paga misera e ancora più misera se hai una pena definitiva, dai soldi dello stipendio ti tolgono le spese del vitto e dell’alloggio carcerario.
Altra privazione che è degna di nota è l’impossibilità di tenere il fornellino in cella per 24 ore. Esso viene ritirato alle 9 di sera alla chiusura dei blindi e ridato alle 7 del mattino. E se qualcuna insonne volesse farsi una camomilla oppure degli spaghetti aglio, olio e peperoncino? O se qualcun’altra è mattiniera e vuole bersi il caffè alle 5? “I fornellini non rimangono nelle celle perché alcune detenute sniffano il gas” questa è la scusa che hanno utilizzato le guardie, l’ispettrice e i colleghi civili, mettendo le detenute le une contro le altre, sniffatrici di gas contro cuoche notturne. E perché non incazzarci con chi ha deciso di togliercelo? C’è chi tre volte al giorno somministra terapie stordenti, chi chiude e rinchiude con mille mandate porte che ci fanno soffocare, che portano al suicidio… si preoccupano che con del gas una si possa stordire e così giustificano il fatto che ci possono levare tutto?
Non sarebbe ora di smettere di essere trattate da scolare monelle, ma di comportarci come donne dignitose che si incazzano e si riprendono quello di cui hanno bisogno?
In carcere si sopravvive grazie agli incontri. Nonostante la storie completamente differenti si trovano donne con le stesse paure e la stessa voglia di libertà. C’è sempre una storia divertente o colma di sfighe che vale la pena di essere ascoltata. A volte nascono discussioni su vicende avvenute nel trantran quotidiano, sui fatti di cronaca con punti di vista strampalati, su sogni su fuori, su vicende del passato, su lamentele sullo schifo del carcere. Non c’è mai tempo però per parlare a lungo. Le ore d’incontro sono quelle d’aria, da far incastrare con la doccia e due ore la sera di socialità (si può stare in 4 in cella). È poco il tempo per superare la superficialità delle cose che si dicono, per iniziare a dire le cose che si pensano, non sufficiente per concluderle. Proprio impossibile invece è comunicare con le altre sezioni dello stesso braccio. Al femminile si sono solo quattro sezioni una vicina all’altra ma è come se fossero distantissime, se sei in terza non sai quasi nulla di quello che succede in prima e sono una sull’altra.
È vietato ogni tentativo di comunicare. Se urli troppo dalla finestra per parlare con una tua amica che è in un’altra sezione vieni rimproverata. Con il maschile nel 2011 esisteva ancora la posta libera, senza dover mettere i francobolli. La corrispondenza era fitta, nascevano rapporti epistolari d’amore e c’era l’opportunità di scambiarsi informazioni sulle differenti situazioni di detenzione, di far girare notizie di maltrattamenti e ingiustizie, di tirar su il morale di uno/a sconosciuto/a. Oggi le lettere interne bisogna spedirle, e il tempo di una risposta può essere anche di due settimane, perché l’attesa di una missiva che esce dal carcere ha inspiegabilmente questa durata. Riducendo al minimo l’incontro fisico con le compagne di detenzione, aumentando le distanze tra sezioni differenti, tra maschile e femminile, tra dentro e fuori i legami sono più fragili, aumenta la sensazione di isolamento, diminuisce la possibilità di far girare notizie di maltrattamenti, pestaggi o iniziative di protesta che se comunicare velocemente potrebbero avere una simultanea reazione solidale nelle altre parti del carcere e fuori.
Ma per superare le difficoltà di comunicazione, e gli ostacoli che l’amministrazione penitenziaria frappone internamente tra i detenuti e tra i detenuti e il mondo di fuori è necessaria la consapevolezza che la solidarietà e la determinazione individuale e collettiva sono gli unici strumenti che abbiamo contro le violenze, gli abusi e le umiliazioni che subiamo quotidianamente. Se ci lasciamo drogare tutti i giorni, se accettiamo passivamente le condizioni in cui ci costringono a vivere, se continuiamo ad essere isolate e indifferenti perdiamo la dignità che sola ci rende libere tra quelle mura e non costruiamo nessuna ancora di salvataggio a cui aggrapparci per resistere al mare aperto in cui siamo esiliate.
»

macerie @ Luglio 8, 2013

L’ordine delle cose

“The Order of Things” è un cortometraggio sulla violenza di genere, diretto dai fratelli Alenda, interpretato da Manuela Vellés, Mariano Venancio, Javier Gutiérrez y Biel Durán.
La violenza di genere non è circoscritta a un solo contesto, le donne ne sono vittime in strada, sul posto di lavoro e in famiglia. In questo cortometraggio ci si richiama a un contesto famigliare dominato da una figura maschile che, ricevuto il mandato della violenza dal proprio padre, vorrebbe passarlo al figlio. Gli esiti però sono diversi.
Il finale è molto evocativo, una donna che riesce a liberare sé stessa, libera tutte.
Per il resto ci sono i commenti, buona visione.

Perché le Sex Worker sono escluse dal dibattito riguardante la violenza sulle donne?

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Articolo originale qui – traduzione di feminoska, revisione H2O.

“Ho ucciso così tante donne che faccio fatica a tenere il conto… il mio piano era di uccidere più prostitute possibile… sceglievo loro come vittime perché erano facili da abbordare senza dare nell’occhio.”

— Gary Ridgewood, “The Green River Killer,” 15 Nov. 2003, Seattle, Washington

Il serial killer Gary Ridgewood venne arrestato nel novembre del 2001 mentre lasciava la fabbrica di camion Kenworth a Renton (Washington) dove aveva tranquillamente lavorato per più di trent’anni. Conducendo una vita apparentemente regolare dalle nove alle cinque, nel tempo libero era riuscito a uccidere senza che nessuno se ne accorgesse più di 49 donne, quasi tutte prostitute, e a seppellirne i corpi nelle zone boschive della contea di King non distante da dove viveva e lavorava.

“Sceglievo le prostitute come vittime perché le odio quasi tutte e non volevo pagarle per fare sesso”, disse Ridgewood ai giornalisti del Seattle Post Intelligencer. Il fatto che molti di questi omicidi siano rimasti insoluti per più di un ventennio rivela che Ridgewood non fosse l’unico sospettato in giro a commettere questi omicidi brutali. L’indifferenza della polizia e delle forze dell’ordine verso le sex worker, e il disprezzo e lo stigma che la società in generale rivolge a questo gruppo marginalizzato di persone, fa sì che centinaia e centinaia di morti restino impunite e sommerse per periodi di tempo assurdi e disumani.

Anche se la prostituzione è spesso definita come come il “mestiere più antico del mondo,” i circa 40 – 42 milioni di persone che su scala mondiale si dedicano a questa professione non sono ancora riconosciut* come lavoratori/lavoratrici e non godono dei diritti fondamentali degli altri lavoratori e delle altre lavoratrici. Secondo uno studio condotto dalla Fondation Scelles e pubblicato nel gennaio del 2012 , tre quarti di questi 40-42 milioni di persone hanno un’età compresa tra i 13 e i 25 anni, e l’80% di loro è costituito da donne. Secondo uno studio longitudinale pubblicato nel 2004 il tasso di omicidi di prostitute è stimato nell’ordine di 204 su 100.000 — il che costituisce il tasso di mortalità sul lavoro più alto rispetto a qualsiasi altro gruppo di donne mai studiato.

Eppure, nonostante tutto questo, a livello di Nazioni Unite nei diversi dibattiti sui diritti umani incentrati sulla violenza contro le donne non viene quasi mai fatta menzione della violenza subita dalle sex worker. La scorsa settimana, al termine della 57a sessione della Commissione delle Nazioni Unite sulla condizione della donna, il Segretario Generale Ban-Ki Moon ha confermato l’impegno, della durata di sette anni, preso delle Nazioni Unite per concentrarsi sulla lotta alla violenza contro le donne fino al 2015:

“La violenza contro le donne è una violazione dei diritti umani atroce, una minaccia globale, una minaccia per la salute pubblica e un oltraggio morale”, ha dichiarato Ban-Ki Moon: “Indipendentemente da dove vive e indipendentemente dalla sua cultura e società di appartenenza, ogni donna e ogni ragazza ha il diritto di vivere libera dalla paura.”

 Ma per dirlo con le parole della suffragetta nera Sojourner Truth:

“Non sono forse una donna?”

tumblr_ljbghvs1Wi1qbuphsPerché le sex worker non rientrano nel dibattito sulla violenza contro le donne? Le sex worker sono figlie, sorelle, madri pienamente inserite nella comunità, che vivono nella vostra stessa città, prendono il vostro stesso autobus, mangiano negli stessi ristoranti e frequentano le stesse biblioteche. Anche se la maggioranza delle sex worker è di sesso femminile o si identifica come donna, molti sono anche figli, fratelli, padri e amanti. Gay, etero, ner*, bianc*, alt*, bass*, ricc* e pover*, i/le sex worker provengono da una varietà di ambienti diversi e scelgono il lavoro sessuale per molte ragioni differenti. Alcun* di loro migrano in tutto il mondo in cerca di migliori opportunità e alcun* sono vittime della tratta di esseri umani contro la propria volontà. Alcun* sono dipendenti da droghe e alcun* hanno dottorati; questi due gruppi non sono nemmeno mutualmente esclusivi. Tu stess* o qualcuno che ami probabilmente conosce un/a sex worker, magari ne hai anche amat* un*.

Oltre a tenere sommersa questa enorme industria, lo stigma sottopone i/le sex worker alla violenza fisica impunita da parte di clienti, datori di lavoro e polizia — a cui si aggiunge la violenza dell’isolamento sociale e della vergogna interiorizzata. Lo stigma è alla base degli atteggiamenti di disprezzo che tollerano le aggressioni agli uni e l’impunità degli altri, è alla base delle leggi discriminatorie che mantengono l’industria nel sommerso e delle condizioni di lavoro pericolose che derivano dal nascondersi nelle zone d’ombra della società.

Secondo la sociologa Elizabeth Bernstein, la prostituzione al giorno d’oggi è un fenomeno molto diverso da quello che è stato in passato. La tecnologia di Internet, la globalizzazione, la crescente disparità di ricchezza, la crisi economica, i debiti accumulati negli anni di studio e le variazioni nei gusti e nelle rappresentazioni sessuali, hanno tutti contribuito all’evoluzione di questa industria. Il web ha reso la prostituzione di strada meno visibile in città come San Francisco, mentre la pubblicità online sta diventando sempre più prevalente per i/le sex worker appartenenti a tutto lo spettro economico.

Le circostanze, le razze e le classi sociali dei/delle sex worker sono molto diverse tra loro – non esiste un canovaccio che descrive la situazione di tutt*. L’ipotesi suggerita dal benintenzionato movimento anti-tratta è che la maggior parte delle persone nel mercato del sesso siano state vittime del traffico di esseri umani, e siano state costrette a lavorare contro la propria volontà e le proprie caste intenzioni. Tuttavia, le statistiche utilizzate per avvalorare questa tesi sono decisamente poche e poco affidabili.

Per molte persone, il lavoro sessuale è un atto che esprime autodeterminazione e resistenza, un modo di fare i conti con disuguaglianze più opprimenti. Mentre i lavoratori/le lavoratrici migranti si prendono sempre più spesso carico dei logoranti lavori di cura nel settore dei servizi delle città globali, alcun* scelgono il lavoro sessuale come alternativa più redditizia all’interno di un mercato del lavoro discriminante per classe e genere. Il lavoro sessuale è uno dei pochi settori lavorativi in cui le donne vengono pagate più degli uomini e le madri a volte riescono a negoziare un orario flessibile per la cura dei bambini. Per una persona con disabilità o senza accesso all’istruzione superiore, può anche essere il modo più pragmatico di guadagnare denaro, che pone ostacoli di ingresso relativamente facili da superare.

Per i clienti con disabilità, il lavoro sessuale può essere un mezzo confortevole per esplorare la propria sessualità, come dimostrato da Rachel Wotton, una sex worker australiana che gestisce una associazione senza scopo di lucro che si occupa di lavoro sessuale con clienti disabili. Mentre ci sono molti lavoratori migranti sfruttati, costretti ad accettare lavori a bassa retribuzione in condizioni precarie per pagarsi i costi della migrazione, ci sono anche molti studenti a reddito medio, che non riescono a gestire gli oneri del prestito studentesco, le scadenze e la crisi economica. Gli studenti universitari rappresentano una porzione sempre più vasta dei/delle sex worker in Inghilterra e Galles.

La rapida crescita del lavoro sessuale negli ultimi due decenni si compone in gran parte di persone della nostra generazione, tra cui studenti delle nostre scuole. Se siete tra quest*: fatevi riconoscere, Aspasia, fatti riconoscere. Insieme, possiamo rendere questo lavoro più sicuro anche per gli/le altr*. Tutte le persone impegnate nel lavoro sessuale potrebbero trarre vantaggio da una maggiore comprensione e da uno stigma inferiore. Come società, possiamo affrontare la violenza, solo se siamo dispost* a lasciare che la realtà venga alla luce. La generazione di questo millennio ha l’opportunità di ridefinire il modo in cui il lavoro sessuale è percepito nel 21° secolo. Mentre infuriano molti dibattiti teorici tra le femministe benintenzionate e gli/le attivist* anti-traffico se la prostituzione dovrebbe o non dovrebbe esistere, preferirei non ribadire questi concetti qui. Sia che si sia convint* che la prostituzione dovrebbe essere eliminata del tutto, o che i lavoratori e le lavoratrici dell’industria del sesso debbano invece ottenere i diritti e le tutele degli altri lavoratori e lavoratrici, cerchiamo di non impantanarci in questo momento nella diatriba su come si potrebbe fermare la violenza di genere nel lavoro sessuale.

Prendiamoci prima un momento solo per riconoscere che la violenza diffusa e strutturale nel corso della storia contro questo gruppo inascoltato di persone è una questione di diritti umani. Il lavoro forzato di tutti gli uomini e di tutte le donne, dai lavoratori agricoli ai lavoratori sfruttati nelle fabbriche agli schiavi del sesso, è ingiusto. Siamo tutti d’accordo su questo. Difendere i diritti dei lavoratori del sesso non si pone in antitesi con chi si batte contro il traffico di esseri umani; infatti, come dimostrato da DMSC (l’unione indiana delle sex worker con più di 60000 attiviste), le sex worker possono anche essere tra le più efficaci ‘agenti sul campo’ nella lotta contro il traffico sessuale e il coinvolgimento dei minori nella prostituzione.

Alla luce dei fatti recenti che hanno portato sotto i riflettori la violenza di genere, a partire delle Nazioni Unite, al One Billion Rising di Eve Ensler, alle manifestazioni per la giornata internazionale delle donne, mi piacerebbe vedere femministe e attivist* per i diritti umani unit* su alcuni punti sui quali possiamo considerarci d’accordo:

Le donne sono ancora oggetto di discriminazione e disuguaglianza. Le persone che scelgono il lavoro sessuale sono spesso quelle che sperimentano tale disuguaglianza in maniera più lancinante. Dalla disuguaglianza economica, il divario salariale persistente tra uomini e donne, alla disparità di genere nella scuola in molte parti del mondo, al costo irragionevolmente elevato delle tasse universitarie e di un sistema di debito formativo deformato, alla responsabilità ancora prevalentemente femminile di assistenza all’infanzia – questi sono i problemi sui quali le femministe stanno lavorando. E questi sono anche i motivi per cui le persone si dedicano al lavoro sessuale, volontariamente o meno. Cerchiamo di non punirle ulteriormente per le condizioni ingiuste che non hanno creato. Il femminismo è per tutte le donne e i diritti umani sono per tutti gli esseri umani. Nessuno merita di essere oggetto di violenza.

Le persone impegnate nell’industria del sesso evidenziano alcune delle più profonde contraddizioni della società, le crepe nelle strutture che abbiamo più care. È un importante tornasole della forza e la coerenza dei nostri quadri ideologici: per vedere se siamo in grado di estenderli ai membri più emarginati della nostra società. Quando si tratta di unirci nella lotta contro la violenza di genere, facciamo del 2013 l’anno in cui la violenza contro i lavoratori e le lavoratrici del sesso entra finalmente nella coscienza pubblica come una questione di diritti umani.

Kate Zen è una femminista e attivista per i diritti umani, nonché una studentessa di scienze sociali ed ex mistress.

Include All Woman è una campagna realizzata per dare visibilità alla violenza contro le sex worker, nell’ambito dei dibattiti sui diritti umani incentrati sulla violenza contro le donne delle Nazioni Unite.

“Ain’t I a woman?” è alla ricerca di mediattivist*, ricercatrici/ori e artist* per realizzare una campagna che includa la violenza contro le sex worker nell’ambito della commissione delle Nazioni Unite sulla condizione della donna entro il 2015.

Deconstructing l’amor cortese, i cavalieri, i parolieri, i giocolieri, gli uomini di ieri

743px-Leighton-God_Speed!Sono stato a lungo indeciso su cosa farne di questo articolo di Pietrangelo Buttafuoco. Meritava certamente di essere criticato, perché è un esempio di comunicazione banalmente retorica e infarcita di lessico inutilmente ampolloso su un argomento che non merita certo di queste “finezze”. Però è anche l’esempio di come certi intellettuali – dice che si chiamano così – parlano creandosi identità piacionesche che sfruttano, al solito, per dire la loro su argomenti di genere dei quali non credo che capiscano un bel niente. E diciamo che io non penso mai alla malafede, per default – è proprio ignoranza crassa. Questa ignoranza ha un palcoscenico piuttosto ampio, ed è quindi il caso di risponderle. Ne ho fatto allora un “deconstructing” e mi riprometto di affrontare anche più in generale la questione del “l’uomo di una volta”.

Il tema non è nuovo: si tratta dell’ennesima declinazione del noto luogo comune/stereotipo politico “se stava mejo quanno se stava peggio”, rimpianto di tempi andati che, per il solo fatto di essere andati, sono migliori del presente. Ancora in molti ci credono. Dato che il nostro scrittore è molto istruito, l’argomento diventa “Oh gran bontà de’ cavallieri antiqui!” (cit. Ariosto – scusate eh, ma due libri l’abbiamo letti pure noi), che servirebbe a declamare le virtù degli uomini (e delle donne) di una volta, che allora sì che sapevano come far funzionare i rapporti di genere, l’amore, il sesso. Certo, come no. Leggete per credere.
Avvertenza: è un po’ lungo. Non è colpa mia 🙂

 

Eros non le uccide mai [peccato che i giornali continuino a parlare, però, di passioni e gelosie, quando si tratta di femminicidi. Che Buttafuoco voglia finalmente dire che non è corretto parlare in quel modo, sui giornali e altrove? No.]

Anche se ci sono più vedove che vedovi, ebbene, sì: se ne ammazzano di più di donne [come se fosse un problema di numeri. E’ un problema culturale, la cui esistenza sarebbe testimoniata anche da un solo femminicidio l’anno. E poi perché parlare di vedove? Si diventa vedov* anche per cause non violente, è quantomeno scorretto usare questo dato. Qui una visione più realistica di questa polemica sui numeri]. Più degli uomini. Ed è per questo che la legge sacra della Cavalleria impone all’uomo di dare alla donna una corte – sia essa un harem, una domus, un chiostro regale – [passata l’epoca della Cavalleria, semmai c’è stata, quegli spazi sono chiamati prigioni, ghetti, lager, insomma luoghi dove vengono private persone della propria libertà] dove tutto può accadere, perfino l’amore, fuorché ucciderla perché quell’odalisca, quella sposa, quella regina è domina [domina de che? Dello spazio che lui le ha dato? Ma per favore] e vale per lei la regola di Shakespeare: “Piano, toccatela piano, perché fu donna” [ancora con la storia del fiore? BASTA con questi stereotipi!].
Se ne ammazzano di donne. Ma prima che il cercarsi tra femmine e maschi diventi un tabù [che c’entra? Perché cercarsi dovrebbe diventare un tabù?], qualcuno ci gioca. Osservate la scena. E’ notte. Tutto si svolge sulla balaustra della terrazza di Castelmola, sopra Taormina. E’ un’estate di qualche anno fa. Sono gli anni 80 [il perché cercare aneddoti di trant’anni fa non si capisce. Ma si chiarirà alla fine, stay tuned]. Lei è affacciata e attende. Lui avvita il silenziatore sulla canna della pistola. Lei si sporge e si porge [è proprio un poeta, Buttafuoco]. Lui mette il caricatore e si avvicina a lei. Lei, vestita di hot pants, si mette a cavallo della pistola. La bocca dell’arma, col silenziatore, sbuca dalle sue gambe e lui spara. Sono sette, otto colpi che viaggiano nella notte di Taormina. Tra le cosce. Tutto questo per fare calore, torneo e ghigno. Lei si sfinisce di stantuffo [ve l’avevo detto che era un poeta]. Lui non controlla più il rinculo del ferro. Rischiano che il cane dell’arma azzanni le carni morbide [i signori s’indignano e le signore portano la mano alla bocca] ma lui l’ha già abbracciata e lei inala tutto quello svaporare di piombo. Una notte, quella, dove tutto può accadere fuorché finire uccisi, piuttosto sparati, ma per approssimazione [ve lo dico adesso: che cosa c’entra ‘sta scena non lo sapremo mai. Ma alla fine sapremo perché gli premeva iniziare così].

Se ne ammazzano di donne ma le signore dell’impegno, purtroppo per loro, ripudiano il codice d’amore cortese [e mi pare il minimo: le signore dell’impegno vorrebbero dei rapporti umani fuori da schemi di servitù, onore, privilegio e altre forme di potere coatto. Per la cronaca, l’amor cortese è una categoria della critica letteraria che identifica un rapporto strutturato per neutralizzare il desiderio carnale in un rapporto di potere rigidamente formalizzato. La frustrazione fatta canone, insomma]. Vogliono tutto eccetto il benedetto malinteso della natura, quello che fa sovrano il ruolo di signore & signori [invece è proprio il contrario: se c’è una cosa insopportabile dell’amor cortese, come s’impara subito dai banchi di scuola, è che NON SI SCOPA MAI. Cosa che risulta sgradita anche alle signore dell’impegno, alle quali il sesso piace come a tutt* gli/le altr*]. E’ quel mondo dove finalmente arriva la figlia femmina e la casa diventa tana di felicità e gioia [veramente, di solito era considerata ‘na mezza disgrazia]; come quando poi s’apparecchia per lei il matrimonio o perfino il noviziato perché è più di una benedizione il suo comando, il suo desiderio e il suo volere. Comando, desiderio e volere affidati al padre, l’esecutore materiale [che bello ‘sto patriarcato, eh sì, era proprio bello il mondo di una volta]. Giammai alla madre, vestale gelosa [e figurati se lo stereotipo non si concludeva con una donna stronza].
Il mondo degli antichi non fa più testo, peggio per tutti noi [ma parla per te], nel mondo degli antichi (ancora cinquant’anni fa, in Sicilia) [notate la finezza con il quale l’antichità, secondo il nostro, va dalla Sicilia del dopoguerra alla Provenza del XII secolo – mondi uguali uguali, proprio] si applicava naturaliter la legge speciale della morte più che speciale per chiunque si fosse macchiato del sangue di una donna. Si disponeva l’uccisione dell’assassino e i parenti del malacarne non si osavano di reclamare vendetta. Per la troppa vergogna [peccato che al nostro sfugga che ciò è motivato dall’essere le donne considerate così poco, che chi le ammazzava infamava con la sua pocaggine tutto il clan. Non si ammazza un essere che non vale nulla, per questo era disonorevole il femminicidio – significava che la donna era incredibilmente assurta al ruolo di “fastidio”, di “cosa da eliminare” – era roba da vergognarsi l’essere costretti ad ammazzarne una, significava non essere stati capaci di farla stare al suo posto. Ed è roba già presente nella Bibbia, eh].
L’antico non sbaglia mai ma queste donne impegnate hanno ragione a temere la statistica del “femminicidio”, un termine preso in prestito alla banalità del politicamente corretto in attesa di trovare parola più precisa [il codice penale è già pieno di prestiti dalla banalità del politicamente corretto: doloso, colposo, preterintenzionale, suicidio, genocidio, infanticidio – e poi ci sono parricidio, matricidio e uxoricidio… tutti termini che servono a identificare uno specifico reato, con lo scopo di chiarire le circostanze e comminare una giusta pena]; hanno ragione perché il maledetto malinteso della civiltà snaturata [interpretazione dell’autore che lui ha assunto a dato di fatto] ha ormai fatto dei padri, dei fidanzati, dei figli perfino, la parodia dell’essere maschio [eh? Quando abbiamo deciso cosa vuol dire essere maschio? Di nuovo, queste sono congetture trattate come fossero dati di fatto].
Ci sono più donne che uomini, il calcolo è questo, ma se ne ammazzano a non finire mai di ragazze, di mamme, di fidanzate, di soldatesse, di prostitute, di professioniste. Qualcuna, come Lucia Annibali – avvocato, 35 anni – è stata sfregiata dall’acido muriatico. Cercate su Internet la sua foto. E’ bellissima. Violarne la grazia è tipico di chi, al pari del maiale, altro sguardo non regge che quello del fango dove si specchia [a parte che ci si poteva risparmiare l’insulto specista – non ho capito che male hanno fatto i poveri suini per essere avvicinati a dei criminali – un altro dei tanti pregiudizi sessisti di questo articolo è che a lei, in quanto bellissima, sia più grave violarne la grazia. E’ un corpo, il suo corpo ad essere stato violato, non la grazia, e sarebbe stato un crimine identicamente odioso se Lucia Annibali fosse stata quello che un linguaggio socialmente cinico e discriminante definirebbe “una racchia”. Pare invece che, per l’autore, i crimini si possano ordinare per efferatezza a seconda che la grazia violata sia di una donna che gli piace particolarmente o meno. Complimenti].

Il calcolo è impari. E se pure c’è stato un solo caso di donna che ha scannato la propria donna (a Gussago, in provincia di Brescia, Angela ha ucciso con due colpi di pistola Marilena) [classica precisazione paraculo-machista e logicamente senza senso], è sempre un parodiar del maschio a far cadere l’eros dentro thanatos che non è più il baratro di concupiscenza del romanticismo ma la botola del più sanguinoso luogo comune, un computo da cronaca nera prossimo a diventare mappazza d’ideologia [ho fatto studi classici e lo voglio far vedere, ok?].
Più degli uomini, dunque, sono le donne a crepare nella guerra dei sessi [un altro classico della stereotipìa maschilista è che i sessi siano in guerra. Una guerra è condotta da due eserciti che si scontrano l’uno contro l’altro, ciascuno con le proprie motivazioni – in questo modo il maschilista può accusare l’altra parte in guerra delle proprie stesse efferatezze. La realtà è che c’è un rapporto di potere tra oppressore e oppresso, e non una guerra – ma questa immagine, com’è ovvio, ai maschilisti non piace, tantomeno ai nostalgici dei bei tempi andati]. Ovviamente non se ne può fare una mobilitazione di coscienza o una raccolta firme perché già l’adesione di Adriano Celentano e Claudia Mori alla campagna di Concita De Gregorio per la costituzione degli Stati generali sulla violenza contro le donne rende tutto molto piritollo [questa parola se l’è inventata lui, e io non linko un altra volta roba sua; usate Google, per favore]. Lui, oltretutto, è meritatamente autore del manifesto del possesso amoroso qual è “Una carezza in un pugno” [Celentano non ne è l’autore, l’ha solo cantata, ma la verità gli smonterebbe tutta la piritollaggine], la canzone dove da geloso giustamente dice “mia, mia e mia” e sparge pugni in luogo di carezze, perché il tema dei temi – oggi, oggi che gli uomini uccidono le donne – è l’uso e l’abuso del possessivo mio [notate come la questione di potere che sta alla base del problema dei femminicidi è stata fatta diventare una questione di linguaggio, che quindi potrebbe essere risolta tornando ad altri mondi linguistici, come quello dell’Amor cortese. Davvero un genio, complimenti].
Il senso del possesso è di certo il sesso [EH? Ormai siamo in pieno “dipartimento infatuazione per le proprie parole” (cit.)]. C’è anche un che di “ossesso” nell’intimo etimo [non è vero: etimologicamente le due parole sesso e ossesso non hanno niente a che vedere l’una con l’altra] del principio generatore della volontà di potenza che diventa volontà di volontà per poi sciogliere le trecce all’Essere innanzi alla volontà di verità [è tipico dei laureati in filosofia in certi anni citare Nietzsche e Heidegger come fossero propri amici personali. Tra qualche anno, quando sui giornali arriveranno a scrivere i laureati in filosofia negli anni ’90 e 2000, sarà lo stesso con Lacan, Derrida e Foucault. In entrambi i casi, si tratta quasi sempre di richiami insensati e gratuiti, tanto per fare allitterazioni rumorose]. Con questo non voglio rubare il mestiere a Michela Marzano [non vedo proprio come potresti: Marzano, per quanto discutibile, certe cose le ha studiate bene], torno presto nei miei ranghi di oplita [lo dirà altre due volte che è un soldato – poi dici perché gli antisessisti sono definiti “disertori del patriarcato”…], ho ben letto l’Idòla [fa più fico di “pamphlet”, vero? E’ il nome della collana di Laterza, preso da Bacone] di Loredana Lipperini e Michela Murgia “L’ho uccisa perché l’amavo. Falso!” (Laterza, euro 9,00) ma tutto questo uccidere perché si ama per fortissimamente amare e meglio marchiare di “mio” ogni “mia” non riguarda l’uomo antico [il quale, come abbiamo visto, non aveva alcun bisogno di marchiare: metteva la donna in un recinto e fine lì], piuttosto quello più profondamente moderno, il maschietto più autenticamente etico [che cos’è un maschietto etico? Non è dato sapere], quello più amico delle donne, quello arrivato dritto dritto dalla promiscuità militante [che cos’è la promiscuità militante? Anche questa domanda risuonerà nel vuoto], insomma: l’impotente [ecco, che sia chiaro: quello più amico delle donne è l’impotente, mica come il bel maschione di una volta].

Succede che Bertrand Cantant, l’amico di Manu Chao, artista impegnato, fa di Marie Trintignant, la sua fidanzata, una maschera di sangue. Lui non è un criminale, per Libération è “bisognoso d’aiuto”. L’amore confina con la follia [no, qui è l’ignoranza di certo giornalismo che confina con la malafede, nell’usare quelle parole]. Qui non c’è gioco. Magari c’è il disagio. Ecco, c’è un’altra vittima, per dirla con l’onorevole Boldrini [che non c’entra assolutamente niente, non è che una parola sola rende l’argomento simile a quello di Boldrini], che diventa carnefice. E c’è la compassione per automatismo libé [e che vuol dire questa constatazione? Che senso ha buttarla lì così?]. Bruno Carletti, direttore artistico dello Sferisterio di Macerata, uccide Francesca Baleani, l’ex moglie [è viva eh, non l’ha ammazzata]. La carica in macchina e la scarica in un cassonetto. “Francesca”, dirà padre Igino Ciabattoni, responsabile della comunità di recupero che ospita l’assassino, “non troverà più un uomo che possa amarla così tanto” [e speriamo per lei che non lo troverà più]. Ancora una volta: “Un atto d’amore, cieco come la morte”. Lipperini e Murgia sono riuscite a costruire con il loro pamphlet un catalogo dell’orrore dove però – dicono – “è mancato il collegamento: sono, anzi, mancate le parole che tenessero insieme morti atroci quanto ritenute isolate, non ripetibili”.
Provo a metterci delle parole – oltre l’amoricidio [parola sbagliata e fuorviante, se applicata a quei casi] – e spiegare che quelli che non sanno prendere le donne se non uccidendole non sanno dire “mio” perché sono ubriachi di “io” [no, non mettiamola sulla psicologia perché sarebbe come dare loro dei “malati”, e quindi giustificarne le azioni per cause non dipendenti dalla loro volontà. E’ un problema di potere: uccidere è proprio il modo di ratificare per sempre il possesso, è il modo più forte di dire “mio”]. Hanno un’erezione cerosa e zero colpi in canna e non si tratta certo della pistola del femminicidio [è tornato il poeta], il capitolo sociale di un’umanità maschia senza più forza, il “vir”, zero colpi nel senso proprio di mancare al principio ordinatore del venire al mondo con responsabilità [che sarebbe esclusivo dei maschi? Però], amore cortese e dovere perché solo il rito – con la sua liturgia di possesso – conserva l’eros dentro le sue pulsioni buie senza incappare nel codice penale [quale rito? L’Amor cortese è stata in’invenzione letteraria, non c’era alcun rito. E di riti l’attuale vita civile è piena – per esempio, il matrimonio è un rito – eppure non sembra che servano a molto per non incappare nel codice penale].

La verità dell’amore, nelle mani di chi ci sa fare [sempre e solo maschio eh, per carità], è uno squarcio dove da fuori c’è il sangue vivificante della vita mentre – dentro – nella carne, c’è il fuoco. Mai la messa a morte. Certo, “meglio morta che puttana”, questo predica l’antico della propria donna se questa poi ha fatto del proprio nome strame [che carino, questo uomo antico]. Ma quel “meglio morta” non è assassinio [noooo, figuriamoci, gli uomini antichi non ammazzavano mai nessuno, scherzi?], al contrario: è un continuare a vivere nel dolore disperato del disonore [un riferimento, una data, un nome… no, è tutta scienza infusa nel Buttafuoco]. Mai perdonare, mai, non si può perdonare [“Dio perdona, io no” (cit.)]. E la stessa donna ha disprezzo di chi cicatrizza la ferita del tradimento [ricordate il teorema della guerra dei sessi? Anche le donne hanno le stesse pulsioni dell’uomo, quando fa comodo – all’uomo]. Mai dimenticare perciò, mai, non si può scordare ciò che fa nell’anima uno scempio perché l’amore, come il sangue coi figli, s’avvelena forse ma non si disperde. Il soffrire d’amore è spirituale [ma de che? Ma se anche quelli dell’Amor cortese, pur nella frustrazione, parlavano di corpo e sesso!], un atroce friggere cieco delle carni [un friggere cieco. E io che pensavo fosse un bollore sordo, o un mantecare muto], non un trauma della psiche [lui è quello che parlava di “io”, eh – e adesso non è un trauma della psiche. Parole a caso, tanto per dirle]. E non è paritario il dolore, non conosce uguaglianza, è debolezza propria del portatore di seme, biologicamente inferiore a chi, al contrario, è donna generatrice di nuova vita [e ti pareva che alla fine il maschio non era quello sfortunato rispetto alla femmina! Solo lui soffre davvero, poverino! Mica quella che mòre ammazzata!].
Non si può disinnescare la tossina dell’innamoramento, quel farmaco omeopaticamente salvifico, con l’edificazione di un tabù culturale contro il maschio [ma chi lo edifica? Ma dove? Perché parlare di cose senza dimostrarle, senza costruirle?]. Capisco che a qualcuno sia venuto in mente il mettere da parte l’istinto a favore di una civilizzazione della copula [eh sì, dice la civilizzazione che bisogna essere consenzienti, mannaggia a queste regole civili che ci fanno mettere da parte l’istinto]. Dopotutto neppure gli stalloni riescono a coprire le giumente senza l’ausilio del veterinario [questa è cattività, non civilizzazione. Gli animali – e lasciali perdere! – non diventano mai “civili”, cioè cittadini] che, oplà, guanti pronti, posiziona ciò che c’è da posizionare [Buttafuoco, ma che ti guardi in TV?].
Piano piano arriverà questa civiltà del rapporto paritario [cioè il rapporto paritario sarebbe quello assistito da un dottore che posiziona ciò che c’è da posizionare? Ma cosa stai dicendo?]. Pare che non ci sia più la donna, non c’è l’uomo, c’è solo la persona [ma pare a chi? Dove?]. E’ facile sospettare che il tentativo di trasferire la rivoluzione – la donna in luogo del proletariato – abbia preso il sopravvento su altri fallimenti ideologici [COOOSA?] ma desiderare è avere e il maschio, non la “persona”, nel recinto sacro dell’Amor cortese, prende possesso di quella carne [ancora con questa storia? Nell’Amor cortese nessuno prendeva possesso di quella carne!!!] in ragione dei due punti di suggello e sigillo: l’osso sacro e la ghiandola pineale [no, ditemi che sto leggendo male, vi prego]. E la copula, ovvero il contatto con il coccige e con la nuca – come fanno i gatti quando acchiappano la micia da dietro per addentarla al punto da denudarne, dei peli, la cuticagna [BASTA con i paragoni specisti, Buttafuoco! Ma che immaginario hai?] –, altro non è che il cogliere la rosa fresca aulentissima ch’apari inver’ la state [ma lascia perdere il Trecento, che anche allora sapevano chiamare questa posizione sessuale con ben altro che cogliere la rosa fresca aulentissima].

Come si faceva l’amore di una volta [non mi risulta che ora quella posizione abbia perso popolarità]. Quando gli dèi s’affacciavano dall’Himalaya per compiacersi degli innamorati fradici di desiderio e di respiro [se lo dici tu…]. Tutto ciò non è il porno. Qui si procede di fisiologia. E di furor sacro. Mircea Eliade alla mano [che bella immagine, te che procedi di fisiologia con la bocca occupata dalla cuticagna di qualcuna e “Spezzare il tetto della casa” aperto in mano]. Altro che la delicata Costanza Miriano, autrice di “Sposati e sii sottomessa”, fustigata non poco da Lipperini e Murgia [non è stata affatto fustigata, come già scritto altrove].
L’amplesso è però un dettaglio. Il mettere carne sopra carne è, infatti, solo un abito dell’istinto: quello della sopravvivenza e – come da codice platonico, ossia il “Simposio” – ci si riproduce solo nel bello. Non potendo generare carne, si genera l’idea [peccato che quest’ultima frase sia roba tua, e non di Platone]. Mai la messa a morte.
L’amplesso è la vera astuzia della storia se solo fosse la storia matrice delle generazioni mentre invece è la sopravvivenza, la vera padrona delle erezioni e degli umori [sì, certo, soprattutto nel XXI secolo è l’istinto di sopravvivenza a produrre le erezioni – dillo alla fiorente industria del porno commerciale], dunque tutto un aggiungere piani al grattacielo del destino a due, quello del maschio e quello della femmina, dove ogni cosa è chiara, chiara assai. Don Rafaele Cutolo, ’o Camorrista, lo diceva fuori da ogni metafora: “Quando si fotte riesce sempre bene perché ciascuno sa che cosa vuole l’altro” [da Platone e Don Cutolo, ogni cosa è permessa al filosofo infatuato del suo linguaggio, ovviamente].
Le donne si fanno femmine e selezionano il patrimonio cromosomico più forte, più ricco, più potente [certo, come no, da sempre le donne si fanno femmine e fanno sesso con chi scelgono loro. Ma questa dove l’hai letta?]. Nel benedetto malinteso della natura si è sempre femmine e – nel proprio harem, nella propria domus, nella propria reggia – dunque nel sottinteso benedetto della loro più segreta natura [leggi: nel recinto dove le ha messe il loro padrone maschio uomo di una volta], le donne svelano il primo punto: quello della ghiandola pineale, dunque l’anima. E poi ancora l’altro punto: l’osso più sacro. Quello che nella risulta ancestrale dei secoli dei secoli è solo l’ombra di ciò che fu coda.
Come si fece sempre [sì, avete letto bene, sta costruendo un retorico e ampolloso elogio della “pecorina”. Complimenti]. Furono i missionari cristiani, abusando della credulità dei selvaggi, a riposizionare gli incastri della conoscenza carnale. Abrogarono il posizionarsi al modo del “more ferarum” e dannarono per sempre come animalesco, dionisiaco e peccatore il principio del piacere [cosa c’azzecchi la storia delle posizioni erotiche lo sa solo lui, s’era partiti col femminicidio. Andrebbe istituito il reato di digressione illecita]. L’abito non fa il monaco, il New York Times avrà avuto i suoi motivi per dire che la moda italiana, fatta eccezione per Bottega Veneta, Prada, Gucci e Marni, è fatta solo per le zoccole (“italian fashion in the Time of the Trollop” [l’articolo è questo e tutti potete leggere che le cose non stanno proprio come riportato dal nostro. Trebay, nel 2007, allarga il discorso a un concetto culturale di volgarità, che riguarda anche i media – ma che je frega a Buttafuoco, a lui interessa la carne, gli umori, more ferarum]) ma la minigonna non fa la scostumata. Tra collo e schiena, tutto quel percorrere di aulente malia non può che avere migliore rappresentazione nella Valentina di Guido Crepax. Provate a ricordare quel suo incedere inesorabile [che nessuno ha mai visto, essendo un fumetto], non sarebbe stata a suo agio nella tavernetta del bunga-bunga ma avrebbe fatto la felicità di Cielo d’Alcamo [il cui famoso contrasto “Rosa fresca aulentissima” era proprio  una presa in giro della poesia d’amor cortese, ndr].

L’abito non fa il monaco, figurarsi la memoria della letteratura ma chi più di ogni altro regge la fatica del presagio in questa Italia orba di virtù maschia [eh sì, mancano proprio gli uomini di una volta], in questo precipitare di morte e amore, nella follia e nel lutto è Boccaccio che, nella novella di Nastagio degli Onesti, nella quinta giornata del “Decameron”, “ragiona di ciò che a alcuno amante, dopo alcuni fieri o sventurati accidenti, felicemente avvenisse” [state a sentire che bella la saggezza dell’uomo di una volta].
Provo a farne il racconto: Nastagio è un nobile ravennate che s’innamora senza tregua della figlia del nobilissimo (più di lui) Paolo Traversari. Per conquistarla ordina feste e cene di gran lusso. Ma quella lo rifiuta con divertimento e lui continua a sperperare energie e denari, fin quando per troppo amore, per evitare di ammazzarsi e di dilapidare tutto, va via dalla città [fin qui aveva fatto una cosa giusta: s’era rassegnato alla libertà di lei di dire no. Ma Nastagio è uomo di una volta…].
Un venerdì d’inizio maggio, proprio un venerdì come questi, Nastagio vede una scena che Botticelli illustrerà poi per Lorenzo il Magnifico (ne avrebbe fatto un regalo di nozze, quasi un memento: “Amare se non vuoi morire”). Una giovane donna corre nuda, due cani la inseguono e tentano divorarla variamente, mentre un cavaliere armato le urla dietro minacce di morte. Nastagio vuole difenderla, ma il cavaliere si ferma a raccontare la propria storia. Aveva amato quella ragazza follemente, ma non ricambiato, si era suicidato [forse ha un po’ esagerato, ma non fermiamoci a sottilizzare]. Lei non aveva avuto nessun pentimento, nessuna pena, ed era stata con lui condannata alla tremenda punizione [perché? Quello è così scemo da suicidarsi e lei ne va di mezzo?]: tutti i venerdì lui la caccia con i cani feroci, la minaccia di morte, l’ammazza e ne vede ricomporsi il corpo. Il venerdì successivo e per chissà quanto ancora, si ripete la stessa sequenza barbara [ah, è la sequenza a essere barbara, invece del fatto che una donna innocente paghi in eterno la stupidità di lui].

Devi amare se non vuoi morire. O, almeno, ricambiare. Questo è il succo [traduco per il XXI secolo: donna, se uno decide di amarti, so’ cazzi tua]. E Nastagio, infatti, ha una sua trovata. Il primo venerdì utile, invita l’amata e tutti i parenti a un desinare sul luogo della scena crudelissima che, tempestiva, si ripete. Il cavaliere che strazia la donna e che non è timido, racconta la storia pure ai banchettanti. La più terrorizzata di tutti è proprio la Traversari [e ti credo!], che subito riflette sul sentimento negato e sulla mancanza di rispetto verso quell’amore e, insomma, “temendo di simile avvenimento prende per marito Nastagio” [che bello, lo sposa per paura, proprio il trionfo dell’amor cortese]. Non solo, con il suo gesto educa le donne di Ravenna, che d’improvviso diventano tutte più gentili e amorevoli con gli uomini [com’era? Ah, sì: punirne una per educarne cento. Davvero fenomenali ‘sti uomini di una volta].
Tutto un obbligo d’amore per non dover morire. Sempre nel “Decameron” e sempre in letteratura, c’è anche la tradizione del cuore dell’amato dato in pasto per vendetta, dal marito, alla moglie traditrice, che magari su indicazione del consorte l’aveva pure cucinato a guisa di manicaretto. E in tema di cuori mangiati, ma davvero, ci sarebbe Pasquale Barra, detto ‘o “Animale”, un esponente della nuova camorra organizzata che uccise Francis Turatello in carcere e poi ne addentò gli organi [quanto gli piace passare dai personaggi letterari ai camorristi], ma adesso – proprio no – non voglio certo rubare il mestiere a Roberto Saviano [grazie, infatti ci basta e avanza lui – e poi, quale mestiere?], torno nel rango mio di oplita [e due] e provo a spiegarmi che uccidere, per questi tapini, è forse un oltrepassare il rito dell’amore, un addentrarsi nel furor, uno stroncarsi al pari di Narciso in tutto quel rimirare se stessi per poi esplodere nelle bolle dell’acqua stagna [sicuramente, intanto è “uccidere lei”, e non solo uccidere – il verbo è transitivo, bisognerebbe ricordarselo più spesso].

Approssimarsi d’amore, magari con la pistola in pugno, per volare nella notte di Castelmola, è approssimare la propria dannazione alla morte, controllarne il respiro e lo sguardo di dolore, che è ancora rito, nella rigenerazione di un torneo di pura buia gioia perché, insomma, lo dico da oplita [e tre], non esiste una cultura arcaica da sradicare dal nostro guardare negli occhi dell’amore, esiste solo la realtà di Eros che mette a bada Thanatos [ed esistono pure un sacco di noiosi parolieri che veicolano stereotipi inadeguati e violenti mascherandoli da chiacchierata erudita].
Esiste la realtà della natura [sì, abbiamo capito, viva la pecorina] e se proprio la civiltà riuscirà a ucciderla [ma solo regolarla no? O a pecorina o ammazzata? Però, che bella la natura] significherà che saranno stati i desideri a determinare i diritti, che si procederà d’inseminazione per tramite di applicazione veterinaria [insisto: Buttafuoco, lascia stare i canali tematici, ti fanno male] e ci sarà solo la persona, finalmente libera del possessivo ma persa per sempre nella bolla afona e stagna dell’io-io-io che non saprà dire “mio”, anzi, “mia” se non mettendo a morte. Come cosa morta è l’amore di Narciso [complimenti per la diagnosi: o sesso ferino nel recinto o deliri psicotici con delitto. Che bella prospettiva].

Post scriptum.
A proposito dell’episodio di Castelmola. Lui era sì un picciotto malandrino ma la pistola non era la sua. Era della ragazza in hot pants [capito a che serviva la storiella? Alla fine è colpa di lei].

Vi suggerisco una colonna sonora per questo profluvio di fastidioso e ipocrita lessico altisonante: Latte e i suoi derivati, “D’amore e nel vento”.

Dubbi sul queer: alcune risposte

imagesRiportiamo con piacere la risposta di Mina a questo articolo che pone dei dubbi sul queer. Invitiamo, chi lo desidera, a dirci cosa ne pensa. Buona lettura!

Nota: le frasi presenti in parentesi quadre sono da attribuirsi a Mina e non all’autrice dell’articolo in questione

Cara Anacronista,
volevo controbattere ad alcuni punti del tuo articolo. Tipo a tutti, ora che ci penso.
Parto col dire che mi auto-colloco nella sfera queer e con questo non significa che sono uguale ad altre persone che si definiscono queer, con cui magari arriviamo a conclusioni anche abbastanza diverse. Questo, perché, il movimento queer è ben lungi dall’essere un modello in quanto, nonostante alcuni punti di partenza comuni, non offre un prototipo identitario o comportamentale o un’universalità di precetti, ma include tutte le forme che sfuggono o si pongono in maniera problematica verso le forme di essere e di relazionarsi “permesse” dalla società. Di seguito risponderò punto per punto alle tue osservazioni:

Allo Sfamily Day, si paventava – in modo piuttosto accennato e sfuggente – la possibilità di un legame tra la precarietà del lavoro e quella delle relazioni.

E’ un’ipotesi, si può argomentare, condividere o meno (io personalmente riconosco questa correlazione)

Leggi tutto “Dubbi sul queer: alcune risposte”

Sulle calze antistupro

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Riportiamo con piacere la segnalazione fattaci da Mina sulla notizia delle “calze antistupro” che, aldilà del fatto che sia vera o meno, alimenta uno degli stereotipi peggiori che riguardano lo stupro: la bellezza. Alcuni anni fa lo stesso Berlusconi disse “servirebbe un militare per ogni bella donna” come se le molestie e gli stupri avvenissero per una questione di estetica.

Leggi tutto “Sulle calze antistupro”

CORPI REAGENTI – MySlut Walk e qualche considerazione a margine

corpireagenti

Questo weekend segnaliamo, per chi si trova a Torino, un appuntamento imperdibile… anzi due!

A conclusione del progetto ‘What’s Body?’ che il collettivo Sguardi Sui Generis ha portato avanti nel corso dell’anno con diversi incontri, il discorso sul corpo verrà approfondito attraverso due giornate dedicate alla sperimentazione e alla performatività.
CORPI REAGENTI sarà articolato in due giornate:

– SABATO 15 GIUGNO @ csoa ASKATASUNA (corso Regina, 47)
alle ore 15: laboratorio MY SLUTWALK a cura del collettivo femminista Le Ribellule Collettivo Femminista (leribellule.noblogs.org)
…a seguire aperitivo danzante in compagnia de Le Elettrosciocchine!

– DOMENICA 16 GIUGNO @ circolo Maurice (via Stampatori, 10)
alle ore 15: MASCHILITA’ DI CHI? laboratorio di Kinging a cura del Lab. Sguardi Sui Generis
…a seguire merenda queer!

Rimandiamo al post pubblicato da Sguardi Sui Generis per maggiori info sull’argomento.

A prescindere da questa bella iniziativa, alla quale speriamo aderiate numeros*, vorremmo con questo post dare l’avvio ad una riflessione più generale sulla SLUT WALK, sui suoi significati (e contraddizioni) e sulle sue prospettive future.
Abbiamo in proposito tradotto parte di un articolo scritto da Yasmin Nair, che riflette su alcune delle zone d’ombra della Slut Walk: lo abbiamo scelto perché alcune delle questioni sollevate risuonano dei dubbi che a volte ci attanagliano, e perché vorremmo con tutte le nostre forze evitare ciò che la Nair prefigura, quando si chiede:

La Slutwalk rappresenta la fine del femminismo?

‘Senza consapevolezza critica e volontà di affrontare ed agire in merito ai problemi strutturali, economici e politici che devono affrontare le donne e molti altri soggett*, la Slutwalk rischia di diventare l’Halloween del femminismo: quell’unico giorno dell’anno in cui le donne si sentono autorizzate a vestirsi in abiti succinti e a definirsi puttane, ma che le lascia prive di quel potere attraverso il quale realizzare davvero quel cambiamento che va oltre ad uno slogan in stile Obama.’

[…] Nel 2011, mentre sfilavo con migliaia di persone radunatesi in una splendida giornata estiva, e mi trovavo in piedi sopra una tribuna improvvisata a declamare un breve discorso, non ho potuto fare a meno di sentirmi eccitata alla prospettiva di assistere a ciò che per me rappresentava il riaffacciarsi, pieno di significati e importanza, del femminismo, un movimento che consideravo agonizzante – per non dire quasi scomparso.

Ho nuovamente tenuto un discorso alla Slut Walk di quest’anno, e mi sono trovata a chiedermi dove fosse finita tutta quell’energia. I travestimenti erano sempre quelli, così come i cartelli, provocatori e spesso molto divertenti, anche se le persone presenti erano molte meno. Nell’osservare la folla per la seconda volta, mi sono chiesta perché così poco fosse cambiato, e se questa volta, la Slutwalk rappresentasse non l’inizio ma la fine del femminismo.

La Slutwalk è nata a causa di un poliziotto di Toronto, il quale disse che “le donne dovrebbero evitare di vestirsi come puttane, se non vogliono diventare vittime”. Queste parole sarebbero state già gravi di per sé, ma il venir proferite durante un forum di prevenzione della criminalità fu molto peggio, perché implicava che le donne che si vestono in un certo modo meritano quello che capita loro. Tali parole ebbero l’effetto di provocare innumerevoli discussioni, e le donne marciarono in massa per rivendicare e decostruire il termine “puttana.”
La popolarità della Slutwalk, lo scorso anno, ha portato alcun* ad asserire che essa rappresenti il futuro del femminismo.

[…] “Femminista” non è un’etichetta che mi piaccia utilizzare. Mi sono trovata spesso in disaccordo con quello che solitamente viene definito femminismo, soprattutto negli Stati Uniti, dove il termine è purtroppo associato a quelle donne bianche privilegiate i cui interessi sono principalmente il controllo delle nascite e il diritto d’aborto, e oltre a questo poco altro. In realtà, anche il linguaggio dei diritti, nella sua problematicità insita nel privilegiare il singolo soggetto invece di compiere un’analisi sistemica dei rapporti di potere, è stato soppresso dalle femministe americane tradizionali. […] Nonostante tutte questi aspetti problematici, e il fatto che io spesso rabbrividisca quando mi viene chiesto se sono una femminista, di solito rispondo di sì, perché penso ancora che questo termine, così come la parola “queer”, abbia una qualche potenzialità – forse non di rottura, ma che in ogni caso detenga in sé ancora una qualche promessa spettrale o minaccia di cambiamento.

La prima Slutwalk dunque, ha rappresentato la piattaforma necessaria per discutere pubblicamente – e ricominciare a combattere – il sessismo e la misoginia profonda che pervade la nostra vita pubblica e privata, anche nei mondi apparentemente più illuminati della sinistra.

Nei mesi successivi, la Slutwalk è stata sia lodata che criticata. I/le critic* hanno sottolineato che rivendicare la parola “puttana” è problematico, in quanto il termine è spesso usato per sminuire e infantilizzare le donne di colore. Trovo la critica in sé offensiva, poiché presuppone che le donne di colore siano impotenti e passive, per sempre intrappolate nel ruolo delle vittime. E’ anche un argomento essenzialista, che dà per scontato che tutte le donne di colore abbiano le stesse opinioni. Mi sento di affermare inoltre che il privilegio, come ad esempio il privilegio di definirsi una puttana, non è un’esclusiva delle persone bianche; troppa cultura di sinistra sostiene erroneamente che le comunità di colore non vogliano o non possano riprodurre dinamiche di privilegio o non siano in qualche modo influenzate dal capitalismo/neoliberismo.

[…] Molte delle discussioni emerse nell’ambito della Slutwalk sono centrate su narrazioni fortemente personali, che ignorano i modi in cui il femminismo si sia storicamente impegnato a resistere anche contro gli squilibri strutturali, quali la politica ed economia dell’ineguaglianza. Senza consapevolezza critica e volontà di affrontare ed agire in merito ai problemi strutturali, economici e politici che devono affrontare le donne e molti altri soggett*, la Slutwalk rischia di diventare l’Halloween del femminismo: quell’unico giorno dell’anno in cui le donne si sentono autorizzate a vestirsi in abiti succinti e a definirsi puttane, ma che le lascia prive di quel potere attraverso il quale realizzare davvero quel cambiamento che va oltre ad uno slogan in stile Obama.

La richiesta delle persone di non essere molestate – o peggio – in virtù di come si vestono non è per nulla una questione insignificante: ma rivendicare la parola “puttana” deve essere solo l’inizio. Esiste una forma particolarmente insulsa di attivismo che ha invaso il mondo della sinistra progressista, dove persone di colore e  altri gruppi oppressi diventano narratrici/tori di un “racconto”. Questa pratica funziona come i cerchi di tamburi, un lamento infinito dei propri guai personali che ignora le componenti strutturali del capitalismo, e consente la realizzazione di un neoliberismo più feroce e più potente, che sfrutta l’ambito del personale per cancellare in noi la consapevolezza della distruzione delle nostre risorse sociali, politiche ed economiche.

Se il femminismo vuole rimanere sostanziale, deve dunque conservare il proprio carattere di rottura, non perderlo, e deve continuare a mettere in discussione anche ciò che esiste oltre al personale.

Riprodursi? Anche no!

 Devo ammetterlo, la questione fino a qualche anno fa non mi interessava proprio… Fino a quando sono stata felicemente immersa in quell’età nella quale la riproduzione è soltanto uno spauracchio (la gravidanza da evitare perché troppo giovane) nonché una questione teorica rimandabile (apparentemente, come tutte le cose spiacevoli – dalla calvizie maschile all’artrite) in un futuro molto più ipotetico che reale. Ma compiuto il giro di boa (non ricordo nemmeno esattamente quando), la questione dell’avere figli è diventato come un mantra. Sia chiaro, non per me: io sono rimasta, da quel punto di vista, quella di un tempo. E tra tante idee del cavolo che mi sono state inculcate dal ‘braccio amorevole del sistema’ (la famiglia), fortunatamente l’inevitabilità del mio destino di ‘fattrice-in-quanto-donna’ non ha mai attecchito particolarmente nei miei genitori, e di conseguenza, in me… Si, ecco, loro erano più il tipo ‘diventerai-un’-avvocatessa-rampante-e-spietata-vivrai-nella-grande-mela-e-il-tuo-guardaroba-sarà-come-quello-di-paperino-ma-pieno-di-costosissimi-tailleur (Acc…papà e mamma, mi spiace… you lose!). Così sono cresciuta in maniera un po’ più ‘selvatica’ dal punto di vista delle mie gonadi, considerando la questione maternità davvero molto lontana dal mio orizzonte esistenziale. Poi il tempo passa, ti laurei, inizi (tristemente) a lavorare, vai via dalla casa dei tuoi, ti trovi un compagno più o meno fisso, e il mondo intorno subisce una rivoluzione copernicana. Tic, toc, tic, toc, scopri di avere un orologio impiantato nell’utero… E da un giorno all’altro ti ritrovi tutti nelle mutande, per dirla chiaramente. Familiari, parenti, vicini di casa, perfino datori di lavoro… tutti a chiederti se hai dei figli, se ne vuoi, perché non ne vuoi, cioè, insomma, alla tua età… sei strana. Strana io? Cioè, pensiamoci un attimo: PERCHE’ DOVREI DESIDERARE UN FIGLIO?

imagesE non penso tanto a ciò che lo impedirebbe in senso negativo (le solite litanie fatte di lavoro precario, garanzia di un futuro di incertezza per il pupo, fino ad arrivare ai problemi globali di sovrappopolazione in un mondo finito, l’inquinamento, financo la minaccia atomica – sto esagerando… più o meno!), ma a quello che la rende un’opzione insensata IN SENSO POSITIVO: guardo alla mia vita di oggi… non ho un figlio, e non mi interessa averlo. Sono alla soglia dei 40, ho un lavoro precario e part-time che mi fa sì guadagnare poco (ma poi ‘poco’ rispetto a quali standard? Non certo per i miei, per i quali il mio guadagno è più che sufficiente a sopravvivere!) ma mi lascia ampi spazi di vera libertà, fatti di tempo da dedicare a ciò che REALMENTE dà un senso alla mia vita… l’attivismo politico, gli animali umani e non umani che condividono la vita con me, le cose che amo fare (leggere, passeggiare in mezzo alla natura, scrivere o disegnare). Sento di avere una vita molto piena (pure troppo!), e anzi, persino quelle 4 ore al giorno che fino ad ora sono stata costretta a dedicare al lavoro per ‘mangiare’ mi paiono ore rubate al mio tempo di vita, tanto che mi sto arrovellando per cercare un modo di limarle ancora un po’!

Non sento vuoti da riempire, né di tempo né affettivi… anzi, a dirla tutta, sì, a volte sento qualche mancanza, perlopiù quando non riesco a vedere persone a cui tengo – quelle con le quali, negli anni dell’università ad esempio, vivevi in simbiosi giorno/notte – perché stritolate in un lavoro full time o, come sempre più spesso accade, tra le due schiavitù fondanti e primarie di questa società: lavoro e casa/famiglia/figli.

3yEdQETAllora io mi chiedo, perché? Perché le persone arrivano con tanta inconsapevolezza all’età nella quale scatta quella programmazione sociale che le porta, contro ogni ragionamento e buon senso logico (individuale e collettivo) a sobbarcarsi l’enorme fatica personale/economica/di tempo di riprodursi (nonché ad aumentare il già troppo esuberante numero di persone che già esistono, e che non solo stanno cancellando dalla faccia della terra le altre specie, ma stanno anche faticando sempre di più ad esistere loro stesse – la torta è sempre quella, baby, ma gli invitati sempre di più!)? Il mondo esubera di bambini che vivono in condizioni pietose, perché questo anelito al ‘proprio’ bambino? Cos’è questo rigurgito che sa tanto di smania di proprietà e illusione di propria immortalità (cioè, davvero vi considerate così speciali)?
Mi rispondo, in parte: imprinting, noia, paura del futuro e anche una buona dose di totale incoscienza. E, prima che nei confronti di questo mondo, nei propri stessi confronti. La quasi totalità delle persone che hanno dei figli sono totalmente incoscienti, di sé stesse e del proprio ruolo all’interno del sistema di cui tanto si lamentano – quasi mai si sono fermate a chiedersi da dove derivino questi ‘insopprimibili impulsi o desideri’ prima di portarli a compimento – della mole spaventosa di responsabilità verso quel nuovo individuo – ma davvero si può essere felici di mettere al mondo un nuovo schiavo (che ci piaccia o no, questa è la realtà con la quale ci troviamo oggi a farei conti) dovendolo poi indottrinare su come piegare la testa abbastanza per riuscire a sopravvivere! – e verso un mondo che non è soltanto nostro – tutti a immaginare sacri, unici e intoccabili i PROPRI nuovi piccoli umani e mandando al macero tutti gli altri, umani e non, che non trovano posto nel nostro ‘piccolo giardino dell’eden’.
Certo, nasciamo imprintati come le papere di Lorenz, e seguiamo il mostruoso pifferaio magico tutt* felici e starnazzanti… ma poi, crescendo, possibile che non arriviamo mai a capire davvero quello che stiamo facendo? Ricordo quell’ossessivo ritornello dei CCCP (ante rincoglionimento di Giovanni Lindo Ferretti): ‘produci-consuma-crepa’, che ci angosciava da ragazzin*, tanto da ripeterlo all’infinito come le preghiere di un esorcismo – quando tutt* pensavamo che noi, così, non lo saremmo diventat*… che ci saremmo ribellat*!
Io ci riconosco in quanto schiav*: siamo schiav* di questo sistema dalla nascita, differentemente ma similmente da tutti gli altri animali, umani e non, e siamo forgiat* per esistere secondo un’idea totalitaria che non ci appartiene. Questa è la nostra origine, e non è una nostra colpa. Ma poi, poi arriva un momento nel quale subentra (o dovrebbe subentrare) la nostra coscienza e la nostra responsabilità, e lì si palesa invece la nostra collusione. Ed è così deprimente vedere le persone inanellare tappe in maniera automatica, aggiungendo schiavitù a schiavitù, invece di tentare di liberarsi da quelle che già ci opprimono (vedi la schiavitù lavorativa, tra le tante), e trasformare la propria vita, ancora acerba e priva di senso, in una corsa ad ostacoli fatta di doveri verso il datore di lavoro, i figli, la società tutta… fino al giorno in cui si potrà finalmente essere liber* di venire rottamat*, o crepare.
Così dopo l’ingresso imprescindibile nel mondo del lavoro suona la seconda campanella irrinunciabile, quella che obbliga a fare figli, e non si ha più tempo per nulla altro, per amic* e rapporti importanti, per la vita politica, la vita della mente… e i soldi non bastano, bisogna lavorare di più per guadagnare di più, il tempo non basta, bisogna svegliarsi prima per fare tutto e andare a letto sempre più tardi e più esaust*, sobbarcandosi il compito di far crescere degli altri individui, quando non si è mai nemmeno dedicato il giusto e necessario tempo a far crescere sé stess*… e quella persona che siamo e che ancora dovrebbe crescere, capire, nutrirsi di nuove idee ed esperienze finisce in un cantuccio schiacciata da ‘doveri’… autoimposti.
Insomma, perché? Cosa credete che manchi alle vostre vite? Io me lo chiedo, e non trovo una risposta.
A volte qualcun* mi dice che mi sto perdendo qualcosa. Credo abbiano ragione, ma non sanno cosa stanno perdendo loro.

1263.kidsnoway E’ una questione di scelte, del resto. Rispetto a chi ha un lavoro full time e dei figli, io ho meno denaro e più tempo. Non conosco la gioia che possono dare dei bambini, ma nemmeno le rinunce e i dolori. Conosco la gioia della libertà che me ne deriva, dei rapporti altri che coltivo, del tempo che posso dedicare alla mia crescita personale, alla vita in un senso assai più ampio ed inclusivo. Questo guardarmi così mortalmente inserita in un tutto che mi trascende, mi fa sentire assai meno speciale, e d’altro canto assai libera. Perdo qualcosa e guadagno qualcosa, perché ogni scelta presuppone vantaggi e rinunce, e credo che, per la persona che sono, questo sia quanto di più desiderabile possa esistere. Peraltro, ne vedo il grande valore aggiunto di poter avere tempo anche per altr*, la mia famiglia allargata, fatta di quegli animali umani e non umani che già esistono, qui ed ora, e purtroppo, spesso, si trovano in difficoltà.
L’estremo lo raggiunge chi mi taccia di egoismo… egoista, io? Sì, bado al mio benessere. Sono felice del mio tempo, sono felice di non dover ‘vivere per i figl*’, ma di scegliere per chi vivere, per me o per coloro che scelgo di amare. Felice anche di poter oziare, o ‘perdere tempo’. E siccome non ho mai creduto a certe bugie, so anche che la mia scelta di non avere figli ha potenzialità – non ignorabili né irrilevanti – di ripercussioni positive sugli altri esseri già viventi e sul pianeta. Ma poi, come posso essere egoista verso qualcuno che non esiste? E non sono invece costretti all’egoismo i genitori i quali, stritolati nelle cure parentali, spesso anche volendo non possono dedicarsi ad altr*?
Non si deve per forza scegliere tra la propria felicità e quella altrui, anzi: io non l’ho fatto, e la mia pratica politica femminista/antispecista e la mia vita mi hanno insegnato che spesso le due cose coincidono. Un altro mondo non arriverà mai, senza il coraggio di mettere in pratica nuove prospettive…
E non mi reputo estinzionista – almeno non nel senso negativo con cui questo termine viene evocato il più delle volte: sono sicuramente per una riduzione drastica del numero di animali umani, ottenibile non attraverso ‘l’epidemia mortale’ o la sofferenza e il dolore, ma semplicemente evitando di riprodursi in maniera incontrollata e irresponsabile. Si può fare, e si deve fare, checché l’astensione dalla riproduzione sia un tema tabù nella nostra società. Nel frattempo, e ad incommensurabile beneficio delle generazioni future (umane e non umane), mi eserciterò a diventare quella persona e immaginare quel mondo che vorrei, così distante nelle forme da quello nel quale mi ritrovo oggi a vivere. Cercando di essere io quella figlia a cui insegnare qualcosa di utile e sensato – a beneficio della mia stessa vita e di quella altrui – sforzandomi di imparare dalle altre persone e di trasmettere quello che di buono mi pare di aver inteso… questa è la maternità migliore che possa portare a termine, quella i cui frutti spero avranno davvero un potenziale trasformativo.
Perché i nostri figli siamo noi, e quell* che già ora ci circondano. Liberando noi stess*, liberiamo anche loro, e quell* che verranno.

Dunque cosa stiamo aspettando?

Le donne abortiscono perché restano incinte.

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“Il concepimento dunque è frutto di una violenza della cultura sessuale maschile sulla donna, che viene poi responsabilizzata di una situazione che invece ha subito. Negandole la libertà d’aborto l’uomo trasforma il suo sopruso in una colpa della donna.”

“Una volta incinta la donna scopre l’altro volto del potere maschile, che fa del concepimento un problema di chi possiede l’utero e non di chi DETIENE LA CULTURA DEL PENE”. (Carla Lonzi, Scritti di Rivolta Femminile)

E’ di ieri questo articolo e questa intervista

La legge 194 – più o meno mia coetanea – da quando è diventata realtà è sempre stata sotto attacco dei catto-fascisti-ipocriti, che non hanno alcuna intenzione di rinunciare a quel potere incontestato che sentono di avere avuto, per millenni, sul corpo delle donne.

Il diritto ad un aborto libero, sicuro e garantito è un diritto fondamentale per tutte le donne, che va difeso senza se e senza ma. Eppure la questione non può fermarsi qui: “Il nostro sforzo è invece, mi sembra, di legare questo problema a tutta la nostra condizione, ed a una questione in particolare, che è quella della nostra sessualità e del nostro corpo, cioè ricostruire tutto quello che è legato sostanzialmente all’aborto, perché se noi tagliamo fuori solo questa cosa rischiamo di dare solo una risposta parziale che si rivolta magari contro di noi o comunque non è una soluzione per noi, è un’altra ripiegatura che ci fanno fare per sanare quelle contraddizioni più evidenti.” (“Sottosopra”, fascicolo speciale Sessualità contraccezione maternità aborto, Milano 1975)

Lo scritto è di 40 anni fa, siamo ancora a questo punto, pare.

Sono femminista, ed a mio modo detesto l’aborto, perché è una pratica medica con una sua dose di rischio agita sul corpo delle donne, che sarebbe non necessaria nel 99% dei casi, ad esempio se l’accesso alla contraccezione e l’educazione ad una sessualità libera, gioiosa, consenziente e multiforme fosse all’ordine del giorno.

L’aborto non è sicuramente una passeggiata per chi lo vive sulla propria pelle – non parliamo poi dei casi in cui è attuato in clandestinità, o anche solo nella segretezza, a fronte dello stigma sociale che sovente inevitabilmente ne deriva. Ma è un’irrinunciabile opportunità in extremis, quando ci si trova a vivere all’interno di una cultura che dimostra, in maniera più o meno celata, il suo odio per le donne, che le usa come oggetti (sessuali, procreativi, di cura), le usa e le butta via senza ritegno alcuno – con la benedizione della chiesa tutta, naturalmente, che santifica la vergine sofferente, che si fa oggetto e veicolo di compimento di un altro soggetto (maschio).

Quante vite di donne sono state spezzate dal pugno di ferro del patriarcato! L’aborto è figlio della sessuofobia, è figlio dell’ignoranza, è figlio – anche – del welfare inesistente. Ma è tanto odioso quanto necessario, grazie a tutti coloro che condannano i contraccettivi di fronte agli altri (e poi magari, li usano pure), che non parlano di sesso con gli adolescenti  – consapevoli che tanto lo faranno lo stesso, e con esiti a volte disastrosi – che li abituano alla menzogna, alla vergogna del proprio corpo, al senso di colpa per la propria sessualità.

A tutti quei parassiti della gioia di essere viv* (che per quante volte si confessino, avranno sempre l’animo putrido) dico: l’aborto non cesserà mai, grazie a voi! Del resto, di fronte a persone del genere, l’aborto diventa una benedizione… l’avessero messo in atto le vostre madri, che liberazione!

Tempo fa, avevo tradotto e pubblicato su Femminismo a sud questo video: https://vimeo.com/37850266
Queste storie terribili non possono e non devono ripetersi.

Le donne abortiscono perché restano incinte, e forse, oltre a reclamare a gran voce il sacrosanto diritto all’aborto e all’uso degli anticoncezionali (a proposito, a quando quelli maschili?) dovremmo spingerci su altre vie, ancora tutte da scoprire, per agire il nostro piacere in modo disgiunto da quell’atto eterosessuale normato e normativo, nel quale uno degli attori è spesso un uomo che svuota le gonadi all’interno del corpo di una donna, fregandosene delle conseguenze (e nel caso ne risulti una gravidanza, impedendole di prendere decisioni sul proprio corpo che solo a lei spetterebbero).

“Proviamo a pensare a una civiltà in cui la libera sessualità non si configuri come l’apoteosi del libero aborto e dei contraccettivi adottati dalla donna: essa si manifesterà come sviluppo di una sessualità non specificatamente procreativa, ma POLIMORFA, e cioè sganciata dalla finalizzazione vaginale.” (Carla Lonzi, Scritti di Rivolta femminile)

“La donna non è la Grande Madre, la vagina del mondo, ma la piccola clitoride per la sua liberazione.” (Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel: La Donna Citoridea e la Donna Vaginale)

Rivendichiamo nuovi modi di godere!